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Giulio Scarpati in teatro: 55 minuti che raccontano una vita 
di
Anna Maffei
Un testo difficile, ”La notte poco prima della foresta” di Bernard-Marie Koltès, uno dei più inquieti ed inquietanti drammaturghi francesi degli anni ottanta. In tournée per due mesi, l’attore Giulio Scarpati ha “sfidato “ se stesso e il suo pubblico proponendosi in una veste completamente diversa. Benevento, Milano, Napoli: queste alcune delle tappe di un tour forse un po’ breve data la notevole qualità del prodotto teatrale. Certamente il successo di “Cuore” lo ha riproposto al grande pubblico televisivo; è tornato ancora in TV, su Rai Uno, nel film “Resurrezione” dei Fratelli Taviani ma le attese del pubblico sembrano essere sempre quelle di ruoli pacati, confidenziali, rassicuranti… Invece la sorpresa. Nello spettacolo di Koltès, con la regia di Nora Venturini, Scarpati scuote tutti. Intanto un monologo. Difficile “entrarci”, da spettatore, ma qui, in una scena spoglia, con solo una sedia vuota e un giubbotto di pelle nera, c’era tutto.
Suoni metropolitani, melodie spezzate, ritmi lontani in una realtà buia, rotta da fasci di luce. E un’attesa. Sembrava dovesse giungere qualcuno o qualcosa all’improvviso… A guardar bene ,invece, c’era già tutto: lui, lo “straniero”, occupava lo spazio nero con i suoi pensieri, ora schivando gli specchi schizzati di pioggia che lo circondavano, ora aggrappandosi, disperato. Le parole sgorgavano dalla mente, dal cuore, dai visceri: un fiume ininterrotto, frenetico, rabbioso. Forse desiderio di vendetta: vendicarsi di quegli “stronzi attruppati alle spalle” [cit.], che ti usano a loro piacimento, o delle donnine bionde che ti attraggono e poi… ti imbrogliano. Ma non è vendetta. E’ bisogno di comunicare, trovare il modo per farlo, senza rinnegarsi.
E poi la voce dell’attore: affannata, decisa, poi disperata, improvvisamente dolce, carezzevole, quasi flebile e indifesa di fronte a un mondo avverso che “copre”, “affossa” come la “puttana che mangiava la terra dei cimiteri” [cit.] di cui nessuno voleva sentir parlare. Un’emarginazione resa in modo esasperato che, però, non ha fatto ‘tendere i nervi’ al pubblico. Si restava rapiti da quel tessuto di parole, dai ‘ritorni’ dei pensieri che poi non erano più gli stessi: tornavano sempre più ricchi, più pieni. Emozionante il finale, benché finale non fosse perché la ‘pioggia’ che continuava a cadere sul protagonista dava il senso di qualcosa che non può mai finire… ma emozionante perché d’improvviso si fa luce nella sua mente e tutto scorre veloce: i suoi incontri, le bruttezze, le illusioni. Prima che le luci si spengano e la musica svanisca, è bello l’abbraccio, segno di un amore che finalmente si dichiara, a quell’agognato ‘compagno di viaggio’ che non è lì (c’è il suo giubbotto) ma è solo un’evocazione. Così come evocato è un campo d’erba dove sdraiarsi, degli alberi, un posto sicuro, tranquillo, senza doversi nascondere ai margini di una foresta per non essere ‘preso’ e ‘sbattuto’ ancora una volta in un altro posto.
Davvero incisiva, dunque, in questa pièce l’interpretazione di Giulio Scarpati; i suoi occhi indagavano lo spazio scenico con uno sguardo che aveva ‘il punto di fuga all’infinito’; la voce ora strozzata dalla rabbia, ora dolce per il ricordo, attirava. Finalmente un ruolo che evidenzia una forte carica interiore e, al tempo stesso, un’aggressività e una sensualità che gli stanno davvero bene addosso. Probabilmente questo è il vero Scarpati e il pubblico se n’è accorto. D’altronde la sua ‘nascita’ come artista è avvenuta sul palcoscenico di un teatro.Forse non tutti lo sanno.