Un'altra fame (sesso chimico)

monologo di

Michela Andreozzi





dopo aver fatto l'amore mi veniva sempre fame.
anche dopo una scopata, comunque.
sempre.
ed era sempre l'uomo della mia vita. ogni volta. tutte le volte.
gli uomini hanno un gusto. un sapore. un odore. che sono più importanti del nome, del luogo, dell'ora. gusto sapore e odore, è difficile ricordarli tutti. 
mi ricordo però che dopo avevo sempre fame. tutte le volte mi veniva fame di qualcosa.
ecco, io mi ricordo bene di cosa ho avuto fame dopo ciascun uomo della mia vita. 
esattamente. chirurgicamente. 
me lo ricordo come se fosse ieri.

il primo. il primo me lo ricordo meglio di tutti. 
merendine in busta chiusa. avevo una fame vorace di merendine in busta chiusa. mentre ero con lui non sentivo niente. come se fossi trasparente. tutto quello che sentivo, lo sentivo dopo, da sola, in cucina, mentre mordevo il sapore di plastica all'alcol delle merendine.
era biondo, e giovanissimo. e anch'io ero giovanissima, e all'epoca non mi sembrava poi una bella cosa. volevo essere vecchia. e ridere di me stessa ed essere sazia e al di sopra di tutti i dolori del mondo. anche adesso, non sono mai vecchia abbastanza. la giovinezza non mi è mai piaciuta. troppi dubbi, troppi incubi, troppa tenerezza. 
con il giovane biondo furono tutte prime volte. lui non sapeva mai da che parte cominciare ed io nemmeno. così, ogni volta finiva senza che ci avessimo capito molto. 
la sua camera era quella di un bambino cresciuto ma ancorato all'infanzia. fumetti, vestiti buttati in giro senza rispetto, una radio rotta, adesivi incollati nei posti sbagliati, quaderni lasciati a metà. un letto minuscolo e sfondato dove facevamo quello che avevamo imparato. 
e io dopo finivo in cucina, a spacchettare la ricompensa. 
lui non l'ha mai saputo, delle merendine. 
a una donna è concesso il privilegio di rinchiudersi al bagno, dopo.
dormire? qualcuna lo fa. ma è una cosa da maschi. 
e io sono proprio una donna. da sette generazioni. cioè, da sette vite. 
e non dormo. però al bagno ci metto poco. 
sono veloce. strano no? è l'unica cosa maschile che ho. le donne in certe cose sono lente. invece io no. la valigia la faccio in un minuto. se mi citofoni scendo subito. il rossetto ce l'ho su dalla nascita. corro perfino su un tacco 12.
e per andare con un uomo non ci penso mai più di due volte. 
potrei sempre cambiare idea, no? 
insomma al bagno ci metto poco. così ne approfitto e vado in cucina. ci andavo, cioè. 
all'epoca del biondo, dividevo le merendine con il suo cane, un labrador cattivo che si vendeva il silenzio in cambio di mezza confezione. gli tiravo i pezzi al volo e lui era vorace e gelido, e forse per quello mi piaceva: perché era come me. non mi ha mai morso, tranne una volta.
saccottini alla marmellata, i primi tempi. poi girelle. poi cornetti, quelli un po’ di plastica.
i kinder sono arrivati dopo: dulcis in fundo. ma finì con un buondì. si sa, le storie finiscono sempre per futili motivi. vuoi mettere un kinder con un buondì? 
il labrador mi morse quella volta. io non lo volevo, quel buondì, e lui nemmeno. 
glielo tirai intero, ma gli non piacque e mi morse sulla pancia, vicino all'ombelico. mi fece male, uscì del sangue, ma non emisi un suono. me lo meritavo. ancora oggi coltivo quella cicatrice come se fosse una medaglia d'oro. lo soppressero, perché mi aveva morso. 
io smisi di essere una bambina con un buondì tra le mani.
con il biondo finì bene, come una confezione di merende che non ti va più e non ne compri un'altra. ma la fame non mi passava mica. non mi passava mai.

il secondo non me lo ricordo tanto, sapeva di ripiego. e di ripiego ti va bene tutto, tutto quello che c'è nel frigo, nella credenza, sul tavolo. non si fa mica distinzione, con un ripiego.
il terzo si. il terzo me lo ricordo e sono passati venti anni. 
venti anni proprio ieri. era un salame di norcia, e senza doppio senso. era un prosciutto prezioso tagliato a mano. un coscio di capriolo, una lonza ai grani di pepe rosa.
era attento e sveglio, era vellutato e buono da mordere, non si stancava mai, ma era sempre uguale. ed era ricco. troppo ricco per me. mi faceva indigestione: avevo sempre sete. 
una volta mi corresse un congiuntivo. io non sbaglio mai, con le parole. e se sbaglio è perché sono confusa e felice. non lo capì. giocava e poi si addormentava dimenticando gli occhiali in un angolo del letto. io li spostavo per non farli cadere giù, per non farli schiacciare, perché non si facesse male. 
invece io non mi addormentavo mai. perché avevo ancora fame, con tutta l'indigestione. 
allora andavo in cucina: nel suo frigo c'era sempre un pacco di affettati tagliati a mano, una di quelle confezioni lussuose di carta ecologica con il nome di un posto elegante dove comprare cibo elegante. delikatessen, boutique del palato.
anche troppo, per una come me. 
mangiavo velocemente con una fame antica come mia madre. con le mani, direttamente dalla carta. senza pane. i toscani dicono: a gola pelosa, perché non serve il pane, quando la roba è buona. 
e poi il pane copre. gonfia la pancia, e quando torni a letto la pancia deve essere piatta. 
anche se l'hai già fatto due, tre volte, tutte uguali, e per quella notte non lo farai più. 
era sempre troppo, per una come me. 
qualche volta vomitavo, ma era difficile, perché gli affettati, si sa, sono pericolosi, possono fermarsi qua (si indica la gola) e ti saluto addio.
e comunque non si può vivere di solo prosciutto.

