Cemento e l’eroica vendetta del letame

di Massimo Donati e Alessandra Nocilla

© 2012. Tutti i diritti sono riservati

 

Spazio scenico: a sinistra, tre solidi scatoloni dal fondo nero adatti ai lavori in campagna, voltati e ordinati nel senso della profondità; al centro, una sedia di legno accanto a un secchio da cantiere pieno di ghiaia, sabbia e gesso; a destra, in proscenio, una bicicletta di trequarti.
Nel buio, entra un uomo che comincia a parlare a voce piena.

«Tino va a ciappar la bala!»

Luce a pioggia su di lui che, più tranquillo, ripete e parla a se stesso, rispondendosi come fosse un altro.

«Tino va a ciappar la bala!»
«Oh bela! E perché me?»
«Perché l’hai calciata giù te!»
«Calciata me? M’ha sfiorat’ il pé! Mi go deviato un zinzighino».
«Un zinzighino? L’hai canelata nel burrone!»
«Non vado».
«Dai, Tino, tu g’hai la bici… Sai cusal fem? Cro-no-me-tria-mo! Col Casio!»
(Bofonchia qualcosa, sorpreso, indeciso. Poi) «Bastardo!… Vabbè va! dai il via».
«Via».
«Eh aspetta! E si dà in così».
«Scherzavi. Dai, prepara. Un, due, tre, via».

(Salendo sulla bicicletta, accompagnato dalla musica, concitato) E allora branco la cicletta e vo! (Pedala rapido) Corro! A maneta per la discesa! Senza mani! (Si alza in piedi sui pedali) Urlo: Mi rompo il collo, stavolta mi rompo il collo! Sun mat! Discensa nummer uno: Asfalto, asfalto, asfalto, quercia in fondo! La prendo o la manco? Mancata! Giro a novanta, seconda discesa: ghiaia pura – cadi lì in pantaloncini corti te! – ma niente, integro. Fine discesa: inizio valle. Sterrato: ciocc de legno! Ciocchi, ’vunque. E di colpo non son ciocchi: son giocatori dell’Atalanta in area de rigor! E io il grande Gigi Riva, e vado via: area grande, area piccola, vedo la porta…

S’interrompe la musica.

(Scende dalla bici, improvvisamente calmo e serio) …Ché dai sei ai dodic’anni, qualunque limite natural, sbordamento, burron, steccà è un’area di rigore avversaria!

Riprende la musica.

(Risale in sella) Ma via, niente da distrarse! Perché ghè il campo, con l’erba alta come mi e i fili con la currente elettrica per le vache… (Come se gli urlassero dall’alto) “Occio testun! Che se arrivi giusto, te decollassi” (fa il gesto della lama sotto il collo).

Fine della musica.

(Frena. Scende dalla bicicletta) Fine campo, e poi buio, anche se é giorno, perché mi accoglie lui in tuccia la sua belesa selvaggia, la sua naturalessa, lui, il protagonista vero di questa cursa scervelata, lui è lì che aspeta me: (sospensione) Il Grande Bosco. Che sale su e non c’é un nagot che lo interrompa. (Pausa)
E la boccia? (Si guarda in giro, comincia a brancolare) Certo che ho tirà propri ’na bela lecca!
(Si ferma) Calma Tino, il bosco é il bosco, niente stupidat. Teo lì il balun! Lo chiappo visin a un cespuglio, ma è proprio ora che sento i versi d’un mostro bicefalo che arriva dal bosco. E me non scappo più, mi inoltro e g’ho paura, ma ho de veder, go da veder perché é cosa meravigliosa che non mi ricapita più. E alura mi accovaccio e finalmente vedo. E poi scappo. Ma con la bala sot al bracio.

Buio. Si sente una campanella di tribunale. Luce. L’uomo è seduto e aspetta, serio. Ha cambiato atteggiamento. Finché, una voce fuori campo…

«…Silenzio in aula. L’imputato Martino Scarpa detto Tino risponde al reato di danneggiamento per aver reso inservibili scavatrici, ruspe e trivelle dell’impresa Fishing Sport, mediante ingenti quantitativi di letame, il giorno 14 settembre 2010, in località Nembiate nella proprietà di Maria Scarpa, Luisa Scarpa e dello stesso Martino Scarpa. Sono ammessi i corpi di prova A1 (biciclo a pedali da corsa marca Taurus), e A2 (contenitori in plastica PVC). Avendo il medesimo imputato Martino Scarpa detto Tino, domandato l’ultima parola, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 523, gli viene concessa. La parola all’imputato».

(L’imputato, perciò, si alza) Montagna era la mia prima cicletta…

La campanella del tribunale lo interrompe, come se volesse tagliar corto.

Eh no, mi dispiarse, lo digo insubbito, ghe de aver patienza che la storia de la merda gu de dispiegarla tuta per intera, ché la faccenda da sola, sgn’utata, non sa de niente, la vuol dir un casù. E siccome non avrò mai più di dar la mia version, go de dir tuch, tutto! A partir da quando l’ho incontrata la montagna. E cito e mosca!
Montagna era la mia prima bicicletta. Era la pineta attrezzata – che di attrezzato aveva un tavolo, in matton, e basta.
Era la Maria, mia sorela che limonava col Biscia e io facevo il palo. A pagamento.
Eran le trapunte di nona che spussaven di naftalina da stordirse. E anche la nona spusava un pochetin.
Montagna era sbasar la goba nel campo con Nona, che se lamentava cuntra l’animal, la calura, il frecch che disfazza i frutti, e la vita magra che l’aveva inciodada lì, da picina a vecia.
E l’era tuta una finta, che per Nona il campo era la vita, l’unic posto dove se facevan smiraculassi, e l’unica a custodir i miracula l’era lé!
Montagna era fin de la scuola, mattina presto, tutti via. Pa’, ma’, Maria, il Tino ghe son mi, e la Luisa. Da Nona. (Si siede. Parla con se stesso, come fosse suo padre con lui in auto)

«Papà, ho fame».
«Non ci si ferma».
«Papà, ho sete».
«Non ci si ferma».
«Papà, la pipì».
«Non ci si ferma».
«Papà, ma quando arriviamo?»
«Quando siamo arrivati».
«E quando siamo arrivati ci si ferma?»
«Non ci si ferma».

