Antigone

Elaborazione testuale e scenica dall'Antigone di Sofocle di

Alberto Ticconi



PERSONAGGI: Antigone, Ismene, Creonte, Custode(F), Emone, Tiresìa(F), Messo, Euridice, Coro di Vecchi Tebani(12 o 6 o 0 - M), Corifeo, Guardie(4- M), Popolo(10- F) Prologo e Epilogo(2 o 1)


PARTE I

La scena è sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia.

PROLOGO : (Da CREONTE – una figura incappucciata si presenta nell'orchestra) : Ecco! Questo è l'animo giusto: I giovani dabbene devono posporre ai consigli paterni ogni cosa; tali figli onorano la casa e la città tutta. Ma chi genera invece figli ribelli, inutili li prepara al mondo, e alla rovina. Bravo è quel figlio che nessuna femmìnea grazia ha fatto uscir di senno. Freddo, infine sappia, che è il loro amplesso: piaga peggior non c'è che darle amore, spendervi fiducia. Ben lasci che qualcun altro negli Inferi le sposi. Lamenti elevino di dolore esse, invochino Giove in persona; ma inutilmente. E se parenti? Se i re lasciassimo i loro stessi parenti senza freno, che cosa farebbero gli estranei? Male maggiore non esiste che la mancanza di ordine: ed è per essa che vanno in rovina le città. È necessario dunque difendere sempre le leggi, e a nessun patto consentir che una femmina ci vinca. Se cadere si deve, meglio cadere per mano di un uomo: dir non si potrà che noi fummo più fiacchi e flosci, e inutili, di una femminuccia, ben ostinata e adorna.
(È l'alba. Dalla reggia escono Antìgone e Ismene)
ANTIGONE: Dai mali che da Edipo ci arrivano, o compagna e sorella Ismene, sai tu dirmi quale non sia ben curato da Giove nella nostra viva carne? Oh!, dove di più doloroso, di funesto e turpe, se fra i mali tuoi e i mali miei visto tu ed io abbiamo? E adesso non è forse già colma la misura senza il peso di questo bando vergognoso e turpe? Gridato da Creonte, risuona nella città tutta; o tu lo ignori? O forse non ne vedi l'offesa che, gravissima, è rivolta ad amici come se fossero, - ahimé! - null'altro che mostruosi e orridi avversari?
ISMENE: Nulla mi giunse, né cosa triste e né lieta, Antigone, da quando entrambe restammo prive dei nostri due amati fratelli.
ANTIGONE: Me lo aspettavo; ed è per questo che qui ti trassi.
ISMENE: Vi è oscurità sul tuo volto. Dimmi, sorella.
ANTIGONE: Non sai tu che il signore di questa città, concesse all'uno dei fratelli nostri onore di tomba, mentre l'altro privo d'ogni conforto celeste e umano lo rese? Etèocle, come la legge e la giustizia reclamano, è sepolto con gli onori dei riti, e la pace del cielo ha fra i morti; ma il corpo di Poliníce, che già perì di misera morte, dicono, si vuole che nessuno gli dia sepolcro, e che nessuno lo pianga, e, senza terrena culla, lasci le membra sue alle brame dei rapaci e delle fiere erranti. E come questi, il suo spirito vaghi per il deserto dell'orrida paura, senza guide, e riti, e consolazione alcuna. Questo vuole il buon Creonte da te, dicono, e da me – ora lo comprendi? da me! - E infine, chi trasgredirà tale ordine sarà lapidato dal popolo fino alla morte. Son questi i fatti. E presto tu, o Ismene, sarai chiamata a mostrare la tua generosità, o se, pur figlia di genitori eccelsi, altro non sei che degenere frutto.
ISMENE: Di sventura in sventura. (pausa) Ma se in questo abisso ormai siamo (pausa), come stringere o sciogliere io potrei tale mostruoso nodo?
ANTIGONE: Se vuoi, con me, come non potrai invece affrontarlo...
ISMENE: Con quale battaglia? Antigone, parla, dove il tuo pensiero ti porta?
ANTIGONE: Dove mi porta? Quel corpo... il corpo di nostro fratello Polinice è li, gli occhi suoi pronti ad essere cavati dagli uccelli; il suo ventre ad essere dilaniato come carogna di bestia appestata e tu? Ora, sorella, se gli vuoi dare degna sepoltura, con me...
ISMENE: E tu? Tu come fai a chiedermi questo? Certo che vorrei. Come potrei non volerlo. Ma tu brami seppellirlo mentre tutta la città lo vieta?
ANTIGONE: Allora è così. (pausa) Ebbene, anche se rifiuti la tua missione: nessun traditore, - nessuno! - ... potrà dire a me che non è mio fratello... e tuo!
ISMENE: Anche quando Creonte stesso ne fa divieto, o folle?
ANTIGONE: Invidio la tua prudente stoltezza. Ma egli non potrà strappare chi ci è caro dalle mie cure!
ISMENE: Ahimè!, sorella! Tu non pensi a nostro padre Edipo? Hai già dimenticato che egli morì odïato, per quelle colpe ch'egli stesso scoprì. Odiato e privo d'onore, e con la sua stessa mano i propri occhi spense; e poi la madre, divenuta sua moglie – vergogna imperitura! - a un laccio si appese, annientando la sua ormai povera vita. E infine i due fratelli nostri, che l'un l'altro si uccisero, e in un sol giorno; in un sol momento. Ora noi due sole siamo rimaste. E così sole cosa ci accadrebbe se trasgredissimo la legge? Ma è conveniente pensare anche a questo, Antigone: siamo femmine, non certo capaci di lottare contro tali uomini; e, vedi? forti son quelli che imperano. Obbedire, non credi che forse è conveniente, almeno per ora, ai loro pur nefasti ordini? Io dunque, ai morti per conto mio, chiedo perdono, dato che a questo solo sono costretta: che solo questo mi è possibile e che è sempre stolto ardire di superare le proprie forze.
ANTIGONE: Appariresti saggia, sorella, ad altri. No, io più non ti dico, e più non ti prego. Antigone, a quel corpo gli darà sepoltura; e, se l'opera avrò compiuta, stupenda mi parrà tale pazzia e dolce la mia stessa morte. Ma ancor più: bello mi sembrerà giacer con lui, bellissimo fratello caro: certamente in pace e non più rea, ma viva; più dei vivi: poiché compiacere a quelli che paiono vivi di quassù è ben misera e poca cosa; poca e scarna. Non con i figlie dell'Ade cammineremo in eterno, o Ismene, non con questi insieme. E tu, se è ciò è quello che credi, e credi sia bene, disprezza pure tutto ciò che i Numi e gli dei supremi amano e ci chiedono.
ISMENE: Non lo disprezzo io; eppure non riesco a fare quello che la città vieta..
ANTIGONE: Or bene; nutri di tale pretesto la tua scelta, che io vado.
ISMENE: Misera me! Ed è per te che tremo!
ANTIGONE: Sprecarti in questo inutile impegno? Pensa a salvarti, invece, che è cosa assai più urgente.
ISMENE: Allora ti dico: Non svelare ad alcuno il tuo disegno; e anch'io lo farò.
ANTIGONE: Sbagli ancora, Ismene. Tu Sbagli ancora! Oh... tu, tacendo, mi tradisci due volte. Parla, invece. Parla! Ti odierò se taci; Parla! Fanne pubblico bando...Parla, ti dico! e forse ti odierò di meno.
ISMENE: Mi fai tremare per ciò che dici... ma ancora di più per ciò che ti tiene dal di dentro.
ANTIGONE: Dato che così sono gradita a quelli che io amo.
ISMENE: Ma se tu speri l'impossibile io non posso non dirti che non ci riuscirai.
ANTIGONE: E allora a quel punto mi fermerò. Ma solo a quel punto.
ISMENE: Tu... non ci riuscirai.
ANTIGONE: Se questo manifesti....
ISMENE: Non ci riuscirai.
ANTIGONE: ...nel mio odio annegheremo insieme...
ISMENE: Non ci puoi riuscire.
ANTIGONE: ...e in quello di nostro fratello. (lamenti di Ismene) Se questa è la mia follia... ad ella e a me non ci puoi convincere ch'io non affronti tal destino, e che non sia bella la mia morte, e più d'ogni altra cosa viva.
ISMENE: Allora muori dunque, se proprio lo vuoi; ma questo sappia la tua follia: che tutta stolta sei. Eppure carissima a me, che ti amo tanto, resti.
(Escono)
PARTE II - CANTO D'INGRESSO DEL CORO
(Entrata una schiera di vecchioni. Dopo alcune evoluzioni, accompagnate dal canto, si fermano nell'orchestra, dinanzi all'ara di Diòniso)
CORO: Strofe prima – Sole del mattino, che appari tra i più belli fra quanti batterono le porte di Tebe, raggio potente e d'oro, infine tu giungi, lambendo e risvegliando i fluidi rivi di Dirce, Tu che con l'asprissima sferza costringesti alla fuga il duce dei candidi scudi, che d'Argo, in assetto di guerra completo, qui giunse. Tu che indicasti con forza il ritorno alle armate condotte dall'iraconda anima di Poliníce, e che nello strepito alto, come di un aquila con ali coperte di neve, e molte armi recando ed elmetti fulgenti di equini cimieri, costringesti alla resa.
