Don Chisciotte in Trinakria

Monologo di

Antonio  Sapienza


Come lo racconta lo zu’ Vitu Spiciali, puparu, all’amici nel lavatoio di Cifali



Nobili dame e cavalieri,
delle gesta, d’un Hidalgo vi conto,
che venne costì senza pensieri,
per subìti torti da riparare,
a nobil pulzelle da maritare.

All’epoca dei fatti che racconto,
li saraceni tenevano banco,
onde per cui Orlando al tramonto
sonò il corno della battaglia…
E fu stecchito nella boscaglia.

E Trinakria finì in bianco.
Allor chiamato fu Don Chisciotte
-col fido Sancho al suo fianco-
che in sella al fulvo  Ronzinante,
s’accinse a dar giustizia - all’istante.


Per primo incontrò sulle su’ rotte
un’opulenta sicula fantesca,
che frescava le belle sode tette,
nel ruscello limpid’e giocondo,
dopo aver giocato a girotondo.


“Fido Sancho”- tuonò alla tedesca
l’Hidalgo, la sarissa impugnando-
“Scorgi attorno un omo che l’adesca?
O per caso un volgare marrano
Che ritien la bella sottomano?  

Iv’intervenir dovrebbe Orlando,
sì fusse vivo il gran cavaliere,
per aitar la dama- sguainando!
Ond’io, senza porre tempo alcuno,
mi slancio veloce…” contro nessuno!

Ma Ronzinante, senza mestiere,
inciampò nel ciglio del ruscelletto,
facendo volar il cavaliere,
nel bel mezzo dell’acque chiare,
come fusse rospo a gracchiare.  

La donzella urlò in dialetto!
Alzò le gonne indi fuggì via;
mentr’ i villani da un vialetto,
giunsero a flotte con asce e pale
per menare il Tizio e il Tale.

Ma il Sacho, lesto, con valentia,
agguantò l’Hidalgo gocciolante,
portonlo fora dalla traversia;
po’ dichiarò che tutti gli spiriti   
malvagi, sol con le magie e riti,

sconfissero l’eroico sfidante.
Il Paladin riprende il cammino,
e scorge da lontano un viandante
al quale chiese nuove di bricconi
che udiva tramestar co’ pestoni.

Disse parole vaghe quell’omino,
ed ie volle accettarsi di persona,
temendo che briganti li vicino,
abusassero certo di donzelle,
svestendole di busti e gonnelle.

Quindi Ronzinante presto sprona
e ve’ omi co’ piedi insanguinati,
che pigian dama in sul tino prona.
Brandendo l’arma, infin si slancia,
mentre Sancho un gran grido lancia:

“Messer cavaliere, non son malnati
ma villani buzzurri della vigna,
che il vino fanno per i casati
mettete in giuso l’armi e l’ira
perché veggo che brutt’aria tira!”

E ben presto il Tristo se la svigna,
ma una gran legnata di convesso,
lo disarcionò nella gramigna.
Infin calmatasi la marmaglia,
Sancho lo soccorre tra la paglia.

Ripreso il vagar, indefesso,
il nostro eroe, un po’ in declino,
scorge, guardando tra un ramo flesso,
un gruppo di lanceri cavallato,
che certo tendeva un agguato.

“Sancho!” gridogl’il Don da vicino,
“Approntati per dare battaglia:
Dammi scudo lancia e uncino,
e prega per contanti saraceni,
che tra poco saranno senza reni.”

E si avventò contro la canaglia
-fatta da ficodindia a pale!
Invano il servo si scapiglia,
vedendo Signoria conciato
com’un cuscin di spill’ immacolato.

Uscito da cotal scontro fatale,
mezzo morto e mezzo traforato,
il nostro nobil cavalier letale,
volle trovar meritato riposo
nella capanna d’un promesso sposo.

Lo quale, tra un pianto accorato,
raccontò al nobilomo le pene:
che, con la sua pulzell’ è scappato,
un uomo prepotente e losco,
che tienla imprigionata nel bosco.

Ipso facto, il Don d’interviene,
lancia in resta, galoppar veloce,
in cerca della sposa che conviene
liberar dall’orrido supplizio,
prima che finisca il solstizio.

Arrivato nella foresta atroce
senza scorgere un’anima viva,
si mette a gridare con gran voce:
“Omo crudel vien subito fora
perché giunta fu la tua ora!”

Ma dal fondo della foresta arriva
una gran pernacchia malandrina:
Poi apparì la bella, giuliva,
abbracciata all’omaccion- gioconda,
tal qual la cosa fosse vereconda.

Presa la via, con postura china
quasi al ciglio di una trazzera,
egli notò, com’un’ombra vicina,
un gigante dal crudele aspetto
tutto grezzo, com’un parapetto.

Ma pel Nostro, tanto mistero c’era,
che s’indusse a crederlo marrano
della razza dei mori di riviera.
Allora pensò che fosse un moro
in sembianze ma sanza il decoro.

Non si scompose e alzò la mano
“Se magia t’asconde  Agramante
subdolo vile figlio di sultano,
sappi che tua ora è pregna,
non porger terga, accetta la pugna.”

E senza dar tempo, ma all’istante
sfodera  la so’ fida durlindana ,
e mena fendenti dovute e sante.
Ma il cipresso che prese di mira,
lo sferzò sul viso mentre si gira.

Il potente colpo della rama insana,
stesol tramortito per terra, vinto.
Ma quando il Prode già si dipana,
Ecco un altro colpo di maestrale,
far al ramo doppietta come tale.

Dopo i colpi contundenti fu spinto,
tra i rovi aguzzi di un convento.
Il Tristo, allo scudiero avvinto,
deplorò il duellante di scorrettezza,
mentre toglieva d’addosso la monnezza.

Scornato il cavalier, scontento,
va verso nuov’ esaltant’ imprese.
Ma da lungi scorge un portento:
Un homo sanguinante al pal legato,
con verghe e rami vien legnato.

E soffriva l’uom con le membr’appese.
Con furore il cavalier mosse,
e contro li demoni ei s’accese,
menando colpi a destra e a manca
come colui che non si stanca.

Ma ess’eran villici, non Minosse,
che provavan la Passion di Cristo,
e dalla storia facevan le mosse,
per poi davant’ai fedeli andare,
come s’usa a Pasqua, recitare.  

E le mazzate ch’arrivan al Tristo,
furon anche pel su servo Sanchio,
mentr’ il ronzino fuggiva non visto.
E come colui che ha sventura,
terminò la sicula avventura.

Anzi no. Perch’ignorando rischio
L’Hidalgo, ancora più delirante,
volle togliersi un altro sfizio:
E puntò in sù- senza tem’ alcuno-
Vers’il fumo del Monte di Nessuno.

Giunto al cratere ancor ansante-
con Sancho scolorito pel paura,
e la vile resa di Ronzinante-
ei si sporse per trovar conoscenza-
senza virtù- ma con tant’incoscienza.

E cadde in fondo. E l’Etna, pura,
giuso, nell’ ampio seno accolse,
lo nobil Cavalier senza paura,
e che or co’ Empedocle riflette,
facendo una partita a tressette.