Bluebird Bukowski  

di Riccardo Spagnulo 

© 2014. Tutti i diritti sono riservati 

 

 

I Scena

 

Una stanza di obitorio: un cadavere disteso su un tavolo d’acciaio, coperto da un lenzuolo bianco. Solo i piedi sono scoperti. Un telefono a muro. Un’addetta alla conservazione dei cadaveri si infila dei guanti di lattice, solleva il lenzuolo, guarda il morto. Rimette a posto. Prende una pistola da un nascondiglio, la guarda, la rimette a posto. Mentre si allontana, un braccio del cadavere cade penzoloni nel vuoto. L’addetta se ne accorge, torna indietro e lo rimette a posto. Si toglie i guanti, li butta nel cestino. Guarda la fede che non ha al dito. Aspetta, guardando il telefono. Sbuffa, poi esce.
L’uomo si alza piano sul letto, raggiungendo la posizione seduta. Il lenzuolo gli scivola sul volto, rivelando i suoi lineamenti. Si guarda intorno, poi si sofferma sui piedi che sporgono dal lenzuolo. Attaccato all’alluce c’è un bigliettino con un numero.

B. — Devo tagliarmi le unghie dei piedi. 
Così sembrano le zampe di un elefante.
L’avrei fatto prima, se solo mi avesse dato un minuto di più, ma… 
Ce l’hanno tutti con me. 
È stato così dall’inizio. 
È cominciato tutto per errore.
La morte mi fa schifo.
La vita mi fa schifo.
(Prende il biglietto) Numero 683.
Sono già arrivato.
Sono già all’inferno? (Si nasconde)
DONNA — (rientra. Si avvicina al telefono, è nervosa. Tira fuori dalla tasca un bigliettino, controlla il numero e poi usa il telefono) Pronto? Ciao, sono Linda, l’amica di… sì, è lei che mi ha dato il tuo numero. Eh, certo. Senti mi chiedevo se, anche se non ci conosciamo, se ti andava di… ah, sei fuori città. Va bene, allora ci sentiamo un’altra volta. Ciao… (Riattacca, prende un altro bigliettino e fa un altro numero) Pronto? Ciao, sono Linda, l’amica di… sì mi ha dato il tuo numero. Lei. No, non devo venderti niente, ti ho chiamato perché… ah, sì. Ho capito. Bene, arrivederci. (Riattacca, prende un altro bigliettino e fa un altro numero) Pronto? Ciao, sono Linda, l’amica di… va bene, glielo dico che non deve dare il tuo numero in giro, sì… Va be’, va bene, però non usare queste parole con me, non ci conosciamo neanche… Senti bastardo, ma perché non te ne vai all’inferno con tutti gli altri? Ma vattene al diavolo. Coglione. Maniaco.
B. — (si rialza) Uno zucchero. Se questo è l’inferno, sono capitato nel girone giusto.
Sono morto poco fa.
Sono morto in una stanza di ospedale.
I miei occhi si sono chiusi fissando un angolo del cuscino.
Bianco. Sbavato. Umido.
Accanto un’infermiera che puzzava di cavoli.
Mia moglie era andata a pisciare.
Nove marzo, ore sedici e trenta. Circa.
La morte fa schifo. Soprattutto quella in ospedale.
In un ospedale… quelli che ci entrano hanno una brutta faccia.
La maggior parte della gente non è preparata alla morte,
alla propria o a quella di chicchessia.
Sono scioccati, terrorizzati.
È venuto a mancare all’affetto dei suoi cari
alla tenera età di novantotto anni…
E tutti i parenti giù a piangere.
È stupido.
O meglio, è umano.
Che poi è un po’ la stessa cosa.
Molti uomini mi sembrano stupidi.
La morte…
È come… una grossa sorpresa.
Che diavolo… non dovrebbe esserlo.
Io ho portato la morte nel taschino.
A volte la tiravo fuori e le parlavo:
“Ciao bella come va?
Quand’è che vieni a prendermi? Sono pronto”.
Nella morte non c’è niente di triste,
non più di quanto ce ne sia nello sbocciare di un fiore.
La cosa terribile non è la morte,
ma le vite che la gente vive o non vive
fino alla morte.
Ci si abituano già da vivi,
si allenano a perdere vita anno dopo anno.
Così quando Signora Morte arriva,
non sentono niente.
E quella fa meno lavoro.
C’è rimasto ben poco che possa morire.
Dicono che i capelli e le unghie continuano a crescere dopo che lei arriva.
I capelli più o meno stanno, quelli che sono rimasti,
ma le unghie sono ancora lì.
Sono solo unghie, ma crescono.
E morire è una questione di stile.

Squilla il telefono. La donna rientra e l’uomo si rimette disteso sotto il lenzuolo.

DONNA — (risponde al telefono) Pronto, sì sono io. Sì? Ah-ah. Certo che sono io. No, non lo faccio. Te lo scordi. Ve lo potete scordare. Non entra nessuno, è la regola. Non me ne frega niente. Peggio. Andasse al diavolo. E anche i giornalisti. No… no, è fuori disc… se… senti… voi fate il vostro, che io faccio il mio. Lavoro. (Dall’altra parte, riattaccano) Teste di cazzo… (Mette a posto la cornetta)
B. — Non siamo già all’inferno?
DONNA — Chi ha parlato.
B. — (nascosto) Io.
DONNA — Io chi?
B. — Io. (Ride)
DONNA — Guarda, chiunque tu sia: se sei venuto qui sotto per farmi uno scherzo, sono pronta a farti passare un brutto quarto d’ora e a sbatterti su questo tavolo d’acciaio. Allora? Dove sei finito? Merda. Vuoi trafugare il corpo… Maledetti fanatici della letteratura.

Va verso il telefono, lui prende una chiave appesa a un chiodo e si nasconde.

Pronto? Pronto? E rispondete! (Riattacca) Non ci sono mai, quando devono rispondere. Ehi… bastardo sei lì? Dove ti sei nascosto… Guarda che mica te lo puoi portare a casa quello… Sai che se non vieni fuori ti denuncio? Facciamo così io chiudo gli occhi e tu rimetti il… il corpo al suo posto, poi te ne vai e non sarà successo niente. Uno, due…

B. si avvicina all’interruttore e spegne la luce.

…e tre. (Riapre gli occhi) Merda!
B. — Stai tranquilla, zuccherino. Ti devi calmare, non è successo niente. Ne possiamo parlare. Non vorrai mica fare tutto subito. A proposito, in che girone siamo? Lussuriosi? È strano, pensavo fosse un posto affollato. Fammi ambientare almeno.
DONNA — Cosa stai dicendo?
B. — Vieni più vicino.
DONNA — No.
B. — Allora vieni qui lo stesso. Ecco. Sono qui, tutto per te, pronto. Vieni qui, più vicino, ancora più vicino…

Si ritrovano faccia a faccia, lui accende la luce, gridano entrambi.

