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Un dramaturg italiano al Residenz Theater di Monaco
di Maria Dolores Pesce
Incontro Laura Olivi durante le sue vacanze in Liguria. Laura Olivi, nel suo lavoro in teatro, svolge una funzione di cui in Italia, da tempo, si parla molto anche se, forse, con poco costrutto. Laura, in effetti, vive e lavora da quasi quindici anni in Germania, ove, poco dopo la laurea in linguistica conseguita a Bologna con Claudio Meldolesi con una tesi su Brecht regista, si trasferì per aver vinto una borsa di studio presso la Humboldt Universitat di Berlino Est. L’amore per il fare teatro l’ha portata alla professione di DRAMATURG presso importanti teatri pubblici prima nella Germania Est poi a Monaco di Baviera. Attualmente è Dramaturg al Residenz Theater diretto da Dieter Dorn. Con lei voglio parlare di quel ruolo, tradizionale nel teatro tedesco ma in Italia finora solo ipotizzato o ambito, e della possibilità di farlo crescere anche da noi. E’ un modo anche di dar voce ad una nostalgia di Laura che, se non è quella di poter lavorare in un teatro italiano dopo tanti anni, è però quella, come ci dirà lei stessa, di poter lavorare anche su testi italiani contemporanei e di poterli portare così sulle scene di Monaco. 

Nel corso di mie altre interviste con autori e registi italiani è emersa “problematicamente” la figura del DRAMATURG quale funzione capace di amalgamare anime diverse del fare teatro. Tu che da anni lavori in Germania, ove questo ruolo si è da più tempo consolidato, cosa ne pensi in generale e in relazione alla situazione del teatro italiano ?

Il Dramaturg è una figura propria della cultura tedesca, nel senso che ha radici nel suo contesto ed esprime uno specifico modo di fare teatro di quella cultura. Nasce nel 700 con Lessing, svizzero di lingua tedesca, che è ritenuto appunto il primo Dramaturg ed è stato anche un grande scrittore di testi, ma da allora si è ovviamente sviluppata ed evoluta. Se allora, ad esempio, il Dramaturg era quasi sempre anche Dramatiker, cioè appunto scrittore di testi, oggi non è più sostanzialmente così. Uno degli ultimi è Botho Strass che ha lavorato soprattutto con Peter Stein. Dunque in quest’ultimo secolo il dramaturg è ormai più che altro colui che, non scrivendo i testi, si prende cura della drammaturgia degli spettacoli. Ciò vuol dire che ne cura l’interpretazione e ne discute con il regista ed il Direttore del Teatro per trovare le soluzioni che ritiene più efficaci, riguardo sia alla drammaturgia che alla resa della regia, ma anche riguardo al cast dello spettacolo. In questo suo ruolo che è sia di analisi e studio del testo, che di prassi operativa è una figura molto importante all’interno del teatro. In effetti nel team che è alla base della creazione di diversi spettacoli di una o più stagioni in genere il solo Dramaturg rimane lo stesso, mentre registi e scenografi, tranne in pochissimi teatri tedeschi, sono proposti in base alla scelta interpretativa fatta riguardo ai testi. Poi c’è la compagnia di 40/50 attori anche questi fissi.

Dunque, in questo approccio al testo che è, mi sembra, per una sua parte ermeneutico, il Dramaturg interviene sul testo scelto anche riscrivendolo ?

Certo, ma solo per quanto ciò risulti funzionale alla interpretazione del testo. Mi spiego con un esempio. Se ad un Dramaturg viene chiesto di mettere in scena un classico, innanzitutto affronta il problema del senso che ha, per l’oggi, la sua rappresentazione e, così facendo, ricerca un interpretazione nuova, attuale, da dare al testo. E’ dunque, il dramaturg, più che altro colui che si occupa dell’idea che è alla base della decisione di rappresentare un testo, piuttosto che un altro, e, di conseguenza, si occupa di proporre quel testo a quel regista che, a suo parere, può meglio interpretarla nel contesto di un più ampio progetto drammaturgico che il teatro intende sviluppare.

