Artemisia: le tinte forti delle passioni

di

Aquilino






Il mio nome è Artemisia. Sono tornata per gridare le mie ragioni. Non per fare vendette, no. Ormai è tutto lontano, un paesaggio sullo sfondo. I miei tormentatori figurine senza più fisionomia. Io… io sono qui solo come idea. Il mio corpo polvere. La mia bellezza un fiore secco dai colori opachi tra le pagine della storia.
Tutte le vendette me le sono già prese, opponendo alle spade della virilità le pennellate della mia arte. Anche loro affondano nella carne, anche loro ne fanno sprizzare il sangue sulla tela, e sono ferite che non si rimargineranno mai, eterne come la mia fama.
Gridare le mie ragioni? Ci ho provato con la voce, ma nessuno mi ha mai ascoltata. Perfino sotto tortura la mia verità è sbocciata appassita. Confessa che non eri vergine! Ero vergine! Confessa che avevi altri uomini! Lui è stato il primo! Confessa che l’hai corrotto tu! Mi ha presa con la violenza! Confessa che ti piaceva, prostituta! Mi ha rubato l’anima, Agostino Tassi, l’anima con la violenza mi ha rubato, me l’ha torta e frantumata, l’ha strappata alla mia innocenza e buttata nel fango, rivestita di spine e ferri roventi, la mia anima violata.
Lui che io amavo o credevo di amare, ha deriso e insultato la mia passione, una passione sincera e ingenua; e dopo che mi ha rinnegata, io ho continuato ad amarlo. Così giovane, ero! Una bambina che giocava con l’amore. Questa è stata la mia condanna, di sentirmi umiliata e oltraggiata, schiacciata con disprezzo.
Ero un angelo, lui mi ha messo il diavolo nel cuore.
Ma io l’ho domato, il suo diavolo osceno. L’ho trasformato nel demone della pittura e l’ho cavalcato per tutti i cieli d’Europa, trionfante!
Non dite che sono una strega. Io sono un angelo conquistatore. Ho espugnato amore e ricchezza, fama e stima, ossequio e devozione. Il potere no, quello nessun uomo lo cede.
Ero donna nata per servire l’uomo, femmina votata alla sottomissione e al silenzio, al disprezzo e al sopruso. Ma mi sono ribellata.
Non griderò le mie ragioni, ma le mie passioni.
Sono stata innamorata e giustiziera, amante e madre, vittima e carnefice, ma sono stata soprattutto libera nei pensieri e nelle opere. Sono stata artista pur essendo donna, e donna pur essendo artista.
Il mio nome è Artemisia Lomi Gentileschi.
La mia vita la raccontano i miei quadri.

