Donnarumma

di

Domenico Castaldo

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L’attore, in scena con l’ingresso degli spettatori, aspetta che cali il silenzio.
Batte per tre volte, con violenza, il pugno sul tavolo. Poi si accarezza la mano con aria lamentevole e domanda:

Se qualcuno reagisce così ad una vostra richiesta, cosa vi suscita?
Fastidio, rabbia, impotenza, disperazione… Si dispera di poter essere compresi da una persona che risponde in questo modo.
Questi erano i sentimenti di Donnarumma Antonio, disoccupato napoletano che avanzava domanda di lavoro presso l’Olivetti di Pozzuoli. (Pausa. Poi batte di nuovo il pugno sul tavolo)
Ho provato l’opposto a suscitare in me il sentimento opposto: cosa genera una reazione simile? Fastidio, rabbia impotenza, disperazione… Si dispera di poter essere compresi da chi si ha di fronte.

Questi erano i sentimenti di Ottieri Ottiero, selezionatore del personale presso l’Olivetti di Pozzuoli: (sbatte il pugno sul tavolo) “Lei deve compilare una domanda di lavoro”.
“Io sono qui per lavorare e non debbo scrivere nessuna domanda”.
E Donnarumma Antonio non confessa di essere analfabeta: non sa dunque leggere né scrivere, non potrebbe mai compilare la domanda né decifrare la risposta che ne avrebbe di conseguenza…
Fastidio, rabbia, impotenza, disperazione.
Com’è possibile che questi due uomini siano contemporanei, connazionali, magari pure coetanei e non possano comunicare tra di loro?
Sono come due binari che corrono paralleli, uniti da uno stesso destino, quello dello Stato italiano, ma non si incontreranno mai.

Ottiero Ottieri realizzò questa triste verità nel 1955; dopo circa un anno di attività all’Olivetti di Pozzuoli, in provincia di Napoli, con l’incarico di selezionatore del personale. In realtà fu assunto nel 1953, ma Ottieri si era da poco ammalato di meningite. Ricevette dalla Olivetti, ogni mese, lo stipendio per tutto il periodo della malattia e una volta guarito, Adriano Olivetti gli propose di prendere servizio nella nuova sede dell’Olivetti, sul mare di Pozzuoli, in un clima più salubre, rispetto a quello di Ivrea o Milano.
Ottieri era in verità scrittore e psicologo, ma Olivetti credeva nell’industria dei manager intellettuali: per cui assunse, in quegli anni, personalità del calibro di Geno Pampaloni, Paolo Volponi, Franco Fortini, addirittura il giovane Tiziano Terzani lavorò per Olivetti.
Critici, poeti, intellettuali, romanzieri...

Durante quell’anno di esperienza Ottiero Ottieri ha tenuto un diario che è stato poi pubblicato con il titolo Donnarumma all’assalto:

Un anno, non di più, sono stato impiegato presso lo stabilimento meccanico costruito a Pozzuoli dalla Olivetti, come selezionatore del personale e poi (compie il gesto con la mano) via. Non senza rimpianto però.

Era una fabbrica mito nata dall’incontro tra Adriano Olivetti, un raro industriale colto e illuminato, e Luigi Cosenza, architetto anticonformista: due grandi personalità. Più che una fabbrica era una finestra sul golfo di Napoli; una struttura a forma di croce, immersa nel verde, ritagliata nella luce calda del Mediterraneo, pensata perché gli operai potessero vivere, oltre che lavorare, lì dentro. Questa era una rivoluzione, se si pensa che ci si trovava alla soglia degli anni Cinquanta. Fece molto scalpore che il padrone Olivetti commissionasse i lavori ad un architetto comunista. Olivetti replicò ai suoi dirigenti: “Voglio che voi capiate il nero di un lunedì nella vita di un operaio”. Chissà se l’hanno capito e se lo capiranno mai!

Perché io, nel Nord, l’industria l’ho conosciuta: se è vera industria è grigia. Le officine sono nere, strette, senza spazi; una bolgia infernale di teste e macchine sotto capannoni scuri, male illuminati dalle luci al neon, sotto i fiochi tetti a sega.
A Pozzuoli, invece no! L’intrico dell’officina si allenta, il visitatore si disorienta, come al limitare di un prato o di un bosco. Tutto finestre e vetrate perché il sole sia la principale illuminazione e dalla vetrata ad occidente ci si affaccia sul mare, si vedono le barche passare, i gabbiani e si ammira l’isola di Procida. È davvero un mondo nuovo, a sé, unitario. Sembra caduto dall’alto in quelle sue forme ed in più la biblioteca, l’infermeria, i servizi sociali per i dipendenti…
Caduto in questo paese che cova fra le più profonde ricchezze d’uomini nel mondo, una miniera di esseri umani, e noi siamo venuti dal Nord a scoprire questo difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia, ad affondare la radici non solo nella terra, ma anche nello spirito di questa gente.
Immaginate gli operai, nelle loro tute blu, all’ora del tramonto quando i raggi del sole cadono obliqui, lavorare a testa bassa ma traversati da una luce liquida, idillica, che è poi la loro luce, la luce del Golfo di Napoli.