Quindi interviene su vari versanti e, non necessariamente, anche se a volte c’è, tra questi vi è l’adattamento del testo e la sua ri-scrittura. A questo proposito, rispetto a quello che conosci del Teatro Italiano, perché, secondo te in Italia, non ha attecchito una figura di questo genere? 

Secondo me dipende dalla diversa struttura e tradizione del teatro nei due paesi, Italia e Germania. E’ indiscutibile che il Teatro ha avuto enorme importanza in entrambi, però la maggior diffusione in Germania della rete dei Teatri Pubblici Stabili (ogni città tedesca ne ha uno, quelle più grandi anche due o tre, tutti con un ensemble di attori fissi, con una efficiente struttura organizzativa ed un forte apparato tecnico) può aver fatto la differenza. La disponibilità di tempo e la stabilità di adeguate risorse consente di dare ai singoli teatri, nell’ambito della comunità che li esprime, una continuità di pensiero e di crescita che, credo, in Italia sia raramente riscontrabile. A partire dal Direttore Responsabile con contratto quinquennale si può organizzare una struttura incentrata su due o tre registi anche fissi che fanno uno spettacolo l’anno utilizzando il numeroso cast di attori a contratto. Inoltre il fatto di non andare in tournèe rafforza i legami con la comunità di riferimento e consente di sviluppare un dialogo nel medio periodo che è alla base di una maggiore omogeneità di proposta da parte del teatro al pubblico della città che lo ospita, attraverso un cartellone di spettacoli distribuiti su più teatri legati anche da abbonamenti. Questo modo di essere del teatro tedesco ha a che fare, inerisce direttamente la figura del Dramaturg, e può chiarirne la funzione. Essi hanno, infatti, il compito di elaborare e suggerire, nella collaborazione con il Direttore del Teatro, le idee cui legare l’immagine e l’attività del teatro in un determinato periodo, suggerire i registi, evidenziare i temi più importanti del momento, anche e soprattutto per il teatro politico/sociale e, infine, selezionare gli spettacoli proprio in funzione di quelle. Una vera e propria linea editoriale, che favorisca continuità “ideologica” ed “estetica”. In Italia manca, credo, questa continuità, questa omogeneità, perché, quello italiano, è soprattutto un teatro di tournèe, un teatro di compagnie di giro, dove ogni spettacolo sta un po’ per conto suo, nel senso che non si lega in una proposta complessiva e proiettata nel tempo. Ci vorrebbe così un dramaturg per ogni spettacolo, oppure al seguito di ogni regista, ma ciò non è economico ed efficace. Quindi, potrei dire, che il mio ruolo è il risultato di una idea organizzata di teatro che in Italia non c’è per tradizione, tranne pochi esempi, e stenta a costituirsi.

Storicamente in Italia una sorta di ruolo analogo si è realizzato in autori capocomici che realizzavano testi propri, erano “Dramaturg di sé stessi”. Penso a Eduardo, Dario Fo o, più recentemente a Carmelo Bene e Leo De Berardinis. Secondo te la funzione di Dramaturg deve restare autonoma rispetto alle altre o può essere assunta di volta in volta da una delle altre funzioni del collettivo teatrale ?