DONNA — (grida) Tu sei lui… cioè tu non sei…
B. — Ti vedo un po’ agitata.
DONNA — Tu… tu… Io devo andare… (Sviene)
B. — (taglia il filo del telefono a morsi) Per quello che me ne importa, puoi anche rimanere lì a terra fino a domani mattina.
Non sei male. Cosce piene, il seno c’è. Una vera strega. Peccato, apri la bocca solo per trattare male la gente, ma in fondo mi piaci. (La guarda, trova la sua camicia e mentre la indossa continua a guardarla)
C’era una che beveva al bancone con me ed era la più bella della città. Aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso come di serpente, con due occhi che proprio dicevano quello. Era fuoco. Capelli neri e lunghi, che si muovevano quando ballava, quando si lasciava baciare dagli uomini. Una macchina da fottere, sembrava agli altri. Non la capivano. Non c’erano mezze misure e così mandava tutti in bianco. Era pazza, dicevano. Una volta si ficcò uno spillone nel naso e mi chiese se la trovavo carina. Pazza da legare. Una ragazza triste. Mi mandava affanculo. Mi baciava con dei baci selvatici e poi si ritraeva. Una bellissima schizoide spirituale. Sapevo che qualcuno o qualcosa l’avrebbe rovinata per sempre. Ma mi stai ascoltando? Andammo a letto insieme. Una volta. Ma a lei piaceva bere, così si faceva offrire da figli di puttana che dopo si sentivano in diritto di prendersela, con le buone o con le cattive. Litigammo, poi un giorno se ne venne con due spilli conficcati negli occhi. È la moda, mi diceva. Bevemmo vino e ci mettemmo a parlare, poi mi fece vedere la cicatrice che si era fatta sul collo con un coccio di bottiglia. “Non mi trovi ancora più bella?”. Le chiesi perché si riducesse in quello stato, non rispose. La baciai, lei mi chiese soldi. Glieli diedi. Non la vidi per settimane. Ogni sera chiedevo di lei al barista, se l’aveva vista, se sapeva qualcosa. Poi lui, un giorno mi fa: “Mi dispiace. Per quella cosa. Non lo sapevi? L’hanno seppellita ieri, suicidio. S’è tagliata la gola”. Allora, bevvi fino alla chiusura, poi, una volta uscito c’era un cretino che si mise a suonare il clacson. Posai la bottiglia e gridai: “Ma la vuoi smettere, brutto figlio di puttana? La vuoi smettere?”. In certi casi non c’è niente da fare, le cose vanno per il verso loro e non c’è niente che tu possa fare. (Chiude la porta e si mette le chiavi nel taschino della camicia)
Niente, non ti svegli, allora ti metto sul tavolo, perché a terra fa freddo. (La solleva e la mette sul tavolo. La lega) I miei pantaloni.
DONNA — Cosa…
B. — Dove sono.
DONNA — Nell’armadietto.
B. — Gli occhiali.
DONNA — Sempre lì.
B. — Mi piaci quando collabori.
DONNA — Mi hai legato.
B. — Scalciavi. Cosa cerchi?
DONNA — Slegami.
B. — Non ora.
DONNA — E quando?
B. — Solo se darai le risposte giuste.
DONNA — Non mi piace questo gioco.
B. — A me sì.
DONNA — Avanti.
B. — Va bene, come vuoi. Cominciamo. Mi tagliaresti le unghie dei piedi?
DONNA — Ma vaffanculo.
B. — Ehi! Risposta sbagliata. Non lo vinci il superpremio così.
DONNA — Ascolta, io non ci sto capendo più niente. Ho avuto una giornata da cani, sono in piedi da stamattina alle sei, poi vengo al lavoro e mi portano questo qui… uno. Uno famoso. Ci sono i giornalisti fuori e tutti gli ammiratori di questo vecchio. Io lo aggiusto e mentre lo pettino sento la gente che spinge e batte i pugni contro le porte. Le ho chiuse a chiave, finalmente se ne vanno e cosa succede? Che questa faccia da ubriacone si rimette in piedi! E mi lega al tavolo! Assurdo.
B. — Piano con le parole. Se inizio io, ti stendo, zuccherino.
DONNA — Zuccherino, lo dici a tua sorella.
B. — Hai fegato. Come ti devo chiamare?

Silenzio.

Come ti chiami?
DONNA — Se mi sleghi te lo dico.
B. — Se io ti slego, non scappi. D’accordo?

Si guardano. Senza dire nulla, la slega.

Allora?
DONNA — Mi chiamo Linda.
B. — No, non è il tuo nome.
DONNA — Cosa?
B. — Non ti si addice proprio.
DONNA — Lo dici tu.
B. — Ne ho conosciute di donne che si chiamano Linda, con l’ultima mi ci sono anche sposato. Ormai è acqua trapassata.
DONNA — Poverina.
B. — Chi?
DONNA — Tua moglie.
B. — Tu sei una strega.
DONNA — E tu sei un cretino.
B. — Tu rimani strega, la peggiore delle streghe.
Mi dai il voltastomaco.
Perché non te ne vai?
DONNA — Perché non te ne vai tu?
B. — Perché mi sto divertendo come non mi capitava da tempo con un bel pezzo di femmina come te.
DONNA — Parli come un porco. Gioca da solo, vado a chiamare la sicurezza.

Va verso la porta e la trova chiusa. Contemporaneamente, lui tira fuori le chiavi dalla tasca dei pantaloni, ci gioca e poi se le rimette nel taschino della camicia.

La porta è bloccata.
B. — Lo so.
DONNA — Chiusa.
B. — Lo so.
DONNA — A chiave. (Guarda il chiodo sul muro: non c’è più la chiave) L’hai presa tu.
B. — Sei intelligente.
DONNA — Bastardo. (Si avvicina al telefono, fa un numero, con convinzione, padrona del suo habitat) Pronto, sono Linda, pronto? (Si accorge del filo tagliato)
B. — Sempre io. Avevo una cosa in mezzo ai denti e poi… s’è rotto.
DONNA — (rimette a posto la cornetta) Va bene, stiamo qua. Sai perché non me ne vado? Non è perché tu mi hai chiuso dentro rubandomi le chiavi, né perché prima mi hai legato come avrebbe fatto un maniaco, ma perché voglio capire che scherzo è questo. Avanti, dimmelo tu. Non dici niente. Che brutta faccia. Mi stai minacciando? Me ne frego. E poi ho il turno di notte ed io non mi assento mai dal posto di lavoro. Hai una faccia che è un disastro ma non mi fai paura. Per niente.
B. — Neanche se faccio così? (Fa una smorfia)
DONNA — No.
B. — E così? (Fa un’altra smorfia)
DONNA — No, nemmeno.
B. — E se metto un dito nel nas…
DONNA — Smettila!
B. — Quindi, io non ti faccio nessun effetto?
DONNA — Non direi.
B. — Molto male.
DONNA — Non lo so… potresti essere un caso di morte apparente, forse ti sei addormentato e ti hanno portato qui per sbaglio… che ne so… o quelli di sopra ti hanno pagato bene per farmi uno scherzo. Bravi. Che me ne importa? Quello che mi interessa è che finite le mie otto ore apri quella cazzo di porta e mi fai tornare a casa mia.
B. — Forse.

Silenzio. Si guardano.