Pa’ e ma’ tornavan indré la sera. E tornavano più a trovarci da Nona perché sei giorni se sgoba e il settim se riposa stravacà. Ma la partenza era una festa… Faceva ciao la cità, con la sua prepotensa e imponenza di ripetizioni, palazzi che scolavano in altri palazzi, strade, semafor, incroci e cabine SIP. E poi si smorzava la città, dentro la corsa lenta della 126 color sabbia e scompariva in vialoni più larghi, (si alza dalla sedia) e poi Fabbriche! C’erano le fabriche da quella part de la città: la Falk, l’Innocenti, la Magneti Marelli, ma via anche loro, indria ai spall! E in periferia chiazzon di prato che stavan lì come soldati sul confin.
(Sale su una scatola e, come se non vedesse bene, con lo sguardo evoca una visione di campi) Ed ecco all’improvviso: i campi! (Sorpreso. Pausa) Era mare grande! Si perdeva l’occhio ad ogni lato, occupava la vista fino all’orizzonte e continuava e continuava, e la città diventava un remember! I paesi c’erano, ma fuggivano subito via, eran come testuggini aggrottà, in mezzo alla distesa gialla di grano e di fioranze. (Scende. Lunga pausa)
E adesso, sior dottor de la giuria? (Pausa) Adesso è un mar de cemento. (Pausa)
Dritti sulla Torino Milano Bergamo Brescia e guardé intorna. Cemento, cemento, cemento… E fra i paesi. Cemento, cemento, cemento… Fra i paesi, dico. (Pausa) Non c’è disunione fra i paesi! Dov’è che si slemban uno dall’altro? dove lo branchi l’orlo sbrantecà di uno? E se una volta almen disevi: “L’è minga bell ’stu paesit ma nel suo piccolo c’ha un suo pareggio, ha il suo perché: centro, periferia e stop”. Adesso non c’è limitanza. (Allarmato) Non c’è limite. Sioi, non c’è separazione fra cemento e cemento. Dove prima c’erano campi infiniti, ora sono brandelli sgangherat. Dove c’era il frumento, il riso, ora son capannoni in fila grandi, noiosi, e sono tutti nuovi. Quelli di una volta son altra roba: eran mica belli e buoni, ma almeno eran fatti in matton, il tetto a scaletta per scroscion d’acqua e neve, eran fatti per durare. Questi nuovi son tutto fretta e niente testa: fondo corto, muro-cartone, ’piccica insieme e via! Poi se crollan, con l’sms mandiamo 1 euro. (Si siede. Pausa)
Capannoni tutti o quasi: vuoti. VUOTI. Ascolta ’n’ignorante! VUOTI! E prima non era così. Lo posso giurar, che questi posti l’ho visti metro a metro, con la cicletta. Ché la cicletta è qui per far testimonianza. Lei è compagna e complice. E non è mezzo, no, è filosofia. Io l’ho incontrà a casa de la Nona, in montagna ed è stata prima passion, poi amore. Amore sì, che quando a diciassett’ann ho fa’ la mattata, che son scapato in Germagna, poi in Francia, e in Gran Bretagna, ho salutà nesuno ma go portà la cicletta. A dormir sota i ponta, a fatigar de porco, a sgarbelarse i ’oss, per poca monei e un cals in cul. Facchin, manoval, camionista, murator, imbianchin. Ma alora m’é venuto chiaro lo sgobar basso de la Nona. (Pausa. Si accovaccia)
E che a me la terra mi pias. Mi piace la crosta agricola, la terra d’orto, quella a pié della pianta; francica, voncia, che s’introppa d’acqua e la trattiene; e mi piace la terra di fonda e quella sbancata di cima, quella generosa, grassa e scura; e mi piace l’agro duro ma di cuore, che tiri fuori il buono solo collo schifo sudore e lacrimar da’e mani. La terra me pias. La terra è campare, la terra è il magnar. Magnati il cemento se sei buono.
Son villano, eh? Son rozzo? Ascolta ’n’ignorante! La intombiam di cementa porca la tavola che ci dà da magnar! E il cemento non torna indria. Perché il cemento l’è roba morta, e la terra agricola l’è roba viva. E se il cemento la schiassa de sopra, l’ammazza. Se uno non sa, guarda la terra e pensa che ci vuol poco: sabbia, pietra, argila, sarà mica inspezzial? È speciale. Falla te la terra viva se ti vien. La terra che dà il frutto. L’è cosa intrigata, la fa solo il tempo e la massa di vita che c’ha dentro e (sale di tono, arrabbiandosi ma trattenendo) nessuna supermegaindustria chimica, biochimica, fitofisica del casu l’è capas di far! Noi cristian non la sappiamo fare questa roba qui! Possiamo solo prenderla e spustarla.
(Si alza) E allora quando vai giù di un metro e scavi, perché devi tirar su un capannun e togli lo strato pregio, devi sapere che il fondo l’ammazzi, non si potrà mai più farlo agricolo. Perché anche se la torni scoperta la terra, al cielo libero, non darà nagott, è morta! Forse per cento, forsa per mila anni! Aspetta te a magnar! (Pausa)
I dutur disen: “Non rin-no-va-bi-le”. Finisce e ghe n’è più.