“Il golfo più singolare del mondo” così lo definì Adriano Olivetti, nel discorso d’inaugurazione:

“Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo voluto…

(problemi d’audio rendono incomprensibile il discorso)

…anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura correva il pericolo di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato, direi, di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza.

(I disturbi audio finiscono)

La fabbrica fu quindi concepita sulla misura dell’uomo… Sulla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza.

(I problemi d’audio tornano)

Per questo abbiamo voluto le finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile. L’uomo strappato alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine ha sofferto nel profondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e profonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni ne siano occorsi nel segreto del suo inconscio.

(Fine dei disturbi audio)

Abbiamo lasciata, in poco più di una generazione, una millenaria civiltà di contadini e di pescatori. Per questa civiltà, che è ancora la civiltà presente nel Mezzogiorno, l’illuminazione di Dio era reale e importante; la famiglia, gli amici, i parenti, i vicini erano importanti; gli alberi, la terra, il sole, il mare, le stelle erano importanti”.

Nonostante i problemi con il microfono, il discorso del Presidente Olivetti era stato chiarissimo: Il lavoro come strumento di riscatto e non come congegno di sofferenza. E dunque, per i suoi operai pensava all’inconscio, alle stelle, al mare. Io ero fiero del nostro presidente. E come non esserlo. Mi accingevo dunque con grande emozione al mio nuovo lavoro: la selezione di operai, attraverso l’applicazione della psicotecnica, la scienza dei test, e con un colloquio attitudinale durante il quale si indaga la personalità dell’intervistato; un metodo di selezione utile e razionale!

La prima volta sono entrato all’improvviso nel laboratorio psicotecnico e mi sono trovato innanzi ad una visione che non ho mai più dimenticato: i candidati seduti ai banchi erano sudati ed hanno alzato gli occhi, dalle odiate carte, con aria ebete, d’aiuto: avevano intuito bene che il nuovo arrivato veniva a pesare sul loro destino.
“Consegnare!” Questa era la signorina Sandri, la mia collega –  alta, settentrionale – che con la sua voce acuta suonava, fatidica come una tromba dell’Apocalisse. Sembrava davvero di assistere al Giudizio universale. Immaginate i giudicati che timidi depositavano lo scritto e rassegnati aspettavano la prossima prova.

La Sandri, distribuiva i fogli nuovi e spiegava: “Questo è un test attitudinale chiamato Incastro”. La seconda tromba dell’Apocalisse!:

“Esso richiede che dopo aver osservato, con la vostra immaginazione scopriate gli incastri esatti tra le figure geometriche disegnate a fondo pagina, dentro altre, in cima alla pagina. Una volta indovinati gli incastri giusti, unite le figure corrispondenti con un tratto di lapis… così o così” (illustra come si fa).

Carico la sveglia e via! Partiti!
Partiti, per modo di dire, si sono subito arenati. Rigiravano nelle mani quei fogli e scandagliavano le figure, soffrendo per lo sforzo. Avrebbero voluto afferrare i disegni con le dita per provare empiricamente le combinazioni anziché essere costretti a quello slancio di manipolazione astratta al quale non erano avvezzi, alcuni, addirittura non sapevano tenere il lapis in mano… era un analfabeta e, chissà, forse non distingueva neppure le figure geometriche dalle lettere in stampatello che le contrassegnavano…

“Ore 13. Consegnare!”
La terza tromba dell’Apocalisse!!
Stavamo veramente giudicando un popolo intero, ma non per dividerli secondo le loro attitudini e le nostre esigenze, bensì per dannarlo a disoccupazione eterna o salvarlo con un posto di lavoro in fabbrica.

Allora ho deciso che nel pomeriggio le prove pratiche, con gli strumenti le avrebbero fatte tutti,  anche i bocciati alle prove scritte della mattina.
E poi volevo incontrare a colloquio tutti, uno per uno.

SANDRI: Tutti? Ma è una follia dottore! Lei sa quante domande di lavoro ci sono?
OTTIERI: Quante?
SANDRI: 40.000! In archivio ne abbiamo 40.000 e assumiamo 400 operai. È inutile convocare gli scartati, basta e avanza convocare nel pomeriggio solo chi ha passato la prova scritta del mattino.
OTTIERI: No, voglio che passino tutti alla pratica e poi il colloquio lo voglio specialmente con gli scartati agli scritti. Perché la misura dell’uomo non si realizza soltanto con le architetture, ma proprio nelle selezioni. È un uomo, come loro, che li giudica, e non un test psicotecnico.
SANDRI: Va bene. Tanto la testa ce la sbatte lei!