IL TELO BIANCO

Avevo appena diciassette anni quando dipinsi “Susanna e i vecchioni”.
Il telo bianco sulla gamba di Susanna è troppo piccolo per coprire la mia nudità. Seduta sulla fredda pietra, mi sento inerme, confusa, spaventata. Tendo le braccia per allontanare l’incubo e piego la testa per distogliere lo sguardo dall’orrore che mi sovrasta. Quasi abbracciati l’uno all’altro, i pesanti mantelli fusi in un triangolo che è l’occhio del dio biblico, Agostino Tassi e mio padre Orazio tramano la mia rovina. Le mie mani graffiano l’aria, vorrebbero tracciare un incantesimo che fermi le loro, incombenti sulla mia carne. Ma non c’è magia contro la violenza dell’uno e l’indifferenza dell’altro.
Mi hai mai amata, padre? Non indignarti. So quanto hai fatto per me. Mi hai modellata come una delle tue figure tanto ammirate. Ma lo hai fatto solo per te. Orazio Gentileschi crea la più grande pittrice del secolo, sua figlia! Ma ogni creazione ha il suo peccato originale e il mio si chiama libertà. Non volevo fare la tua scimmia ammaestrata, padre. Perdonami se ti ho delusa, ma ho scelto di vivere senza di te. Accanto a te sarei vissuta senza una vita.
Ho imparato a dipingere in mezzo a garzoni, apprendisti e pittori tutti maschi, e ho sperimentato la loro rapacità. Dalle occhiate furtive alle mie forme precoci li ho visti passare al contatto in apparenza casuale, ma spesso brutale, e poi al fiato sul collo, come avere una bestia accovacciata sulle spalle; e infine alle parole allusive, alle battute lascive, fino alle proposte oscene.
Sta’ lontano, sta’ lontano da me, bestia, sta’ lontano perché…
Ora, a ricordare, mi indigno. Ero ancora bambina e avrei voluto scherzare con gli amici, ma io non potevo avere amici, solo predoni intorno a me.
Ho imparato a difendermi ora con una finta noncuranza ora con la reazione brusca o anche armandomi di uno scalpello. Spesso ho avuto paura, sia di loro sia di me. Mi sentivo capace di uccidere chi mi avesse aggredita.
Ancora non ne ero consapevole, ma io ero più forte di loro.
Io, così giovane, così bella, che pretendevo di fare la pittrice? Io così desiderabile in mezzo a giovani infoiati? Io puttana travestita di pudore e timidezza?
Quando mio padre presentò la mia Susanna, intuii che nell’animo dei miei compagni il desiderio si mescolava all’invidia. Loro non sarebbero mai riusciti a dipingere come me, e lo sapevano. Erano stati umiliati da una femmina e alcuni mi giurarono un odio profondo e truce.
Io dell’amore conoscevo solo gli aspetti triviali. Avevo imparato le parole oscene, ascoltato i resoconti degli incontri adulterini e le dettagliate cronache delle tecniche erotiche per far raggiungere l’orgasmo alla femmina. Non s’è mai vista tanta lussuria quanto nella Roma della riforma tridentina. Preghiere e oscenità si alternavano senza imbarazzo. Le donne? O sante o puttane, non c’era via di mezzo.
Ma io non sapevo niente dell’amore.
L’amore non era desiderabile, mi stava addosso come un panno sporco.

Usai lo stesso telo bianco di Susanna sulle carni tenere del Bambin Gesù nella “Madonna col bambino”, che dipinsi subito dopo.
Avevo sete di tenerezza. La mia Madonna ha gli occhi chiusi. Sogna di vivere per sempre così, lei e il suo bambino. Una sola carezza la rende appagata e piena d’amore. Non dirmi, padre, che ho rubato il gesto alla tua “Sacra Famiglia”. Il tuo è un teatro aristocratico, il mio è il linguaggio dei sentimenti e delle passioni. Non dirmi che ho imparato tutto e solo da te! Ho imparato soprattutto dalla vita. La veste della mia Madonna è di un rosso che la luce stinge verso le tonalità della carne. Non è un rosso che aggredisce, non è una carne aggredita. La Madonna mostra un seno, nudità mitica che alimenta e consola. Non sa ancora che il suo bambino sarà crocefisso. Non sa ancora che un giorno il colore del sangue le farà sbarrare gli occhi. Orrore e dolore sono ancora lontani, ma non troppo lontani. Il tradimento bussa già alla porta.

Amor, che fai? Se non mi baci, io moro.
Ecco aperte le labbra, il seno ignudo;
bacia, baciami pur, sì, bacia: ah, crudo
troppo grave è il desio, lieve il ristoro!
Altro ci vuol che baci al mio martoro:
ahi, che mentre baciando il cor deludo,
di sdegno io son, tu di pietà sei nudo,
ché mi lasci morire e pur t’adoro.
Baci, ma son tuoi baci e dolci e rei;
mira s’omai piagato il cor ne fu,
che di tua ferità sparge i trofei.
Eccomi morta alfin; ma che fai tu?
Deh, che tardo soccorri ai dolor miei!
Lascia, ferma, cor mio: non voglio più.
(Pietro Paolo Bissari)