Secondo me deve essere una figura autonoma. Il dramaturg, in effetti, deve poter entrare in relazione con le altre figure e ruoli del teatro conservando una sua diversità. Non può pensare ora da regista, ora da attore, e dopo ancora da dramaturg perché questo genera confusione di ruoli e confusione di risultati. Chi ha provato a farlo, qui in Germania, ha avuto non pochi problemi di cui ho testimonianza diretta con un nostro ex Chef Dramaturg, che alla fine, anche se non precisamente solo per questo, se ne è andato. 
Le figure che hai citato rappresentano, invece, una modalità molto italiana (il capocomicato ndr) e praticamente assente in Germania. E’ una modalità certo molto interessante ma diversa, secondo me, da quello che in Germania consideriamo Dramaturg. Peraltro in questi ultimi anno anche in Italia, in alcune realtà di Teatri Stabili, penso a Roma e a Parma e anche al Piccolo Teatro, oppure a registi come Ronconi, si sta sviluppando il tentativo di articolare una proposta omogenea e continuativa su vari spettacoli o, addirittura, su una intera stagione, attraverso un lavoro con gli stessi attori e i medesimi operatori. (prima c’era stata l’esperienza dello Stabile Genovese di Chiesa e Squarzina. Ndr). Si è creato dunque, più o meno, un team e credo all’interno ci sia, o debba esserci, anche un Dramaturg.


In effetti Ronconi non si accontenta di avere il testo preparato, ma vuole che il suo Dramaturg, che è uno studioso dell’Università di Bologna, sia vicino a lui mentre lavora. 

Questo lo ha imparato in Germania, dove il Dramaturg è sempre coinvolto nelle prove. Non tutti i giorni ma una o due volte la settimana, insomma quando è ritenuta necessaria la sua presenza. Partecipare invece continuamente ad uno spettacolo e alla sua elaborazione impedisce al Dramaturg di mantenere nei confronti dello spettacolo un atteggiamento, per così dire, distaccato, critico. Infatti se va tutti i giorni alle prove, come il regista o l’assistente alla regia, allora è, alla fine, talmente coinvolto che non ha più un occhio obiettivo. Il mantenerlo gli permette di verificare la coerenza della rappresentazione rispetto al progetto iniziale. A volte, peraltro, possono nascere per questo conflitti con gli altri elementi del team, in particolare con il regista, conflitti che possono giungere, anche se è molto raro, fino alla rottura della collaborazione.

Sulla base, dunque, della tua esperienza di Dramaturg a Monaco e della tua conoscenza del mondo teatrale italiano, quali miglioramenti, secondo te, potrebbero conseguire per quest’ultimo dalla piena ed autonoma affermazione della figura e della funzione del Dramaturg?

A mio parere potrebbe innanzitutto conseguire un miglioramento nelle procedure di scelta del repertorio e di quello contemporaneo in particolare. In effetti questo è un aspetto dell’attività del Dramaturg di cui non abbiamo ancora parlato, cioè la ricerca, l’acquisizione e la lettura di testi di autori contemporanei, non solo tedeschi, che possano contribuire ad arricchire il repertorio di un teatro. Questo aspetto del mio lavoro io lo ritengo fondamentale, ma in Italia chi, nel teatro, se lo assume in maniera organicamente organizzata? Un regista o un assistente alla regia certamente se ne fa carico, ma impegnato come è nel suo specifico lavoro forse non ha il tempo e il modo di leggersi un numero abbastanza consistente di testi. Dall’introduzione di una figura di questo tipo, io credo, il teatro italiano potrebbe acquisire tantissimo. Certamente è anche questione di risorse disponibili, e qui torniamo al discorso dell’organizzazione dell’attività teatrale in Italia rispetto alla Germania, risorse cui spesso solo alcuni Teatri Stabili, come quelli citati di Parma, di Torino, o quello di Ronconi, hanno accesso, contrariamente a quanto può succedere per compagnie private. Inoltre il Dramaturg può essere un importante interlocutore del regista, rispetto alla programmazione complessiva del teatro e anche rispetto alla interpretazione/elaborazione del singolo testo da mettere in scena. Soprattutto per cercare di garantire una coerenza di impostazione, estetica e politica nel senso più lato, nei confronti della comunità di riferimento, visto che il teatro opera all’interno della società e con essa interloquisce non solo come momento di divertimento, ma anche, direi soprattutto, con intenzioni di confronto e discussione. 
Per venire ad un esempio concreto, abbiamo rappresentato i testi di Briljana Sbrljanovic, una autrice serba di trent’anni che, durante la guerra del Kosovo, da Belgrado bombardata mandava acute corrispondenze di guerra ai principali quotidiani europei. E’ il suo quarto testo, dal titolo “Supermarket”, ed è una divertente ma feroce satira politica sull’Europa, in particolare sulla Germania, dieci anni dopo la caduta del muro di Berlino, che utilizza il linguaggio della soap opera. Un divertimento, dunque, ma con spiccata vocazione politica con caratteristiche tipiche della nostra programmazione.