Signori dutur de la giuria. Qui intorna qualcosa l’è cambià. Son certo. Ho vista la differenzia. Prima in lontanansa e poi da dentro. Che l’era il ’78 che so scapà de casa. Quindici anni so sta’ via. Quindici, son tanta. Son andà che c’eran le ciclette e son turnà che gheran le muntanbaike. (Scuote la testa) Cambià tutto. Luisa granda, Maria mama di un bel fiulin, la Nona: (pausa breve) vecia. Vecia sì. (Pausa)
Dopo, non mi son mosso più. Da la mia terra, da la mia rassa, dal me paes del menga. Ma posso testimoniar che lo scambiamento da quando son tornato, l’è n’altra robba. Qua l’è cambià un paesagh’ intera. (Pausa)
Il mé paesaggio. Mio, sì, mio di me. Oh bestia: non l’ho minga pagà. Dico che a guardarlo e riguardà in cicletta, gli atomi di luminanza che si schiodassano dal paesaggio, entran nel crepo dell’occi, entran nel cragno e nella pancia e lì, lì fan sedimenta. E così dopo vent’ani, da qualche parte, fa un pezzo di te, é un prolungo, come un piede, un ginoccio, l’uregia. E alora devo dir che il me paesaggio l’è disgrasià. L’han disgrasiato. E non lo riconosco. (Pausa)
All’inisio me sono dumandà se ero diventà mat, se ero io che mi inventavo. O che magari l’ero depresso e vedevi nero, buio. Come la Nona. Se andava avanti così e nessun si preoccupava, forse alora l’era normal. È nurmal, sioi magistrat? Che la tera la cambia incosì e incosì in freta? Io gu ragiunà, e ragiunà. E col ragionar ragionar: ho capì un casu. E allora cosa potevo fare? Ho fatto di conta.
(Prende un gesso e disegna a terra) Indunqua: questo l’é un metro quadrà. Circa un metro su dieci de tera italiana l’è coperta colla cementa. E quindi l’è decessa, masata. In Lombardia il doppio che in tut il rest de l’Italia. Due metra su dieci son morti. (Pausa)
La Lumbardia l’ha vinto la gara! La resion più morta d’Italia. I lumbard vincen sempre, sioi! Due su des, uno su des, cosa l’è? È poco? (Pausa) È tanto? Bisogna guardare il suolo utile. Solo la tera che se magna, minga i lag, i fium, la muntagna alta e impestada. Non se coltiva il ghiacciaio. E alora? Alora il suolo utile nel bergamasco, l’è solo 2 metri su 3, a esempio. E quindi un metro su tre l’è in cementa. 33% morto. E Milano? Quasi il 50%. Per sempre. (Pausa)
E vabbè… Vabbè? Non é mica una semplice pianura, la Pianura Padana! È uno dei sett o otto sit più fertili al mondo! Quella che tutti i libri mettono senza dubitansa nella categoria 1, che la significa che questa terra qui l’è così fertile che se sputi per tera, qualcosa la vien fuora! Nasse di sicuro! Magari non è quello che volevi te, però l’nasce.

E al paesot di mia nona se pudrea veder bene lo scambiamento, la distruzion. Prima gan vendù ad altri, teren talmente boni che la tera la magni senza far nagot. Poi gan cambià l’uso. “Edificabile”, la condanna. E chi ga comprà ha inizzato a costruir vilette a schiera e un residense vista monte. E la mi Nona la diventava mata: se lamentava dell’aria che non l’era più bona, e dell’acqua che la saveva de cementa. E per il boschett, che ’l sofocava. Quello che noi chiamavam “Il boschetto di Nona”, quello dietro al campo, anche se non era suo.
E l’è minga finì. Né a casa de la mia Nona, né in Lumbardia. Anche ora, in ’sto mumenta. Ei magna. La cementa. Magna la tera e l’è mai sazia. La cementa se magna sette volte la piassa del Dom de Milàn in terreno agricolo, al dì. Sì, al giorno. Una distrusion mai vista. L’è l’apoteosi, lo senit della cementa, la Lombardia! E allora se uno c’ha il dono dell’intelletto e guarda il paesaggio, el capisce che è casa sua. Non i muri, la mobilia, la cussina. La tera è casa sua! E allora se uno riesce a vedere ’sto quarantotto deve per forza dumandà a chi ha visto: “Scusa lei, ma cusa l’è successo?”

Un rumore alto di ruspe si sovrappone, quasi coprendola, alla sua voce mentre chiama qualcuno. A questa, s’intervalla rapidamente un’altra voce fuori campo.

«Ha visto mica cos’è successo?»
«Cosa?»
«Questo» (guardandosi in giro).
«Questo cosa?»
«Il cemento! Tutto ’sto cement!! Perché costruiamo così esagerati e così in freta?»
«Servono le case, gli uffici, la piscina, il polo logistico, ci vogliono le strade! Per migliorare la qualità della vita, no?»
«Scusi, go minga capì!»
«È il progresso! L’economia non può stare ferma, l’economia non può rallentare».
«Ma anche la tera agricola produss».
«C’è la crisi. Bisogna crescere ed essere competitivi. Il mercato vuole risposte!»
«Che risposte?»
«Ammodernare il Paese, bisogna ammodernare il Paese!»
«Ma ammodernarse cosa vuol dir?»
«Col cemento si creano i posti di lavoro. Tu li vuoi i posti di lavoro?»

Improvvisamente, finisce il rumore di ruspe.

«Sì, i posti di lavoro, sì».