IL TELO BIANCO SPORCO

Quando fummo alla porta lui mi spinse dentro e serrò la camera a chiave e mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni mi mise una mano con un fazzoletto alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l'altra mano mi le lasciò, havendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntatomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro che io sentivo che m’incendeva forte e mi faceva gran male che per l’impedimento che mi teneva alla bocca non potevo gridare, pure cercavo di strillare meglio che potevo.
E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una matta stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne, con tutto ciò lui non stimò niente e continuò a fare il fatto suo che mi stette un pezzo adosso tenendomi il membro dentro alla natura e doppo ch’ebbe fatto il fatto suo mi si levò di dosso e io vedendomi libera andai alla volta del tiratoio della tavola e presi un cortello et andai verso Agostino dicendo: “Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vituperata.”
Et esso aprendosi il gippone disse: “Eccomi qua”, et io li tirai con il cortello che lui si reparò altrimenti gli havrei fatto male e facilmente ammazzatolo; con tutto ciò lo ferii un poco nel petto e gli uscì del sangue che era poco perché a fatiga l’havevo arrivato con la punta del cortello.

Tutto qua, il mio stupro. Come una lotta tra bambini. Dal gioco, passano in un attimo alla brama furiosa di sottomettere e ferire. Con la differenza che solo io ero bambina. Agostino era un diavolo furbo e violento, empio e cinico.
Per nove mesi lo subii, complice io stessa del mio male. Lo maledicevo e lo sospiravo, sognavo di ucciderlo e poi ero travolta dalla passione. Amavo il mio stesso odio, perché rendeva perversi gli amplessi che mi toglievano il fiato. Impazzivo di piacere. La clandestinità mi eccitava i sogni. Timore e desiderio si combinavano in un delirio carnale.
Poi capii. Solo inganno. Parole false. Anche lui, come già mio padre, mi voleva sua, ma come un animale di proprietà, non come una persona. Da una parte la femmina fenomeno della pittura, dall’altra la femmina fonte di godimento. E nel mezzo io, né amata né rispettata. Fu come svegliarsi con la consapevolezza di avere coltivato e accarezzato un incubo. Che grido, dentro di me! Che lacerazione dell’anima! Giurai che mai più, mai più nessuno mi sarebbe stato padrone.
Mio padre scoprì la tresca e denunciò Agostino Tassi, amico suo, nella cui tana lui stesso mi aveva spinta. Non lo denunciò in difesa dell’onore e della felicità della figlia, ma perché attentava al suo patrimonio e minacciava il futuro della sua bottega e dei suoi figli maschi.

A Paolo V.
Beatissimo Padre
Horatio Gentileschi Pittore, humilissimo servo della Santità vostra, con ogni reverentia Le narra come una figliola dell'oratore è stata forzatamente sverginata et carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tassi pittore et intrinseco amico et compagno del’oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo oltre allo sverginamento che il medesimo Cosimo furiere con sua chimera abbia cavato dalle mane della medesima zitella alcuni quadri di pittura di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza; et pechè, Beatissimo Padre, questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento. Però genuflesso alli sua Santi piedi la supplica in visceribus Christi a provvedere a così brutto escesso con li debiti termini di giustitia contro a chi si spetta, perché oltre al farne gratia segnalatissima, ella sarà causa che il povero supplicante non metterà in rovina li altri suoi poveri figliuoli et gliene pregherà sempre da Dio giustissima ricompensa.
Per strada a testa bassa. Lo sguardo fisso in avanti. Le mani allacciate sotto il seno. Strette fino a farmi male. Chi mi vede si scosta. Un brusio che mi assorda: la figlia di Gentileschi… la bagascia… se la sono goduta tutti… Il cuore batte impazzito. Il respiro manca. Soffoco tremo sudo rabbrividisco. La mia anima balbetta. Le gambe cedono. Temo di cadere. I giudici sono lì davanti a me. Mi spogliano con gli occhi. Mai più a testa bassa, mai più lasciarmi lapidare dai pensieri e dalle parole.
Non ero uscita quasi mai da casa. La mia vita si era svolta tutta nella bottega. Di colpo fui buttata nel mondo, tra gli uomini. Oh, piccola mia, quanto hai patito! Eppure, come hai tenuto testa ai bruti che ti hanno spinta ai piedi del calvario e ti hanno sussurrato: ora va’, raggiungi la cima e crocifiggiti.

