DISSOLVENZA FINALE

di

Annalisa Rossi


Personaggi: Uomo

Siamo nel 2010.
Un salotto ricoperto da lenzuola bianche impolverate.
Appare Uomo. Si guarda lungamente in uno specchio facendo smorfie.

Sono pallido. Bianco. Smorto.
E già.
Uhhhh...com'è profonda questa ruga!
Sono veramente brutto.

Bello non lo sono mai stato. Nemmeno da bambino.
D'altra parte è una fesseria che son tutti belli i bambini.
Forse simpatici. Forse.
Alcuni sono insopportabili, lagnosi. Noiosi.
Ecco, sì.
Io ero un bambino noioso. Lamentoso, a volte.
E decisamente non bello.

Ora sono migliorato.
L'età con le sue rughe ha reso interessante un volto del tutto anonimo, che in realtà non si poteva definire brutto ma, appunto, “non bello”.
Per la mia mamma ero il suo topolino, con quei dentoni davanti che mi impedivano persino di chiudere la bocca.
Poi mi portò dal dentista e, dopo cinque anni di ferretti e tiranti, il mio aspetto era rientrato nella normalità.
Lasciando però inalterato il mio lagnosissimo carattere.

Fossi stato davvero brutto, orrendo, schifoso, ripugnante, stomachevole...invece no.
All'estrema bruttezza, che attira sguardi perfidi, parole di derisione e ipocrita compassione, corrisponde sempre un carattere che via via diviene più tenace, forse cattivo, ma certo di rilievo, sempre pronto ad accettare sfide, pronto a combattere.

Io, invece, ebbi per destino la mediocrità.
Divenni un artista della fuga, un genio dell'ovvietà, un tenace esploratore di ogni sconosciuto anfratto nascosto allo sguardo della vita...

Eppure venni costretto, sin da bambino, ad imprese impossibili.
Ricordo ancora quando a scuola, nell'ora di ginnastica, dovetti salire la fune.
Lo feci, sudato e affannato.
Ma poi rimasi lì appeso per due ore.
L'orrore di quel vuoto sotto di me era ben peggiore delle risate di scherno dei miei compagni e dell'ira dell'insegnante.
La reazione di quel mondo di umani a me estranei mi era del tutto indifferente.
Dovettero salire con una scala per farmi scendere e poi fu detto alla mia famiglia che la cosa migliore era quella di esonerarmi dall'ora di educazione fisica.
Che tragedia.

Ma quale tragedia! Nella mia vita mai una disgrazia, una catastrofe, un banalissimo dramma, una qualunque sciagura, un minimo evento degno di una intervista TV!

I miei genitori, entrambi morti.
Sì, ma...lo avessero fatto a quarant'anni, o prima ancora.
Mi avessero lasciato solo.
Una bella vita da orfano, le notti insonni insieme ad altri bambini abbandonati in buie stanze, senza feste di compleanno e senza letterine a Babbo Natale.
Uscendo dalla triste infanzia avrei scritto un libro che sarebbe diventato un best-seller.
Oppure avrei presenziato a tutti i talk-show delle TV commerciali.
O, più banalmente, sarei diventato un serial killer ed il mio processo sarebbe stato considerato il processo del secolo.

Invece no.
Mamma e papà sono morti a novant'anni, nel loro letto, insieme.
Il medico di famiglia me lo aveva annunciato quindici anni prima, con incredibile precisione scientifica.
Non sbagliò nemmeno l'ora, salvo pochi minuti.
La scienza...che magia!

Il funerale, come di norma. Pochi intimi. Qualche lacrima.
Erano quindici anni che ci si preparava all'evento, il tempo di attesa così lungo ci permise una migliore gestione del dolore.
Direi...il suo azzeramento.

Mi lasciarono senza particolari difficoltà economiche, né povero né ricco.
Avevo il mio stipendio da funzionario di banca: quel luogo dove mio padre spariva tutti i lunedì alle 8 e ne usciva, apparentemente vivo, alle 18 di ogni venerdì. Ora ne ereditavo sedia, scrivania, penne a biro e la segretaria più brutta e scontrosa che una moglie potesse desiderare.
Era arrivato il mio futuro.