Antistrofe prima
Tu che riscaldasti le nostre dimore, affinché da esse si schiudessero sanguigne schiere dalle fauci potenti. Da tale genia salvo fu il sangue di Tebe, ma non il serto di torri ad Efesto bruciate. Tal rombo di guerra sul dorso di esse, cadde con pianto sui nemici del drago. Ché i vanti di lingua cialtrona odia il Croníde; e com'egli mostrarsi li vide fra le armi, il sangue, lo strepito e l'oro, quale drago lanciando un fiato di fiamma, infranse, uccise chi già s'apprestava sui merli più alti a gridar la vittoria.
Strofe seconda
E folgorato si disfece, rimbalzando a terra, con stretta la face nel pugno colui che con impeto folle muoveva all'assalto. Giunto vi era come tormenta, ma per non veder vittoria; mistero dei doni di Are che ad ogni guerriero destina, e che a corso propizio teneva le briglie. Sette eccelsi deposero le armi, ciascuno dinanzi a una porta, al cospetto di un campione; a Giove lasciarono tale trofeo. Soltanto i due miseri figli di Edipo, le lance appuntando al seno un dell'altro, della morte presero il furente retaggio.
Antistrofe seconda
Ora, che la Dea gloriosa ha concesse le sue grazie a Tebe, Vittoria, famosa per i suoi rapidi carri, ha spento le guerre, conviene cercare l'oblio, e conviene a tutti accedere ai templi dei Numi. E che infinite danze s'intreccino per tutta la notte. E Bacco, onde il suolo di Tebe sussulti, ci guidi. Ma attenti, il re di questa terra, figliuol di Menèceo, Creonte, e nuovo Signore, si avvicina. A che e per quali disegni il re, che tutti qui ha adunato con un sol bando, muove? E perché questo consesso di vecchi ha raccolto?

(Dalla reggia esce Creonte)
CREONTE: Amici, alla vostra domanda presto rispondo. In realtà a voi soli, fra tutti i cittadini, mandai a chiamare; voi soli ho invitato. Io so bene che del trono di Laio sempre voi veneraste il potere; e di Èdipo, quando Tebe redense. E poi, quando alla sua fine giunse il regno dei figli: anche a quel punto l'affetto vostro restò fedele. Ebbene, gli dei, che hanno sprofondato la nostra città nella tormenta certamente ora la risolleveranno. Quando i due fratelli caddero, vibrando a un punto e ricevendo il colpo, - fratricida scempio -, io, che più prossimo parente sono dei defunti, in me tutto assommo il potere, e mio è il trono. In realtà non ci è possibile conoscere l'anima di un uomo, la sua indole e il suo pensiero, se nel governo e nel rispetto delle leggi non sia visto prima alla prova. Ed ecco, per me, chi, governando intera una città, non s'attïene agli ottimi consigli, e per timore e gelosia freno pone ai pareri e alla lingua dei sapienti, disgraziato è tra i folli, e ciò è sempre; e chi ha più caro l'amico che il bene della patria sua, è un uomo da nulla, affermo. Io – testimone mi è Giove - non tacerei, se la iattura vedessi gravare sui cittadini; né stimar potrei amico un uomo nefasto alla sua patria. E' nella patria certo, la salvezza; e quando essa prospera, è facile che prosperino anche gli amici: io la città render prospera saprò con queste leggi. Ed ordini conformi a ciò bandir feci intorno ai due figli d'Èdipo: Etèocle, valoroso per questa città, per ogni prova vissuta, caduto per essa... si seppellisca, e gli si rendano quanti onori spettano ai più illustri defunti; ma suo fratello, Poliníce, parlo di colui, l'esule, che tornò al patrio suolo per distruggere e bruciare, e saziare del nostro sangue gli avidi Numi, e fari schiavi, costui col bando imposi alla città che nessuno gli dia sepolcro, e mai alcun lo pianga, ma si lasci insepolto, divorato dagli uccelli e dai cani, e, visibile, ne sia deturpato il corpo. È questo il mio giudizio ultimo: perché non mai da me avranno uguale onore i buoni e i tristi; gli amici e i nemici: ma sol chi devoto alla città si mostra.
CORIFEO: Creonte, figlio di Menèceo: tu puoi qualsiasi legge sui morti imporre, e sopra noi pur vivi, e questo decidi..
CREONTE: Or vigilate dunque.
CORIFEO: E incarico questo per più giovane esercito.
CREONTE: Già del cadavere son pronti i custodi.
CORIFEO: Quale altro ordine, dunque, impartir vuoi?
CREONTE: Non dar speranza a chi l'infrange.
CORIFEO: Nessuno è così folle, da desiderare la morte.
CREONTE: E' vero. Ma il lucro e il suo languore traggono spesso alla rovina moltitudini di uomini.
(Entra, a passo tardo, esitante e pavido, una poderosa soldatessa. È una delle custodi poste a guardia del cadavere di Polinice)
CUSTODE: Signo'! Scusate... fateme piglià fiatu che mo', a stu momento me crepo e... Mama, che pasema! I' mo' non dico... nooo! Ma non me permetto, che per la fretta d'arriva' ca' gliu spiritu me s'è scisu dent'alle mutande, nooo! e gliu pere tantu foiette pe' le scese e le sagliute che me s'è fattu a pummarola fraceta. No, e chi lo dice. Signo', e ca' i' me l'aggio vista brutta. E mo' ce vaio... e no' ca chigliu se ne va de coccia e a me m'accite. Però si lo sa' da cacche autu m'accite di' voti. E tornete, e riparti e tornete n'ata vota e.... Quatto voti la via m'aggio consumata. Sì, pecchè a nu' certu puntu me s'è miss'a' parlà puri gliu core, - gliu meo - dicennome: “Pecché, poviru disgraziatu, vai addo' te scanneranno appena tu gli'osso avvrai posatu?” Gli'osso pe' stu' trascursu è la notizia. “Oh sciagurato, e allora non cè i'? Ma Creonte tè paricchie spie...? E allora cè i'?” - 'Nbruscinatu 'nmezo a sti' pensere da 5 chilometri trenta me n'agguio fatti. E mo' eccoce ca'; e si m'at'accite facemolo, senza perde tempo e pacenzea. E niente dovesse dice... eppuri 'ngingamo ca creca è chesto che gliu celo vone, o caccherun'atu.
CREONTE: E perché mai giungi a noi così pieno di sgomento?
CUSTODE: Allora chistu n'ha accapisciutu mancu nu' piru!? Allora... Prima che ve pozza parla' gliu soldatu ve parla la femmena.
CREONTE: E dov'è? Ahh... Già. Vai avanti, vai avanti.
CUSTODE: Hata sape', 'ncoppa ad ogni cosa, che stù servu vosto gliu fattu ha visto e no' chi gliu fattu ha fattu. E saputu chesto pistaregliu sarìa na' brutta iastema alla costumanza vosta.
CREONTE: E evidente che stai prendendo bene la mira, e tutto fai per scusarti di qualche grave colpa.
CUSTODE: Sì... No, mancu pe' niente.
CREONTE: Insomma ci sono nuove cose, notizie fresche, sembra?
CUSTODE: Fresce non lo saccio ma... brutt'assai, paricchiu. Ed è pe' chesto che me vè nu' tormeto da tutte le parti.
CREONTE: Bene. Rendicontaci, e dopo vattene.
CUSTODE: Rendi che'? Ahhh...aaaa... Allora 'ngingamo. Caccherunu ha abbelatu poco fa chigliu morto de defunto che vui ci'hate fattu ittà dalla parte degliu scaricu della robba vecchia, squagliannosela 'ntromento dent'a' na' botta.
CREONTE: Che cosa ci stai dicendo, per tutti gli dei, con questa mostruosa lingua: che qualcuno ha sotterrato il nostro nemico?
CUSTODE: Ehh! E dagli signi c'ha lassatu ci'ha fattu puri tutte le sante oraziùni sèi.
CREONTE: (infuriato) Quale uomo si è permesso di giungere a tanto?
CUSTODE: E no, e no. C'hamo dittu fin'a' mo'? Non ce scaoramo a sta' manera pecche' i' no' lo saccio!: I', no'! Gliu sgustumatu n'ha' usatu nì gliu zappone e nì la pala; eppuri tosta e secca era la terra; signi de rote non ce steono, nì rumuri e nì cenche smosse ce so' stati; e mancu na' pagliuca s'è lassatu arreto. Sulu allo iavozarese degliu sole s'è vistu che era scomparsu gliu morto: non stò a dice che gli'hanno abbelatu addavero; ma nu' lenzolo finu e densu de poreve e de cenere gli'annascogneva sanu sanu a chistu munnu, come si' sulu chesso abbastasse a scanza tuttu gliu sacrileggio; tantu che cani e ate bestie se so' tenute lontane, pecché sanu era ancora è. E tra nui custodesse non c'ianno scappate le mazzati? “Sì stata tu! No tu! Alla facci de ziteta, de soreta e... e de chella sciancata de nonneta”. Creonte meo, le peggiu parole e le chiu' disgraziate tirature de capigli. I' te dico che ce steàmo quasi a taglia' gli canneliri una co' l'ata. Ma a nu' puntu una de nui dicette: “Non saria chiu' giustu dicerelo a Creonte?” E... e come no? Ma chi ce va'? E a me sfurtunata è caduta la sfurtunata sorte. Mo', dico, mo', che volemo fa'?
CORIFEO: O gran re, come poter quasi dubitare che tutto ciò non sia altro che opera di un demone.