Interrogata dicta adducta an sit parata etiam in tormentis ratificare dictum suum examen et depositionem et omnia in ea contenta, respondit:
Signor sì che son pronta anco a confirmare nelli tormenti il mio essamine.
Interrogata et monita ut caveat ne inculpet de stupro dictum Augustinum iniuste… confirmari etiam in dicto tormento sibillorum.
Una corda sottile mi incatena le dita delle mani a partire dal pollice. Una bacchetta funge da chiave. Il boia la gira e la corda si stringe. Spacca la pelle, penetra nella carne, taglia i nervi, recide i tendini, raggiunge l’osso…
Tunc Dominus mandavit per custodem carcerum accomodari sibila et iunctis manibus ante pectus et inter singulos digitos sibilis…
È vero è vero è vero è vero!
Non è vero, tu ne mente!
È vero è vero è vero è vero!
Lasciatela, bambina straziata! Non avete pietà? Le hanno già spezzato il cuore, ora volete spezzarle lo spirito? Ma le mani no, le mani no, signori giudici, con le mani lei vive, con le dita tesse la tela dei sogni e senza di loro che cosa le rimane?

Le chiome attorta e colorato il viso,
passa l’oste nemica, adito chiede
dove il re degli assiri in trono è assiso,
la bella di Manasse unica erede.
Mentre a quella beltà di paradiso
s’abbaglia il sire ed ai suoi detti ei crede,
ha con piaga mortale il cor diviso
dai socchi superbissimi del piede.
Poi quando, estinto il dì, gode riposo,
gli recide l’invitta il capo insano,
nel sonno immerso e di Lieo spumoso.
Oh d’amazone ebrea valor sovrano,
ch’Oloferne crudel, duce orgoglioso,
pria ferisce col pie’, poi con la mano!
(Giuseppe Battista)

I teli bianchi non hanno più lo splendore dell’innocenza. Sono bruniti e polverosi, su di loro il tempo stende la patina della consunzione. Ora le mani sono chiuse a pugno. Al posto di Susanna c’è il tiranno. E sopra di lui le due donne non si limitano a spiare e tramare oscenità. Lo macellano. Con il compiacimento di un lavoro ben fatto. Un uomo avrebbe fatto uno scempio. Una donna come Giuditta uccide con metodo, attenta agli schizzi di sangue, lo sguardo piantato sulla vittima come uno stendardo. Senza ripensamenti, senza rimorso. Io ti ammazzo, Agostino Tassi. Senza pietà.
Amen.
E così mi gonfiai il cuore di una massa inestricabile di odio e repulsione, che mi toglieva ogni gusto di vita. Ero nauseata, ma non mi lasciai naufragare. Ero così piena di risorse! Spesso, negli ultimi anni, ho ripensato all’energia che possedevo. Ho anche cercato il modo di rinnovarla, ma poi mi sono sentita sempre più stanca. Dalla vita avevo avuto più gioie che dolori, più soddisfazioni che delusioni. L’amore che mi avevano rubato mi era stato restituito.
Potevo morire in pace.