finì del tutto quando mi innamorai di un riso al curry.
omosessuale, certo. ma con me aveva fatto uno strappo alla regola. era così rassicurante. 
avere a che fare con un omosessuale significa sentirsi proprio l'unica donna al mondo, anzi, l'unica sulla faccia dell'universo. non vuole di più, gli basti così perché sei già troppo. 
troppo per lui, che non chiede di più. io invece si. 
mi si inginocchiava davanti come se fossi la madonna e io ci credevo, per qualche istante. la luce della sua tv col volume abbassato mi faceva sentire azzurra, celestiale. 
certe cose non le faceva: non si possono chiedere a chi sta facendo già uno sforzo per venirti incontro. ma mi amava. anche se ogni volta che mi toglievo i vestiti sembrava stupito di trovare delle cavità nel mio corpo senza spigoli. un pò mi sentivo in colpa, un pò mi sentivo una santa. 
no, non l'ho convertito. gli ho solo regalato un pò di competenza, uno strappo alla regola da raccontare nei secoli dei secoli amen.
finito tutto, mi veniva fame di riso al curry. 
il riso ha un tempo di cottura perfetto per starsene a pensare, a girare il mestolo di legno. rigorosamente di legno. il riso è ottimo per restare in piedi a meditare sulle cose. anzi, sulla cosa. più di una volta non ce la faceva. 
io si, invece. un piatto, due piatti, tre piatti di riso al curry. soffritto, cipolla, acqua, curry, burro, 
riso, un pò di panna. erano i primi anni novanta, la panna andava ancora. 
qualche volta lo mangiava con me. qualche volta mi aiutava, girava il mestolo mentre io sedevo. 
oppure mi leggeva qualcosa di molto difficile, qualcosa che fingevo di capire annuendo con la testa al ritmo del mestolo. o mi raccontava di un suo amante di venezia, che ogni tanto ricompariva nella sua vita e lo faceva soffrire. in quei momenti avrei voluto abbracciarlo, ma il riso tendeva ad attaccarsi. 
lui credeva che il mio riso fosse un regalo, una tenerezza. 
il mio piatto preferito, il mio cavallo di battaglia.
non era così. non è mai un cavallo di battaglia, e non è mai per gli altri. era per me, ed era solo cibo, e nemmeno il mio preferito. nessuno sa qual'è il mio cibo preferito. 
perché io mangiavo per sopravvivere, mica per fame.
un'altra fame, che arrivava da lontano. non era mia. 
e poi non dormivo mai. 
una delle ultime volte volta commise l'errore di cucinarmi un riso di sua invenzione, con la frutta e certe spezie. me lo fece trovare pronto da scaldare sul fornello. lo odiai con tutta me stessa. 
abbiamo fatto l'amore poche volte. scopato mai. 
ma ho mangiato tantissimo riso al curry, da non poterne più. 