Secondo alcuni uno dei motivi della resistenza italiana alla introduzione del Dramaturg discende dalla persistenza, nella nostra cultura, di una certa idea di autonomia dell’opera d’arte che, nel teatro, porta a privilegiare il testo letterario. Si ha così difficoltà a concepire la rappresentazione come momento specifico e anch’esso autonomo dell’evento teatrale. Al contrario il Dramaturg interviene sul testo letterario proprio in funzione della sua rappresentazione. Tu cosa ne pensi?

Innanzitutto penso che una tale impostazione possa peccare di conservatorismo, perché l’opera letteraria, in funzione della sua messa in scena, deve comunque essere “riletta”. Non necessariamente deve essere modificata, riscritta o tagliata, ma “riletta” sì. Perché, nel decidere di rappresentare un testo, anche classico, il nostro intento è quello di darne una interpretazione rinnovata. Il decidere di mettere in scena un testo classico come storicamente è stato concepito, con tutte le indicazioni e i sottotesti dell’autore, cioè rappresentarlo come l’autore stesso l’avrebbe rappresentato, è certo legittimo, ammesso e non concesso che sia possibile o efficace. Però non è questo il compito o il fine di un Dramaturg ed in questo senso questa modalità mi appare conservatrice. 

Effettivamente può risultare anche limitativo considerare che di un’opera esista una sola e immutabile interpretazione….

Ed è in questo senso che il Dramaturg ha la responsabilità di decidere. Prendiamo ad esempio la nostra messa in scena del “Tasso” di Goethe.

Di fronte al Dramaturg si aprono due opzioni. la prima, funzione di una rappresentazione storica del testo nel senso di cui parlavamo prima, è quella di approfondire le principali interpretazioni che sono state date della figura del Tasso storico e del testo di Goethe, con una attenzione specifica all’aspetto scientifico e filologico sugli usi e significati delle parole, delle frasi, delle scene, dei personaggi. Attraverso questo processo si cerca non l’unico significato del testo, cosa impossibile, ma una armonica composizione tra i diversi significati che sono legati all’elaborazione del testo da parte di Goethe, anche attraverso l’esame comparato di versioni originali. La seconda, funzione di una rilettura critica, è quella di affrontare il significato che possono avere per noi, oggi, testo, autore e personaggio e, quindi, il senso che può assumere la rappresentazione di quel testo. In questo modo si può evidenziarne un aspetto particolare, significativo e, attraverso una diversa composizione del testo classico, oppure attraverso una sua selezione, dare una diversa, originale, attuale lettura di Torquato Tasso e di Goethe. I rapporti anche confliggenti con il team e la struttura determinano poi l’esito.

La figura di Dramaturg più “citata” in Italia è quella di Brecht che come Dramaturg si è formato, poi evolvendosi come sappiamo. Brecht ha avuto notevole voce nel rinnovamento del teatro italiano del secondo dopoguerra, soprattutto in particolari momenti e periodi. Ora questa influenza apparirebbe in crisi. E’ apparenza o realtà? E in Germania ci sono sviluppi analoghi?