Io sono morto. Me lo ricordo. Ho chiuso gli occhi. Puff. Finito. Addio.
Ho visto una cosa nel buio… prima… quando ero dall’altra parte.
DONNA — Non mi interessa, dimmi chi sei davvero.
B. — Sono quello che era steso lì sopra.
DONNA — Non è possibile.
B. — È un ricordo troppo preciso, l’angolo del cuscino, l’infermiera che puzza di cavoli…
DONNA — Non ci credo. È impossibile.
B. — È probabile, che io sia morto, e che mi ritrovi all’inferno, o una stanza immediatamente prima. Come una sala d’aspetto, o qualcosa del genere. E tu sei la guardiana dell’inferno.
DONNA — Magari, guadagnerei di più…
B. — Ma dove sono gli altri diavoli, le catene, le fiamme alte cinque metri, le grida di dolore? Avete avuto dei tagli al personale? Quindi o questo è il mio passaggio verso l’inferno…
DONNA — Oppure?
B. — Oppure è probabile che Satana mi ha fatto tornare da dove sono venuto… per fare qualcosa…
DONNA — Cosa?
B. — L’ultima cosa che mi resta da fare.
DONNA — Non capisco.
B. — Neanche io. Non ho mai capito niente di come vanno le cose, mi sono sempre limitato a vivere. Vediamo cosa succede. Hai una birra?


 

II Scena

 

Stesso luogo.

B. — È strano. Non ho mai creduto nel destino. Me ne sbatto degli oroscopi.
Eppure da qualche parte, c’è qualcuno che mi ha dato un’altra cartuccia da sparare.
Anche se esistesse, Dio non lo immagino con la barba bianca e lunga, piuttosto come un topolino o un insetto. Un bambino che fa i capricci. Un distributore di caramelle alla frutta dove ogni tanto trovi quella andata a male.
Quando Dio creò l’amore non ci ha aiutato molto
quando Dio creò i cani non ha aiutato molto i cani
quando Dio creò le piante fu una cosa nella norma
quando Dio creò l’odio ci ha dato una normale cosa utile
quando Dio creò Me creò Me
quando Dio creò la scimmia stava dormendo
quando creò la giraffa era ubriaco
quando creò i narcotici era su di giri
e quando creò il suicidio era a terra
Quando creò te distesa a letto
sapeva cosa stava facendo
era ubriaco e su di giri
e creò le montagne e il mare e il fuoco
allo stesso tempo
Ha fatto qualche errore
ma quando creò te distesa a letto
fece tutto il Suo Sacro Universo.
DONNA — Dimmi come vuoi che riempiamo questo tempo.

Silenzio.

B. — Andiamo a letto.
DONNA — Io e te?
B. — Sì.
DONNA — Impossibile.
B. — È una possibilità andare a letto insieme, no?
DONNA — Ripetilo.
B. — Andiamo a letto, io e te.
DONNA — (gli dà uno schiaffo) Ripetilo ancora.
B. — Voglio scopare con te.
DONNA — (gli dà un altro schiaffo) Ne hai abbastanza?
B. — Mi hai fatto male.
DONNA — Impara a parlare.
B. — Mi piace essere diretto.

Silenzio.

Mi sembra che il nostro rapporto sta partendo col piede sbagliato. Giusto? È disequilibrato. Ho io le chiavi di questo posto e se voglio rimanere qui dentro per un’altra settimana, tu rimani con me. Hai davanti il più grande poeta degli ultimi diciotto secoli e mi vuoi insegnare a parlare! Cristo!
Ho ancora addosso carne fresca e tu mi rifiuti. Ti ho chiesto di tagliarmi le unghie dei piedi e non lo hai voluto fare. Ma che cosa sei? Che diavolo, dovresti stare attenta. Stai camminando su una distesa di uova e hai delle scarpe fatte di cemento.

Silenzio. Lui fa per prenderle la mano.

DONNA — Non ti azzardare.

Silenzio.

Volevi una birra? Ecco. (Prende delle birre da un cassetto, gliene porge una) Prendi.

Silenzio.

B. — Grazie. (La apre e la tracanna con un solo sorso sbrodolandosi addosso)
DONNA — Hai fatto un casino.
B. — Scusa, è la sete.
DONNA — Prendi questo, pulisci. (Gli lancia una pezza) Ho sentito freddo.
B. — Eh?
DONNA — Prima.
B. — Prima?
DONNA — Quando ti ho colpito. Sì, prima, gli schiaffi. Mi è diventata fredda la mano.
B. — Quaggiù è pieno di spifferi.
DONNA — C’è sempre una temperatura bassa, perché i corpi si devono conservare.
B. — Come il prosciutto.
DONNA — Come il prosciutto.

Silenzio.

Un brivido di freddo. Come quando sei sudato e soffia il vento e… cala la sera.
B. — Ho finito. (Le rilancia la pezza)
Ne hai altre?
DONNA — Cosa.
B. — Di birre. Ne hai altre?
DONNA — Dipende.
B. — Da cosa?
DONNA — Da te.

Silenzio. Lei prende una birra e inizia a berla.

B. — Era calda.
DONNA — Cosa?
B. — La birra.
DONNA — Ti devi accontentare, non ho il frigorifero.
B. — Bere la birra calda è farsi del male. È una roba che butti giù solo per disperazione.
È uno sciroppo. Per i malati. Dolciastra, con la schiuma che rende tutto più difficile.
La birra va bevuta fredda. Non hai idea di cosa darei per una bella birra fresca. Alla spina. Non come la tua.
DONNA — Arrangiati.
B. — Ne hai un altra vero?
DONNA — No.
B. — Mi stai mentendo.
DONNA — Non è vero…
B. — Non sopporto le persone che mentono…
DONNA — Non è vero…
B. — Sei una bugiarda.
DONNA — No.
B. — Sei una lurida bugiarda!
DONNA — Ma non…
B. — Sei una lurida bugiarda che usa le menzogne per illudere i poveri poeti come me…
Sai che cosa gli farei io ai bugiardi come te? Gli taglierei la lingua e poi gliela farei mangiare. Così… così!
DONNA — (gli lancia addosso con violenza un’altra birra e poi un’altra e un’altra ancora, fino a ricoprirlo di birre) Ubriacati coglione!


 

III Scena

 

Stesso luogo. Lattine di birra svuotate per terra.

B. — Tu ce l’hai con me.
DONNA — Non è vero.
B. — Sì, ti dico, ce l’hai con me. È così. Lo vedo da come si muovono le tue mani. Mi stai sopportando, come hanno fatto tutte le donne fino a questo schifoso momento.

Silenzio.

DONNA — Dimmi chi sei.
B. — Sono soltanto un uomo. Vecchio ma non rincoglionito.
DONNA — Non basta.
B. — Va bene, sono il peggiore uomo che ha vissuto sulla faccia della terra. Sono il peggiore degli ubriachi, quello che si è distrutto il fegato con l’alcool, che ha mandato al manicomio le donne che volevano stargli accanto.
Sono il deforme, grosso, gobbo
con la faccia devastata,
i denti guasti macchiati di nicotina,
i capelli di un castano scialbo,
i fianchi più larghi delle spalle,
le mani piccole e mollicce,
sudate, grottesche.
Le dita tozze,
fatte apposta per sbatterle su una macchina da scrivere.
Sono quello che è diventato ricco scrivendo porcate. Contenta?

Silenzio.