CREONTE: Taci, prima che altre tue parole come questa mi portino all'ira.
CUSTODE: Vécchie, stateve zitti, che ca' ce vaio pe' lo mezo i'.
CREONTE: Basta! A quale demone è permesso dagli Dei render onore a un traditore? E chi, di questa città, lo ha curato quando solo qualche giorno prima egli è piombato qui per distruggere la loro vita, la nostra terra, e tutte le nostre leggi? Ce qualcuno qui che può veramente affermare che i Numi onorino i malvagi? Oh!, No! La verità è che tra queste mura ci sono ribelli, ladri, venduti e assetati di denaro. Questo, il denaro, è il maestro che perverte anche le anime oneste; i più sani a compiere opere malvagie: ogni violenza insegna agli uomini. Ma se è pur vero ch'io venero Giove, sappi... Con chi sto parlando?
CUSTODE: Come?
CREONTE: Sì, a chi mi stò rivolgendo?
CUSTODE: E vui, me pare, state propitu a guarda' 'nfacci a me...??
CREONTE: Appunto! Sto parlando alla femmina o al milite custode?
CUSTODE: Ma... I'...? Fate a coscienza vosta, che te stanno a scota' tutt'è dui.
CREONTE: Quale onore. Prolisso custode femmina sappi, che, e te lo giuro: se non trovate, e non mi trascinate qui, chi ha onorato quel corpo, non mi basterà farti scendere negli Inferi; ma, viva, nuda e appesa, per anni, tutt'intorno alla città sarai trascinata.
CUSTODE: Pozzo approfiddia' cacche ata parola, o gia' da subbitu m'aggia spuglia'?
CREONTE: Tu non sai quanto le tue parole e la tua lingua mi danno il vomito!
CUSTODE: O povereglio. Ma è dento le recchie che ve da gliu scuncicu o dent'agliu spiritu vosto?
CREONTE: Vuoi indagare oltre? Non credi che già fin qui ti basta?
CUSTODE: No, è pe' precisà gli fatti. Non pazziamo, Creo': è gliu morto disgraziatu che ve roseca gliu core. I', allo peggio, aggio potuttu da' sulu alle recchie voste nu' poco de pruritu. E puri dalla parte de fore; ecco.
CREONTE: Ahimè, quanto male ho fatto accettando tra i paramilitari anche le donne. Non ti pare di parlare troppo, oggi?
CUSTODE: Sì ci'ama dice la verità... Ma non è chesta colpa rea de morte, spero?
CREONTE: E dimmi allora: hai venduta l'anima per denaro?
CUSTODE: Ahi...! Ste parole me fanno male. Tuttu me se po' dice, signò, ma chesso mai!
CREONTE: Si vede, però, che a lingua sei svelta.
CUSTODE: Ehhh.. Eeee...? Ma de che stamo a parlà, mo'?
CREONTE: A parole; a parole sei molto svelta. Ma se voi custodi non mi consegnerete il reo, tu conoscerai le doglie senza parto.
CUSTODE: I'?... Cazzarola!
CREONTE: Se qualcuna di voi non fa il suo dovere fino in fondo, tu rimpiangerai di essere nata.
CUSTODE: E n'ata vota? Cazzarola addavero, Dotto', ca' tutte l'ate scorepanno létte e voschi, se figliano a rotta de coglio pe' non fa gli turne de notti, e tutti gli duluri hanna èsse gli mée. No. Non me sta bbene...
CREONTE: Allora?
(Rientra nella reggia dopo un segno di profondo assenso)
CUSTODE (Fra sé, allontanandosi): Si gliu trovo ca' torno ma sì no, mo' che m'aggio scampatu la sorte, Creonte meo, co' gliu fraulu tu chiù me viti. Giove meo e quantu te voglio bbene, stammatina, tèh!
PARTE III - PRIMO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO: Strofe prima
A molti prodigi si assiste, ma nessuno è più grande dell'uomo stesso. Attraversa i mari, anche i più estesi e tempestosi; e i monti e le mortali paludi non lo fermano. La più antica degli Dei, l'immortale Terra, infaticabile sua madre, con la ruota delle stagioni, anno per anno, con il consumarsi degli aratri e con il sudore delle bestie nei campi, essa lo nutre.
Antistrofe prima
Egli degli augelli le stirpi cinge di reti e ne fa preda; le potenti tribù di selvagge fiere, e le marine schiere degli abissi con spire, reti e ami, l'uomo scaltrissimo se ne fa signore. Poi con l'astuzia, su quante fiere che selvagge popolano i monti, il giogo impone. Di cavalli, e tori e altro ancora, infaticato, ne tiene il morso.
Strofe seconda
Infaticato pensiero, che suoni vocali rinvenne, e le norme del viver civile. E a sfuggire agli etèrei dardi d'inospiti ghiacci, di piogge nemiche sol egli può. Grandi astuzie trae dal suo tesoro; né il futuro teme, se vie di scampo non vede, s'inoltra dove ne trova. Solo alla morte non può opporre rimedio; anche se contro inguaribili mali, azioni salutari sa opporre.
Antistrofe seconda
Oltre ogni umana credenza, il genio delle arti possiede; ora cade nell'abisso della disperazione ed ora nelle vette della virtù. Se onora le leggi degli avi, o il patto degl'Inferi, egli la patria esalta. Ma patria non ha chi per colmo d'audacia s'annida nell'abisso. Mai vicino alla sacra ara si nasconda tale uomo, e mai s'accordi al mio pensiero.
(Si avanza Antigone trascinata dalle guardie)
CORIFEO: È quale mistero è questo? Quale divino portento, tanto che incerto io sono. Ben riconosco Antigone in questa fanciulla: e negarlo non potrei? O misera, figlia di più misero padre! E come è potuto mai essere? Tu fosti ribelle, e, colta nell'insensata opera, qui ti trascinano?
CUSTODE: Signò chesta è essa. (Creonte non è in scena) Addosta'? Gliu fattu scuncicu che me stéa a schiattà a essa s'apponta: Caru Creonte... ma addosta? Insomma chesta l'hamo acchiappata, 'ntromento deva n'ata vota sepoltura agliu morto scoperchiatu. Ma se po' sape' addo' s'è iutu a sceffonnà stu ... Creonte. Creonte, belligiu e misericurdiusu...Ma addostà addavero?
CORIFEO: Ma tu non sei appena andata via?
CUSTODE: Vecchie, 'mpicciateve degli fatti voste.
CORO: Eccolo o donna. Al giusto momento giunge.
CREONTE: (entrando in scena stizzito) Momento giusto per che? E per chi? Insomma, che cosa accade, ancora?
CUSTODE: Ma...? Ma! Insomma... 'Ncoppa a sta terra niente, ma propitu niente è scontatu: da nu' momentu a n'atu po' succede chello che tu mancu te pinsi. Pe' le minacce voste, brutt'assai, chesto ce l'hama dice; chigliu fattu d'esse appesa 'ngnura, senza propitu niente (chiede velata conferma al suo dubbio), a fa gliu giru fore le mura, pe' anni, senza che niscunu me vede: dico i nu' pezzo de femmena agnurata che va co' tuttu da fore, e niscunu a guarda'? E' nu' scorno iautu: scorno e umiliazione!? Creonte meo chesta è stata na' cosa brutta assai. E i', pe' tale mutìu, steo com'a' dento a na' tropea...
CREONTE: E che cos'è?
CUSTODE: Una tempesta; na' tempesta de saette e trone. (al coro) Chistu è puri paricchiu 'ngnorante. E fretta de torna' da vui propitu n'a' tenéo. 'Nmece, co' n'attaccu de gioia che m'ha 'ngrifatu puri gli capigli, come potete vede, contro gliu giuramentu meo ca' 'm'ha trascinatu gliu celo. Sta bbella vagliona, pizzicata 'ntromento metteva fiuri agliu morto, è chella che cercate. E a stu' puntu pigliatevella, e a piacere vosto esàminatela, giudicatela; fate chello che ve pare. Basta che gliu curipizzu meo sanu è venutu e tale addereto se ne torna. (sta' per uscire...)
CREONTE: Ma dove l'hai presa? (la custode sta' per rispondere...)E come hai fatto? (c.s) Come ci sei riuscita?
CUSTODE: Chiano. Nu' poco de pacenzea. Allora: essa s'è fatta acchiappa 'ntromento gliu corpo assestava, 'nfiorava e 'mprofumava. Non saccio si me spiego.
CREONTE: Capisco.... capisco bene. Ma è proprio così?
CUSTODE: E certu. Ine stea...
CREONTE: Sì. Ma io dico: è vero ciò che dici?
CUSTODE: Allora...
CREONTE: Qui bisogna essere assolutamente sicuri!
CUSTODE: Signò, vui me parete paricchiu sconcecatu, stammatina; concentrateve bbono. Che a me me sembrate puri nu' poco 'nchiummatu allo soperchio. I' vedette... - le compagne mei, però addereto gli'ordene meo,- chesta che, sbattennose a facci 'ngnura degliu divieto vosto...
CREONTE: Che cosa ha fatto nuda?
CUSTODE: Addo'?
CREONTE: Ma chi?
CUSTODE: Ohi mama, m'aggia spuglià già da mo'?
CREONTE: Si puo' sapere cosa stava facendo nuda?
CUSTODE: Chi, essa? E i' che ne saccio...? No, volevo dice che se n'e fregata senza scorno, a facci scoperta, de tuttu chello che hate dittu vui.