(Si siede) E alura stoi zito. (Pausa) Ma a pensarse, non ho mica capito la risposta. Eppure la domanda l’era genuina, de poche parol, anche in italiano la se dis: “Perché si costruisce così tanto?”
(Ripetendo meccanicamente) “Servono le case”. Certo le case servon! Se nasce un piccinin, l’ha diritto a un tett… no? E gli uffici… Che so? i capannon: se serven, non c’è niente da dire. C’è da rasegnarse. Alora doman mi e voi, signoi magistratt, tutti a lavorar di manetta!, a tirà su di cementa ovunque, davanti en indria! Se servon edifici! (Pausa lunga)
Ma non servono. L’é questa la verità. (Prende un quadernino da consultare)
I gran dottoi cervellon dell’Agensia Nazionale del Territorio han cuntà 5 milioni di case fatt e finì, pronte da cumprar. In Italia, nau, 2015, nuove e vuote! Cristu. 5 mion! Ma allora perché se continua a costruir? Perché tuta ’sta cementa?
(Declama meccanicamente) “Col cemento si creano posti di lavoro”. Per costruir ghe vuria genta. Person. Non ci si pensa mai, ma una casa, un palas, son manuffatto. Fatto a man. Due million de cristian nell’edilizia. Son tanti davera. Buona parte a far edifizi nuova e nuove “Grandi Opera”! (Pausa)
E quando finisce l’edifizio o cala la richiesta? (Pausa) Licensia. Ghe nagot da far. E fin quando c’è il lavoro? Ascolta ’gnorante che ha fatto il murator: è laorà a stagione, al mes, alla giornata, e tanta volte al nero. L’è lavoro precario che per renderlo sicuro, bisognà costruir all’infinito. Ma si può costruir palasson all’infinito, siori magistrat? Oh, non è che c’è da smetter di lavorar matton. Ma mi fa bile pensar che danè per costruir case vuote ghe n’è tanta, ma niente per la manutension. Quello sì, l’è laurà che nun finisce! (Pausa breve)
Per mantener il territori, i fium, la montagna ci vuol gente, tanta quanta. E a non farlo c’é da cacciar dané mila volte per i disastra, altro che risparmiar! In cinquant’anni 270 miliardi de euro, per disesto idrogeologico. E alora forse, forse ghe soltanto da cambiar filosofia ai dané. Forse.
(Declama meccanicamente) “Bisogna ammodernare il Paese”. (Pausa lunga. Si guarda intorno. Assume un’aria meditabonda e buffa) Usteria. Questa l’è dura. Coma se fa. Lo digon tutti. Scemu e intellighenta. Te la butti dentra al bar e stan zit tutti! (Pausa)
L’è trent’anni che bisogna ammudernar l’Italia! E l’è sempre lì da ammodernar, par la tela de Penelope. Sarà quachedun che dis-ammoderna di notte quello che gli ammodernatori ammodernassen il dì. Ghe minga altra spiegazion. (Pausa. Si alza)
A me piasen gli ammodernatori. Non son contrario. Go qualche dubio, ma non son contrari. Ma ho la certesa che mi stan ciappando per il dedrio, quando ammodernar significa costruir grandi opera, nova stadi e centri comercial. Prendem ’na robba util: i porti dei turista. C’è molta richiesta? no. Nel 2010 in Italia ghe son 240 porti turistica su l’orlo del falimento, e che se non faliscono l’é perché i Comun paga il debito, indebitanse. Lo diss me? No, lo dis l’Associazione dei Porti Turistici! Eppur in 2 ani han finì 30 nuovi porti turistica, e angora nuova in costruzione e in progettanse. E ovviamente: oltra al porto se magnan il terren, con nuovi ristoranti, case, alberghi. Anche in Liguria con porto ogni 5 chilometra! E densità edilizia fra le più alte al mondo!
(Sempre con il quadernetto in mano) Alura ciappam ’n’altra roba util: i camp de golf. Go chi i nummeri, sioi: in Italia gavem quasi 400 golfclub, con poco più de 200 giugadur per campo in media. 200. La Federazione Italiana Golf racumanda: almeno 350 iscritti, se no il campo fallis, non sta in pé. Ma allora far un camp de golf l’é un affar sbalà! Nissun darà dané per fare un campo. E invece: nel 2010 han fa un decreto apposta per tirar su nuova campi da gulf, con una montagna de dané, e deroga per costruir in area protetta! Ghe ne son quaranta in costrussion, now! (Pausa)
Tanto un campo l’è un campo, no? E no, casu! I campo de golf son la roba meno natural che se può far in erba! Intanto c’è da metter erba tutta ugual, altro che biodiversità! Erba che l’è special, mica nostrana, aliena. Se ciama il Green e va bombardà con pesticida e porcheria varia. Poi c’è da sbancar i terren, tirar piano dove l’ghe la colinetta e quindi scava e porta via, taglia il bosco, taglia la falda. E l’acqua? Ci vuole tanta acqua quanta una città di 9000 cristian! Per un campo! (Pausa)
Però inturna te puoi tirare su vill, villete, e costruzion di pregio. E per costruir? Investimenti cinque volte più grandi che per il campo. Costruzion che custen un occio. E che rimaran QUASI TUTTE VUOTE. (Si siede. Grave. Via il quaderno. Pausa)
Anche visin al campo di Nona le vilett rimanevan vuote. La Nona s’era miss tranquila. Ma no serena. Trista, trista nera. Stava indria la casa a guardar nel bosco, il so buschet de Nona. E i vicini non arrivavano. Ma alora: se non le vendean, perché gan costruì. Parché?
(Si alza) A rispondere ci voleva uno del mestiere. Sioi magistra’, un imprenditor, costruttor, impresario, furbon: l’Andretti… (Come se gli venisse in mente ora; dopodiché, morbido, su una musica allegra da orchestrina di paese, accenna qualche passo di danza con modi semplici, ricominciando a parlare seguendo il ritmo)
L’Andretti l’ha costruì el me paesit. Io ho lavorato per lui, a fa il murator. (Pausa) Io go chiesto. E l’Andretti ga risposto che a capir ben, bisogna andar là, in “salette” piccole, coi poltrona bei, coi quadri de’ artista ai parete, dove c’é person che parlan e alzan la mano. (Pausa) É nei Consigli d’Amministrasion dei banche che si inizia a accender i motor delle grù. (Pausa) Le banche son gli dei della cementa, sior. (Pausa)
Dise l’Andretti, che i banc devono far scorrer i dané come l’acqua nel mulino, per far il pan. Ma da ani e ani, fan cemento invece che pan. L’é più facile. Gli stessi che controlan precis precis i dané da dar a noi, per i prestita, per i mutui, aprono credita a sterminanza per gran costruttor. Porché? Porché mutuarvi l’é debito, far creditanza a un gran costruttor l’é investimento. Tecnicament la parola giusta l’é “impiego”. (Pausa breve)
Vado alla spieganza, sioi magistra’. É una questione di più e di meno. (Prende due scatole e le mette ai due lati in proscenio) Noi sem il meno. (Scrive “meno” sulla scatola a destra) Anca se poi paghi tutto men santo, per ani e ani, nun cunta niente, mi spias, te sei un “meno”. (Pausa)
Invece, un prestito giganta, a gran costruttor l’é un “più” belo granda nel foio dei banche. (Scrive “+” sulla scatola a sinistra) L’é un guadagno grande sulla carta, calcolato in previsione. It’s ipotesi. Mica soldi veri. L’é calculazione incerta tan granda, tanto più grande l’é la prestitanza al costruttor.
(Prende la terza scatola) L’è semplice: se banche investe nel matton 100, il costruttor con 100 fa edifizi, case e capanon, e quando s’é finito de cementar se dichiara che il casamento tutto venduto porta alla banca per esempio 106. (Scritto “100”, sotto scrive “106”) E alora nel bilancio dei banc scrivo: “+ 6”. (Dove c’è il “+” aggiunge “6”)
E mica importa se non se vendon. Se venderan! Ma come? Hai 100 in meno in tasca e scrivi che hai “+ 6”? Eppur quei numeri stan nel bilancio. E fa aumentar le azioni dei banche perché gli azionisti vedon cifre bel e le compren, i titoli vanno a ruba e i banche guadagnan dané vera veramenta. (Traccia un grafico ascendente, a scaletta, sul fondo del terzo scatolone) Guadagno. Ma nella loro pancia, ci son i buchi. (Rallenta. Gira la scatola e il grafico diventa discendente) Certo intanto oggi se godon i dividenda. E domani? Eh! Domani è un altro giorno. (Canticchiando, cancella quanto ha scritto accompagnato dalla musica che andrà, a sua volta, sparendo. Dopodiché, allinea diversamente le tre scatole)
Son balle? Dotoi, go i numeri, qui sui fogli. Per la conta. In Lombardia ad esempio per l’immobiliare i banche scrivono in bilancio per pura coincidenza, sior, proprio: “+ 6%” (lo scrive su uno scatolone). Dunq: in Italia ghe son 132 miliardi de euro di investimento delle banche in costruzion nuove, nuovissime (annota “132 mil” su un altro).
Soldi spesi, andati! Per costruir! Allora: 6% di 132 miliardi… fa 8 miliardi di euro, di guadagn, (scrive “8” sotto “132”, con le scatole frattanto disposte in pila) che è previsto! Che si avrà se i costruttor venderan gli edifizi. Tutti quanti! It’s ipotesi! Mica real! E il belo è che non g’ha nessuna relazion con la vendita de case, la bellezza e la buona creanza del casamento: non importa se son bel, bruti, util o d’avanza. L’importanta è non svenderli, se non li vuole nissun, perché altrimenti il gioco l’é finito e il banco salta. Anzi i banc. (Spinge di lato la pila)
Vender a meno? I costruttor e i banc son minga suicida. Se vendon a meno il valor spariss, per sempra! Roba da infartar ’i azionista! Meglio tenerli a far niente, son segno “più” in bilancio. E allora via a costruir case di pregio, così il “più” in banca l’é tanta granda, anche se poi nessun compra. E son 5 miion di casamenti vuoti, svuotazzi. Alora? Alora tuto ben. Tuto a post. (Pausa. Torna a prendere i tre scatoloni)
Insoma. Non tutto tutto. (Tira fuori il quaderno) Perché bisogna vender tutto per recuperare i 132 investì e gli 8 de guadagno! La Banca Italia la dis che (scrivendo i numeri sulle scatole) 10 di quei 132 (barra la cifra) miliarda son già (e fa una croce sul “10”) “inesigibile”. Inesigibbila vol dir che i Banc SICURAMENTE i prendon più. Figurarse (e fa una croce su “8”) gli otto de guadagno! (Pausa. Mette giù le scatole, a lato, ma poi portandone una accanto alla sedia)
Fa niente! I banc son cuntenta de costruir! I gran costruttor, grand’imprenditor, gran furbon ghe piasen tantissimo ai banca. Sarà che stan seduti al stesso tavolo. (Pausa. Si siede) Ma sì, il tavol del consiglio d’amministrazion de’e banche. Quello con i quadri de’ artisti alle pareti. Parché i più grandi costruttor fanno parte dei consigli d’amministrazione di tutte le più importanti banche itaiane. E quando c’é da votar “sì”, sta’ sicuri, che alzan SEMPRE ’a mano.