Chi ha tempo, non perda tempo!
Credo si dicesse, una volta, alle ragazze da marito.

Con me le ragazze non persero molto del loro tempo.
Alle rare feste a cui partecipai mio malgrado, ero poco più di un soprammobile.
Ma non me ne curai mai.
Sapevo che prima o poi, comunque, inspiegabilmente, si trova sempre qualcuno con cui dividere questa noiosissima esistenza.
Una noia divisa in due consente di sperare in rari momenti di illusorie felicità, come finestre socchiuse su una luce appena accennata...

Fu lei a trovarmi.
Lei, Stefania.
Disse che cercava quiete, tranquillità.
E che le sembravo la persona giusta.
Confermai la sua impressione e mi risparmiai corteggiamento e fiori.
Il suo spirito pratico, unito ad una rarefatta passione, ci consentì un lungo fidanzamento, nell'attesa che i miei genitori lasciassero questa vita terrena e quindi la loro camera da letto.
Dopo la loro dipartita ristrutturammo casa e nemmeno questa fase, di solito motivo di liti, causò tra noi fratture o tensioni.
E con mia soddisfazione cedette subito anche al mio imperativo categorico principale: il posto della TV a schermo piatto era davanti al letto.

Iniziammo a convivere, nell'attesa che i suoi genitori, che abitavano lontani ed erano malati, potessero prendere parte al nostro matrimonio.
Io non ebbi modo di conoscerli appunto per il loro stato di salute, per il quale era preferibile, così mi fu detto da Stefania, evitare visite di estranei.
Offendermi? E perchè mai? La vista della malattia mi è assai sgradevole e sarebbe stato imbarazzante svenire per l'odore dei farmaci.
Stefania sovente si assentava da casa anche per settimane per star loro accanto e favorire così l'attesa guarigione, ma il tempo passava senza che si notassero miglioramenti.
Fui preso, stranamente, da una improvvisa fretta e quindi, una sera, proposi a Stefania di sposarci ugualmente, tra di noi, senza invitati di sorta.

E così, scoprii il suo inganno.
Con aria contrita mi rivelò che era già sposata.
Per quasi vent'anni mi aveva abilmente tenuto nascosto il suo precedente, e coincidente, marito.
Marito che aveva uno dei suoi negozi di macelleria proprio all'angolo del mio palazzo e l'altro in un paese vicino, dove dimorava insieme ai genitori di Stefania.

Come immaginare una cosa simile?
Stefania era rigorosamente vegetariana!
Ed io anche, che mangiavo poca carne e ben cotta, per non sentire il dolciastro odore del sangue, la acquistavo solo nei centri commerciali, laddove nella moltitudine ci si può perdere e non si è costretti ad intrattenere colloqui con chi si trova al banco.
Insomma: non ero mai entrato in quella macelleria ed ero così stato facilmente raggirato.

Lo stordimento fu breve.
Pentita, Stefania mi propose comunque di continuare la nostra relazione come se niente fosse cambiato.
E tutto sommato questa nuova condizione poteva avere i suoi vantaggi.
Arriva sempre il momento in cui la moglie di un bancario si prende un macellaio per amante.
Nel nostro caso le parti potevano essere invertite con soddisfazione di tutti.