E ho sbattuto la testa. La Sandri aveva ragione, la psicotecnica non si contraddiceva: i falliti della mattina, alle prove pratiche del pomeriggio, si sono rovinati miseramente.
Dovevano montare il Moede, l’attrezzo che usiamo per il test: un marchingegno costituito da ruote, leve e trasmissioni che smontiamo davanti ai loro occhi; loro lo devono montare in modo che la cinghia distribuisca il movimento. Un buon meccanico ci impiega pochi secondi. La maggior parte dei candidati poteva restare a guardarlo per ore. L’analfabeta è riuscito ad assemblarlo in un tempo discreto, a caso però, quindi era inceppato e non trasmetteva il movimento, allora l’analfabeta ha cercato di  metterlo in funzione con la forza.
Quando la Sandri lo ha visto: “Alt! Si fermi. Cosa fa? Non lo sforzi, me lo spacca e poi dove lo pesco quaggiù un altro coso come questo”.
L’analfabeta:

“Io sono un uomo di fatica. Mettetemi alla prova, non con questo coso qui però. Io vi alzo un quintale. Io non ho paura di niente, che credete?! Mettetemi nell’officina, che vi faccio qualsiasi lavoro. Sono il miglior manovale della zona, la scuola ce l’ho in testa. Io sono analfabeta. Ma c’ho sette figli, devo portargli da mangiare. A me mi piace di faticare. Io vi servo! Io vi servo più di tutti gli altri”.

E invece non ci serviva. 
Ma io volevo dargli una possibilità, o perlomeno convincerlo che questa fabbrica non era per lui: stava in portineria da tre mesi, assieme a Donnarumma Antonio, (quello del pugno sul tavolo), e a una trentina di altri. Passano lì giornate intere. Ciondolano, aspettano che passi un’auto dirigenziale, cercano di aprire lo sportello, di farsi investire.
Ogni tanto ne arriva uno nuovo, l’ultimo arrivato di questi disperati, è un uomo secco secco, che arringa tutti: “Sapete perché in questa fabbrica non assumono più uomini? Forse perché non lavorano? Nooooo! Forse perché non rispettano l’orario? Nooooooo!” Si faceva le domande e si dava le risposte da solo: “Non assumono uomini perché assumono soltanto donne. E perché assumono soltanto donne?!” Pausa. Attesa nell’uditorio, tutti quanti pendevano dalle sue labbra – Dattilo, Accettura, Donnarumma che torvo lo guardava come un cane alla catena… – “Perché, le donne, gli ingegneri se le chiavano!”
Era un fenomeno, aveva trovato la risposta al dramma della disoccupazione maschile del mezzogiorno, ed io avevo trovato la mia: più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che uno di Pozzuoli per l’esame psicotecnico, ed io facevo un passo falso a illudere questi che erano i più disperati tra i disoccupati napoletani.

Che poi dire disoccupati e dire napoletani, è un po’ lo stesso. Sono un popolo intero, qui la disoccupazione è la regola: tutti lavorano, ma nessuno sa quanto, come e quando. Mi sono trovato a sfogliare i registri che contengono le domande di attrezzisti: 1000 domande, me ne occorrevano 3. Avremmo scartato 997 persone, e tra loro ragazzi sensibili ed intelligenti come, ad esempio, Piazza Michele.

OTTIERI: Si accomodi Piazza
PIAZZA: Che vi serve dottò, un alloggetto, un appartamento, una villetta?
OTTIERI: Perché, vi intendete di questo?
PIAZZA: No! Aiuto un amico che tiene un’agenzia. 
OTTIERI: Ah, dunque lei ha un lavoro…
PIAZZA: No, sono disoccupato da cinque anni!!
OTTIERI: Da cinque anni? E come fa?
PIAZZA: M’arrangio, dottò!
OTTIERI: Ma cosa significa m’arrangio, qui tutti si arrangiano, come passate il tempo?
PIAZZA: Eh dottò, qua, ci si arrangia!
OTTIERI: Ma scusi, non può raccontarmi semplicemente, come a un amico, la vostra giornata?
PIAZZA: E vabbè! Mi alzo, tardi… poi la mattina aiuto mammà in casa e le sorelle casalinghe. Mangio. Nel pomeriggio esco con gli amici, una passeggiatina, il caffé… Frequento qualche circolo, qualche cinema, poco, dottò, perché ci vogliono i soldi. Poi mi arrangio con lavoretti. L’agenzia dell’amico, mi chiamano i conoscenti a riparare qualche impianto, sa, qualche abitazione privata. O aiuto l’altra sorella, l’ostetrica.
OTTIERI: Aiuta l’ostetrica?
PIAZZA: Sì dottò, quando…
OTTIERI: Va bene, Michele, ma mi spieghi perché lei, che mi sembra un ragazzo sveglio, volenteroso, ha sbagliato tutte le risposte ai test?
PIAZZA: Ho sbagliato, dottore? (Piange) E che ne so perché… sono disoccupato, sono cinque anni che m’arrangio…

Il pianto degli uomini non si può sopportare. Ho dovuto interrompere il colloquio. Ma era chiaro perché.
Lui sbagliava perché la disoccupazione era una maschera fissa, calata sul suo viso, era per lui il più esatto ed inesorabile destino.
Sbagliava per una difesa inconscia del proprio stato, per una profonda incredulità nel mutamento.