CREONTE: E non lo potevi dire in questo modo?
CUSTODE: (molto stizzita) ...gliu corpo seppelléa, essa. ...? Ma pecché, creca non parlo chiaro?
CREONTE: Lasciamo stare, e andiamo avanti. E come fu vista? Come fu sorpresa?
CUSTODE: Allora... Chistu stammatina me sta' a scorteca'.
CORO : Cosa sta facendo?
CUSTODE: Me sta' a leva la pelle. Ehi, vécchie, non ve ce mettete puri vui sa'! Gliu fatto è iutu a stà manera. 'Ntromento ca' venéo, sapenno già della misericordia vosta, le compagne mei levarono tutta la pòreve che accoperchiava la sàrema, e missu a 'ngnuru tutto gliu corpo degliu morto, - Che peccatu; quanta grazia de Diu sprecata! - ... 'n'ponta agliu poggiu esse se mettèttero. A contro vento però, che la puzza era troppu forte.- ma gliu spettaculu gluriusu era assai; accussi' m'è statu riferitu. E, dopu paricchiu tempo, co' saette de parole e schiaffuni che l'una a l'ata se déono pe' rimane allérta, la vagliona ca' presente se ne venètte. Essa, come vedètte gliu cadavere scoperto, se dètte a iasteme e sderrai: brutt'assai, Creonte meo, brutt'assai, a chi tale e bruttu sfreggiu avea mai fattu:“Se pozza screffonna'! Che gliu celo gliu pistasse com'a' venaccia. Che gli pozza spunta' na' sérve de spine dent'alla occa! Che gli se pozzano cionca' tutt'e' quatto le mani...!
CREONTE: (in evidente sofferenza) Eeee... Basta! Quattro mani?
CUSTODE: Accussì almeno dui so' sicure.
CREONTE: Basta così! Abbiamo capito. Intanto vai avanti.
CUSTODE: Ma mica ce l'aveva co' vui. Nooo! Giustamente... E súbbito co' la porevere, n'ata vota gli'accoperchiào; e levata iaota na' cannata bella, de cocciu smaltata, facette tre abbeveraggi... agliu morto.
CREONTE: Fece bere il morto?
CUSTODE: Essa, ma si gliu morto po' ha bevutu o no, non se sape... A chigliu puntu, allo subbitu, nui, cioè le compagne mei, se so' ittate abbasciu e l'hanno acchiappata. Ma essa non s'è smossa. Rimproveri e strilli... essa niente: n'ha negatu niente: Iasteme, minacce e sderrai: Niente. Tantu che i' me sentéa sia addollorata che allegrata. (Nessuno comprende) Provavo piacere e dolore 'nsema.
CREONTE: (ai vecchi) E ciò capita ai folli.
CUSTODE: No, Creo'; mica è sempe accussì, ...è che scampa' dagli malanni e cosa doce; ma quanno è a scapitu degli amici, è assai dulurusu, pe' chi tè coscienzea. Puri però sì se tratta della vita mia i' non guardo 'nfacci ni' mancu a patemu: c'aggia fa'; della famiglia nosta semo fatti accusì.
CREONTE: E ti pareva; la colpa è solo della famiglia. (Ad Antigone): Ora parla tu, che il capo a terra hai chino: confessi o neghi di aver tale scempio compiuto?
ANTIGONE: Confesso l'opera mia, e vedo anche lo scempio di cui parli.
CREONTE (Al custode): Ecco, tu ora puoi andare in pace.
CUSTODE: Sì...? Eh! Creonte meo, de che pace se tratta? Dicemo bbono le cose: chella 'ngnura o chella vestuta?
CREONTE – Sei libera dell'accusa di tradimento. (Ad Antigone dopo che la custode è andata via) E tu, possibile che il bando che vietava di far ciò non ti era noto?
ANTIGONE: Mi era noto. Perfettamente.
CREONTE: Eppure hai osato violare la legge?
ANTIGONE: Ma non fu Giove, né la Giustizia, che dimora insieme con gli Dei dell'Averno, a emanare tale decreto. Ed è certo che esso, io credo fermamente, non può le leggi degli dei Celesti sconvolgere. Leggi non scritte, eppur incrollabili, invisibili ed eterne, esse sono leggi viventi; nessuno sa quando nacquero ma certo non periranno. E violarle e renderne ragione ai Numi, non potevo io, solo per timore di un superbo e mortale. Ch'io morir dovessi, ben lo si sa, anche senza il tuo annuncio. Cosa importa se un poco prima o un attimo dopo nell'eterna processione. Ma se il figlio di mia madre avessi abbandonato, allora sì, meritata sarebbe la mia condanna. Tu dirai che da folle io mi sono comportata; ma forse di questo m'accusa un folle.
CORO: Fiera figlia di fiero padre: non cede ai mali.
CREONTE: (rivolto al coro) Già, ma è il rigidissimo ferro temprato al fuoco che vedo spesso infranto. Costei diete prova del suo peccato quando violo' la legge: e ora, con la sua superbia. Se non subisse la pena io non sarei più uomo, ma lo sarebbe lei, e sarebbe il suo trionfo. Non potrei volgere lo sguardo anche se mi fosse figlia, e sua sorella pure sono costretto a incriminare. In casa poco fa la vidi, che sembrava uscita di senno. Chi trama infamie, infatti, si lascia cogliere da panico. E chi, sorpreso nel delitto, vuole ad ogni costo esaltare il proprio delitto con grandi discorsi. Io aborrisco tali cose.
ANTIGONE: Cosa puoi di più che prendermi ed uccidermi?
CREONTE: Nient'altro, tuttavia ciò basta.
ANTIGONE: E allora cosa aspetti? Le tue parole mi danno noia, e credo che sia lo stesso per le mie a te. A mio fratello ho dato sepoltura; per me non c'è gloria più alta. Se anche solo questo avessi fatto da quando sono nata, alla mia vita basta. E ognuno dei tuoi sudditi mi darebbe onore se la tua tirannide non frenasse il gesto. E' uno dei tanti privilegi del tiranno.
CREONTE: Tu dunque vedi ciò che gli altri non vedono.
ANTIGONE: Io vedo loro, che per piacerti, tacciono.
CREONTE: Sola tu, si direbbe quindi, sei saggia in questa città?
ANTIGONE: Non occorre essere saggio per sentire giustizia nell'onorare un consanguineo.
CREONTE: Anche se fratello non era pur tuo nemico?
ANTIGONE: Certo: ma comunque nato da mio padre e da mia madre.
CREONTE: E credi lecito onorare tale parente fino ad offenderne un altro, che invece ti è più che amico?
ANTIGONE: Ciò non lo direbbe quello che è stato gettato in terra.
CREONTE: Già, se solo l'empietà al suo pari tu onori.
ANTIGONE: Non uno sconosciuto e servo è il caduto nel fango: ma mio fratello.
CREONTE: E non consideri, tuttavia che egli assalì Tebe mentre a difenderla c'era l'altro tuo e suo fratello: Etèocle, morto addirittura per sua mano.
ANTIGONE: Credi che non lo sappia. Ma gli dei vogliono per tutti i riti funebri.
CREONTE: Purché non siano eguali per il buono e per il crudele.
ANTIGONE: E chi può veramente giudicare tra i mortali, cechi e famelici, se questo è pio e quello è marcio?
CREONTE: Un nemico è un nemico e basta, tuttavia, e neanche morto; neanche morto! ci potrà essere caro.
ANTIGONE: Io sempre conservo i miei amori e dimentico tutti gli odii. Tu, forse, hai altre abitudini?
CREONTE: Femmina, se allora hai bisogno di tanto amore, negli Inferi scendi, ed amali tutti quelli di laggiù; ma mentre Creonte vive, in Tebe, mai comanderà una donna.
(Sulla soglia della reggia appare Ismene)
CORIFEO: Ecco giungere Ismene. E' già alla soglia. Lacrime versa. E, come una nube, il fraterno amore deturpa il volto. Di sofferenza in sofferenza si bagnano le guance di lacrime che, floride erano, ora languono.
CREONTE: Tu!? Tu, che come una vipera in agguato stavi nella mia casa – senza che io ne sapessi nulla, anzi, che per questo nutrivo, per il mio trono, un duplice sterminio, un crollo irreparabile – puoi confessare che tu, tu! tu fosti partecipe nel dar sepolcro al nemico di Tebe o invece, addirittura, puoi giurare di non saperne nulla?
ISMENE: Come posso negare, se costei consente? Sì, io confesso: complice sono, anche mia è la colpa.
ANTIGONE: Ma non lo consente la giustizia: dato che né tu lo volesti, e né compagna io ti ho avuta nell'opera.
ISMENE: Ma non mi pento di esserti stata compagna nella pena che nel mio petto e nel tuo esplose e ancor vi trama.
ANTIGONE: Non usurperai ciò che non ti appartiene: chi compie' l'opera, i defunti e gli dei riconoscono; e a me chi m'ama a parole, a me, non piace.
ISMENE: Ti scongiuro, sorella mia, non reputarmi indegna poiché con teco voglio morire, e con te voglio onorare il nostro sangue.
ANTIGONE: Nessuno... nessuno ti obbliga: a morire con me non devi, e appropriarti di ciò ch'è di altri tu non puoi; infine al cielo basta... basta la mia morte.