e a un certo punto mi venne voglia di carne. 
a chiunque sarebbe venuta voglia di carne, credo. no?
carne qualsiasi, carne buona, filetti, entrecote, costolette, arista di maiale, hamburger del macdonalds, fettine panate surgelate scongelate e fritte, le polpette di mia madre da mangiare con le mani, il pollo arrosto, la porchetta dell'ambulante davanti allo stadio. 
la carne, per me, non è mai appartenuta a un uomo solo. era di tanti uomini diversi.
uno alla volta, eh, perché certe cose non le faccio. 
ma il tempo della carne è stato di tante storie diverse.
me li ricordo tutti, i volti, la forma dei sessi, i colori che avevano alla luce dei fari della mia auto o delle loro abatjour. anche se in casa, quasi mai. 
e mi ricordo i loro nomi perché sono una che porta rispetto.
ma soprattutto mi ricordo le corse al bancone del fast food, dopo. 
o in autogrill, per un panino con la cotoletta, quando era troppo tardi perfino per uno di quei "panini con tutto" al baracchino della stazione. 
amo gli autogrill. sono rassicuranti, tutti uguali. c'è sempre la stessa roba, sai che svoltando l'angolo troverai i togo a sinistra, e i formaggi in un ripiano speciale con i prodotti della regione. 
sai che ci sarà in offerta il distributore m&m's, il gatorade nel frigo, gli spicchi di pizza sempre calda. all'autogrill si mangia bene perché la roba va via in fretta, perciò quella che trovi è sempre fresca. ci sono gli occhiali e i cd ridicoli alla fine del corridoio. i piccoli sgabelli da pescatore in offerta. le gomme da masticare, i giornaletti porno nascosti dietro a tutto il resto.
i bagni sono di sotto. sempre. 
e poi gli autogrill sono più solitari e discreti dei fast food. non c'è mai fila, tranne che alla cassa. 
io correvo con la mia macchina fino al primo autogrill del raccordo anulare. spesso. 
avevo una A112, dove ogni tanto facevo l'amore con gli uomini della carne. io sopra, sul sedile del guidatore. era scomodo, ma poteva durare in eterno: la carne è abbastanza varia da poter cambiare gusto ogni giorno. 
ma prima o poi sarebbe finita. 
dovevo capirlo già quella volta che un ragazzo, abbastanza giovane da non pettinarsi mai, mi diede un morso sul braccio e mi fece uscire il sangue. mi diceva che ero morbida, commestibile. 
e mi morse. ora mi viene in mente il labrador, ma allora non feci nessun collegamento tra i due episodi. mi vennero in mente piuttosto certi rituali di haiti in cui si mangiano animali vivi, o in un tempo più antico si mangiavano i propri nemici. ma lui non era uno stregone. ed io non ero il suo nemico, non credo almeno. e non c'era niente da celebrare. fu un morso gratuito, insomma. vuoto. quello del labrador aveva avuto più senso. non mi piacque, poi mi venne da ridere e lo riportai a casa. 
ero sempre io a riportarli a casa, o a scappare via: dopo dovevo cercarmi la carne in solitudine, non potevo mica chiedere loro di accompagnarmi. 
non è mai successo che io abbia condiviso la mia carne con qualcuno. 
e non la mangiavo nemmeno in casa loro. 
non è educato. ci si può svegliare nottetempo nelle case altrui e mettere su l'acqua per una pasta aglio e olio, saccheggiare le credenze. ma la carne no: non è educato. 
costa troppo, fa fumo, odore forte, è personale.
non si tocca. così salivo in macchina e andavo a cercarla.