IL TELO ROSA

Fui spinta a sposare un uomo, Pierantonio Stiattesi. Gli volli bene. Era bello, elegante, mondano. Ci riempì di debiti, ma mi offrì anche la possibilità di pagarli introducendomi nel gran mondo di Firenze. Io ne sarei stata sempre una protagonista, lui una delle tante comparse. Da lui ebbi figli che morirono e una che sopravvisse, Prudenzia.
Imparai a fare la moglie, ad allevare i figli e a tenere la casa, a sopportare l’inettitudine del marito e a godere di cose piccole, ma senza mai perdere di vista il mio obiettivo: una vita che mi mettesse al riparo da ogni avversità. Non smisi mai di dipingere. Pierantonio manifestò presto contrarietà per la mia passione d’artista, come già era successo con mio padre e con Agostino. Che dipingessi pure, che vendessi le mie tele, ma rimanendo nell’ombra dell’uomo che mi stava accanto.
Ah, l’illuso! Pensava di piegarmi come nemmeno la tortura era riuscita?
Mentre lui si dedicava ai divertimenti banali e si preoccupava del proprio apparire, io agivo per seppellire infamia, dicerie e ingiurie sotto il manto dorato della fama. Volevo onori e gloria, oltre alla ricchezza. Avrei dimostrato a mio padre che solo a me era dovuto il mio successo e che esistevo anche lontano dalla sua ombra.
Michelangelo Buonarroti il Giovane, Galileo Galilei, Francesca Caccini non mi erano solo amici. Mi aprivano le porte di nuovi mondi che io esploravo avida di conoscenze. Pittura e scultura, musica e scienza. Avevo l’universo nelle mie mani. Artemisia Lomi, la prima e unica donna accolta nell’Accademia del Disegno di Firenze.
Potevo quindi raffigurarmi come martire, e solo io sapevo quante lacrime di compatimento per me stessa avevo versato! Vestita come una ninfa orientaleggiante, l’espressione volitiva, solo un velo di malinconia nello sguardo, una martire con un grande futuro davanti. E la mia fede? La palma del martirio in verità è un pennello e solo alla pittura indirizzavo le mie preghiere.

IL TELO AZZURRO

Ero al settimo cielo? Certo, e lo dipinsi nell’ “Allegoria dell’inclinazione”.
La Roma dei papi! Prostitute e assassini, pittori stupratori. Tutti a fare la spia, a tramare, a colpire alle spalle. Avevo sei anni quando mio padre mi portò a Ponte Sant’Angelo per assistere al supplizio di Beatrice Cenci e dei suoi familiari. I pittori studiavano le smorfie dei patimenti e l’espressione dell’agonia. E nemmeno cinque mesi dopo fui trascinata in Campo de’ Fiori per riflettere sulla grandezza della Chiesa che bruciava Giordano Bruno. Torture e roghi, Roma. Il papa sterminava i Cenci per impossessarsi del loro patrimonio e il cardinale nipote faceva incarcerare o uccidere i collezionisti d’arte per impossessarsi dei loro quadri. Una cloaca infernale, Roma. Un giorno pensai: dovrei ringraziare Agostino, altrimenti non me ne sarei andata via. Ma mi morsi la lingua. Agostino Tassi, per me, potevano incatenarlo anche lui su un rogo. E io, sotto le fiamme, lo avrei ritratto.
A Firenze trovai dunque il paradiso. Volavo alta, ero ambita alla corte dei Medici, i poeti cantavano le mie lodi, i giovani si contendevano le mie attenzioni, le donne mi invidiavano in segreto, i ricchi mi commissionavano le opere, gli esperti ne vantavano le qualità.
La più bella donna di Firenze e anche la meglio vestita. Quanto mi piacevano le sete e i damaschi, i gioielli e i profumi!

IL TELO GIALLO

Venite a rimirar la gloria vostra,
o già di Maddalena accesi amanti;
venite a rimirar come i sembianti
con novello artificio ella s’inostra.
Oh d’eccelsa beltà leggiadra mostra!
Cangia le ricche vesti in rozzi manti,
il riso insidioso in tristi pianti,
i superbi palagi in umil chiostra.
Quel biondo crin, ch’in dolci nodi accolto
fregiò di perle, or fra le brine e’l gelo
sovra gli omeri porta ispido, incolto.
E così, armata di verace zelo,
serena il core e nebulosa il volto,
se già l’alme rapìa, rapisce il cielo.
(Pier Francesco Paoli)