Mi piacerebbe sapere com’è che hai birra qui giù. Secondo me hai anche altro.
DONNA — Cosa scrivi?
B. — Fino a ieri scrivevo parole, le mettevo insieme e poi ci facevo un libro. Loro lo vendevano e a me arrivavano i soldi.
DONNA — Io non leggo libri. Leggo solo riviste. Ci sono le figure.
B. — Brava.
DONNA — Io…
B. — No davvero, fai bene. Dimmi che cosa pensi della poesia.
DONNA — Che… è…. una cosa… una cosa… bella.
B. — Solo?
DONNA — Mi annoia.
B. — È bella, ma annoia.
Tu non hai mai letto le mie poesie. Ne andresti pazza.
Ho più lettori io che alcuni quotidiani. Le cose che scrivo io le leggono in tanti. Mi mandano delle lettere. Qualcuno viene a trovarmi. Donne e aspiranti scrittori. Io rispondo alle prime. Sempre. Le lettere degli scrittori le cestino. Alcuni hanno anche del talento, ma sai com’è. L’unica colpa che hanno è che non sono donne. Sai perché i miei libri sono sempre vicini alle casse?
DONNA — No.
B. — Perché li rubano. Se li fregano, capito? Devono essere sotto l’occhio di qualcuno che controlla, neanche fosse caviale… la poesia…
Leggere i grandi poeti è sempre stata una noia mortale. La poesia non è stata apprezzata perché ha dimostrato di non avere fegato, né ritmo, né palle. Chi crede che un poeta sia una persona speciale si sbaglia. In genere è solo una stupida testa di cazzo che se la mena scrivendo versi incerti, senza capo né coda.
Prendi persino i Cantos di Ezra Pound (che a me piace e molto): difficilmente fermerebbero un uomo dal suicidarsi.
A cosa serve l’Arte se non ad aiutare gli uomini a vivere? A cosa serve…
Io scrivo poesie e mi piace farlo.
DONNA — Credi che quello che hai scritto tu abbia aiutato qualcuno a continuare a vivere?
B. — Ha aiutato me a continuare a vivere.

Silenzio.

Potresti leggere qualcosa di mio, domani. Quando torni a casa.
DONNA — Io dipingo.
B. — Ah.
DONNA — Ogni giorno, quando finisco qui, al lavoro, devo tornare a casa. Immediatamente. Ho una stanza dove non c’è nessun mobile. Completamente vuota. Mi tolgo le scarpe. Stendo un rotolo di carta da pacchi, abbastanza grande per coprire tutto il pavimento. Poi mi spoglio, mi rovescio addosso le tempere, i colori.
B. — Ah.
DONNA — In una vasca di ferro zincato. Abbastanza grande per farmi entrare tutta. E quando sono tutta coperta di colore… blu cobalto, magenta, ocra… si mischiano tutti!… e quando sono tutta coperta da questo colore indistinto, mi distendo sul pavimento, dove sopra c’è la carta, e inizio a rotolarmi.
B. — Ah.
DONNA — Rimango lì per ore. Mi dimentico anche di mangiare a volte e continuo a rotolare fino a che non ho coperto tutta la superficie.
B. — Ah, interessante.
DONNA — Lo faccio per riempire il vuoto.
B. — Sì. Riempire il vuoto.
DONNA — È importante per me.
B. — Sì è importante.
DONNA — Mi fa sentire viva.
B. — Ah, ti fa sentire viva.
DONNA — Ma perché ripeti ogni cosa che ti dico?
B. — Io?
DONNA — Mi stai prendendo per il culo.
B. — No.
DONNA — Lo sapevo.
B. — No, al contrario.
DONNA — Non avrei dovuto dirtelo.
B. — È che stavo pensando…
DONNA — Che stronzo
B. — A tutta la scena.
DONNA — Bastardo.
B. — A te che esci dalla vasca di ferro zincato, piena di colore.

Silenzio.

DONNA — Stai al posto tuo.
B. — Sono il tuo cagnolino, dai trattami male.
DONNA — Smettila.
B. — Mi piace.
DONNA — Smettila!

Silenzio.

B. — Tu hai avuto un’adolescenza con tutti i crismi. Chi aveva tanti amici, allora, stava sempre fuori casa. Camminare, giocare, pisciare dietro gli alberi. Pomiciare, spogliarsi. Non hanno letto niente. Non hanno letto niente di niente. Hanno preso le loro cotte, si sono baciati, hanno scopato, si sono sposati e hanno fatto i loro figli. E non hanno letto niente. Tu hai avuto un’adolescenza del genere.
DONNA — E tu invece rimanevi a casa.
B. — No, anch’io passavo la giornata fuori. Sedici anni. Metà del tempo l’ho passato nei bar e metà nelle biblioteche.
DONNA — Così sei diventato un poeta ubriacone.
B. — Così ho fatto i soldi.

Silenzio.

DONNA — Ce l’ho.
B. — Cosa?
DONNA — Il tagliaunghie.
B. — Dove?
DONNA — Da qualche parte. Qui.
B. — Linda non scherzare.
DONNA — Non sto scherzando.
B. — In questo momento darei tutto quello che ho per potermi tagliare le unghie.
DONNA — Dev’essere qui… da qualche parte.
B. — Mi danno un fastidio…
DONNA — Aiutami a cercarlo.
B. — Non c’è molto da cercare.
DONNA — E aiutami!
B. — Maledetto tagliaunghie.

Cercano nella stanza ma non trovano niente.

Niente.
DONNA — Niente, mi dispiace.
Dimmi che facevi all’inizio.
B. — Ho vissuto.
DONNA — Cioè?
B. — Di tutto.
DONNA — Cioè?
B. — Macellaio, magazziniere… ho fatto il guardiano, una fabbrica di scarpe, molto lontano da casa. Ho lavorato come ferroviere.
DONNA — Ma come è iniziato tutto?
B. — Come devo dirtelo… per errore. Ho preso l’abitudine di oziare nei bar, mi piaceva perdere il mio tempo. Poi ho iniziato a fare piccole commissioni, derubare ubriaconi, essere derubato, scoparmi una donna pazza dopo l’altra, avendo fortuna, avendo sfortuna, tirando a campare, fino a quando all’età di trentacique anni, mi sono ritrovato nella corsia dei poveri dell’ospedale, con un’emorragia dal culo e dalla bocca che mi stava dissanguando, abbandonato in mezzo al corridoio per tre giorni prima che qualcuno decidesse che mi serviva una trasfusione.
DONNA — Mi dispiace.
B. — Comunque sia, sono sopravvissuto, ma quando sono uscito di là il mio cervello era un po’ andato a male e dopo anni di astinenza dalla scrittura ho trovato da qualche parte una macchina da scrivere e ho cominciato a scrivere poesie. Non so perché, ma le poesie sembravano una minor perdita di tempo. Tutto qui.
DONNA — Io non ho mai cambiato lavoro.
B. — Ti sei abituata al veleno.
DONNA — Quale veleno?
B. — Il lavoro. Chi ne prende dosi minime ogni giorno, diventa immune a quel veleno.
DONNA — A me piace il mio lavoro.
B. — Certo, un bell’ambiente, buona compagnia…
DONNA — Questo è il mio posto.
B. — Si, ho capito. Va bene. Ma cos’è questo posto? Una caverna! Il mondo è grande, là fuori. Stanno gridando il tuo nome, ma tu non li senti.
Lindaaaaaa! Lindaaaa!
DONNA — Forse è così. Hai ragione. Dammi le chiavi, che esco a vedere.
B. — Troppo presto. Tra quanto finisce il tuo turno?
DONNA — Qualche ora.
B. — Arriverà un brutto ceffo, che si occuperà del mio corpo. E della mia anima. Non siamo all’inferno?
DONNA — Può darsi.