ISMENE: Ma se tu mi lasci, quale piacere mi terrà in vita?
ANTIGONE: E a me lo domandi? Qui hai Creonte! Hai il re. Non è il tuo tutore, il re!
ISMENE: Perché mi strazi pur non avendone vantaggio?
ANTIGONE: Se è per questo io di te rido; eppure soffre il mio cuore. Salva te stessa: invidia io non ne avrò. Tu la vita scegliesti, ed io la morte. E allora chi fu saggia lo sia ancora, tra noi due!
ISMENE: Non puoi negare che entrambe cademmo nell'errore.
ANTIGONE: Ma tu vivi; mentre è da gran tempo, ormai, che è morta l'anima mia: tra poco essa potrà giovare solo ai morti.
CREONTE: Basta! Di queste una si svela demente, l'altra lo è da quando nacque.
ISMENE: Il senno, o gran re, quando accade una terribile sciagura, non resta neppure dove esso è principe, anzi, proprio di la' fugge.
CREONTE: Lo so; fuggì da te, quando decidesti di accompagnarti ai traditori.
ISMENE: Come tu vuoi. Ma io non posso vivere senza costei?
CREONTE: Ancora non ti accorgi di parlare di chi in vita già più non è.
ISMENE: O re... vuoi dire, davanti a tutti, che tu ucciderai la sposa di tuo figlio?
CREONTE: (come se per un attivo avesse intravvisto qualcosa che gli era nascosto: lento:) Di mio figlio... (incalzante) Io ti dico che altri solchi da arare ci sono, e saranno arati.
ISMENE: Ma lui ama costei!
CREONTE: Ebbene, per i mie figli queste femmine non sono adatte!
ISMENE: Come, diletto figlio, Emone, tuo padre ti offende!
CREONTE: E tu mi hai annoiato con queste tue bizzarre preoccupazioni.
CORO: Vuoi davvero togliere costei al tuo amato figlio?
CREONTE: Ade troncherà queste nozze per me.
CORO: Ahimè! Sembra ormai decisa di lei la morte.
CREONTE: (al coro) Da me, da voi, da lei stessa e da tutta la città, è decisa la sua morte. E non si perda tempo. Dentro, servi, traetela; e sian solo femmine d'ora in poi, e come tali saranno trattate; né permettete che si liberino: i temerari impareranno. Essi impareranno a ben comportarsi dal loro esempio.
(Antigone ed Ismene sono trascinate dentro. Creonte s'allontana)
PARTE IV - SECONDO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO: Strofe prima
Beato chi trascorre la vita lontano dai mali. Quando invece l'ira degli Inferi entra in un casa, nessuna sciagura a quella famiglia sarà risparmiata.
Antistrofe prima
Le antiche e marce radici io vedo in questa casa rispuntare: né tregua alla stirpe è concessa, né riscatto a chi riscatto non prevede. Ed infine, sui figli di Edípo pareva che una luce brillasse; ahimé, come la polvere sanguigna dell'Ade, e il delirio della mente, la spengono.
Strofe seconda
Quando la tracotanza degli uomini giunge al suo apice, Giove non può frenare la sua forza, ne' dai funesti lacci liberare chi è ormai stretto quale preda del Sonno. Questa è la legge: nella vita degli uomini nessun eccesso resterà senza pena, né libero l'uomo che quell'eccesso ha sognato, desiderato e attuato.
Antistrofe seconda
Una parola fu detta dalla saggezza di un uomo: Spesso il peggior male sembra un bene a chi la mente ha volto alla rovina. E dalla rovina ben poco tempo egli ne resterà lontano.
(Esce dalla reggia Creonte, e poco dopo appare anche Emone)
CORIFEO: Creonte, ascolta; ecco Emóne. Ascolta o Creonte. Egli è il più giovine dei tuoi figli: come puoi vedere egli è preoccupato, e avanza oscuro verso di te, per la sorte di Antigone, sua sposa promessa. Egli è pieno di dolore per il destino della loro unione. Egli...
CREONTE: Egli vedrà molto presto, e meglio di tanti profeti, qual'è il vero bene, se è mio figlio. (Ad Emone) Udisti la condanna della fanciulla a te promessa, o figlio, e per questo arrivi qui con risentimento verso tuo padre; oppure malgrado qualsiasi cosa succeda, sempre a te sarò caro?
EMONE: Padre, non sono forse tua discendenza? Da sempre mi hai indicato la via e io l'ho seguita e la seguo: io ti dico che non ci saranno nozze che non siano nella tua saggezza, io non considero pregevoli più di essa altre cose ancora.
CREONTE: Ecco! Questo è l'animo giusto: I giovani dabbene devono posporre ai consigli paterni ogni cosa; tali figli onorano la casa e la città tutta. Ma chi genera invece figli ribelli inutili li prepara al mondo e alla loro stessa vita. Bravo figlio, vedo che nessuna femminea grazia ti ha fatto uscir di senno. Freddo, infine sappi, è il loro amplesso: piaga peggior non c'è che darle amore, spendervi fiducia. Sputa invece su lei, come nemica, in specie lascia questa fanciulla, lascia che qualcun altro negli Inferi la sposi. Devi sapere che io l'ho colta mentre, sola fra tutti, tradiva la città nostra. E io, innanzi a Tebe, non mancherò alla mia parola. Anzi, l'ucciderò: Lamenti elevi di dolore ella. Invochi Giove in persona. Se io lasciassi i miei stessi parenti senza freno, che cosa faranno gli estranei? Male maggiore non esiste che la mancanza di ordine: ed è per essa che vanno in rovina le città. È necessario dunque difendere sempre le leggi, e a nessun patto consentir che una femmina ci vinca. Se cadere si deve, meglio cadere per mano di un uomo: dir non si potrà che noi fummo più fiacchi e flosci, e inutili, di una femminuccia ostinata e vendicativa.
CORO: Giusti, se pur qualcosa vi è di strano, i “suoi” pensieri. E apprezzabili, se già l'età non ci ha tolto il senno senza far rumore, ci sembrano... leggermente, i “suoi” detti.
EMONE: Padre, agli uomini gli Dei concedono, quale supremo bene, l'intelletto. Io non riesco a dire ancora se sia giusto o sbagliato ciò che dici. Mi pare di non riuscire a saperlo. Ma pure, anche un'altra via ci sarebbe. Vogliamo esplorarla insieme? Vogliamo? Bene. Vedi, per tuo vantaggio ho investigato tra i cittadini. Non essendo te li ho potuti trovati sinceri e veri: in verità essi temono offenderti. Ebbene nessuno, dico nessuno, condivide la tua decisione: la città intera commisera questa fanciulla, perché ella è immacolata e amata più di ogni altra donna...
CREONTE: Cosa stai dicendo?
EMONE: ...e che, comunque, ha compiuta un'opera alfine nobile, dato che la pietà è sempre la parte più nobile ed eterna di un uomo.
CREONTE: Un uomo!?
EMONE: E malgrado questo, in cambio della sua onestà e intelligenza, ella è ripagata con la morte. Non è invece degna d'esser coperta d'oro quella donna coraggiosa che ha onorato il proprio fratello, anche se nemico, e facendo questo anche la nostra stessa città per aver tale figlia? Certamente, a questo punto, il popolo la considera amatissima dagli Dei. - Ecco la verità, le voci che nascostamente serpeggiano in ogni casa del tuo regno, perché non si fidano della tua saggezza. Io invece parlo proprio alla tua saggezza: Vedi presso i torrenti impetuosi, gli alberi che si flettono, intatti i rami serbano: quelli che invece fanno contrasto, presto ne sono spezzati o divelti dalle radici, e piombano a terra. Su via, l'ira tua frena, e dai nuovo respiro al tuo parere. Che per il vero uomo non è mai finito il tempo di apprendere e crescere
CORIFEO: Ascoltalo, o re; lui ti ha ascoltato: e bene diceste entrambi.
CREONTE: Cosa mi si dice: che devo ora imparare anche da un giovinastro?
EMONE: Se per inseguir la giustizia è sano non guardar la mia giovinezza; ma il senno che vedi attraverso la saggezza tua.
CREONTE: Quindi fare onore ai ribelli, è un'opera buona?
EMONE: Quando io ho detto questo?
CREONTE: Come, non è costei macchiata di tradimento?
EMONE: Tutto il popolo di Tebe dice di no.
CREONTE: Il popolo di Tebe dirà a me ciò ch'io debbo fare? Il popolo?
EMONE: O Zeus, non ti accorgi come ora da fanciullo tu parli?
CREONTE: Insomma mi stai dicendo che altri devono regnare per me?
EMONE: No! Ma quale città si può chiamare tale quando uno solo vi comanda e tutto gli soggiace.
CREONTE: E da quando la città non è del sovrano?
EMONE: E tu in un deserto che bel sovrano saresti!
CREONTE: Costui, sembra chiaramente un alleato della femmina!
EMONE: Facendoci femmine chiediamo necessariamente che a noi qualcuno provveda.
CREONTE: Ribaldo, già alla lite ti muovi contro tuo padre, il re, per sua influenza?
EMONE: Perché vedo che sbagli, e sento che si allontana da te la giustizia.
CREONTE: Sbaglio, rispettando i miei diritti; ed esercitandoli oltraggio la giustizia? O infame servo d'una femmina! Tutto ciò che tu dici è per difenderla. Tua sposa, in questa vita? Oh! Come non lo sarà mai!