Anche in Germania c’è una flessione. D’altra parte io penso che la più importante eredità di Brecth, nel teatro tedesco, è il messaggio politico, più delle teorie drammaturgiche e delle stesse opere. La sua teoria dello straniamento, ad esempio, forse ha lasciato un’orma più evidente nella ex Germania dell’Est, ove il modo di recitare dell’attore è, per questo, significativamente diverso rispetto a quello degli attori dell’Ovest, ove prevale il metodo della immedesimazione. A volte i registi dell’Ovest hanno difficoltà a lavorare con attori dell’Est perché li trovano freddi e un po’ meccanici, anche se tecnicamente bravissimi. Ti trasmettono emozioni ma non come se le stessero loro stessi provando. Anche se gli attori tendono a negarlo, perché ciascuno vuole difendere il proprio lavoro, queste due tendenze persistono nel teatro tedesco a più di dieci anni dall’unificazione. Sono differenze che si vedono lavorando nei Kammerspiele di Monaco, piuttosto che nel Deutsches Theater di Berlino, ove anch’io ho lavorato dal 1984 al 1986 imparando il mio mestiere di Dramaturg. Il messaggio politico, dicevo, credo sia la vera, anche se parziale, eredità Brechtiana. I suoi testi invece vengono ormai messi in scena molto raramente e l’ultimo che abbiamo fatto nel nostro teatro, il “Puntila” risale a qualche anno fa. Io ho iniziato, quattordici anni fa, la mia attività al Kammerspiele di Monaco ingaggiata proprio per un testo di Brecht, ma, da allora, abbiamo rappresentato Brecht solo tre volte complessivamente (Mann ist mann, Die Mutter e Herr Puntila).

Venendo al panorama teatrale più recente, vediamo come, al di là e negli spazi lasciati liberi dal Teatro “istituzionale”, si sia sviluppato in Italia negli ultimi 20 anni un movimento drammaturgico che si rifà essenzialmente alle intuizioni artaudiane, anche nelle rielaborazioni di Grotowsky, Kantor e Barba, con forte influenza delle filosofie di Braudillard e Foucault. Parlo ad esempio del Teatro del Lemming, della Societas Raffaello Sanzio, dei Magazzini Criminali, ora semplicemente Magazzini, di Marcido Marcidoris e Motus e anche della Compagnia Pippo Delbono. Nei lavori di queste compagnie il testo è totalmente rielaborato fin quasi a scomparire nella stessa sua rappresentazione, che è principalmente fisica e sensoriale come nella performance e nella body art. Può essere questa considerata una estremizzazione del lavoro del Dramaturg?

Innanzitutto penso si tratti di una evoluzione estremamente interessante ed il legame di cui parli è assolutamente da verificare e approfondire. Noi certamente non facciamo un lavoro così radicale come quello portato avanti dai gruppi italiani che hai citato. Però anche il nostro lavoro è un lavoro di sperimentazione che, peraltro, necessita, per svilupparsi, anche di un regista che ne condivida gli obiettivi e le modalità. Quindi, dal punto di vista delle modalità di base, queste rielaborazioni sono una parte del compito del Dramaturg. Certo è che, in Germania, non vi sono allo stato molti registi che accettano una rielaborazione così radicale, fino alla neutralizzazione, del testo.

A questo proposito, penso che queste tendenze si siano molto sviluppate in Italia perché lo spazio della sperimentazione all’interno dei teatri stabili è insufficiente anche per l’assenza di una figura come quella del Dramaturg. Queste compagnie hanno potuto, o dovuto, assumere su di loro, all’esterno del sistema dei teatri stabili, questa diffusa esigenza di rinnovamento producendo lavori di grande interesse. Tornando quindi all’argomento che stiamo trattando, ti chiedo se in Germania ed in Europa esistono tendenze analoghe e omogenee a quelle citate.

Al momento, ho l’impressione che questo tipo di movimenti sia assai meno presente, rispetto a quanto succede in Italia.