Ma i Comuni, che coi permessi governan la tera e il costruir? A me parea impossible che al paesit de mia Nona nessun avea capito. Il Comun con voto unanime g’aveva cambià la natura in “edificabile” come a voler dir: “Accomodarse e costruite”! (Pausa)
Per costruir devi saper dove. Nema problema: ci pensan i Comun, e Provinsi e Region a dirti dove. Ma perché i Comun approvano? Anzi spingon per costruir? (Pausa) Un motivo sicuro el ghé. Un motivo parzial, incumplé, eppur chiaro. L’é motivo che l’ga un nome e un cognom. Se ciamma “onere d’urbanizzazione”. (Pausa) Son soldi pagà ai Comun per costruir, e una volta i Comun poteva utilizzar solo a fa strade, portar acqua, luce. Prima piaseva così così ai Comun. Poi l’onere l’é diventà de moda, perché l’é rinà a segonda vita.
(Si alza) Il 6 giugno 2001. (Apre il quaderno, legge) Testo unico sull’edilizia: “Gli enti locali hanno piena discrezionalità nell’utilizzo dei proventi in questione”. Che vuol dir che, con quei soldi, puoi farne quel che vuoi. (Pausa) Comun in festa! Dané come se piovessen! Ma in via del tuto eccezional e transitoriamenta! (Pausa. Si risiede)
Poi transitoriamente l’é diventà per sempre. E quando non ci sono più dané in cassa? Nema problema! Il comun fa altro piano de costrusion, se ciamma la banca local e il costruttor. E la popolazion non se lamenta? Ma no! Nema problema. Il costruttor cementificator, se renderia simpatico a tutti con regali: che so, una piazzola spartitraffico, un campo de bocce, la sponsorisassion de la squadra del calcio local! Nema problema! Ma almeno i Comun han i conti a posto? (Pausa, si guarda in giro scuotendo la testa)
Gli oneri di urbanizzazion non bastan mai. E così i Comun lascian cementar i territori. E Stato lascia far, così risparmia, per poi investir in roba de granda utilità. (Si rialza) Per esempi? Incentivi per i camp de golf! (Fa il gesto di colpire una pallina con una mazza) Con ’sto sistema, le villet vote se son magnà il paessagg de la Nona. La Nona se sentiva in prigion. Che intorna, ghera una città fantasma, nuova nova, nuove strat, nuove piassol. Ma non avevano mica finito. G’avevan de completar l’opera! Perché per costruir scittanta non basta il terren. Ghe vuol il cementa. Molta cementa. Cos’è la cementa? Oh bela, san tuti!
(Porta il secchio al centro, con dentro l’intruglio di calce e sabbia) La cementa l’é robba che bagnà con l’acqua la diventa dura, durissima. E resist che la dura cent’anni, mila anni. L’é minga natural. Prima se usava la calce con sabbia, ma se rovinava con l’acqua e no ghe durava. I Roman gan inventà la Pozzolana, il primo cemento. La rivoluzion edilizia più grande de la storia antiqua. Città, strade, acquedotti. L’imperanza romana è stata costruida colla cementa, mica solo coi soldà. (Pausa) Adesso usiamo la cementa che se ciamma Portland. L’é calcare e argila, poi molta acqua. (Mescola) Ma non basta. (Eccitato) Metti tuto in fornacia granda, inclinà in giù, che giren intonda come i betoniere. Poi calor per formar palle come pal de cannon. Se ciamman Clinker. Poi te metti il gesso, e grattugia come furmagh per far la polvere. Questa l’é la cementa. Ma ci vuol tanto calor. (Pausa. Annuisce come chi la sa lunga. Poi si sorprende di colpo.) Ma quanto calor?
Tanto, tanto calor! Se deve arrivar a 1500 grad. E alora se brucia scartamenta del petrolio. Il più scars de tucc, il Pet-cocche. Con residua tossici e cancerogeni. E ce ne vuol tantissim. Per 1 kilo de cementa si scariga 1 kilo de purcheria. Nell’aria. 1 a 1. In un ann (guarda il quadernino) 50 miliarda de kilogrammi de porcheria solamenta in Italia. Ah! Andar in così, per respirar puro, se farem cress ’e branchie sui spale?
(Declamando) Ah, ma ce son i filtri, e limiti alle emission. E ma poi ci son le violazion legali. Se ciamman “deroghe”. Porché i cementifici servon per bruciar anca immondizia. Coi stessi limiti degli inceneritor ma poi: deroga. E bruciar immondisia l’é affar d’or. Pochi segunda e un pneumatico l’é diventà (soffia) aria. Ghe più problema del dove metterlo, ma poi sei te che lo respiri. Il pneumatico.
Il cementifici l’é genial. Se dici ai cittadin che se costruisse un inceneritor, te fan i bariccà. Se tu dici che costruis un cementificio, son tutti sitti: per lavorare c’hanno insegnà a sopportar di ogni. Anche le deroghe alla salute. E cito e mosca. E nienta e nessun l’é al sicur dal cemento. Manco l’Amaron de la Valpolicella.
L’Amaron le stà inventà in Valpolicella. La storia l’é famusa. Il capocantina, aveva ritrovà una botte di Recioto. L’era stada dimentigada, giù in fonda, e a lù ghe venia mal a pensar di buttar via tutto. E alora g’avea bevù personalmente. Capolavoro! Altro che da butar. Forte, spess, particular. L’avea inventà l’Amaron. Vino che se vende a Nuova Yorke e a Onghe Konghe. Dané in liquidanza, russ scuro. Eppur dove se fa ’sto vin del dio, a Fiumane in Valpolicella, ghe un inquinamento tal qual le metropoli. In mess ai vignéti? Son quattro gatti. Cementificio. El brucia Pet-cocche e pneumatici, e poi ghe son i tir, che van avanti e indrio. In mesa ai vigné. Oh i cittadin, i coltivator gan protestà, han contestà l’amministrazion. Ma il cementifizio ghe e riman. Salut!

