Capodanno

di

Laura Bucciarelli


(Posizione SIAE n.189257)
testo finalista al premio Oltreparola 2009


Monologo per una donna con valigia.


Non puoi immaginare quanto è facile avere della morfina.
Tornando a casa, ne ho trovate due fiale sul comò.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Secondo la terapista del dolore, mia madre soffriva più di quanto non sembrasse.
In effetti, erano notti che urlava a ritmo del respiro.
Il resto non serviva più, così ha tirato fuori la morfina dalla borsa.
Dopo tre giorni, mia madre è morta  e ho lasciato la morfina sul comò per un paio di mesi.
Poi l’ho riportata in ospedale.
Io non vado mai dal medico.
Ho fatto le ultime analisi del sangue nel 1989.
Non sono mai stata dal ginecologo.
Non vado dal dentista dai tempi del liceo.
Quando ho mal di denti prendo 6 aspirine al giorno per quindici giorni.
Quando ho la bronchite asmatica respiro piegata sul tavolo,
finché non chiamo la guardia medica,
che mi brontola, mi fa un’iniezione di cortisone
e mi spruzza il Ventolin a distanza di 20 centimetri dalla bocca – per non toccarlo.
Mi faccio una settimana di antibiotici e cortisone e dimentico tutto fino alla prossima volta.
Avevo i calcoli alla cistifellea e non so che fine hanno fatto.
Due anni di mal di schiena e non so per quale motivo.
Ho la cistite un mese sì e uno no.
Sono piena di escrescenze in tutto il corpo.
Non ci penso neanche a dimagrire.
La mia fortuna è che non sono malata.
Io sono sana.
Da malata, potrei mandare tutti al supermercato,
con i prodotti dai colori giusti, quelli che fanno vendere meglio
e avrei con la televisione accesa
per non guardare quei tre parenti
sopravvissuti all’epidemia di cancro.
Starei al computer a giocare a dress up,
a vestire le bamboline giapponesi, come da piccoli,
con le bamboline di carta.
Non sto scherzando.
Mi vantavo di guardare in faccia il dolore.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Sono andata a tutti i funerali,
in tutti gli ospedali,
ho guardato film d’essai,
ho abbracciato le persone.  
Ho curato il dolore con un altro dolore,
una malattia con un’altra malattia.
Non mi sono cucita la fica né me la sono inchiodata,
non mi sono infilata aghi dentro ai capezzoli,
non mi sono tagliata finemente la pelle del culo,
non mi sono ricamata le guance,
non mi sono fatta sventrare con un rasoio,
non ho pisciato sangue blu.
Ho indossato abiti sobri,
ho tenuto comportamenti misurati,
sono stata accondiscendente,
sono stata complice,
ho detto di sì,
ho lasciato fare,
ho lasciato perdere,
ho lasciato andare,
ho permesso,
ho fatto finta,
ho dimenticato,
ho omesso,
mi sono fermata,
ho chiuso gli occhi,
ho dormito,
ho mangiato cibo avariato.
Ho cancellato i desideri.
Basta nascere sotto una buona stella.
Qualcuno avrà già detto una cosa del genere.
Non sto scherzando.
Non ho una malattia mortale.
Ma l’avrò presto.
Quand’è che le cose vanno proprio male?
Non è che non so immaginarlo.
È che il mondo non mi riguarda.
Il dolore del mondo non è il mio.
Ho la fantasia appiattita.
La morte è certo una condizione migliore
ma uno mi ha detto che i suicidi rivivono il suicidio per l’eternità –
se ti sei buttato dal sesto piano, ti butterai dal sesto piano,
se ti sei tagliato le vene, ti taglierai,
se ti sei impiccato, poi…
per sempre e con dolore -
perciò aspetterò.
Mi terrò la paura della morte
ma non è mica un lavoro
e la paura del dolore
ma non è mica nella lista della spesa.
Qualcuno avrà pur detto una cosa del genere.
Nel frattempo, voto per il re delle notti bianche
e l’apertura selvaggia dei negozi.
Vedo i film di natale – poltrona prenotata - alla multisala.