la giostra finì quando uno degli uomini della carne si trasformò all'improvviso in qualcos'altro. 
mi tirò fuori dalla macchina, e dire che quella volta proprio non volevo scendere. 
percepisco sempre il pericolo, come un animale. ma non so evitarlo.
mi guardò come se fossi un regalo di compleanno, mi baciò con gli occhi chiusi, poi sollevò lo sguardo al cielo e ringraziò dio. fu divertente, gentile. mi prese per mano e mi portò a casa sua. 
capii subito che era la casa di uno come me, uno che mangia sempre dopo aver fatto l'amore, che mangia sempre cose diverse, in case diverse. era come me. ne fui immediatamente gelosa.
la casa era piuttosto una mansarda su due livelli, piena di polvere e dischi e foglietti attaccati al muro con numeri di telefono e messaggi. c'erano borse piene a metà e vecchi biglietti d'aereo sui ripiani. ma soprattutto era una casa piena di foto. era il suo mestiere, comprava foto per le grandi agenzie di stampa, girava il mondo per comprarle. 
internet ancora non era arrivato ad accorciare le distanze, a bloccarci dentro le nostre case.
qualche volta le faceva anche, le foto, ma non era bravo. aveva un paio di chitarre, ma non le sapeva suonare. e così per la pittura: c'erano tele di piccolo taglio, sparse in giro e dipinte a metà con scarsi risultati, con i colori sbagliati. non aveva nessun talento, tranne che a letto. 
tutto ciò di cui la vita gli aveva fatto dono era concentrato dal tramonto all'alba, sotto alle lenzuola.
la prima volta mi tolse tutto fuorché la pelle, mi tenne sveglia fino all'alba, poi si alzò dal letto, completamente nudo, si infilò un paio di stivali e scese in cucina. 
salì dopo un po’ con un piatto di pasta al pomodoro. spaghettini, quelli piccoli che si danno ai bambini e ai malati. col pomodoro fresco e un po’ di scalogno e basilico. poco pepe, formaggio a parte. un piatto semplice e intimo e familiare come la notte di natale. mangiai di gusto, e lo guardai addormentarsi, poi girai per la casa cercando una risposta. per la prima volta nella mia vita non frugai in cucina. 
mi parve un miracolo. 
aveva capito che avevo fame? o era solo stato gentile? sapeva che non potevo dormire? 
nel dubbio, restai a casa sua diversi anni. arrivavo la sera, me ne andavo al mattino. 
e smisi di mangiare carne. per sempre. non mi apparteneva più. 
io invece appartenevo a lui.
non uscivamo quasi mai. non avevamo nulla in comune, fuori da quella casa. 
era un funambolo. era libero. un amante da circo. non c'erano cose vietate, per lui, proibite, sbagliate. si divertiva. non era mai uguale a se stesso, e anche io mi sentivo sempre diversa, di riflesso, di conseguenza. imparai come si dice di si, sempre di si. imparai delle scorciatoie, qualche trucco da prestigiatore, imparai una parte della mia bellezza: che il mio corpo sotto ad una certa luce flebile sembra un altare pagano. cominciai a piacermi, cominciai a capire perché e che cosa del mio corpo potesse essere tanto interessante per un altro essere umano. feci un corso accelerato sulla natura maschile. mi insegnò come si chiede e come si offre. come ci si sporca per poi lavarsi a vicenda, dolcemente. come ci si fa del male per poi consolarsi. scopavo. 
mi regalò una camicia da notte nera come il peccato. la portavo sempre, ogni notte che passavo con lui, qualche mattina la lavavo e la rimettevo la sera. lui ne strappò qualche lembo, dopo qualche tempo era ormai mutilata, ma io mi sentivo bene, con quella addosso. mi sentivo un animale notturno. potevo dormire di giorno, nascosta, come una civetta. 
la notte ero viva fino alle cinque, alle sei del mattino. poi mangiavo, e me andavo. 
ogni notte mi cucinava qualcosa di diverso, ciclicamente. non cenavo più fuori, mangiavo solo con lui. imboccata, qualche volta. mi faceva le uova, spesso, la pasta più volte. la crema con la frutta dentro, le tortillas messicane: aveva girato mezzo mondo e sapeva fare un pò di tutto. niente di eccezionale, ma mi andava bene così, sapevo che il suo talento era altrove. 
il suo unico interesse era consumarmi in tutti i modi possibili, e forse mi nutriva proprio per questo. ma non mi consumai. ingrassai perfino qualche chilo, ma lui sembrò non farci caso. 
a me sembrava un miracolo. non dormivo mai, ma almeno non mi alzavo più dal letto per andare in cucina. 
no, la fame non mi era passata.
però adesso c'era qualcuno che si occupava di me, solo di me, sempre di me. 
era quasi perfetto. quasi, perché la fame comunque non passava.
finché una notte, dopo aver fatto l'amore due o forse tre volte, lui si addormentò di botto e io rimasi digiuna, ed offesa. giurai a me stessa di fargliela pagare. 
non avevo mai provato rancore per qualcuno al di fuori di me. 
così mi alzai dal letto e puntai dritta verso il frigo. mi ricordo benissimo che c'era la luna perché il 
pavimento era di granito e luccicava come il sentiero di pollicino. 
mi portava dritta verso il frigo. lo aprii: c'era una confezione di fragole, semiaperta. 
io sono allergica alle fragole. 
lui era allergico alle fragole. 
era una delle poche cose che avevamo in comune fuori dal letto. 
qualcuno oltre noi due aveva accesso a quel frigorifero, qualcuno aveva meritato attenzione, tempo, i soldi della spesa. la confezione era aperta e a metà. qualcuno aveva mangiato dalle sue mani qualcosa che nemmeno lui poteva mangiare. mi sentivo male. mi venne voglia di finire le fragole e correre all'ospedale. ma sapevo che i sensi di colpa non abitavano lì. 
quella casa, quel letto e quell’uomo di notte erano miei, ma evidentemente di giorno era tutta un'altra storia. guardai con più attenzione, un'attenzione che non avevo mai avuto. 
nel lavandino c'erano bicchieri spaiati, su uno c'era del rossetto di un colore dozzinale. 
ero incazzatissima: se almeno fosse stato un rossetto costoso.. 
alcune sigarette erano spente in un piattino. lui non fumava e non erano le mie. io non l'avrei mai fatto: spegnere le sigarette in un posto tanto prezioso come un piatto. 
mi urtava la banalità della situazione. 
mi misi sul divano e aspettai che si svegliasse per chiedere spiegazioni, dargli un pugno, sputargli in faccia, rompere un bicchiere ai suoi piedi. 
ma poi le ore passarono e io persi la concentrazione: non sapevo più perché mi trovavo lì, che cosa dovevo fare. appena lo sentii muoversi nel letto, alle prime luci dell'alba - la luna era morta - mi infilai il vestito e me ne andai con le scarpe in mano, ripromettendomi di metterle giù al portone. 
ma arrivai fino alla macchina, e guidai con i piedi nudi fino a un piccolo bar tabacchi di periferia, dove scalza ordinai un cappuccino e un cornetto. e poi un altro cornetto. e poi un altro cornetto. 
mi cercò per settimane. mi regalò un anello, mi diede spiegazioni che non volevo più. 
perse tutto il suo talento, ai miei occhi. 
ci andai a letto un'altra volta sola, ma rimasi fredda come l'inverno che avevo dentro, solo per fargli 
dispetto. 