EMONE: E sia, se questo la tua tirannide vole al di la di ogni lume. Bene, ella morrà; ma non morirà da sola.
CREONTE: Minacci? Tu mi minacci? Basta! Non cianciar più che sei solo lo schiavo d'una femmina. Pazzo! Ah, dovrai piangere! Recate qui l'odiosa femmina, perché deve morire innanzi al suo sposo, meglio ancora: al suo fianco.
EMONE: Innanzi a me? Tu vuoi ucciderla davanti a me? Dov'è il pazzo? Chi è nella peggiore tra le umane follie? Non lo sperare, no! Ella a me presso non morrà, né tu vedrai mai più il mio viso: resta nel tuo delirio e io ti dico che solo in esso troverai i tuoi amici.
(Esce furibondo)
CORIFEO: O Creonte, o re, non vedi che si allontana nell'ira il giovine; alla sua età tale sentimento e nefasto.
CREONTE: Faccia quello che vuole; ma non farà alcun che; specialmente salvare queste fanciulle.
CORIFEO: Dunque, tu ucciderai l'una e l'altra?
CREONTE: Hai ragione. Quella che non peccò, no. Tu dici bene.
CORIFEO: E allora? di quale morte la onorerai, invece?
CREONTE: Di un'altra morte la onorerò: la condurrò in un sentiero dove non passi uomo, e la la seppellirò viva. Forse così, addirittura, otterrà di non morire; o forse apprenderà solo nella sua agonia quanto è superflua pena onorare quei che in Ade giacciono. (Si allontana)
PARTE V - TERZO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO: Strofe
Amore, alieno eppur presente nelle battaglie, Amor, che ergi e dirami le contese, che dimori sulle belle gote delle vergine, che aleggi sul mare, e che sopra le agresti case tu t'aggiri, nessuno ti evita, e nessuno lo può, neppure gli dei eterni, e né alcun degli uomini, che un giorno appena vivono, e tutti i cuor delirando t'invocano, assetati aspettano che tu li pervada!
Antistrofe
Amore dagli infiniti occhi, guarda questa battaglia accesa tra padre e figlio. Ebbene, cosa possiamo sperare da te per tale attrito? O Amore, di quale germe o gelosia o riscatto qui giunto è l'artiglio?
(Dalla reggia esce, fra le guardie, Antigone condotta al supplizio)
CORIFEO: E ora anch'io dalle leggi distolto sento il cuore, a tal vista, e le lacrime fermare non so. Antigone io vedo affrettarsi al giaciglio ove tutti han riposo.
ANTIGONE: Strofe prima
O miei cittadini, guardate me che l'ultimo tratto percorro. Gli ultimi raggi del sole io vedo, e né mai più li vedrò. Ora che, viva ancora, Ade, che tutti accoglie, me trascina: dico addio ai miei sogni di sposa; le mie uniche nozze saranno negli inferi celebrate dato che sarò la sposa del Nume della Morte.
CORIFEO: Antigone gloriosa, tu sei lodata. In vita non fosti toccata da alcun morbo letale, né di spada fosti ferita; ma, sola fra gli uomini, all'Ade, ancor viva scendesti poiché tu volesti, e lo potesti volere. Per tale coraggio tu, mortale, di stirpe umana, anche morta, sarà vanto che il destino di vita e di morte pari avesti coi figli degli Dei.
ANTIGONE: Strofe seconda
Ahi, già mi schernite! Deh, pei Numi patrii, perché non attendete ch'io sia lungi, e l'ingiuria mi scagliate sul viso, o patria, o della patria cittadini opulenti? Oh misera me! Ospite non di vivi né di morti, non di ombre né di uomini sarò.
CORIFEO: Giunta a questo punto sai dirci se, forse, qualche fallo paterno tu espii.
ANTIGONE: Antistrofe seconda
Adesso hai toccato la pena più dolorosa; il pianto travagliato del padre mio, di tutta la sciagura che è caduta sulla nostra famiglia. Oh, bruttura del talamo materno, oh le incestuose nozze della mia infelice madre, da cui io, ben misera, nacqui! E deve essere tale maledizione che muove i miei carnefici, e in loro trova soggiorno. E tu fratello mio, quali tristi nozze avesti in tuo retaggio! Morendo, distruggesti anche me, che appaio ancora in vita.
CORIFEO: Santo è dei morti il culto; ma chi stringe il potere, il potere violare non può.
(Giunge improvviso Creonte)
CREONTE: Or non sapete che non è lecito parlare a chi è destinato alla morte? In fretta conducetela via? Nella profonda tomba, come vi ho imposto, sia rinchiusa, e sola vi sia lasciata. Il suo sangue sarà comunque nelle nostre mani; ma sarà priva del consorzio umano.
ANTIGONE: O mia nuova camera nuziale, ove m'avvio veloce verso i miei cari, già ospiti di Persèfone! E, lí discesa, spero giunger gradita a mio padre, a te diletta madre, madre diletta, o a mio fratello, a te fratello mio. Quando moriste, io vi lavai con queste mani, vi vestii, v'offersi le libagioni funebri. E benché per onorati io morirò, pure, per quanti possano comprendere, io bene feci ad onorarti. Se morto uno sposo mi fosse, un altro sposo avrei potuto avere; e un altro figlio da un altro uomo, se un figlio era la perdita. Ma poi che padre e madre serano morti, nascere non poteva un altro fratello. Per questa legge onor ti volli rendere più che ad altri, o fratello. Ma gli occhi agli Inferi a che ti giova rivolgere ancora? Quale alleato invocherò, se per essere pia fama di traditrice ho ottenuto?
CORIFEO: Gli attacchi della tormenta ancor costei signoreggia.
CREONTE: E per questo, color che la guidano piangeranno la loro lentezza.
ANTIGONE: Ahimè, com'è questa parola vicina alla morte!
CREONTE: Non sperare che gli eventi possano cambiare.
ANTIGONE: O voi, signori di Tebe, guardate che debbo soffrir, da quali uomini, perché pietosa volli essere, io, come ogni cittadino dovrebbe. Io, sola superstite del sangue dei veri re.
(Antigone esce)
PARTE VI - QUARTO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO:
Ed ora, o figlia mia, o figlia mia di nobile sangue, il Destino ti mostra grave la potenza sua; e non armi e non ricchezze, né torre o negra nave che solca ogni mare, potrebbe evitartene il peso.
(Giunge Tiresìa,* il vecchia profetessa cieca, storpia e accatarrata, guidata per la mano da una
giovane fanciulla)
* L'accento è sull'ultima i.
TIRESìA: Siam qui, carissimi principi di Tebe; (alla sua guida) famme fa n'ata corsa sfrenata com'a' chesta e t'ammaturo s'a' coccia vacanta che te cunsirvi! Dicevamo... Sicuru che stri quatto arruvinati...
ANCELLA ACCOMPAGNATRICE: Sssss... Sono tutti qui presenti... in ossequioso silenzio.
TIRESìA: E sì. L'avesse dovutu accapisce dalla puzza. Principi de Tebe, co' gli' occhie de chesta gioane sfrenata, de tuttu, m'aggio dovutu fa sta' camminata, che si me la risparmiavo non me poteva fa che bene.
CREONTE: Qual nuovo evento c'è, vecchia Tiresìa?
TIRESìA: Mo te lo dico; sì già me dici che me criti, ca' non tengo tempo da perde. Specialmente co' te..
CREONTE: Mai ti ho negato la mia fiducia.
TIRESìA: E me pare che pe' chesta stu' paese, fin'a' mo' è iuto bbono.
CREONTE: Io ne sono testimone primo: di grande utilità sono sempre stati i tuoi consigli.
TIRESìA: E m' stai 'ncoppa agliu scriffunu appisu. Che volemo fa'?
CREONTE: Tiresìa, perche queste parole? Io le odo, e sento i brividi.
TIRESIA: Chistu fa gliu scemu o' c'è ormai de casa? Scota! 'Ntromento i' m'assettavo alla seggia degliu sguardu profeticu, addo' tutte le porte de ogni sapienza. A nu' certu punto nu' svulacciu sentette d'aoceglie.
CREONTE: Perdonami, Tiresìa. Ma se parli come la Custode qua non ne veniamo fuori.
TIRESìA: Uno schiamazzo strano di uccelli, un canto esasperato di aglimali che sderraiavano senza apparente motiu, co na' voce brutta e da aglimale...
CORIEFE: Se erano uccelli...
TIRESìA: Na' voce brutta e 'nsanguinata. Era chistu nu' signu. I' poverella, cioncata come poche voti, 'ncoppa agliu raru súbbito aggio appicciatu lo foco; 'nfocato, 'ngrifatu e iautu.
CREONTE: Che cosa meravigliosa. Però più piano, più piano. Dico, con questa parole straniere.
TIRESìA: A chigliu puntu 'ngingamo a fa' gliu sacrificiu. Co' tantu foco arrrevotatu sa' che sacrificiu. Ma, cosa sconceca, scura e saettosa: puri co' tale calima de foco e de fiamma non 's'appiciava nu' ...
CREONTE: Tiresìa. Sei al cospetto del tuo re e della sua corte.