(Va a prendere gli altri due scatoloni, mettendoli uno da una parte e uno da un’altra) E il drama é che il cemento se magna collina e vall. Perché per farlo, ghe vorria calcare e argilla, gesso e sabbia: el minga cressen sugl’alberi. (Butta tutto dal secchio verso una delle scatole. Poi, avvicinatosi a questa, si china e – in modo continuo e frenetico – mette 10, 20 manciate nel secchio. Il suono della ghiaia risuona sotto le sue battute) C’è da cavarli: letti dei fium o terren agricol, in vall e in montagna. Ovunqua. E il belo é che in documenta ufficial se dis: “Coltivare”. Coltivar mineral. Che vuole dir spaccar, bucar, magnar monti intera, (si drizza per andare a svuotare il secchio nell’altra scatola) e portar via a far (svuota) cementa.
(Torna al centro col secchio in mano) E alora Sioi de la Giuria, anca in valle de la mia Nona han permiss de cavà. Quando la gente ha vendù i terreni agricoli, i permissi de cavar son arrivà dal Comun, in subito. Anca il Gentilini, il proprietario del boschett de Nona, gaveva vendù a ’na società imprecisa, ma il boschett resisteva. (Pausa) E la Nona ha venduto? La Nona mai. Il so poder era la vita. Se sei così, è impossibile ciappà dané al cambio de la tera. Silenta, ha detto semper no.
(Serio) Finche poi l’é morta. (Pausa) “Ga levà il disturbo”: (triste, con una nota commossa, appena accennata da un mezzo sorriso) la diceva in così, mia Nona. “Go da levà il disturbo” (Pausa)
E alora il notaro ha chiesto a noaltri nipotanza, de vender la tera: “Che fate, son quattro pietrasc in croce? Vendete! che se venda ben in ’sti periodi. Vendete! Che manco il boschett ghe sarà fra poc. Vendete, teston! che lì faran la pesca sportiva, un bel cavamento e giù tutti gli alberi”. (Pausa breve)
Sioi miei, go provato orror. Orror, davero. Me son visto il buso al posto del boschett di Nona. In gir con la cicletta ho visto i buchi comparir nei boschi, sul coston roccioso, in campagna. La par una pestilenzia, che va da Nord a Sud, l’é minga sol qui. La vista se abitua subito a tuto, sioi dottoi, ma basta farci caso, a la pestilenzia del paesaggio, e ti riman nell’occio per semper. Non si cancella. Perché quando se cava se cava, ma dopo, quando si è cavato tutto, basta, se cambia posto e riciappa da capo a scavar. Ma il buso el resta. A volte diventa discarica, abusiva o legal. Son diecimila le cave dismesse, e seimila attive. Quelle ‘legali’. E aumentano, perché ci vuol sempre più cemento. E parché cavar in ‘concessione’, l’é tal qual vincer a lotteria! Non se paga niente, o pochissimo, de tasse sul cavato. (Pausa)
Escusa: te porti via tonellat de material, te sbussi la montagna, te scassi i fium, che l’é roba di tutti e non paga niente? L’é un sacchegio legalizzà! E ghé anca chi ha mai abbastansa. Come a Pontoglio. La region Lombardia ga autorisà ’na ditta a cavar per sistemar la strada fra Nembro e Gazzaniga. A gratis, un million di metro cubi. Ma poi i Carabbinier han misurato che bastava un decimo. Ma intanto avevano portà via tutto quel che pudrean, i furbon. Saccheggiator. E ghe ne son tanti. Bergamo, l’é la segonda provincia più sbusada de Lombardia, e la prima che ga vinto l’é Brescia. Ga vinto in pestilenzia. (Pausa) In sacchegiamento. (Pausa lunga)
Ma in Italia se aman i gareggiamenti. In particolar la pesca sportiva: eh! In Italia, van tutti giù de mat per la pesca sportiva! (Pausa lunga) I bei laghett, son busi. (Indica il secchio) Te fe il buco e te metti l’acqua. E la sabbia e la ghiaia che avanzia? La butti? Ma no! Parché? L’é ben di Dio, parché buttarla. La vendi! Per il bene della collettività: lo sport val ben un sacrifizio. (Pausa) Chi buca non chiede quasi mai le autorisassion per pescar, ma non se dimentighen mai di quella per cavar. E il buco, lo fanno. Venti meter, anche se per la pesca bastan dieci. (Serio, tranquillo) L’é una trufa. Nessun pescherà mai. Son cave. (In piedi)
El notaro, involonteriamenta, m’aveva insufflà un brutto dubbio. E a controllar, sioi, era proprio quel che i gran altruista de la Fishing Sport, i me accusator, gavea in menta de far: cava, mica pesca, nel terren del Gentilini, distrussendo il boschett de Nona. Nessuna richiesta de analizar l’acqua, nessun permesso de pesca sportiva. Solo l’autorissassion per bucar. Venti metra! (Guarda nel secchio) E il Comun disea niente, e alora ghe l’ho chiesto io e m’han risposto che controllar, non era affar loro. Che i processi all’intenzion non se può far. Che era tutto legal. Ma il boscheto e la sua belessa, e la belessa de la montagna? Diventavi matt, come la Nona coi villett. Poi go capio. Le tasse sul cavato van al Comune. Ecco parché tutti sta’ zitti. Per far le piazzol spartitraffico! (Pausa)
Eh, ma la Fishing Sport non aveva fatto bene i conti. Per andar al boschetto, e ruspe e i maccinar di saccheggiator doveva pasar dentra al me terreno. Gh’é minga altra strada. E il diritto de passaggio al lotto del Gentilini, io manca morto gli avrei dato. E per star tranquilo, go miss il problema in man a un avvocato, bravo. Tento te a passar!

