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Roman e il suo cucciolo
di Maria Dolores Pesce

Alessandro Gassman continua la sua ricerca teatrale intorno alla drammaturgia contemporanea e, dopo il Thomas Bernhard di La forza dell'abitudine e Reginald Rose di La parola ai giurati, si confronta stavolta con il drammaturgo cubano-americano Reinaldo Povod, scomparso prematuramente nel 1994 a soli 34 anni. Lavoro giocato sul confine dell'autobiografia, prodotto da Società per Attori, Teatro Stabile del Veneto e Teatro Stabile d'Abruzzo, è in scena al teatro della Corte di Genova da 20 al 25 aprile. Per la regia dello stesso Gassman, che ne è anche il protagonista eccellente nelle vesti di Roman, un padre contraddittorio e intimamente combattuto, vede in scena un gruppo di attori dalla recitazione intensa che mescola con sapienza caratteri e maschere, sul filo di un intelligente ed ironico distacco, con un approfondimento psicologico ed una partecipazione a volte quasi dolente. Vale dunque la pena citarli tutti assieme, da Giovanni Anzaldo, Cucciolo il figlio di Roman, a Manrico Gammarota, Geco il socio in 'affari', e Sergio Meogrossi, Che cantante fallito e tossicodipendente, a Matteo Taranto, Dragos il 'magnaccia' vecchio amico di Roman, e Natalia Lungu, sua prostituta, nonché infine ad Andrea Paolotti, il pusher italiano. Le scene, che articolano lo spazio della disordinata abitazione di Roman in una sorta di ambiente a più livelli e prospettive, quasi metafora dei diversi piani della comunicazione tra i personaggi, sono di Gianluca Amodio, le luci invece, che tale articolazione assecondano non poco, sono di Marco Palmieri. I costumi e le musiche originali sono state curate rispettivamente da Helga H Williams, che rende con cura ed efficacia l'aspetto dei 'caratteri' in scena, e da Pivio & Aldo De Scalzi molto bravi nel mescolare sonorità e melodie balcaniche con esplosioni sonore dalle forti coloriture psicologiche. Un discorso specifico merita poi la traduzione di Edoardo Erba ma soprattutto quello che ostinatamente quasi si continua a chiamare 'adattamento' quanto invece ai noi appare come una vera propria riscrittura drammaturgica in sorta di travestimento scenico, che traghetta la trama linguistica dagli spazi e dal tempo di una New York afro-cubana alla contemporaneità di una nostra periferia urbana di immigrati rumeni. La nuova tessitura drammturgica che nasce con l'intervento di Edoardo Erba è in effetti affascinante e vi si ritrova la sua capacità di lavorare la parola letteraria e quella scenica sull'equilibrio tra sonorità e simbolo, tra segno linguistico e tonalità significativa, che riapre il testo, pur conservandone le connotazioni contenutistiche nella struttura complessiva della fabula scenica, a nuove peripezie significative ricollocandolo nel suo sincero significare nel presente spirito del tempo, nel contesto di una mitopoietica della società italiana spesso crudele e altrettanto spesso disinnescata e resa innocua sotto la maschera del senso comune. Ritroviamo così, con soddisfazione, nella scrittura drammaturgica di Edoardo Erba anche quei toni 'arrabbiati' ed eversivi, nel senso appunto del ribaltamento del senso comune, che abbiamo conosciuto ed apprezzato in alcuni dei suoi più intesi lavori. All'interno di questo contesto la regia di Alessandro Gassman fornisce un amalgama intenso e coinvolgente, ove verifichiamo sempre meglio non solo la sua crescente maestria attorica ma anche una sempre più efficace capacità di padroneggiare la scrittura scenica, nei movimenti reciproci e nel rapporto con l'ambiente, ed infine nella proiezione verso il pubblico. Ne emerge una lettura del testo e dell'evento drammaturgico che gli è inscritto, la storia del rapporto tra un padre di prima immigrazione romena ed il figlio nato in Italia che, pur affezionato al padre ne rifiuta le modalità esistenziali, rapporto che viaggia su piani di incomprensione che si divaricano fino alla tragedia finale, lettura che dicevo sembra tendere a sottrarlo e riscattarlo dai confini ristretti di una storia di incomprensione familiare ed esistenziale per proiettarlo paradigmaticamente nel contesto delle crescenti tensioni sociali innescate in Italia dalla più massiccia immigrazione, tensioni che appaiono ora sempre più involversi anch'esse verso il rifiuto e le reciproche contrapposizioni e conflittualità. In sostanza, a mio parere, la regia di Gassman ha tentato, riuscendovi, di trasformare questo aggrovigliato miscrocosmo familiare ed etnico, in metafora aperta delle attuali contraddizioni di una società che mescola le proprie paure e le proietta con ferocia attorno a sé, mostrando tra l'altro, paradossalmente, come queste modalità di chiusura e rifiuto siano replicate anche all'interno dei gruppi oggetto di 'discriminazione', come dimostra il rapporto tra rumeni e rom. Una bella drammaturgia dunque, intensa fino a risultare a volte quasi dolorosa e cui il patrocino della sezione italiana di Amnesty International fornisce un ulteriore esplicito riconoscimento e valore. Il pubblico, numeroso e affascinato, ha riservato alla drammaturgia ed alla compagnia nel suo insieme un molto caloroso tributo.