Silenzio.

B. — Ti sei già stancata di me?
DONNA — Non mi sono stancata di te. È che ogni tanto mi fai incazzare.
B. — Dammi un’altra birra.
DONNA — Sei già su di giri.
B. — Linda dammi un’altra birra!

Lei gliela dà.


 

IV Scena

 

Lei è sdraiata sul tavolo. Ancora più lattine per terra.

B. — Un cane, per strada
mi abbaia.
Forte.
I denti aguzzi,
digrignanti.
Sembra un demonio.
Sei bellissimo!
Gli faccio un sorriso anche io.
Forse è questo l’amore?
Sono così elettrico che
mi viene voglia di fare a botte.

Mi hai chiamato moscone?
Mi hai chiamato… moscone?
Perché sono grande e grosso?
Che fantasia…
Avanti,
vieni avanti.
Arrendermi sarebbe come ingoiare
piscio
per l’eternità.
Colpiscilo,
dicono.
Abbasso la guardia.
Dai,
gridano.
Mi diverte, questa situazione,
incito un po’ il pubblico.
Faccio il moscone,
le mie braccia sono le ali,
me le sfrego davanti al naso.
Svolazzo.
Lui si innervosisce.
Mi viene vicino e… sbam!
Mi sanguina il labbro.
Mi ha appena colpito con un diretto.
Ho sentito la pelle del labbro di giù
disfarsi come carta velina.
Adesso è un bel casino.
Il sapore del sangue è dolce.
Avrò bevuto troppo.
Smetto di fare il buffone,
decido di giocarmela anche io
questa partita,
carico il mio destro…
centro!
Preso, come un moscone.
Si è accasciato sul cofano
della sua auto parcheggiata
in divieto di sosta.
Gli faranno una multa.
Ti chiamo il prete, eh?
O un vigile urbano?
Mentre tua madre sarà al tuo funerale,
mi faro fare una sega da lei.
(Ride)
Il bastardo ha fegato, reagisce,
cerca di prendermi di sorpresa,
ma mi manca,
e si butta addosso a me,
cadiamo,
siamo in due a terra.
Due corpi che lottano per sopravvivere.
Ammazzalo,
ammazzalo!
Mi spalmo sopra di lui,
non riesce a respirare.
Chi è il moscone adesso?
Ti fai soffocare da un moscone?
(Ride)
Non so come, ma questo stronzo
mi rovescia e inizia a colpirmi in faccia.
Uno!
Due!
Tre!
Quattro!
E così via.
La gente intorno conta.
La gente ama sempre contare,
soldi o pugni in faccia non fa differenza.
La sensazione di avere un labbro ormai è un vecchio ricordo.
La mia faccia è una maschera rossa.
Ehi, è tutto quello che sai fare?
(Ride)
Si rialza
e inizia a colpirmi con la punta degli stivali nello stomaco.
Sento distintamente uno di quegli organi molli,
sotto la pancia che si spappola,
come un frutto troppo maturo.
Continuo a ridere.
Sei un pezzente!
Mi sembra che gridi,
Sei un pezzente!
Ma io non lo sento più,
vorrei un po’ di vodka
perché inizio a sentire freddo
allo stomaco.
Arrivano due omini, lo prendono per le braccia.
Gli dicono di smetterla di prendermi a calci in pancia,
che ormai ha vinto.
Quello grida,
io lo odio quell’ubriaco!
Odio la sua voce,
odio il suo puzzo,
odio quello che dice!
Io me la rido sotto la mia maschera di sangue.
Mi lasciano lì.
A terra.
Hanno paura che li possa sporcare.
Dormo tutta la notte sull’asfalto.
Le stelle sono più luminose se le guardi da sbronzo.


 

V Scena

 

DONNA — Ma come fai a scrivere…
B. — Non lo so.
DONNA — È difficile…
B. — Sto male se non lo faccio.
DONNA — Io sto male se bevo troppo… come adesso…
B. — È che… di solito l’unica cosa che desidero è stare da solo, a casa, nella penombra della mia cucina, le tapparelle abbassate da cui filtra una leggerissima luce dorata. Una nuvola di fumo di sigaro sopra la testa e sul tavolo una bottiglia aperta e la macchina da scrivere.
Non penso, ho il vuoto in testa. Perlopiù non vedo niente. Sento dei suoni. Qualcuno in fondo alla strada che dice qualche luogo comune. Niente sta funzionando o sta cercando di funzionare. Non penso mai, sono un poeta, registro. Se c’è sentimento in me è più che altro la sensazione che io abbia dei ciuffi di peli bianchi sulla pancia e che sulla nuca ci sia una ciocca che non dovrebbe stare lì. Sono per la maggior parte del tempo corpo senza mente, corpo senza mente.
Non so quando scrivo meglio e come. Molte volte succede quando ho perso alle corse.
Sei mai stata all’ippodromo?
DONNA — No, ma mi piacciono i cavalli.
B. — Anche a me piacciono. Non mi piace la gente.
DONNA — Tu vai all’ippodromo a vedere le corse?
B. — Se posso, ogni giorno.
DONNA — E scommetti?
B. — Certo, se no perché andarci?
DONNA — Per trovare ispirazione.
B. — Negli ippodromi c’è da imparare per chiunque. Il messaggio non è chiaro ma a me serve.
È un messaggio senza parole, come una casa che brucia, o un terremoto o un’alluvione, o una donna che scende da una macchina e mostra le gambe. Non so di che cosa hanno bisogno gli altri, ma io sono prigioniero delle mie abitudini, dei miei pregiudizi. Non è male essere stupido, se si tratta di un’ignoranza tutta propria.
DONNA — Hai detto che non ti piace la gente.
B. — Certo la gente non mi piace, ma la folla… La folla urla, rumoreggia, tracanna birra. Sono lì, in libertà provvisoria dalle fabbriche, dai magazzini, dai macelli, dalle stazioni di servizio… il giorno dopo devono tornare dentro ma in quel momento sono fuori… sono ubriachi di libertà. Non pensano alla schiavitù della povertà. O alla schiavitù della pubblica assistenza e dei buoni pasto.
E poi scommettere… ti fa sentire vivo.
DONNA — Capisco.
B. — No, non puoi capire. Non ancora.
DONNA — Vieni qua parliamo. Cosa vuoi farne di me?
B. — Te l’ho detto…
DONNA — Sul serio. Mi devi lasciare andare quando finisco il turno.
B. — Come vuoi. Anzi facciamo una scommessa.
Io metto le chiavi qui sopra. Testa o croce.
Se esce testa, tu rimani qui con me ancora e io esprimo un desiderio.
Se esce croce, puoi prendere le chiavi e andartene.
Io chiuderò gli occhi, non voglio vederti.
DONNA — Va bene.
B. — Dammi una moneta.
DONNA — Non ce l’ho.
B. — Come è possibile?
DONNA — E non ce l’ho.
B. — Come?
DONNA — Ho un pezzo da dieci?
B. — Come?
DONNA — Ho un pezzo da dieci. Di carta.
B. — Cristo, e come faccio a fare testa o croce?
DONNA — E che ne so, è un problema tuo.
B. — Un problema tuo? Mi sembra un problema nostro.
DONNA — Ma perché mi metti sempre in mezzo?
B. — Perché tu non hai rispetto.
DONNA — Io?
B. — E oltre a essere una violenta, sei anche una fica di legno.
DONNA — Tu sei… tu… sei… ho trovato la moneta.
B. — Meglio così.
DONNA — Meglio un corno.
B. — Stai zitta.
DONNA — Ma chi ti credi di avere di fronte?
B. — Stai zitta!