Ma durò poco.
Se come fidanzata e futura, molto futura sposa, Stefania non provava rimorsi, ora che era ufficialmente la mia amante entrò in crisi di coscienza.
La rigida educazione religiosa le aveva plasmato il carattere indirizzandolo verso l'immagine di una donna perbene.
E quando negli anni '70 si trovò comunque coinvolta in assemblee autogestite per parlare del privato che era pubblico, ne comprese e fece suo il senso che più le si adattava: ciò che si diceva di essere nel privato, era ciò che si doveva far credere in pubblico.
Quindi, se il proprio privato era molteplice, variegate ma coerenti al privato dovevano essere le immagini di se stessa da proporre agli altri. Sempre che queste fossero assolutamente perbene.
Era forse perbene essere la mia amante?
Di certo no.
Era forse perbene essere la mia fidanzata?
Certo. Lo era nel privato quando io lo credevo e poteva esserlo anche quando con lei pubblicamente andavo al cinema o si passeggiava per le strade.
Era forse perbene essere la mia fidanzata, quando il marito non ne sapeva nulla?
Assolutamente sì. Per lui era la moglie, per me una fidanzata, per nessuno era un'amante e lei così con lui e con me, distintamente, poteva comportarsi nell'intimità e con i rispettivi conoscenti sempre da donna perbene.
Ora che però uno dei due mondi entrava in conflitto con la sua personale idea di coerenza, occorreva distruggerlo.
Mi risparmiai di dirle che tutto ciò si chiamava ipocrisia.
Non ero io la persona adatta per simili rimproveri.

Decidemmo che non ci saremo visti più.
Ma il caso volle che fu spostata la fermata dell'autobus che prendevo per andare e tornare dalla banca. E fu posta proprio davanti alla macelleria.
Come potevo evitare di lanciare uno sguardo veloce a lei, che dopo il nostro addio si era installata alla cassa del negozio?
Ogni sera, alle 19 in punto, scendevo dall'automezzo, alzavo per un istante la testa, incrociavo i suoi occhi, mi giravo e tornavo a casa.
Quei suoi occhi sereni e quieti ora mi sembravano colmi di una passione mai vista prima.
Quella sua bocca che ricordavo sempre atteggiata ad un pacato sorriso, ora mi appariva spalancata a riversare risate e parole a clienti sconosciuti.
Non era la Stefania che aveva condiviso con me lunghe e noiosissime giornate, svogliati e rari amplessi. Era una femmina in calore, anche il porgere lo scontrino sembrava annuncio di chissà quali abbracci, quanti baci...
Nel mentre che aprivo il portone di casa, ogni sera, dopo quella vista quasi oscena, sentivo il cuore battere a mille, e mi domandavo quale fosse stato il reale dare ed avere della nostra storia.
E mentre ero sotto la doccia cercavo di togliermi di dosso l'odore del sangue che usciva dalla macelleria e che veniva dalla sua carne, esposta agli sguardi dei passanti.
La carne di Stefania.

Mi sento così debole.
L'energia, la determinazione, l'audacia non so nemmeno cosa siano.
Ricordo...ricordo una sera. L'autobus non arrivava mai e così decisi di tornare a casa a piedi.
In una piccola stradina che presi per accorciare i tempi, mi capitò di assistere, mio malgrado, ad una rissa. O meglio, un'aggressione.
Due brutti ceffi stavano malmenando un poverino con calci e pugni. Scapparono velocemente via, mentre altri passanti chiamavano soccorsi.
Io ero lì, dietro un palo della luce, incapace di agire ed anche di poter pensare di farlo.
Paura? Non esattamente.
Era come una specie di straniamento dalle faccende della vita, specie le più spiacevoli.
Un non coinvolgimento, senza ragionamento, senza alcuna premeditazione.

La sensazione era come quella che avevo davanti ad un film.
Un uomo, dentro lo schermo, sta rantolando.
Lo hanno picchiato, insultato, derubato.
Io sono qui, nella mia poltrona, e lo guardo. Ne ho pietà e mi dispiace tanto, tantissimo.
Penso che quei bastardi meriterebbero una bella lezione e che lo Stato dovrebbe punirli con fermezza.
Mi dico che le leggi sono troppo permissive, le pene lievi.
Che bisognerebbe usare il carcere duro. Mettere la pena di morte.
Sì, ci vorrebbe qualche bella impiccagione ogni tanto!
Ed in diretta TV.

Ma se il film fosse un altro?
Se dopo quei fotogrammi spaventosi le immagini ci mostrassero un diverso antefatto?
Quell'uomo rantolante è un pedofilo sadico, un uomo ripugnante, raggiunto dai parenti di un bambino oggetto delle sue perverse attenzioni.
Un uomo malvagio, infido che...sì...ora l'inquadratura ce lo mostra, sta fingendo dolore, in realtà non lo stanno colpendo, solo insultando, vogliono fermarlo, consegnarlo alla polizia.
Ma l'improvvido intervento dei soliti bravi cittadini, che non comprendono l'accaduto, gli consentirà di fuggire e di compiere altri terribili crimini.

