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Strade/Corridoi di Sonia Arienta
di Maria Dolores Pesce
E’ ormai divenuta una bella tradizione per il Teatro Stabile di Genova, soprattutto per merito del suo Direttore Carlo Repetti che lo ideò nel 1996, l’annuale appuntamento con testi della drammaturgia contemporanea italiana e straniera, in prevalenza di giovani autori, nella forma di Mises en espace affidate a autori e registi anch’essi giovani o giovanissimi. Quest’anno ha inaugurato il ciclo delle rappresentazioni, dedicate ai teatri italiano, spagnolo e, ancora una volta, irlandese, ciascuna delle quali in scena per circa una settimana, una autrice italiana, Sonia Arienta (anno di nascita 1970) con il suo Strade/Corridoi, che rappresenta il suo esordio con un testo esclusivamente teatrale. In scena quattro giovanissime attrici, dirette da Riccardo Bellandi: Roberta Androni, Eva Cambiale, Sara Cianfruglia, Viviana Mattei. Un concerto di donne, donne sfortunate si sarebbe detto una volta, e dei loro vissuti tragici e non più riscattabili. È un concerto corale (l’autrice tra l’altro, stando alla presentazione “coltiva interessi saggistici in ambito di sociologia musicale”) dal quale però emerge, a tratti, la soggettività di ogni singola protagonista, della sua specifica e singolare storia, del suo vissuto, attraverso il racconto frammentato e frammentario di drammi, anche questo si sarebbe detto un tempo volentieri, di ordinaria follia. Ecco quindi che, senza che mai vengano veramente definiti i luoghi di quella storia o i luoghi di questo racconto, percepiamo cause e origini di esiti manicomiali o di prostituzione, ma ancor più, proprio per quella sorta di mancata definizione che fa emergere quasi ed intuire una sorta di struttura metafisica degli eventi sociali e personali, il feroce condizionamento di paradigmi sociali ferrei e di archetipi psicologici ineludibili, da cui discendono le nostre maschere e i nostri percorsi/gabbie esistenziali, in cui ogni pulsione è ribaltata in comportamento alienato, all’interno del quale emarginato è contro emarginato. Incapace dunque di uno sguardo che possa andare oltre la sua situazione di vita, così da mostrargli i veri vincoli e i veri limiti di una condizione incolpevole, è costretto a recitare un ruolo pre-definito senza possibilità di una coscienza/conoscenza che offra una via di uscita. Si sviluppa così una parabola della sofferenza in un mondo, che emerge a tratti ma di cui non sfugge una tragica continuità e coerenza, continuità e coerenza che l’autrice impedisce abilmente di ascrivere al mondo della così detta emarginazione, ma che viene allargato a paradigma della intera società, per le responsabilità da attribuire ad un sistema che coinvolge tutti, e tutti i ruoli precostituiti e preconfezionati (la famiglia, le istituzioni, l’uomo, la donna) e che scarica le proprie contraddizioni e frustrazioni nel mondo sotterraneo della emarginazione che, con il suo sacrificio, sembra consentirci una sorta di auto-assoluzione. Una pièce, così come piace a noi, che ci invita dunque a riflettere laddove nella nostra contemporaneità tutto sembra spinto alla passivizzazione, in modo da evitare, per quanto possibile, lo sviluppo delle capacità critiche di ognuno di noi, perché il rischio è quello di una condanna e di una ribellione che non abbandoni al loro destino chi, come quelle donne in scena, sconta interamente una colpa e una condanna che invece, sembra dirci l’autrice, tutti ci riguarda. Un’ultima annotazione relativa alla recitazione. Più spesso si vorrebbero vedere sulle scene attori con questa freschezza e questa spontaneità, corpo e voci prestati a un testo e alla sua comprensione e non esclusivamente preoccupati dalla dizione o dal manierismo, spesso espressione di un inerte mestierato di scena.