Abbiamo finora affrontato un discorso incentrato sulle tendenze e le funzioni del teatro contemporaneo. Per entrare nel vivo della tua esperienza professionale, mi vuoi raccontare come concretamente si sviluppa il tuo lavoro di Dramaturg oggi, in Germania?

Il lavoro del Dramaturg è poliedrico. Il primo, già accennato e importantissimo, compito del Dramaturg è la lettura e la scelta del testo da proporre al Direttore del teatro. Presa insieme la decisione di mettere in scena quel testo, il Dramaturg partecipa alla scelta del regista e dell’intero cast, con una sua essenziale responsabilità perché questa scelta è una funzione della scelta del testo e della sua interpretazione. In effetti, da questo momento, il lavoro del Dramaturg consiste essenzialmente nell’elaborare, anche attraverso l’esame del più ampio materiale su di esso rintracciabile, l’interpretazione del testo e nel discuterne con gli altri protagonisti. Il dramaturg dunque filtra tutto questo materiale, queste indicazioni e fornisce al regista un registro interpretativo utile alla messa in scena e con lui ne discute. In questa fase si può, così, decidere di intervenire con dei tagli sul testo, soprattutto ove si tratti di un testo classico, e, in questo caso, ci sono registi che desiderano condividere le scelte del Dramaturg. Al contrario ci sono registi che lasciano questa responsabilità, di interpretazione, di rilettura e ricomposizione eventuale del testo, in prima battuta al Dramaturg, riservandosi di discutere con lui il risultato del suo lavoro ed eventuali ulteriori modifiche. Poi inizia il lavoro con l’intero cast, lavoro di lettura ed interpretazione, durante il quale il Dramaturg aiuta il regista nello spiegare agli attori il senso e l’interpretazione che del testo si è data e che si vuole esprimere nella rappresentazione. Questa è certo la parte più concreta del mio lavoro. In questa fase infatti il Dramaturg deve essere in grado di rispondere alle domande degli attori che, oltre che al regista, spesso vengono a lui direttamente rivolte. Quando poi iniziano le prove vere e proprie, allora il Dramaturg si allontana per una o due settimane, in maniera da poter conservare una certa distanza critica rispetto all’opera da mettere in scena e, così, poter verificare l’evoluzione della messa in scena rispetto agli intendimenti e alle interpretazioni in precedenza elaborate. Da ultimo Dramaturg realizza anche il programma di sala. 

Nel programma di sala è inserito anche il testo rappresentato, oppure solo saggi e interventi a corredo, come, ad esempio, interviste ad autori, registi, o al cast?

Raramente mettiamo anche il testo. In genere il programma di sala contiene tutto ciò che riteniamo importante per chiarire l’interpretazione che al testo vogliamo dare. Questo non vuol dire però fornire una “spiegazione” del testo, quanto piuttosto mettere a disposizione materiale che può avere a che fare con la nostra interpretazione o direttamente con il testo. Ad esempio mettiamo una piccola antologia di testi dell’autore che rappresentiamo, testi che, in qualche modo, hanno a che fare con il tema della rappresentazione. E’ successo con una nuova, molto giovane, autrice tedesca, Teresa Walser, la figlia di Martin Walser. La Walser ha scritto quattro o cinque testi, il primo messo in scena da noi. In occasione della rappresentazione dell’ultimo suo lavoro abbiamo appunto edito il programma di sala con una antologia dei suoi testi, perché essendo una autrice nuova, il pubblico non conosce ancora bene l’insieme della sua opera, non solo teatrale ma anche letteraria. Quindi, il contenuto del programma di sala, dipende molto anche dalle circostanze.

Alcuni critici e storici di teatro hanno recentemente evidenziato la modesta longevità teatrale di autori giovani, le cui opere sono spesso legate ad eclatanti vicende contemporanee, e che tendono a scomparire con l’affievolirsi dell’interesse verso queste vicende. Uno di questi citava, tra l’altro, la realtà berlinese. Vorrei conoscere la tua esperienza e sapere la tua opinione su questo.