poi cambiai città, casa, numero di telefono. 
non andai con nessuno per molto tempo. 
nessuna casa, nessuna cucina. 
persi i chili che avevo preso, mi tagliai i capelli cortissimi, li decolorai. 
ero bianca come una donna vecchia. ma non ero ancora abbastanza vecchia. 
lui lo incontrai la prima volta un anno dopo le fragole, in una stazione di provincia. era aprile.
era magro che sembrava digiuno da mesi. ma il suo corpo era forte, si vedeva: aveva l'anima che lo teneva in piedi. un'anima malata di sopravvivenza.
si mise seduto accanto a me nello scompartimento di un treno che mi portava fuori, e che riportava lui a casa. parlò da subito, timidamente, di cose che mi sapevano di buono, dopo tanto tempo. 
mi guardava negli occhi, mi ascoltava senza commentare. osservava dettagli a cui nessuno aveva mai fatto caso: l'attaccatura dei miei capelli, le caviglie, il disegno delle vene all'interno del mio polso. erano luoghi vergini, e qualcuno li stava vedendo per la prima volta. 
esistevano, alla fine. la mia scollatura, il mio vestito a fiori, erano la confezione, le scarpe rosse servivano solo a tenermi ancorata a terra. ero un corpo astrale. era tutto nuovo. 
ma percepivo con precisione che in quel posto, in quel momento, ero giusta così com'ero. 
mi accompagnò alla mostra che ero andata a vedere, ne sapeva molto, gli piaceva. 
mi offrì una inedita vista della città, mi raccontò di sua madre mentre mi mostrava dei dettagli che io non avevo mai visto ad occhio nudo, da nessuna parte.
aveva il volto segnato da una adolescenza inquieta, ma gli occhi aperti di chi conosce l'amore perchè lo aspetta. e dietro a lui mi sentivo gli occhi aprirsi un po’ di più, e un po’ di più, ora dopo ora. parlava come un bambino, ogni tanto, e la cosa mi dava un fastidio infinito. 
ma mi trattenni dal dirgli qualcosa perchè ero certa che non l'avrei più visto. 
ma sapeva, sapeva, sapeva per un dono sovrannaturale. 
sapeva che mi sarebbe piaciuta una dedica su un muro, da adolescenti, che amo il giallo, e che quando cammino i miei passi seguono una musica interiore. ebbi paura. 
mi scrisse il suo indirizzo e-mail, ci salutammo, ma poi nessuno dei due andò via. 
ci salutammo circa altre dieci volte, e altrettante trovammo delle scuse per non andare via. 
pensai che forse era un segno, che potevo ricominciare a farmi crescere i capelli. 
che potevo entrare di nuovo in una casa, in una cucina. 
aveva una voce antica, ed un difetto di pronuncia dialettale che mi parvero sufficienti. 
mi invitò a casa sua e pensai: come farà a togliermi i vestiti con quelle braccia così sottili? 
riuscirà a sopportare il mio peso?
mi farà entrare in cucina?
così pensavo mentre la vita andava da un'altra parte. 
lui non voleva affatto togliermi i vestiti, voleva mostrarmi casa sua. 
e la sua casa era identica alla mia. identica. mi fece paura. 
seppure in un'altra città, con un'altra vista (sul suo balcone c'era un allevamento i bachi da seta, che mi parve una cosa meravigliosa), il colore di certe pareti, alcune stampe, il pavimento anni sessanta erano identici a quelli di casa mia. la libreria di ikea. certo, chi non possiede una libreria svedese? ma messa lì, con quei titoli, quel taglio di luce, i film su un certo ripiano? ero terrorizzata.
il suo bagno odorava di vaniglia come il bagno di una donna, come il mio. 
ma non era omosessuale, lo sapevo. era semplicemente solo, più solo di me. 
la casa era solare, pulita, non c'erano foto, e non c'erano specchi, da nessuna parte. 
forse non gli piaceva guardarsi. mi parve un buon motivo per non andarmene subito.
mi mostrò alcuni dei libri che stava leggendo per farne delle recensioni. mi offrì un caffè. 
e mentre cercavo dei motivi per fuggire, mi fissavo sulle cicatrici che aveva sugli zigomi e su un dente spezzato che gli si infilava nel labbro inferiore mentre parlava, e mi dimenticavo di me stessa. poi, all'improvviso, nel silenzio, mi fece una carezza timida come un fiore a marzo e mi disse che ero bella. dietro a quel gesto non c'era niente, nessuna altra intenzione che quella carezza. 
era il gesto più fine a se stesso che avessi mai subito. fu spaventoso.
non so come accadde. mi addormentai sul suo divano. all'istante, di botto, crollai come un sacco che cade giù da un treno in corsa, facendo rumore. 
dormii due ore, di un sonno nero e senza sogni, un sonno benefico, un sonno da bambini. 
quando mi svegliai, sul tavolino accanto a me c'era un vassoio con delle tartine colorate, perfette, tutte diverse: patè d'oca, crema di pomodori, mousse di carciofi. e un bicchiere di gewurtz traminer ghiacciato. su un foglietto adesivo, dov'era segnato il suo indirizzo e-mail, aveva scritto in uno stampatello viola: "sono sotto la doccia, fa' come se fossi a casa tua".
le forze mi lasciarono tutte insieme. provai a sollevare una tartina ma non avevo più lo stomaco al solito posto, era scomparso. mi ci volle qualche minuto per realizzare che non potevo stare lì col rischio di perdere anche qualcun'altro dei miei organi vitali. 
scappai via lasciando lì foglietto, occhiali, il biglietto del treno di ritorno. 