La vita è peggiore delle fiction.
In quelle puoi sapere la verità che nella realtà ci resta oscura, forse per sempre.
E nel quotidiano possiamo prendere posizione ed agire, in perfetta buona fede, sbagliando la mira o il bersaglio.
Meglio star fermi.
Immobili, senza respirare, nascosti dietro ad un palo.

Dicevo della vita, la mia vita...
In questa mia vita tranquilla, coi capelli ordinati, la barba rasata ogni mattina, lo stesso profumo da trent'anni...
In questa mia vita, con i ricordi riposti in ordine dentro i cassetti e le speranze rimaste nel loro cellophane...
In questa vita, un giorno giunse lui, l'uomo con la giacca a quadri.
Passeggiava con una donna giovane, ben vestita.
Troppo alta per lui e, direi, anche troppo bella.
Li seguivo da un po'. Senza volerlo, intendiamoci.
Semplicemente si camminava sugli stessi marciapiedi, loro avanti ed io appresso.
Sentivo il brusio del loro fitto chiacchiericcio, senza distinguere però l'oggetto della loro conversazione.
Vedevo l'ancheggiare di lei sui tacchi vertiginosi, un dondolìo sottolineato dalla mano di lui che, in maniera apparentemente casuale, la sfiorava, quasi per darle la giusta direzione di marcia.
Lei non si scansava dal gesto di lui, ma sottolineava il suo piacere per tale attenzione toccandosi spesso la lunga treccia che le scendeva sino al seno abbondante.
Si fermarono ad un tratto ad un semaforo rosso.
Fui così messo nelle condizioni di capire qualche parola, senza sembrare importuno.
E colsi quella frase di lui.
Banale, sciocca, ovvia. Anche retorica.
“Si muore ogni giorno un po', poi si sparisce per sempre”.
Lei rise.
I due attraversarono.

Ed io rimasi lì, con quella frase retorica, ovvia, sciocca, banale scritta su di un cartello stradale davanti a me.
Attraversai e la rividi portata in spalle da un operaio.
Girai l'angolo e stava appesa al ramo di un albero.
Preso dal panico corsi verso casa, tallonato da quelle parole.
Pendevano da un balcone insieme ad una tovaglia a quadri, legate ad un aereoplano che passava sopra la mia testa, scritte sul libro di uno studente dall'aria distratta, dipinte sul sagrato della chiesa, ostentate al collo di una vecchia e ricca signora...
Passai veloce davanti alla macelleria di Stefania senza nemmeno guardare dentro, temendo di vederle anche lì.
Ed invece le trovai nella buca delle lettere, stampate sul volantino del nuovo Centro Commerciale Gardenia.
Salii le scale di corsa, entrai in casa ed erano già lì, che mi aspettavano sulla mia poltrona preferita, davanti alla vecchia televisione in bianco e nero di mamma.
Le guardai, fissandole con l'intento di farle sparire.
Ma quando passai dalla loro forma di lettere in corsivo alla forma delle mie mani, mi resi conto che qualcosa non andava.
Corsi davanti allo specchio. Davanti a me quel che restava della mia immagine.
Semitrasparente, irriconoscibile.

Stavo già sparendo!
Dopo anni passati a morire un po' ogni giorno, ancora pochi giorni, o forse ore, e sarei scomparso, svanito nel nulla. Per sempre.
Chi se ne sarebbe accorto? Chi mi avrebbe cercato?
Forse la portiera, un vicino, un collega mandato qui dalla banca.
Sarebbero alla fine entrati.
Non trovando nulla. Tutto al suo posto, tranne il sottoscritto.
Mi avrebbero cercato, per un po'.
Poi avrebbero chiuso il caso, pensando ad una improbabile fuga d'amore, o ad una perdita di memoria.
E se durante le indagini avessero scoperto di Stefania?
Lei dapprima avrebbe negato di conoscermi ma poi, alle strette, avrebbe ammesso una qualche lontana frequentazione. Aggiungendo però che erano anni ormai che mi intravedeva appena, e che ero sempre più sbiadito, scolorito nei suoi ricordi...
Mentre io, ora, stavo sbiadendo sul serio.