(Mette via le scatole, impilandole più dietro. Sale sulla bici. Inizia a pedalare) E poi un dì son tornà in montagna con la cicletta e il Mattia, il figliolet de mia sorela, per mostrargli dove giogavo al balun, la discesa de ghiaia e il bosco granda. El Mattia pedalava che l’era una belessa. A sforzarse i polmon che é ancora pistoletto, col zio che mica aspetta, a goder l’aria in facia quando arriva in la discesa, che ce l’hai fatta e alora non sei un budin, sei quasi un om. (Ride forte) Bravo Mattia! Bravo!
(Smette di pedalare e va per inerzia) E ridevamo anca, e me parea de guardarme nel passato. (Pausa) Ma l’era tutto cambiato. (Frena) E ho smesso di ridere. Lo slargamento per il pallone, el ghera più. C’era un parcheggio. Asfalto perfetto, gard rail, i machin che sfrecciava a tuta birra. Ho fatto finta de niente. Go dì che m’ero sbaglià. E alora ho detto al Mattia de tornar a casa de Nona ad aspetarme. (Pausa)
Son andà giù par la discesa. (Scende dalla bicicletta. Fa come per prendere in mano la palla) Son andà a ciappar il balun. Son andà proprio in dove tant’anni fa l’avevi calciato. (Pausa breve) Che cannelada però!
(Si accovaccia) Son andà propri là, dove avevo visto quela cosa unica e meravigliusa. Io con la bala, accovacià a veder quela roba dolorosa di un cerbiatt che spuntava da la pancia de una cerva. Roba mia, da non racontar parché trop bela. Da non raccontar. Per ricordar, per sempra. (Pausa. Si raddrizza)
Son sceso, ma Il Grande Bosco, non c’era più. Un parco giochi per i picinitt, con la gomma a terra per non farse mal. E intorna villet. Chiuse. Poi sono tornato al poder. Su la tera mia gheran già trattor e scavator pronti a distrugger il boschett. Un assediamento. Allora so andà dall’avvocato. Go bussà.
(Preso dall’urgenza) Go chiesto dei rusp e scavator sul me terreno. Era tutto legale. La Nona gaveva vendù al Gentilini il diritto de transitar e stazionar su la nostra proprietà, roba fra gente civile. E i cavator avean comprato col terreno il permesso de passar. E iniziavan l’indomani, col bel tempo. (Pausa)
Go preso il Mattia e siamo scapà che c’era ancora il sole. (Pausa) Son tornà la notte. Con la cicletta. Go fà avanti e indria tanta volte che ho perso la conta. Ho caricà sulla cicletta montagne de merda de vaca. E l’é propri vera, sioi dottor, go infilà merda de vaca dapertutt nei macchinari sbusator: al posto de guida, dentra il motor, e per esser sicuri, anca dentra i serbatoi. E insomma ghé certezza che sono stato io, proprio. E mi sono detto che io e i machinari non cuntavam un cassu. Cuntava fermarse la distruzion. Che la s’é fermada, per ’sto processo, e fin tanta che il dura, il boschett de Nona é salvo.