Artemisia, mi dicevano gli amici, la tua Maddalena non sembra schiacciata dalla colpa. Allontana da sé lo specchio per non vedersi spettinata? Ha i piedi nudi, ma solo perché si sta svestendo. Sai che cosa ci sembra, Artemisia? Che stia valutando se valga davvero la pena di pentirsi e di rinunciare ai piaceri del mondo. È così?
È vero è vero è vero, rispondevo io, è proprio così! Dovrebbe andare a seppellirsi in un convento? Solo perché ha goduto dei piaceri della carne? Che c’è di male a giacere con un uomo piacente? E magari a innamorarsi? Sapete che cosa sta pensando la mia Maddalena? Sta pensando che deve essere lei a decidere, e non il triste monaco che le ha prospettato il fuoco dell’inferno. Sta pensando che vuole essere lei la protagonista della propria vita, e che non vuole cedere a nessuno le redini dell’anima.
Artemisia, mi dicevano, tu meriti il rogo. Io ridevo. Poi mi facevo seria, quando lo sguardo mi cadeva su Galileo. Lui il rogo lo rischiava davvero. Gli raccomandavo la prudenza, ma lui affermava che il cardinale Bellarmino stimava la sua opera. Lo aveva solo ammonito, in nome dell’inquisizione, a non divulgare la teoria eliocentrica. Gli sussurravo di non fidarsi di nessuno e lui sorrideva sicuro di sé.

In quel periodo, dipinsi anche la seconda parte della narrazione di Giuditta. Decapitato Oloferne, Giuditta si allontana dall’accampamento. Vestii l’ancella con il giallo dell’abito della Maddalena. Le due eroine sono di profilo e guardano verso destra. Anche la testa di Oloferne nel cesto si presenta di profilo, ma guarda verso il basso, giù giù nell’inferno. Perché si sono fermate, le due donne? Abbigliata e ingioiellata in modo splendido, appoggio la spada sulla spalla. È pesante, ma non mi manca la forza per reggerla e usarla. Perché mi guardo alle spalle? Perché la mia situazione è precaria. Sono famosa, i Medici mi commissionano tele, ma so di essere comunque femmina. Non voglio rifornire solo le collezioni private, voglio che i miei quadri siano appesi nelle chiese, sopra gli altari, dove la gente possa vederli. Ma per me non ci sono pale d’altare. Io sono femmina, io sono uno scherzo di natura. Non solo pittrice, ma anche bellissima, come mi ripetono i miei ammiratori. Sta’ in guardia, Giuditta. Ricordati che il mondo è degli uomini e che tu ne fai parte solo fino a quando a loro piacerà.

IL TELO ROSSO

Ho imparato a leggere e a scrivere, a cantare e a suonare il liuto, a danzare e a stare a tavola, a parlare forbito e a vestire con sfarzo, a civettare e ad ammaliare. Gli uomini so io come conquistarli, prima che scatenino su di me l’orda del loro amore o del loro odio. Come Giaele con Sisara, li vedo inermi ai miei piedi, distesi nell’incoscienza del sonno ristoratore. Abbiamo goduto insieme, ma io non sono la schiava dei loro desideri. Sono io a possedere il loro destino, non il contrario. Io sono Giuditta! Io sono Giaele! Bellissima e sfolgorante, dalla tavolozza traggo il mio futuro. Non c’è passione più forte e profonda. Anche l’amore deve arrendersi al mio pennello. E così perdo il padre, perdo il marito, perdo gli amanti. Da me pretendono o che la mia arte diventi uno strumento nelle loro mani o che l’abbandoni per dedicarmi solo al loro egoismo. Io sono Giaele. Io sono Giuditta. Non accetto la sottomissione all’uomo.
Ho forse vissuto male, cercando sempre la mia indipendenza? No, ve l’assicuro. E voglio gridarlo alle donne di tutti i tempi. Cercate la vostra anima al di fuori della casa e della famiglia. Cercatela nel mondo, dove potrà risplendere libera. Non siate sottomesse! Mai! Siate voi stesse senza per questo rinunciare né alla casa né alla famiglia. Avete solo bisogno del rispetto dell’uomo.
Per il granduca Cosimo dipinsi un secondo quadro di Giuditta che decapita Oloferne. La granduchessa lo detesta fin dal primo sguardo. Lei colleziona reliquie. Quando non presenzia a feste, spettacoli e banchetti, godendoseli fino all’ultima goccia, prega, prega e prega ancora, sontuosamente vestita di sete e gioielli.
Sono felice che la mia pittura non le sia piaciuta. Non è pittura per donne ipocrite e bigotte, ma per donne più forti degli uomini.