nei giorni seguenti mi sforzai di dimenticare ogni cosa, ma siccome non ci riuscivo, andai a cercare un uomo che conoscevo da tanto tempo. da sola non ho mai combinato niente. 
così, qualche giorno dopo, al sicuro, nella mia città, bussai alla porta di un tipo che non si era mai 
premurato di nascondermi quanto mi volesse. era piuttosto bello e beveva come un dannato. 
mi parve quello giusto al momento giusto. sapeva di burro e di zucchero. era chiaro come certe mattine estive. e l'estate fu il nostro territorio. aveva dei piedi meravigliosi, li portava sempre scoperti, che è una cosa rara per un uomo. non sono molti gli uomini che si curano dei loro piedi. li strapazzano sui campi di calcetto, li induriscono nelle scarpe da ufficio. 
lo vedevo di giorno, perché la notte mi faceva ancora paura, per via delle fragole. 
non mangiava quasi mai, tranne che al ristorante, una volta al giorno: la sua cucina era vuota. e non dormiva mai. così non mi preoccupavo della fame, nè del sonno.
ma la fame non mi era passata, no. non mi passava mai. 
ogni tanto facevamo l'amore, poi uscivamo insieme per fare qualcosa di umano. quando andavamo al ristorante pagava sempre lui. è il minimo. 
mangiavo solo al ristorante. si impegnava a cercare ristoranti sempre nuovi, ma controllava quello che mangiavo, il mio peso, come mi cadevano i vestiti. e dire che la pancia etilica l'aveva lui. 
se restavamo in casa, aveva sempre una bottiglia di rosso aperta sul tavolo. rosso, per fortuna. una volta che stappò un gewurtz traminer gli dissi che il bianco mi faceva venire mal di testa. andavo avanti a nero d'avola, a primitivo, a brunello. 
a casa sua bevevo. non dormivamo. mi pareva un buon compromesso.
per la maggior parte del tempo parlava di sé, ma non mi pesava. se stesso era il suo argomento preferito. io quasi non esistevo, se non per essere un gigantesco paio di orecchie in cui si ritrovava. si amava da pazzi. e a me andava bene così. 
è totalmente confortante avere a che fare con qualcuno che pensa solo a se stesso. non può darti qualcosa che perderai, un giorno. non può metterti in crisi, perché non sa nulla di te, non ci capisce niente, di te. sei al sicuro. 
poi la sbronza passò. passò l'estate. il tipo evaporò con il calore che abbandonava la città, come tutto il vino che avevo bevuto e che non sentivo più. semplicemente, smisi di andare a casa sua. 
il freddo improvviso me lo impedì: una mattina non riuscii proprio a uscire di casa. desideravo soltanto restare accucciata tra le mie coperte. e lo feci. così, da un giorno all'altro. 
non mi cercò mai, e gli sono ancora grata per questo. 

nel frattempo il mio lavoro aveva preso una buona piega. guadagnavo bene. alcuni addetti ai lavori sapevano chi ero. un uomo non mi serviva. 
lui mi trovò attraverso canali ufficiali. mi scrisse una lettera su un sito internet con cui collaboravo. non si firmò, non ce n'era bisogno: in ciascuno di quei caratteri courier new, corpo 12, sentivo l'eco di quel difetto di pronuncia, rivedevo la sua città, i bachi da seta. 
non decisi coscientemente di rispondere, furono le mie mani, da sole.
scrissero per giorni. per settimane. per mesi. parlarono per me, senza nascondere niente. 
e senza nascondere niente mi rispondeva. io leggevo, scorrevo le sue righe con la stessa emozione con cui si guarda la propria foto di un tempo lontano ed amato. 
internet era arrivato a salvarci la vita. 
una nostalgia antica, come di qualcosa che non hai mai avuto, si fece troppo forte. 
mi venne fuori un desiderio vecchio come la vita. la curiosità di sfidare la paura. 
ero certa di vincere e di uscirne indenne.
le mie dita presero un appuntamento per me. 
in tre anni, ci siamo visti in tutto quattro volte.
la prima volta ci riconoscemmo e basta. eravamo alla stazione e i treni sullo sfondo mi aiutarono a ricordare che dovevo ripartire, perché il suono di quella voce e l'immagine del suo dente spezzato mi avevano fatto dimenticare di nuovo chi ero e perché mi trovavo lì. 
la seconda volta fu ad una mostra. di nuovo. ma stavolta ne sapevo più di lui. ero felice, e non era una questione di orgoglio. ero felice e basta. a fine giornata gli stavo dando la mano, e ci misi un'ora a farmela ridare. mi accorsi solo dopo che avevamo saltato l'ora del pranzo. 
lo salutai con un bacio sulle labbra, certa che non l'avrei rivisto mai più.