Faccio la fila in autostrada  - senza pensare ai reparti di rianimazione.
Leggo i titoli dei giornali locali con i pensionati investiti dagli autobus, gli spacciatori albanesi e la programmazione dei cinema porno.
Faccio un nuovo contratto telefonico.
Rispondo di sì a tutti quelli che chiedono dieci euro
per la ricerca sul cancro,
la fibrosi cistica,
la leucemia,
le cardiopatie,
il morbo di Alzheimer,
la talassemia
e gli animali abbandonati.
Compro tre chili di arance al triplo del loro prezzo,
un uovo di Pasqua senza sorpresa dentro,
un bonsai che morirà entro una settimana,
una pianta di gardenie appassita.
Tutto pur di salvare il salvabile.
Non è detto che si debba soffrire per forza.
Qualcuno avrà pur detto una cosa del genere.
Ho deciso di partire.
Il mondo di notte, dall’aereo, è una costellazione.
Concentrazione massima di stelle
in agglomerati urbani ad alta densità abitativa e intrecci di strade a due corsie.
Concentrazione minima di stelle
nelle campagne, abitate da casali nobili e stalle per maiali morituri.  
Questo me lo scrivo.
Qualcuno avrà mai detto una cosa del genere? E si dice? Eh?
Bisogna andare a passare l’ultimo dell’anno lontano da qui
per scappare dall’ultimo dell’anno di qui.
Non sto mica scherzando.
Penso a giornate seduta ai tavolini, a bere caffé e fumare.
In giro per librerie o musei. Mercati. Ristoranti.
Panchine comode di parchi immensi. Tram. Taxi. Metro.
Tutto a mezz’aria.
E non voglio parlarne con nessuno.
Quelli che mi parlano hanno molto da dire.
Hanno problemi che li torturano.
Hanno urgenze, emergenze, idee, programmi, progetti, soluzioni, domande.
La Politica. La Società. La Povertà. L’Arte. I Cani. Il Dolore. La Sofferenza. L’Amore.
Pensano anche per me. Menomale.
Non sto scherzando.
Qualcuno potrebbe capire male ma io sono sollevata.
Io voglio dimenticare tutte le parole che mi perseguitano.
Io non voglio avere ricordi.
In cielo, non vedo niente.
In alto è tutto nero, in basso è tutto nero.
Il mondo sparisce.
Un carrello stretto passa a vendere panini di plastica con burro e salame o burro e formaggio dal costo di 7 euro l’uno
oppure gratta e vinci e cataloghi di profumi e magliette della compagnia aerea.
Un mondo di colori a portata di mano.
Meglio della televisione.
Perché lo steward è biondo e sorride e fa le piroette con il giubbotto gonfiabile.
Non posso tollerare interferenze.
Morfina.
Niente fiabe.
Quando non dormivo mai,  
mi raccontavo storie di morti, malattie, tradimenti e matrimoni –
io diventavo pazza e mio marito mi curava e mi tradiva e la sua famiglia mi disprezzava e poi io mi buttavo sotto un treno – e avevo 12 anni -
per piangere fino a stancarmi.
Bisogna avere buoni motivi per piangere.
Nessun motivo per nasconderne altri,  
più terribili della vecchia che venne a uccidermi una notte
col coltello sullo stomaco.
Questo, non l’ha mai detto nessuno.
Adesso voglio essere felice e il mondo mi aiuta.
Con il bianco dei pavimenti, dei neon e delle pareti.
Luci accecanti con oggetti e musica.
Il supermercato più bianco dell’ospedale,
non è meraviglioso?
Non sto scherzando.
Voglio andare nel mondo.
Il mondo è fatto per me.
Le vie di fuga delle mattonelle nei centri commerciali mi danno le vertigini,
come un insetticida.
Sciami di scarafaggi a narici aperte.
Questo, qualcuno lo ha detto di sicuro.
Certo che, se salissi su un grattacielo, forse scivolerei giù.
E’ meraviglioso - sarei morta prima di arrivare a terra - ma meno efficace dei cartoni animati.
Willy il coyote ha un obiettivo.
Ha un desiderio. Uno, preciso.  
Io parto. In volo.
L’interno è tutto bianco, foderato di plastica, morbido e la testa vibra.
È bellissimo. Non vorrei più scendere a terra.