Per essere sincera non ho la percezione di un fenomeno di questo tipo. Al contrario posso citare alcuni giovanissimi autori, quali Marius Von Marienburg, la già citata Teresa Walser, oppure Biljana Sbrljanovic, che scrivono ormai da quattro o cinque anni e vengono regolarmente messi in scena nei teatri tedeschi. Quindi mi sembra che, in realtà, la tendenza sia opposta, ed i giovani autori tedeschi rimangono sulla scena con una certa stabilità. A Berlino in particolare, per parlare ad esempio della Schaubuhne, la direzione del teatro è composta prevalentemente da giovani. Questo teatro infatti, dopo l’era di Peter Stein, è stato affidato a giovanissimi, come Ostermeier che ha trentanni mentre il suo Dramaturg, che è anche Dramatiker, è quel Marius Von Marienburg di cui parlavamo prima. Tra l’altro il suo “Feuergesicht” è stato rappresentato anche a Genova, recentemente. Questo è un autore trentenne ed è regolarmente sulla scena in Germania. Sicuramente si è verificato che qualche autore ha avuto una parabola molto rapida per poi scomparire dalle scene, ma mi sembra, questo, un fenomeno non specifico e significativo della Germania o del teatro europeo di oggi, quanto piuttosto un fenomeno comune nella storia dei diversi teatri europei.

Non è che questa interpretazione possa derivare dalla percezione di un teatro contemporaneo che rischia di bruciare rapidamente idee e protagonisti nella continua ricerca del nuovo, come dire, di materiale sempre vergine? 

Questo rischio può sussistere se il teatro, inteso come struttura collettiva è portato, anche per esigenze economiche, diciamo di cassetta, a confrontarsi in via prevalente con l’attualità, con la realtà quotidiana. Al contrario alla base del mio lavoro e, quindi, alla base dei testi di questi nuovi autori che andiamo a scegliere e a proporre, c’è sempre una elaborazione più ampia, di tipo filosofico o storico che cerca di interpretare il reale al di là della contingenza. Cerchiamo di dare spazio a quei giovani autori che non abbiano un approccio, diciamo così, giornalistico, quindi esposto al rischio di perdere velocemente interesse, ma al contrario una tendenza ad una interpretazione e lettura più ampia e profonda delle vicende.

Adesso, per concludere, vorrei chiederti se vuoi aggiungere qualcosa che ti sta particolarmente a cuore e che può completare quanto sinora ci siamo dette?

Mi piacerebbe riuscire a realizzare, nel mio lavoro, una collaborazione più stretta con il teatro italiano. In effetti lavoro ormai da quindici anni in Germania e dal mio lavoro ho avuto molto; è stata una esperienza fondamentale e continua procurarmi soddisfazioni, ma manca, a me e a questa esperienza, il lavoro con gli autori italiani. Mi piacerebbe per questo avere un rapporto più diretto e continuativo con un teatro italiano, un rapporto di scambio e di discussione per portare avanti determinate idee e progetti. Solo occasionalmente mi capita di ricevere testi dall’Italia, da esaminare per un eventuale interesse da parte dei teatri tedeschi, ma è una collaborazione del tutto sporadica, minoritaria rispetto agli scambi con altri paesi europei. Io sono felicissima di lavorare in Germania, è stata una scelta che indiscutibilmente rifarei, ma una parte della mia anima, della mia formazione, della mia cultura è italiana, e quindi mi piacerebbe lavorare anche con la mia lingua, su testi in italiano. Oggi, tra l’altro, le comunicazioni lo consentirebbero anche continuando a lavorare e risiedere in Germania. 

Per concludere segnalo a chi volesse integrare la conoscenza di Laura Olivi e del suo lavoro, l’intervista curata da Alessandro Tinterri sulla rivista “Drammaturgia”, Quaderno 2001 della Salerno Editrice di Roma.