Musica finale.

Sioi dottor, non esiste un reato di distruzion de la bellessa. (Pausa)
Non c’è un concetto piú scivoloso, più inciapabel de la belessa. Io non son esperto, sioi, ma me domando a voi, qual richessa, qual bene di un cristian, e di un intero popolo l’é tanto importante come la belezza? (Pausa)
Chi ga scritto la Costituzione Italiana gan provà a difendere la belessa. (Pausa)
El dis l’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Una riga. Diciotto mesi ci hanno mess. A imprigionar la bellessa nei so parol. E gan discuss a lungo, per taluno l’era scuntà, bastaria il buon senso della persona e de la gente. Ma, fortuna, ghera chi volea fissare un principio de difender per i person futur. E alor sioi dottor magistratt, bisogna dir che far me asolto o colpevole conta poc. La vera mattanza, l’é quella che si fa in legalità. E il paradosso, l’é che il processo farà il so danno, quando il sarà finì. (Lunga pausa)
Me son pentì, sioi giudici de la giuria? (Fa un passo in avanti)
Noi uman consumiamo un terzo in più di quel che la Terra la può dar. E l’Italia la c’entra, perché abbiam una tera ricca e fertile, ma possiamo cementare tutto perché importiam cibo a tonnelà per sfamar noi e i nostri animal. Ghe son Paesi che stan comprando terena a dismisura, dove custa poc, in Africa, in Asia, per garantirse il cibo, parché l’han capì che la tera l’é ESAURIBILE, finisce, e ghe ne più. E alora siam inguaià. Gavemo vizi che non podemo mantener. (Lunga pausa)
Me son pentia, sioi dottor? (Fa un secondo passo in avanti)
Forsa qualcosa c’è di sbagliato. A me par che manca a la gent un criterio, una regola concreta, che dica in maniera chiara dove ghé da fermarse a costruir, che subito dopo inissia il sacheggio e la distrussion suicida. (Lunga pausa)
Avevo de pentirme, sioi magistràt? (Fa un terzo passo in avanti)
Non c’è mica d’esser tristi. Il boschett de Nona l’è salvo, per ora. Doman dipende da voi, sioi dotor. E poi nell’aria ghe son segnali che fan ben sperar. Certi particular…
I fiordalisi, in peresempia.
El son quasi scomparsi. E l’é un peccà parché son belli in mezzo ai campi coltivà, fan la belessa de ’a pianura.
Non ce ne son più. Ma da poc ci son delle donne organissà che se ciamman Donne in Campo, che lavoren la tera e han riunì in consorzio. Se son miss a seminar fiordalisi in mezzo all’orzo, alla frumenta, ai coltivassioni. Così. Per la belezza. E adess, passando da quelle parti colla cicletta, vedo i fiordalisi che son tornà a dirme che ste arivando l’està. (Lunga pausa)
E allora, signoi della Giuria, me son pentì? (Si ferma e guarda noi in attesa del giudizio)

Buio.