tra la seconda e le ultime due volte che lo vidi, cominciai a passare del tempo con un capitano dei carabinieri, bello come il sole, atletico e allegro come un'allodola. 
mi aveva fermato per strada, e dopo 20 minuti mi aveva invitato a cena. a cena: che cosa azzeccata, in quel momento. non ci fu modo di dire di no, la vita mi bussava alla porta. 
la sua divisa mi dava fastidio, certo. era molto meglio nudo. nudo mi cullava, mi proteggeva. nudo era più armato che vestito. se fosse andato in giro sempre nudo l'avrei sposato un paio di volte. lo avrei voluto sempre così, senza nemmeno il mondo attorno. 
ma era un desiderio irrealizzabile, e mi feci coraggio. gli stavo dietro come potevo, amavo il fatto che mi facesse sentire normale. faceva l'amore come un altro mangia o dorme o cammina. semplicemente. naturalmente. detestava la mia musica. detestavo la sua tv.
avevo sempre fame, certo. e non mi addormentavo mai dopo aver fatto l'amore. 
ma ormai ci avevo fatto l'abitudine. 
e non cercavo più di combattere ciò che ero. semplicemente vivevo. 
divisi il mio letto col carabiniere. poi gli aprii le altre stanze della mia casa. diamine, se non ci si può fidare di un militare.. finii per condividere con lui perfino la cucina. 
cominciò a chiedermi di cucinargli certi piatti che gli piacevano. e mi ritrovai davanti ai fornelli insieme a lui, che mi passava gli ingredienti. era la prima volta. 
mi parve una rivoluzione. mi presentò sua madre, andammo a portare dei fiori sulla tomba di suo padre. uscivamo, preparavamo da mangiare, facevamo l'amore e tutte quelle cose che io avevo sempre fatto da sola, o a rate, o un uomo alla volta. 
cucinammo insieme il riso al curry, comprammo prosciutto di cervo, brindammo con bicchieri di nero d'avola, una volta una crostata ci venne molto brutta, ma particolarmente buona. 
percepivo lo stesso vuoto nello stomaco che avevo sentito per tutta la mia vita, ma a lui sembrava non importare, e dopo un po' non importò neanche me.
non mi scrutava, non mi aspettava, non mi contava i grissini nel cestino. 
non sapeva il motivo per cui avevo così tanta fame, ma lo accettava e restava con me, lasciandomi lo spazio per le mie scorribande notturne nel frigorifero, in solitaria. 
non mi chiedeva di dormirgli accanto.
era dolce come la frutta. dolce e fresco e sano. anche troppo. 
andava avanti e io accanto a lui vivevo la mia vita. e se la frutta finiva, lui la ricomprava. 
non mi entrava abbastanza dentro per farmi del male. non restava abbastanza fuori per essere un estraneo. avevamo trovato un equilibrio. non mi facevo domande.
finché partì per una di quelle missioni umanitarie che umanitarie non sono. 
e comiciò a fare avanti e indietro dall'inferno. 
perdemmo il nostro tempo per cucinare. 
iniziammo a mangiare sempre più spesso cibi confezionati, surgelati, precotti. 
sottilette, bastoncini, quattro salti, zuppe. 
roba che non fa passare mai la fame. 
la missione umanitaria gli tolse un po’ di umanità. 
ma non posso dimenticare tutto quello che mi ha regalato. è gratitudine. e cos'è l'amore se non la gratitudine per aver ricevuto qualcosa che non ci appartiene?