Silenzio.

Testa: desiderio.
Croce: chiavi.
DONNA — Devi metterla più a destra.
B. — Cosa?
DONNA — La moneta.
B. — E perché?
DONNA — Devi metterla più a destra perché se no non gira.
B. — Ma che ne sai tu?
DONNA — Io faccio così.
B. — Secondo te non ho mai fatto testa o croce con una moneta?
DONNA — Io ho sempre fatto così, la metto più a destra.
B. — Secondo te non sono capace di fare testa o croce con una moneta?
DONNA — Io dico semplicemente che la metto più a destra e che dovresti farlo anche tu, altrimenti…
B. — Mi stai dando dell’imbecille?
DONNA — No, devi metterla più a destr…
B. — Mi stai dando dell’imbecille.
DONNA — No….
B. — Allora, se io sono un imbecille, incapace a far girare in aria una moneta. Fallo tu…
DONNA — Ma no…
B. — No, fallo tu…
DONNA — Io non…
B. — Fallo tu, cristo! (Le dà la moneta)
DONNA — (fa una prova senza lanciarla, poi decide che è meglio di no) Fallo tu.
B. — Mi hai stancato, mi fai perdere la testa, mi fai perdere le staffe, mi merito io tutto questo? Dimmi me lo merito?

Silenzio.

B. — Avanti. Testa: desiderio. Croce: chiavi. (Lancia la moneta)
Uno, due e… tre. (La ferma a mezzaria, poi si mette una mano sugli occhi)

Lei guarda la moneta, poi silenziosamente prende le chiavi, apre la porta ed esce.

Allora? Sono sicuro che è uscito testa. Vero? Posso riaprire gli occhi? Posso riaprire gl… (Riapre gli occhi, si guarda intorno, inizia a camminare nervosamente, poi dà un pugno sul tavolo) Cento chili, eternamente sperduto e confuso, gambe corte, torso da scimmione, tutto petto, niente collo, testa troppo grossa, occhi annebbiati, capelli spettinati, un metro e ottanta di relitto. I rifiuti come me non finiscono mai con le donne pulite di questo mondo. I rifiuti finiscono coi rifiuti. E tanti rifiuti accumulati nel tempo sono una discarica.
Croce, croce, maledetta croce. Se fosse uscito croce certo se ne poteva andare. È uscito testa, cazzo. Testa. Testa, testa… testa, testa testa testa. Maledetta testa mia che non capisce mai cosa succede. Maledetta testa che mi mette in testa questi pensieri… questi desideri. Non mi piace la gente normale. Io non sono normale. Ho conosciuto un sacco di donne. Perché ne voglio sempre altre? Perché provare ancora e ancora e ancora? Che cosa mi manca? Cosa? Le storie nuove. Eccitanti, faticose. Il primo bacio, la prima scopata sono cose vagamente drammatiche. La gente è sempre interessante all’inizio, ma dopo? Poi, lentamente ma senza scampo, spuntano i difetti e la pazzia. Io significo sempre meno per loro e loro significano sempre meno per me. Che cos’è l’amore? Vecchio e brutto, ecco perché mi piace tanto sbatterlo dentro le fiche giovani. Sono King Kong e loro sono tenere e flessuose donne. Sto cercando di fregare la morte a furia di scopare. Non voglio invecchiare, non voglio sentirmi vecchio. Voglio dare le dimissioni io, prima che ritorni la morte. L’idea proibita del sesso, mi eccita, mi fa perdere la testa. È come un animale che pugnala un altro per sottometterlo.
Quando vengo mi sembra di farlo alla faccia della decenza, sperma bianco che cola sulle teste e sull’anima dei miei genitori morti. Se fossi nato donna avrei fatto la puttana, ma dato che sono uomo impazzisco per tutte le donne e più sono volgari meglio è. Eppure le donne… le donne che valgono qualcosa, mi spaventano perché finisce che vogliono la mia anima e io voglio tenere per me quel poco che ne resta ancora. Desidero con tutto me stesso una donna dolce, buona, nonostante il prezzo tremendo da pagare. Sono perduto. Un uomo forte lascerebbe perdere. Io non sono forte. Io non sono forte!
Che cos’è l’amore?
Dall’altra parte ho visto:
Un cane, per strada
mi abbaia.
Forte.
I denti aguzzi,
digrignanti.
Sembra un demonio.
Sei bellissimo!
Gli faccio un sorriso anche io.
Forse è questo l’amore?
Questo cane, non c’era prima,
mi è venuto a trovare nel sonno.
È venuto dall’inferno.
Che cos’è? Che cos’è l’amore?
È un cane. Un cane venuto dall’inferno.
E io, ormai, ci sono dentro, tra le fiamme.
Brucio, brucio di passione, più brucio e più vorrei bruciare.
L’amore è un cane che viene dall’inferno.
Perché te ne sei andata? Perché? Perché te ne sei andata maledetta puttana! Puttana puttana!


 

VI Scena

 

Lei torna e si affaccia sulla porta, lui non se ne accorge. Ha in mano una bottiglia di vodka. Posa bottiglia e chiavi sul tavolo.
Silenzio.

DONNA — Mi fai schifo. Mi fanno schifo gli uomini come te.
Mi fanno schifo gli uomini che mentono, che urlano,
che buttano via la vita come se fosse una bottiglia vuota.
Mi fanno orrore quelli che mettono su famiglia e poi se ne vanno.
Anche quelli che fanno la famiglia e poi se ne lavano le mani,
continuando a viverci dentro serviti dalla loro schiava,
che ha l’unica colpa di essere nata con qualcosa in meno tra le gambe.
Quelli che vivono soli, nella loro stessa sporcizia mi disgustano.
Mi viene da vomitare solo a pensarci: non si danno da fare,
non lavano i piatti, non si lavano, non lavano i loro denti,
i loro piedi, le loro mani.
Non si cambiano la biancheria.
Lo sporco nella testa, davanti agli occhi.
Non vedono altro. Mi fanno schifo.
E poi, i puttanieri. Quelli che tradiscono,
che se la cercano e poi ti raccontano che non è colpa loro,
che non hanno pudore nel mentire,
negheranno anche davanti all’evidenza,
quelli che confessano in un mare di lacrime,
un naufragio difficile da sopportare,
quelli che vogliono essere capiti, compatiti, sostenuti,
quelli che riattaccano al telefono,
quelli che alzano la voce, mi fanno schifo
quelli che fanno scena muta,
quelli che pensano di comprarti con i soldi,
quelli che ti disprezzano ma rimangono perché gli servi,
quelli che pensano che una donna non può fare carriera, mi fanno schifo
quelli che una donna deve essere bella a tutti i costi,
quelli che pensano che una donna sia stupida solo per il fatto che è femmina.
Mi fanno schifo.
Mi fate schifo. Tutti.