IL TELO NERO

La mia piccola dolce Prudenzia! Me la portavo ovunque andassi come il mio gioiello più prezioso. Avrei voluto farne una pittrice, ma sia a lei sia all’altra mia figlia della passione, Francesca, mancava l’inclinazione. Ero diventata ricca e ovunque andassi mi si aprivano tutte le porte, anche quelle davanti alle quali le altre donne dovevano fermarsi. Tornai a Roma e fui accolta nell’Accademia dei Desiosi. La mia fama mi aveva preceduta e potei offrire alle mie figlie una vita di quieto benessere, sposandole a uomini potenti e ricchi.
A Roma persi il marito, ma ritrovai altrove l’amore che con lui si era intiepidito fino a raffreddarsi. Pierantonio se ne tornò a Firenze, e mi addolorò il suo addio a Prudenzia, così rapido e gelido. Eppure l’aveva amata, fin che era stata piccola. Ero forse io la causa dell’astio che aveva sviluppato contro la vita e il mondo? Forse sì. Forse una donna madre e moglie non dovrebbe diventare celebre quando invece suo marito rimane uno sconosciuto.
Ma che cosa dovevo fare? Rinunciare alla pittura? Tanto valeva che mi buttassi da una rupe.
Roma, Genova, Venezia… Instancabile, incontentabile, avida di nuove conquiste. Mi muovevo tra gli uomini con la sicurezza di chi aveva imparato a conoscerli e a renderli innocui. Li attraevo con la mia bellezza, li abbagliavo con la mia genialità, li ammaliavo con la mia personalità. Artisti, scienziati, politici, mercanti, guerrieri… Correvano tutti da me e tra loro sceglievo i miei amanti e i miei protettori. Sapevo dosare con maestria la fragilità della passione con la potenza dell’arte e della conoscenza. Ovunque ci fosse da folleggiare in compagnia di damigelle impudiche e giovani smaliziati, oppure da imparare in compagnia di filosofi e letterati, Artemisia era presente. Espugnavo le roccaforti del potere senza che gli uomini si opponessero, perché io ero comunque femmina e si illudevano di potermi controllare. Riuscii a mantenermi libera da ogni servitù. Quando gli amanti o i potenti mi cingevano con catene d’oro, io fuggivo ridendo di loro.

Conoscevo il mondo in cui mi muovevo. Conoscevo gli uomini che all’apparenza avresti detto santi, illuminati, compassionevoli. Uomini che impoverivano il popolo, che tramavano congiure, che spiavano, avvelenavano, tradivano. Uomini che facevano guerre senza senso. Uomini distruttori. Uomini fanatici. Uomini crudeli. Corsi dall’uno all’altro senza lasciarmi contaminare e forte della purezza della mia arte mi dipinsi come un’Ester estenuata, che perde i sensi di fronte ad Assuero. Io sono solare, e sul giallo dell’abito una fascia blu mi riporta nei cieli dove stanno le arti e le muse. Lui, l’uomo del potere, veste di nero. Il potere è cupo e non ha che un colore, il nero striato di sangue. Io sono la passione, lui la mente che la uccide. Io in apparenza sono la più debole, ma chi accorre da me è lui. Stenta ad abbandonare lo scranno, quasi temesse una cospirazione. No, uomo, non voglio il tuo potere. Voglio solo che tu non lo usi per schiacciarmi. Rimani seduto sul trono, perché senza corona di te che cosa rimane? Vedi? Mi sento già meglio. Io sono forte, uomo, e lo sono pur avendo un cuore.