TIRESìA: Non s'accese neanche un pelo. Nemmeno nu' piru de chigliu pecoro pigliette foco. Anzi: anzi, dagliu celo cadette cert'acqua puzzolente, e gliu pecoro morto se mettette a fuma', po' dalla panza gli schizzàrono fore aria e fele, e le urella gli si sparpagliavano pe' ghiece metri atturnu; e le ossa se ne sceono da sole, 'nsanguinate e gniure, gniure scettero le coratelle. Mai sacrificiu cchiu' streuzu è mai sciutu pe' le mani mei. No' co' gli'occhie mee tali cose haggio vistu, ma sta sciagurata me n'ha parlatu: e aggio sentutu, toccatu e annasatu. E mai gli'avesse cretutu si 'ntromento lo raccontàa essa non surava coma a cavagliu 'mbizzarritu. E mo' sto' ca'. Crionta,
CREONTE: Creonte.
TIRESìA: Chi è chissu, mo'?
CREONTE: Sono io.
TIRESìA: E te chiami da sulu??
CREONTE: E' solo per dirti qual è il mio nome...
TIRESìA: Ma chistu è nu presaggiu grave assai. Grave e bruttu! Che scampo po' ave la città e tu co' essa, co' tuttu chesto. Gli Dei non te vonno' mancu 'cchiu' senti' pe' puzza. Perciò, figliu, vi de fa caccosa: Mo'. mo'... aggenocchiate agliu morto. Non cerca' de gli'accite ate vòti ancora. E statte attento. Statt'attento. Sulu pe' lo bene téo parlo, pènsece; Scotà chi già tantu t'ha sanàtu gliu curipizzu, e paricchi vote. Sarvarese è robba da ommene e no' da pazzi.
CREONTE: Come siete bravi a scoccare le vostre frecce tutti quanti, o vecchia,: né sempre illeso son rimasto pur dall'arte dei profeti. Sì! Che questa specie di gente cerca di far lucro in tanti modi; eppure non può superare, neppure attraverso il più grande sforzo la gloria di Giove e i suoi volerei. Anche nei più scaltri i loro progetti cadono, vecchio Tiresia, turpemente cadono, quando li induce a turpi detti il lucro.
TIRESìA: Chistu sta' a da' de coccia! Pensa, Craonto...
CREONTE: Craonte.
TIRESìA: N'ata vota chistu? Ma chi è?
CREONTE: Sono sempre io. Era per...
TIRESìA: Aaaah!, come cazzarola te chiami te chiami, pensa! Cari vecchie azzifiliti, vui che...
CREONTE: Che cos'è questo? Quale domanda vuoi fare a tutti ora?
TIRESìA: Sì aspitti la sentemo. O te 'ngenne si caccherunu parla senza la capezza tia?
CREONTE: Quanto stoltezza è nelle tue strane parole.
TIRESìA: E de tale malatìa annervatu tuttu tu ne sine.
CREONTE: E no, con la profetessa scambiare non voglio oltraggi, anche se femmena.
TIRESìA: Lo stai a fa', e puru da scustumatu. Quanno 'aggio dittu lo fausu?
CREONTE: La genía dei profeti è avida, e quella delle donne è infida.
TIRESìA: La razza tìa è scema, e a chella degli re, spissu, gli piaciono sulu gli guadagni disonesti.
CREONTE: Ma tu non ti rendi conto che stai parlando con re?
TIRESìA: E pe' sforzu de chi tu si re?.
CREONTE: Tu parli bene, quasi; ma ami fare il male.
TIRESìA: I' non volesse parla', ma si tu me sfurcunii gliu mentone...
CORIFEO: Cos'è “gliu mentone?”
TIRESìA: Nu' depositu strachinu.
CREONTE: E tira fuori, allora... Tutto. Forza.
TIRESìA: Tu sì capace de vede' dento alla coscienzea mia la raggione pecché i' faccio tuttu chello che faccio?
CREONTE: Ma non potrai distogliermi dai miei disegni.
TIRESìA: Scota co' tuttu chello che pu': aspettà non tanti aggiri degliu sole 'ncelo e potrai vedé che n'ome dello sangu téo, come cadavere tu scagnerai co' atu cadavere, ca', senza onore, a n'anima screffonnerai agliu 'Nfernu, e a n'atu che agliu 'nfernu appartene ancora come carne macia tine ittatu alla monezza. E tale dirittu tu non tine. Nimm'ancu gli Celesti dell'Olimpo chesso ponno; sulu tiu è tale schifu. Già l'Erinni, della Vendetta, chiene de essa, a te stanno a cerca'. Giudica mo' si da quale oru accattatu i' parlo. Quale'è gliu guadagnu meo a dice chesto a nu' re? Non perde tempo 'nmece, prima che da ogni casa che t'appartene piglia vulu' nu sderraiu de morte. Tutte le femmene della città, pe' le disgrazie de ogni casa, te cercheranno co' lo fele agli'occhie te troveranno, pecché da esse tu scappà non'pune, pecché so' mamme e sore e so' figlie. - (Disgustata, rivolta alla sua ancella) Vaglio', porteme alla casa ca ca' è megliu che non rimanemo. (Rivolgendosi di nuovo al re) E 'mpara a parla co' gli vagliuni ca' pe' issi tuttu chesto tène*. (Parte)
*: Tiene, è ancora presente; esiste
CORIFEO: Dopo tali tremendi vaticinî, o re, il profeta è partito.
CREONTE: E che forse non l'ho visto!? Era ora.
CORIFEO: Ed io ben so: da quando il crine mio bianco divenne da nero, a Tebe egli mai non disse il falso.
CREONTE: E credi che io non lo sappia? Io lo sò: perciò ho il cuore sconvolto. Cedere è duro; ma nella sciagura la resa sarà ancora più vergognosa.
CORIFEO: Conviene a questo punto, forse Creonte, al buon consiglio attenersi.
CREONTE: Che devo fare? Dimmelo, e lo farò.
CORIFEO: Vai alla stanza sotterranea e libera la fanciulla, e al defunto invece innalza un tumulo.
CREONTE: Faccio forza a tenermi in piedi al solo pensiero, ma indugi ora avere non conviene: contro il destino stesso una guerra sarebbe inutile.
CORIFEO: Or va', ad altri non dare incarico.
CREONTE: Andrò. - Forza, miei servi, prendete le asce e al poggio venite con me. Io stesso, io stesso, sarò a sciogliere ciò che legai dato che infine, penso sia meglio vivere con qualche compromesso accettato che dalle sciagure orrendamente avvinto, (Esce in fretta coi suoi seguaci)
PARTE VII - QUINTO CANTO INTORNO ALL'ARA
CORO: (ripete tale frase in crescendo mentre sale anche il canto dei due corifei)
Oh dominatore degli astri di fuoco, o signore dei riti notturni, figliuolo di Giove, móstrati ora insieme allo sciame di Tíadi di Nisa, che ebbre sempre ti seguono, e danzando per tutta la notte, delirano per Bacco seminatore di fortuna.
CORIFEI : Orgoglio di Sèmele, Dio dai molteplici nomi, che Italia proteggi, e che regni sui piani ospitali d'Elèusi sacri a Dèmetra, volgi a noi lo sguardo.
Posati sui clivi dei monti di Nisa, e la verde pianura feconda di grappoli, fra rivi di sacro clamore di cantici. Viene, t'invochiamo a mira di Tebe, contrade e vedute.
Di Tebe, che a te è cara molto più di ogni altra città, al par di tua madre, dal folgore spenta.
Da un morbo, da morbo terribile, ella ora è tutta invasa. Con la potenza del tuo piede salvatore valica il giogo parrasio, o il gorgo sonante del mare.
Oh dominatore degli astri di fuoco, o signore dei riti notturni, figliuolo di Giove, móstrati ora insieme allo sciame di Tíadi di Nisa, che ebbre sempre ti seguono, e danzando per tutta la notte, delirano per Bacco seminatore di fortuna.
(Giunge correndo, esterrefatto, un Messo)
MESSO: Lontano da me elevare lodi o lamentare biasimi. Che non sia mai; perché Fortuna suscita ed atterra misteriosamente l'avventuroso e il misero eternamente, tanto che non vi è profeta il quale possa assicurare agli uomini quanto duri il presente. Forse non era Creonte degno un tempo d'invidia? Da quanti nemici egli liberò questa terra e, solo, fu sovrano di tutto il regno, e lo guidava, verso una florida meta con l'onore di suoi figli ben nati. Non è forse vero tutto ciò? Ma adesso tutto ha perduto. E come si può reputare un uomo che non ha più alcuna gioia nel suo cuore? Che respiri oppure no, la sua anima già langue negli Inferi. Accumulate se potete nelle vostre case ricchezze, cercate di vivere nel fasto e nel potere: se godere della vostra vita vi è vietato, a che vi giova? Siete ombre che cercano di darsi forza nutrendosi di fumo.
CORIFEO: Quale grave fato è accaduto ai regnati?
Entra non vista Euridice, resta seminascosta dietro una colonna ad ascoltare.
MESSO: Son morti; e la colpa l'hanno quelli che sono vivi.
CORIFEO: Chi è l'assassino? E chi la vittima? Parla.
MESSO: Emone è morto, e per la propria mano.
CORIFEO: Come, la profetessa, predisse il vero!
MESSO: Da ciò possiamo al resto.
CORIFEO: Ecco Euridice, la sposa di Creonte, misera io la vedo. Che abbia udito della sorte del figlio?
EURIDICE: Infatti. Le parole vostre ho udito, mentre esse mi trafiggevano. Come il suono della mia sciagura mi percuote ancore le orecchie; e delle chiedo sostegno. Ma, raccontatemi come è potuto accadere. Non sono impreparata alle sventure; vi prego.