Prende due bicchierini, uno lo porge a B. Versa il liquore, brinda. Lui rimane un po’ passivo.

B. — A me faceva schifo mio padre. Mi picchiava.

Silenzio.

Mia madre aveva i denti finti,
mio padre aveva i denti finti,
e ogni sabato della loro vita
spostavano tutti i tappeti di casa,
davano la cera al parquet
e poi lo ricoprivano ancora con i tappeti.
Vivevamo in una casa con il giardino. C’era il prato.
Il mio compito era quello di falciare l’erba. Era la mia tortura.
Mio padre si metteva in ginocchio e ispezionava il prato:
se vedeva un solo filo di erba non tagliato, prendeva la cinghia.
Colpiva molto forte. Dietro la schiena. Sulle natiche.
Una volta, Due volte. Tre, quattro, cinque, sei, dieci, venti, trenta volte.
E sai cosa diceva mia madre, che di solito stava sempre, sempre zitta?
Che era per il mio bene. Per il mio bene!
Ho odiato mio padre fino a quando non è morto. Ho invocato la sua morte.
Io… il tuo schifo, lo capisco.
DONNA — Non credo.

Silenzio.
Lei prende la pistola e gliela punta, lui non se ne accorge.

B. — Perché sei ritornata?
DONNA — Perché con te, sento la vita. La sento scorrere sulla pelle e questa sensazione mi piace. E perché ho comprato una bottiglia di vodka e volevo berla in compagnia.
B. — Vieni qui vicino.
Voglio sentire la tua pelle.

Rimette la pistola a posto e gli si avvicina.

Sst. Senti. Da dove viene questa musica?
DONNA — Non lo so. Che musica è?
B. — È una musica. Vecchia.
DONNA — Forse viene dall’impianto di diffusione centrale. Qualcuno si sta divertendo.
B. — (Ride) È buffo.
DONNA — Cosa?
B. — La musica. Mi ricorda qualcosa.
DONNA — Cosa?
B. — Un vetro sporco.
DONNA — Ah-ah?
B. — Le dita che strisciano sul vetro e lasciano un segno.
Il fiato contro il vetro, fa freddo. Il vetro si offusca. È una finestra.
DONNA — Stai bene?
B. — La musica viene da dentro. Io sono fuori.
Vedo la mia immagine riflessa nel vetro.
Sono brutto, la mia faccia… la mia faccia è un disastro.
È piena di buchi, come se qualcuno si fosse divertito a trapanarmi la faccia.
La mia faccia crivellata dall’acne.
E oltre la mia faccia bucata, c’è gente. Che balla. Si divertono.
Sono vestiti bene. Ballano a coppie e sorridono.
Provo a sorridere anche io e i denti gialli sembrano quelli di un lupo.
Smetto subito. Non c’è niente da ridere. Ma loro ballano e ridono.
Io sono l’orrendo ragazzo che evitano tutti e dentro…
dentro ci sono le ragazze della scuola e si dimenano come puttane,
come delle giovani puttane che muovono il culo a ritmo di bebop,
mi diventa subito duro nei pantaloni, poi mi viene da piangere.
Le lacrime sono dolci, tiro un sorso alla bottiglia di birra che stringo
nella mano sinistra per togliermi dalla bocca il sapore della mia sconfitta,
ma la birra calda non fa altro che accrescermi questo senso di nausea.
Inizio a muovermi anche io, mi parte un braccio, la musica mi entra dentro.
Sto ballando anche io, il ragazzone gobbo, quello che perde i suoi giorni seduto
sugli sgabelli del peggiore bar in fondo alla strada. Per me un Martini doppio.
E le mie gambe si muovono da sole, scollegate dal mio sistema nervoso centrale.
Mi sto iniziando a divertire! Ballare è divertente. Si muove tutto, tutto! È come una giostra.
Vieni qua! Balla con me!
DONNA — Non… posso…
B. — Vieni! (La afferra e la trascina in una danza sfrenata)
Lo vedi! È facile. È divertente. Dentro si divertono tutti. Divertiamoci anche noi.
DONNA — Aspetta un attimo.
B. — Sorridi! Sorridi!
DONNA — Sto sentendo freddo…
B. — La vita è bella, anche se sei il più brutto della scuola!
DONNA — Mi devo fermare…
B. — Vieni qui!
DONNA — Devo sedermi, sto sentendo…
B. — Vieni.
DONNA — Basta.
B. — Sei una cacasotto! Una cacasotto…
DONNA — Basta!
B. — Non hai le palle, non hai le palle!
DONNA — Basta ho detto! (Gli dà una spinta)

La musica finisce bruscamente.

B. — Ad un certo punto, arriva il custode, mi dice che devo andare via.
Che non sono invitato. Sono piegato in due, con una mano mi appoggio ad un tiglio.
Sbocco. Viene giù tutto, tutto. La carne che ho mangiato a pranzo, le parole che mi hanno
urlato tutto l’inverno, le cinghiate sulla schiena e tutto, tutta la birra e il vino e il wiskey e la vodka, limpidissima vodka che ho bevuto fino a quel momento.
Poi mi sono pulito la bocca e me ne sono andato.


 

VII Scena

 

DONNA — Quando mi tocchi sento freddo.
B. — È perché sono qualcosa come un fantasma. Bevi. Riscalda.
DONNA — Ho lo stomaco a pezzi.
Ti devo dire una cosa, ma promettimi di non ridere.
B. — Faccio sempre quel che posso.
DONNA — Io… no, non ce la faccio.
B. — Dai!
DONNA — Io non… mi vergogno troppo.
B. — Va bene, ti dico io una cosa che non ho detto a nessuno. Così hai meno vergogna.
DONNA — Mmh.
B. — La prima volta l’ho fatto a ventiquattro anni. Lei era grassa, ma era comunque una donna. Più di cento chili. Me la lavorai, me la lavorai… Volevo dimostrare che ero un uomo, era la mia prima volta. Ce la misi tutta. Pensai: “È questo quello di cui parlano tutti? Se questo è il sesso, fa davvero schifo”.

Ridono.

Adesso tocca a te.
DONNA — Io non… io non provo piacere da vent’anni.
B. — Ah.

Silenzio.

Da vent’anni?
DONNA — Più o meno.
B. — Sei lesbica?
DONNA — No. Non non funziona con nessuno. Uomini, donne…
B. — Hai fatto da sola?
DONNA — Non ci riesco. Neanche da sola.
B. — Hai fatto un voto?
DONNA — No.
B. — Avrai fatto un voto.
DONNA — No.
B. — Sei di qualche religione strana, forse segui qualche guru indiano…
DONNA — … No.
B. — Andiamo, non è possibile, è una storia incredibile, da non crederci, non ho mai sentito nulla di simile.
DONNA — Non ci riesco, non ci riesco, non ci riesco!

Silenzio.