È questo il motivo per cui mi sono pitturata di nero i capelli nell’autoritratto come allegoria della pittura? Perché anche la mia arte è potere? Mi sono raffigurata così, mentre abbraccio la pittura che è stata la mia vita. Con le braccia aperte come volessi spiccare il volo. Ho cercato una posa dinamica, perché la pittura non è l’abilità del pennello, ma la sua vitalità. Ho mescolato e steso colori su ogni momento della mia vita. Scene bibliche, ritratti, allegorie, nature morte… ho esorcizzato la violenza del mondo vestendola di bellezza.
Fui chiamata a Londra da re Carlo e gli portai in dono un autoritratto di cui fu entusiasta. Ma non era l’incontro con il re che ebbi nei pensieri giorno e notte durante il viaggio. A Londra il cerchio della mia vita si sarebbe chiuso. A Londra avrei rivisto mio padre, il celebrato pittore di corte Orazio Gentileschi.

Padre mio.
Dopo venticinque anni hai finalmente chiesto di me. Io giungo a te ben disposta, ma impaurita. Che cosa temo? Forse di perdere ciò che ho faticosamente conquistato, la mia indipendenza? Temo di ridiventare un docile strumento nelle tue mani brusche e dispotiche?
Quando finalmente ti vedo, dopo giorni di tormento in cui tutti e due abbiamo rinviato l’incontro… sei davvero tu, padre, l’uomo anziano intimidito, stanco e sofferente? Sei tu l’uomo che accoglie i miei singhiozzi tra le sue braccia?
Padre mio.
Hai bisogno di me per completare il tuo capolavoro. Hai bisogno della mano geniale non dell’allieva tua creatura, ma dell’artista che è anche tua figlia. E io sono qui. Lavoriamo fianco a fianco. Con gioia, ti dono la ricchezza di colori che le mie passioni hanno strappato alla natura. E tu, prima di morire, mi rivolgi lo sguardo di amore e orgoglio che ho sempre sospirato.
Ascolta, padre. Quand’ero piccola mi ascoltavi, ma poi… una volta cresciuta, eri solo tu a parlare. Io dovevo imparare in silenzio a diventare sempre più brava.
Che strano, ora. Tu non puoi più parlare, ma illudo me stessa che mi possa ascoltare. Sono qui per condividere la tua pace, padre. In questi giorni abbiamo parlato lo stesso linguaggio, io e te. Padre e figlia, ma anche fratelli nell’arte.
Ora posso andare, padre. Ti porto via con me, in un ricordo di serenità.

Così dissi addio a mio padre, e lo dissi anche al mio passato doloroso.
Mi stabilii a Napoli, ci vissi in pace. Dipinsi senza sosta solo per il piacere di farlo. Le mie tele furono appese anche nelle chiese e la gente pregava davanti a loro.
Dove sono ora i miei quadri? Perché sono stati dimenticati, dispersi, forse distrutti? Sono loro le mie passioni! Ogni decisione, nella mia vita, è stata condizionata dalla pittura. A essa ho anteposto tutto, non solo per conseguire la fama, ma perché così è stata la mia natura, natura d’artista e non solo di donna. Io devo tutto alla mia pittura. Attraverso di essa ho letto nella mia anima e ho potuto quietare le tempeste che l’agitavano.
Ecco perché sono tornata.
Per supplicare voi, uomini di potere, e voi, donne sensibili e forti, di ritrovare le mie tele. Senza di loro, io non ho anima. Fate che continui a raccontare le passioni e le bellezze della vita, fatemi tornare a cavalcare il mio demone benigno sopra le nubi, ricomponete lo splendore dell’inclinazione che ha guidato la mia vita.

Il mio nome è Artemisia Gentileschi e se ora lascio la voce di questa gentile attrice che mi ha prestato la sua anima, voi non abbandonate me.
Cercatemi nei miei quadri, anche quelli perduti che vorrete ritrovare, perché è giusto che dall’oblio di tanti secoli io torni a percorrere le strade del mondo.
Cercatemi, e attraverso i vostri sguardi le mie passioni non moriranno mai.