lui lo vidi per la terza volta dopo la partenza del mio carabiniere allegro, che allegro non era più.
dovevo preparare un lavoro, ma non potevo farlo da sola, e l'unica persona a cui avrei potuto chiedere aiuto era lui. sinceramente, mica era una scusa.
e poi era un'occasione anche per lui, io lo sapevo e la cosa mi dava un piacere profondo. 
lo chiamai al suo numero, che avevo, ma non avevo mai usato. 
prendemmo appuntamento con naturalezza, come se ci fossimo sentiti ogni giorno dall'ultima volta in cui ci eravamo incontrati, decidendo di vederci in un piccolo bar a metà strada tra le nostre città. 
il lavoro lo preparammo bene, con i portatili accesi, vicini, identici naturalmente, la stessa immagine sul desktop, i tasti bollenti a fine giornata. bevemmo litri di caffè. fu divertente, litigammo perfino, a un certo punto. eravamo precisi, professionali, ci facemmo le pulci a vicenda. mentre lavorava era irresistibile. nemmeno una volta parlò con una voce da bambino. 
mi ripromisi di dirglielo, ma non sapevo se l'avrei rivisto mai più.
era sempre tutto così definitivo. 
non volevo salutarlo alla stazione, comunque. già così, solo con quel paio di incontri alle spalle, le stazioni erano diventate per me un monumento alla sua memoria, e non volevo amplificare quella sensazione assurda per poi non liberarmene mai più. 
così prenotai un treno di ritorno in un orario diverso dal suo per vivermi la stazione in santa pace, magari con un tramezzino del bar in mano. 
ma la mia vita fece l'incauto errore di abbracciarlo davanti a un bancomat qualsiasi, un bancomat rotto, mentre un piccolo chiosco poco distante mandava un pezzo di luigi tenco. 
io non volevo e lui non voleva, per motivi diversi, però ci baciammo lo stesso, davanti al bancomat, con tenco a far da testimone. un bacio piccolissimo, ma inevitabile. fin troppo piccolo. le smancerie mi hanno sempre dato fastidio. ma il bancomat mi parve diventare di un altro colore, mentre la canzone continuava ad andare all'infinito. 
me andai via senza voltarmi, e lui capì. salii sul treno senza tramezzino, e mi addormentai. 
dormii di un nero sonno prenatale che avevo provato solo un'altra volta nella vita. 
dormii fino alla stazione di casa. 
mi svegliò il controllore. mi avevano rubato la borsa. non sapevo cosa pensare di me stessa. 
passai la notte a guardare in strada dalla mia finestra. 
il giorno dopo fu un giorno in cui la fame mi stava spezzando il cuore. 
ripresi il treno, prestissimo, come un pendolare prende il pullman che lo porta in fabbrica. 
scesi alla sua stazione e me la feci a piedi fino a casa sua, non so come, visto che ci ero stata solo una volta tanti anni prima. 
era a casa. c'era una stampa nuova sul muro. la stessa stampa che avevo comprato per casa mia qualche giorno prima. su quel muro ci attaccai anche la mia paura.
io non ero mai andata via. lui disse che non aveva mai smesso, poi tacque.
nessuno al mondo pronunciò più una sola parola, quel giorno. nessuno nell'universo. 
tutto era silenzio, in natura. e fu tutto piccolo, piccolissimo. mi baciò la cicatrice del labrador, e gliene fui così grata che riprese a sanguinare. la stanza diventò di un solo colore, il colore di un dente spezzato che avevo così vicino agli occhi da non capire più se era il mio o il suo. 
e infatti, all'improvviso, mi si spezzò un incisivo. è ancora rotto. 
quando mi entrò dentro fu come una offerta, un gesto sacro. mi sentivo trapassata come una santa martire, e nuova come una margherita. mi toccava come si tocca la vita, o la morte. ero una divinità preincaica che decide della sorte di un popolo. ero mia madre, e sua madre, e forse non se n'era mai andato. era un esercito di soldati al fronte durante la prima guerra mondiale, la stessa urgenza di sapere di essere ancora vivi. in quel momento avrei potuto dare vita a un cucciolo di labrador, all'anticristo, a un figlio. in quel momento avrei potuto anche morire, non avrebbe fatto nessuna differenza. respiravo come un animale senza riconoscere il mio suono, ma riconobbi il suo. 
era piccolissimo e grandissimo. il mio corpo lo mangiò, e nacque l'alba. 
durò pochissimo e nessuno di noi due riuscì a portare a termine l'impresa di prendersi tutto. 
era già abbastanza essere vivi. 
mi addormentai mentre eravamo ancora attaccati per la pancia, senza sentire il peso, il luogo o il perché di tutto quello che era accaduto. semplicemente, ero.
mi svegliai dopo sette ore, e ne trascorsi un paio a chiedermi perché non correvo in cucina, mentre la sua mano addormentata era attaccata ai miei capelli, che erano ricresciuti, lunghissimi. 
ero felice di non averli più tagliati. avevo un motivo. 
poi riuscii a muovermi, arrivai in cucina. 

in un piccolo forno tecnologico era cresciuta nottetempo una forma di pane. 
mi aveva fatto il pane. a casa, come in un romanzo d'appendice. 
e capii. capii tutto quello che avrei dovuto capire fin lì.
per la prima volta, in tutta la mia vita, non avevo fame. 

voi che avreste fatto?

mentre dormiva, gli presi un paio di jeans e una maglietta. mi entrarono a forza, era quasi troppo magro, perfino per me, che sono solo una donna. lasciai lì tutti i miei vestiti.
tornai a casa, nella mia città, con un pullman da pendolare. 
ci misi molte ore, ma erano necessarie. 
rimasi sveglia, ma avevo la pancia piena. è così da quel giorno. 
non sono più entrata in una cucina che non fosse la mia.

ora sto aspettando di diventare abbastanza vecchia per essere felice. 
ma sono ancora così giovane. così tanto giovane. 
non mi ha cercato. lui sa, perfettamente, come se gliel’avessi spiegato. 
non posso cercarlo: io devo nutrirmi. io voglio vivere. voglio diventare vecchia.
e se smettessi di mangiare morirei, anche se sono una divinità preincaica. 

ma spesso me ne vado alla stazione e lascio che la vita vada come vuole. 
o dove deve. la stazione è il posto giusto per aspettare il futuro.
sono cambiate così tante cose, e non è mai stato merito mio. 
il merito è sempre della vita. 
non ho più fame, ora. e mi piace mangiare.
e il mio cibo preferito è il pane.