(Mentre prosegue a parlare chiude la porta a chiave, si spoglia e si mette sul tavolo) L’ultima volta. A vent’anni. Gli volevo bene davvero. Se n’è andato con un altra. Poi non ho sentito più niente. Con nessuno.
Zero.
Ogni giorno, appena sveglia, mi guardo allo specchio. Nessuna emozione, nessuna espressione del viso. Un’immagine congelata. Mi sforzo di sorridere ma non ci riesco.
Ogni giorno, appena sveglia, mi guardo allo specchio e vorrei che la mia faccia e il mio corpo si rompessero in pezzi così piccoli che nessuno sarebbe capace di trovarli.
Ci provo, ci provo, ma non ci riesco. Nessuna emozione, niente cuore in gola. Nessun sorriso.
Ci ho provato per anni, da sola, con altre persone, a riprenderla questa maledetta sensazione di non essere da soli, di strapparsi la pelle di dosso, di non sentire più il vuoto. Mi basterebbe un attimo. Non ci sono riuscita.
Ogni giorno, appena sveglia, mi guardo allo specchio e mi domando se sarà quella l’ultima volta che darò da mangiare al gatto e chiuderò la porta di casa con tre mandate di chiave.
Ho comprato una pistola. Non la tengo in casa, non mi piace l’idea. 
Ma mi piace l’idea di mettere la parola fine nel posto dove dico io.
Non so perché non l’ho ancora fatto, forse non è arrivato il momento, ma penso che quando tutto quello che c’è a questo mondo non ti interessa più, quando non ti interessa più niente di niente, che vorresti trovare un angolo di pace, perché la tua testa non si spegne, è bloccata su un unico pensiero che gira impazzito e non lo riesci a fermare, e non vedi più niente davanti ai te, e perdi gli amici, e perdi l’affetto della famiglia, e rinunci alla bellezza delle cose, non hai più una ragione per continuare. Quello è il momento in cui non hai più scelta. E io ci sono molto, molto vicina.
Ho messo la pistola in un posto sicuro, ogni tanto la guardo e mi chiedo che suono farebbe in questa stanza dove rimbombano anche le parole…
B. — Che cosa stai facendo?
DONNA — Prendimi.
B. — Che?
DONNA — Prendimi, fai quello che volevi fare.
B. — Così su due piedi…
DONNA — Hai detto che sei un mago tra le lenzuola…
B. — Adesso non le vedo. Non ce ne sono.
DONNA — Prova a immaginarle.
B. — Non pensavo la facessi così facile. (Prende la bottiglia, dà un ultimo lungo sorso) Sono pronto.
DONNA — Non ancora.
B. — Che c’è?
DONNA — Togliti i calzini.


 

VIII Scena

 

B. — (attaccato alla bottiglia) Ecco il problema di chi beve.
Se succede qualcosa di brutto si beve per dimenticare;
se succede qualcosa di bello si beve per festeggiare;
e se non succede niente si beve per far succedere qualcosa.
Forse è arrivato il mio tempo.
Il cane, dall’altra parte, scondinzola. Mi sta chiamando.
DONNA — Sai qual è la cosa strana? È che…
B. — Che?
DONNA — Che quella sensazione di freddo, se n’è andata via. Ho sentito caldo… molto caldo.
B. — Mi fa piacere.
DONNA — Non credevo potessi riuscirci di nuovo. È stato strano… come morire per un istante e poi ritornare qui, con te, in questa stanza, qui sotto. È buffo dirtelo così, ma… grazie.
B. — Quanto manca alla fine del turno?
DONNA — Poco, qualche manciata di minuti.
B. — E questo cos’è?
DONNA — Eccolo!
B. — Maledetto tagliaunghie. È stato sempre lì e non ce ne siamo accorti.
DONNA — Non ce ne siamo accorti… (lo prende) vieni qua.
B. — Ancora?
DONNA — Vieni qua togliti le scarpe, siediti.

Lui si siede sul tavolo.

Hai delle belle gambe.
B. — L’ho sempre detto, non mi crede nessuno.
DONNA — Io ti ho creduto. (Inizia a tagliare le unghie)
B. — Aspetta. Devo scrivere.
DONNA — Cosa?
B. — Devo scrivere.
DONNA — Adesso?
B. — Sì, adesso, dammi qualcosa. Un pezzo di carta, qualsiasi.
DONNA — Non ho finito.
B. — Un pezzo di carta.
DONNA — Ho un tovagliolo. È già scritto da un lato. Ci sono dei numeri…
B. — Va bene lo stesso. La penna.
DONNA — Blu.
B. — Dammi.
DONNA — Cosa scrivi?
B. — Silenzio, prego.
(Finisce di scrivere)
È l’ultima cosa che ho scritto, tienitela stretta.
DONNA — Su un tovagliolo? Dove vai?

B. si avvicina al nascondiglio della pistola.

DONNA — Cosa… stai… facendo?

B. prende la pistola in mano.

Come facevi a sapere che era lì?
B. — Ti ho spiata. (Le punta la pistola)
DONNA — Non puoi farmi questo.
B. — (gira la pistola e gliela porge) Uccidimi.
DONNA — Cosa?
B. — Ho fatto tutto quello che dovevo fare. Premi il grilletto, zucchero.
DONNA — Non posso farlo.
B. — Ho passato tutta la vita a distruggere il mio corpo. Devi fare l’ultima mossa. Riportami dall’altra parte. Riportami indietro.
DONNA — Non posso.
B. — Sono su un burrone, in bilico. Devi darmi una piccola spintarella.
DONNA — Perché te ne devi andare adesso?
B. — Perché non riesco a essere di nessuno. Perché posso solo mostrare la strada per perdersi.
Sono contento che tu l’abbia ritrovata. E perché tutti sanno già che me ne sono andato. Che sono già morto.
Ma adesso che il tempo sta per scadere per davvero, come hai detto tu, sta finendo il tuo turno notturno, mi voglio prendere gioco di questo inferno. Me ne voglio andare con stile. Capisci?
Ah, un’ultima cosa sulla mia tomba ci sarà scritto: “Non ci provare,
perché se devi fare una cosa, falla e basta, non avere paura
non temere di fallire, non provare tanto per provare,
ma riuscirci, questo è il segreto”.
Era bello avere una scelta.
Io, la mia, l’ho fatta da un pezzo.
(Si rimette sul tavolo)
Forza, spara. Uno, due e…

Non si sente alcuno sparo. Va via la luce, che ritorna subito dopo. La pistola è sparita, non ce l’ha più nelle mani.
La donna legge la poesia sul tovagliolo in silenzio. Parte una voce off.

Bluebird

there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too tough for him,
I say, stay in there, I’m not going
to let anybody see
you.
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I pour whiskey on him and inhale
cigarette smoke
and the whores and the bartenders
and the grocery clerks
never know that
he’s
in there.
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too tough for him,
I say,
stay down, do you want to mess
me up?
you want to screw up the
works?
you want to blow my book sales in
Europe?
there’s a bluebird in my heart that
wants to get out
but I’m too clever, I only let him out
at night sometimes
when everybody’s asleep.
I say, I know that you’re there,
so don’t be
sad.
then I put him back,
but he’s singing a little
in there, I haven’t quite let him
die
and we sleep together like
that
with our
secret pact
and it’s nice enough to
make a man
weep, but I don’t
weep, do
you?

La donna prende il lenzuolo, rimette a posto il braccio di lui.
Gli toglie un anello e se lo mette.
Si toglie la divisa, prende la chiave, apre la porta ed esce.

 

 

Fine