La coerenza di quella fine con la mia vita di ogni giorno, dalla nascita in poi, era incredibile.
Mai un giorno mi ero sollevato dal niente.
Mai un'emozione aveva provocato in me un aumento di temperatura o un brivido di freddo.
Forse con Stefania, forse...

No, nessuna tragedia, sciagura, dramma intimo o familiare.
Nel liquido amniotico quotidiano mantenevo in un equilibrio perfetto tutte le mie molecole.
Battito di cuore sommerso dai rumori cittadini, non udivo il costante scemare del suono della mia monotona voce...
Sguardo superficiale e distratto sull'incessante movimento umano, non vedevo il mio progressivo ed inesorabile scolorare...

Stavo di certo impazzendo.
Sì, era così, la mia ragione era perduta, fuggita, forse non c'era mai stata ed era solo sembrata, chissà.
Eppure...mi guardai ancora allo specchio ed anche i miei occhi erano cambiati. Non più marroni ma, direi, gialli paglierino.
La mia ragione era intatta, il mio corpo no.

Caddi sul divano.
E quel corpo si compose sui cuscini come fosse già liquido e pronto di lì a poco a divenir respiro.

La mia mente cercò di imporsi al disfacimento.
Dovevo abbandonarmi a quel destino? Lasciare che tutto finisse, anzi, svanisse?

L'estraneità di quei pensieri di rivolta, tanto lontani dalla mia indole, erano senz'altro anch'essi sintomo della fine.
Evidentemente l'istinto di sopravvivenza faceva sentire anche in me la sua biologica realtà.
Nonostante io fossi l'esempio più eclatante dell'uomo nuovo, Homo “non più” Erectus, che tornava ad essere curvo su di sé, allergico al sentire, scostante nei riguardi del Pensiero...l'ovvietà da simbolo a nuovo istinto della razza.

No, no, no! Non era così, non erano veri quei pensieri, l'essere umano esiste e vive, solo io non avevo voluto, solo io pagavo il non esistere col non essere mai esistito!

Dovevo fare qualcosa. Subito.
Un gesto, un'azione qualunque che scoperchiando la mia tomba potesse mostrare il mio corpo.
Decomposto, con i vermi a lavorare con la giusta lentezza, ma ancora concreto, materiale, così reale da costringere i convenuti a trattenere i conati di vomito.

Prima di sparire, mi sarei ucciso.
Ecco, sì.

Preparai tutto nei minimi particolari.
Prima di tutto, chiamare Stefania. Le avrei detto del mio progetto di uccidermi e lei, di certo, mi avrebbe scongiurato di non farlo.
Quando ti vuoi ammazzare o lo fai a sorpresa o devi ascoltare le implorazioni di chi non vuole rimorsi.
Avrei lasciato la porta socchiusa, per consentirle di entrare alla chiusura del negozio.
Sarebbe venuta certa di avermi convinto a desistere e per ricevere la mia gratitudine.
Ma sarebbe stata diversa l'accoglienza, ben più terribile di un ex innamorato tradito e riconoscente.

Sorrisi pensando all'effetto cromatico del mio cadavere bianco, con le labbra cianotiche, sul divano nero al centro del salotto.
Se poi mi fossi tagliato le vene, quella striscia di rosso sul pavimento avrebbe dato a quella mia ultima immagine nel mondo un tocco artistico indimenticabile.
Quante volte ci scordiamo di chi ci dichiarava piangendo il suo amore, ma ci resta impresso in memoria il colore delle sue scarpe stinto dalle lacrime? Siamo schiavi delle immagini, della nostra incapacità di andare oltre la decadente estetica dell'apparenza.
Tant'è.
Nel momento prossimo alla fine non potevo certo cambiare l'esistente, semmai sfruttarne i limiti a mio vantaggio.