MESSO: O sovrana diletta, io ero presente. Col tuo sposo mi ero mossi fin dove giaceva il corpo ormai putrido. Ed esso purificammo; sopra i poveri avanzi ardemmo rami secchi, ed erigemmo un tumulo. Dopo di ciò giungemmo alla caverna d'Ade, li dove giaceva la fanciulla. Ed ecco, uno dei nostri soldati ode da lontano, verso quel sepolcro, il suono di acuti ululi, e corre, e al ritorno a Creonte ne reca l'annuncio; e quando questi, più si fa vicino, un indistinto suono l'avvolge di disperazione; e egli singhiozza, lagrima, e grida; «Misero me? Questa è dunque la via più funesta tra quante io ne abbia mai percorse? Non è questo il lamento mortale di mio figlio? Correte presto, correte verso il tumulo, li dove il vano s'apre entrate, e alla tomba accostatevi. Ve ne prego, guardate se la voce è d'Emóne quella che ascolto, o se di me si fanno gioco gli Dei!» E noi guardammo: in fondo alla tomba, al colo stretta da un laccio di lino vi era appesa la fanciulla, ed Emone era presso lei, che, abbandonato a mezza vita, la stringeva, e le nozze piangeva perché distrutte nell'Averno, e malediceva le opere perverse del padre, e l'infelice letto nuziale dove ora era. Come vide il padre, levò un orribile gemito, gli si avvento contro, e con un urlo a lui si volse: «Povero figlio mio, che fai qui? Perché sei venuto? Quando hai cominciato a perdere la ragione, per arrivare a questo? Vieni via, figlio mio, ti prego, ti scongiuro!» - E il figlio con occhi da belva assetata di sangue guardò, e gli sputò sul viso, ma nulla disse. Poi la spada trasse dal fodero. E a quel punto il padre fuggì via; né quei lo rincorse; ma si gettò sulla sua stessa spada, e la confisse in mezzo al petto. E, ora dopo che tali ultimi riti funebri e nuziale egli compì, ancora è stretto al corpo di lei, insegnando agli uomini che tra i tanti pessimi mali dell'umanità intera il peggiore è l'avventatezza.
(Al fine del racconto, Euridice fugge di corsa)
CORIFEO (Veduta fuggir la regina, si volge al messo): Quale ora il tuo commento di tutto questo? E perché la regina è andata via senza dire parola alcuna, né triste e né lieta.
MESSO: Stupisco anch'io. Ma temo che, udita la sciagura del figlio, i suoi lamenti non voglia rivolgere al popolo, anzi nel domestico cordoglio, insieme alle sue ancelle, piangere su tal dolore. No è la nostra regina priva di senno; non andrà errando per vie oscure.
CORIFEO: Forse. Ascolta. Tendi l'orecchio. Cosa si ode? Nulla; assolutamente nulla. Noi sappiamo, ahimé, che un estremo silenzio è parli solo alla peggiore delle disperazioni.
MESSO: Tu dici? Allora entro nelle sue stanze: perché sento che tu ben parli.
(Entra nella reggia)
LAMENTAZIONE CORIFEO: Guardate tutti, vedete, ecco lo stesso sovrano che giunge, porta se dirlo è pur lecito, il segno dell'errore, che solo suo fu, e non di altri.
(Entra Creonte, seguito dai servi che recano il cadavere d'Emone su una bara)
CREONTE: Strofe prima
O terribili nefasti pensiere che a tutto ciò portaste! Uscire da una stessa madre vedete uccisori ed uccisi. Ahimè, a quali successi la mia saggessa è giunta! Figlio, immaturo e immatura morte, maledetto me, che tu soccombesti, tu sparisti, non per la tua follia ma pei a mia!
CORIFEO: Perché così tardi senti della giustizia il fiato?
CREONTE: Sciagurato ho appreso, e col peggior danno della funesta ira con cui un Dio ci può colpire. Ora ogni mia gioia sotto i pie' travolse. Ahi, quanti travagli, mostruosi e terribili, possono piegare il cammino dei mortali.
MESSO: O re, questi mali tu tra le braccia, ma altri tu ne vedrai, appena varcherai della tua casa la soglia.
CREONTE: Che dici? Che dite tutti voi; cosa vi può essere peggiore di questo?
MESSO: La tua sposa è morta; o sciagurato re, la madre di questo tuo figlio esanime si è trafitta or ora!
CREONTE: Antistrofe prima
O fauci dell'Inferno, che implacate mordete, perché tardate ancora a trascinarmi nel vostro ventre? Tu, che tali nuove orride notizie dai, parla; perché finisci un uomo che è già defunto? Che dite, vi è altro ancora?? Ahimè, ahimè, perché mille morti non ne evitano ancora una peggiore! Ma non è vero! Non può essere vero...
(S'aprono le porte e si vede Euridice spenta)
CORIFEO: Ora tu puoi vedere con i tuoi stessi occhi o Creonte: nulla ti è più nascosto.
CREONTE: (pausa lunga)......Ahimè! (quasi sottovoce) vedo che ben non ero preparato alle sciagure. Il sapore della mia miseria è abbondante nella mia bocca! Tale sorte ancora mi promette il peggio, e il peggio io m'attento? Tra le mie mani il figlio ed ora questa... nuova... salma... a me dinanzi. Io la vedo: madre meravigliosa, e sposa...mia, infelice! Figlia e... donna dolcissima. Ora io la vedo. ... Perché sol ora?
MESSO: Presso all'altar, levando pianti per il figlio spento e infelice, contro te per ultimo imprecò, che tuo figlio uccidesti, e tramuto il suo amore in un fiume di infausti eventi per la tua vita.
CREONTE: Strofe seconda
(quasi sottovoce, ancora...) Il terrore mi sale nelle vene e brividi di morte mi stringono il petto. (con violenza e forza, ora) Perché, perché nessuno giunge a trafiggermi con ogni ferro aguzzo il petto? Perché ora non vengo squartato vivo... Perché nessuno si muove in questa azione lecita, necessaria e doverosa? Ahime, schifoso rettile, in quale abbondanza di orribile destino!
MESSO: Altro scempio vuoi seminarti intorno?
CREONTE: E allora ditemi: come ha fatto a togliersi la vita, lei?
MESSO: Sotto il fegato, appena saputo del figlio, una sottile e lunga lama s'immerse.
CREONTE: Non su altri mai più la colpa della mia pazzia. Non lei! Io lo uccisa, non lei. Io ho affondato quella lama nel suo costato. Io!! Non le sue mani. E nessuno dica mai altra cosa. Io ho ucciso Euridice. Miei servi, conducetemi, presto: guidatemi lontano da qui, che non ho più forze perché già più io non esisto! Deh, facciamo subito che altro giorno io non sporchi con la mia nullità. Via, questo insano animale conducete, via!!!! Se pur amando così, e per tale amore quest'uomo il figlio uccise, e la moglie cara, e le altre persone vere, onorevoli e grandi, cosa si aspetta ancora a strapparlo immediatamente dal suolo dei vivi? Tutto intorno è rovina, e tutto questo è a me che si deve. A me solo!!
(Si allontana; trascinato via continua a ripeterlo gridando, è subito seguito dai Principi)
CORO: Prima di ogni altra cosa nella vita sarebbe bene cercare la saggezza. Essa apre la via al viver felici; né mai sacrilegio alcuno contro i Numi permette. Invece i gran vanti superbi, da duri castighi colpiti, ci ammaestrano troppo tardi a far senno.

EPILOGO. (dal Messo – c.s.-CORIFEO): Lungi da me a questo punto elevare lodi o lamentare biasimi. Lungi da me; perché Fortuna suscita ed atterra l'avventuroso e il misero eternamente: e lo fa nel mistero della sua mente, tanto che non vi è profeta il quale possa assicurare agli uomini un giorno o un attimo. Forse i vostri occhi non hanno visto re e imperatori elevarsi e signoreggiare su tutti? Dittatori governare le nazioni o i continenti? E voi, nella vostra invidia e nella vostra gelosia, non vi siete spinti a emularli? Non sapete che siete mossi solo da un geloso morbo e inconfessata? Ed è in tal modo che si costruiscono mortali trappole per i nostri stessi cari che a noi toglieranno il fiato; Così ci si ritrova per considerare nemici gli amici e amabile solo chi ci è utile per aver successo? E quale vero guadagno così ottenuto duri più di un attimo, lasciando nel cuore eterne e tristi macerie? Questa è la gelosia; un ospite appestante, un inquilino che ci alleviamo amorevolmente nelle case, nelle città e nella nostra carne. In realtà: non si può più reputare vivo un uomo se nel suo animo gioia più non scorra. Che respiri oppure no, che parli o taccia, lo spirito di questa creatura già langue nei profondi abissi. Tuttavia; accumulate pure; accumulate, se potete, nelle vostre case, ricchezze e beni, cercate di vivere nel fasto e nel potere: non è questo il male. Ma se alla fine di questi sforzi, ahimè, godere della vostra vita vi sarà impossibile, provare gioia vietato, a che vi serve continuare ancora? Siamo solo ombre; labili ombre; nient'altro che ombre: delle povere ombre oscure, che cercano di vivere; o meglio: di sopravvivere, nutrendosi di fumo, o di altre ombre ancora, se lasciamo che la gelosia ci tenga per le redini.

FINE