Pensai per un attimo anche di scrivere due righe, una frase di rimprovero, oppure una breve poesia in stile giapponese.
Ma scartai immediatamente l'idea.
La lettura è un piacere per pochi, e quindi avrei solo dato conferma ai sopravvissuti che era morta una persona noiosa.
Se poi il biglietto fosse caduto in mani di intellettuali avrei pure corso il rischio di essere ricordato come un idiota privo di cultura letteraria.
Meglio lasciare tutti nel rovello sui motivi e sugli eventuali istigatori della scelta.
Le morti che non si dimenticano sono quelle senza perché.

Scelsi perciò la posa migliore sul divano e mi tagliai le vene.
La morte sarebbe sopraggiunta dolcissima, senza dolore, lasciando il mio viso come in vita, seppur pallidissimo.
Ebbi tutto il tempo di immaginare l'espressione di stupore e dolore di Stefania, di meraviglia dei vicini. Lessi con piacere i titoli sui giornali, i servizi televisivi, i commenti nei social network.
Non sarei scomparso nel nulla.
Perfetti sconosciuti avrebbero dissertato e dibattuto su di me, sulla mia vita e la mia morte, scoprendo, ormai a mia insaputa, che, tutto sommato, non ero poi niente male da vivo.

I vicini vennero. In una processione silenziosa ed ordinata, con la portiera a stabilire i tempi di permanenza, si affacciarono alla porta, stupiti, mentre la polizia con efficienza eseguiva i rilievi.
Stefania entrò ma non si stupì troppo, o comunque non lo diede a vedere.
Mostrare i propri sentimenti in pubblico, per una ex amante, non è perbene.
Mi portarono via dopo poche ore, ma il sangue si era rappreso, ed io sembravo un piatto di fettuccine al ragù dopo due giorni di frigo.

Ed in frigo finii. Lì sì. Nei giornali, in tv, nel web...no.
Mentre io dissanguavo, un'esplosione di gas fece crollare due palazzi al centro della città.
Venti morti, quaranta feriti, ottanta sfollati.
La progressione geometrica di quelle cifre impedì comunque anche a quei morti di avere la giusta e meritata fetta di popolarità, e di loro resterà, come per me, solo qualche sbiadito ricordo.

I numeri, le quantità...
La storia è fatta di cifre, date, statistiche. E pochi nomi. Santi, eroi, martiri, tiranni, rivoluzionari, salvatori di varie patrie.
Forse loro non hanno avuto bisogno di inventarsi all'ultimo minuto un senso per la propria esistenza.
Io credevo di aver trovato quel senso, quella ragione, nella negazione dell'esistere, nel nulla.
Quello stesso nulla era il filo invisibile che univa ogni istante della mia vita, tagliato la sera dai programmi televisivi e cucito al mattino dai luoghi comuni della gente comune.
La negazione definitiva del mio sé anche fisico doveva darmi l'immortalità attraverso il ricordo e gli occhi degli altri.
Altri...sconosciuti, spettatori come me di vite altrui, non partecipi, distanti, indifferenti, nati con l'unico scopo di essere pubblico, non pagante e plaudente, delle vicende di quei pochi che, coraggiosi o solo fortunati, avevano avuto per sé gioie e dolori da raccontare o mostrare.

Solo ora, ora che è troppo tardi, ho capito.
Ora che non posso che dirlo a me stesso, e nessuno mi ascolta, vedo la soluzione.

Non può esserci una logica che spieghi quel che unisce noi con il mondo, l'uno con gli altri...
il paradosso della nostra esistenza è nell'essere irripetibili ed unici perciò incomprensibili anche a noi stessi, perchè la logica è collettiva e non può spiegare l'individuo e...e...ed ora...che che che...(inizia a piangere) le parole si perdono, il senso svanisce, l'opportunità che avevo è perduta...ora...ora...sono qui, (si guarda ancora allo specchio) pallido, bianco...ssssssss....sssmorto.


FINE