Per questo la psicotecnica è immorale a Pozzuoli. Selezione scientifica e disoccupazione qui si negano. In questa fascia costiera la popolazione è densa come nelle più dense province cinesi. Per concepire il progresso, una simile zona dovrebbe essere tutta industriale, eppure è la meno industriale del mondo. Qui la selezione è la difesa dai disoccupati. Altrove sarebbe neutra o giusta: dove domanda e offerta di lavoro sono equilibrate, la selezione ha valore umano perché indica un orientamento e non un merito assoluto.
Qui invece l’eventualità di essere assunti e magari preferire un altro lavoro non sfiora neppure i candidati. L’alternativa è: “Mi arrangio, dottò!”
L’esame psicotecnico è un imbuto, da un lato entra un fiume, dall’altro esce, goccia dopo goccia, un rigagnolo.

E non si può affermare questo rigagnolo: che i vincitori della psicotecnica raggiungano una solida felicità piuttosto che una delusione. Qui i ragazzi sono avvezzi a girare per il paese tra le strade e la famiglia, passare le giornate sul lungomare, nei circoli.
L’esperienza alla catena di montaggio può essere una proposta di vita allettante?

CLEMENTE CRISCI: Volete sapere cosa penso di questo lavoro? Se proprio ve lo devo dire, dottò, è massacrante. Massacrante sì, perché i tempi di lavorazione sono strettissimi. Ogni fase dura 35 secondi, senza un intervallo, dalle 8 di mattina alle 6 di sera. Pensi un po’ lei, in quale condizione si può trovare una persona dopo tante ore di lavoro. (Come rispondendo alla domanda che ne consegue) Sì, sempre lo stesso movimento – e per l’esattezza 5 movimenti – per 8 ore ogni giorno. Moltiplichi anzi, no! Divida 8 ore per 35 secondi, poi li moltiplichi per 5 e ora calcoli quanti movimenti faccio io durante una giornata!
E a chi non piacerebbe fare un altro lavoro. Indipendentemente dal fatto che tutti quelli che fanno un lavoro, sia esso buono o cattivo, tendono a volerne fare un altro, diverso dal loro.

Alla fine, si deduce che tutti corrono: sia chi è soddisfatto che chi non lo è, in silenzio, appresso al tempo; una corsa fatidica che costringe alla schiavitù.
Il sistema industriale riduce le facoltà di un essere umano: potrebbe essere e fare molto di più ma ci si limita a 5 movimenti, in 35 secondi che si ripetono, uguali, per 8 ore al giorno, per anni e anni e anni.
E si assumono i migliori per giunta. Le menti più fervide, creative, adatte a chissà quali altri scopi, si piegano ad una mansione idiota, monotona, massacrante. Una mansione che in pochi mesi – sebbene avvenga in una casa nel verde, una finestra sul Golfo di Napoli – annulla i bisogni inconsci dell’individuo.
Però nel nostro stabilimento compare l’altra faccia di questa schiavitù: la necessità del lavoro, la dura dignità, la costruzione giornaliera di una via di libertà.
Per questo dobbiamo continuare a credere nella psicotecnica come a una pista per non perdere la strada. E nei colloqui voglio incontrare tutti! Anche i postulanti della portineria, pure Donnarumma, anche quello che si butta sotto l’auto del direttore…

OTTIERI: Accettura, entri, si accomodi. Lei sotto la macchina del direttore non ci si deve buttare più. Qui le assunzioni sono chiuse. La fabbrica, Accettura, ha le sue leggi. Non possiamo prendere un uomo se non c’è posto per lui. Dove lo mettiamo ad aspettare? Se lei si butta sotto la macchina del direttore, Accettura, cambia le leggi dell’organizzazione. Se lei si ferisse, ah?! Così è più facile assumerla?
ACCETTURA: Dottore avete ragione! Io vi devo ringraziare dell’onore che mi avete ricevuto a questo colloquio, però io vi devo dire che sotto l’auto del Direttore non mi ci volevo buttare, volevo fermarla per implorare il Direttore. Ma la polizia ha fatto scandalo. La polizia fa sempre scandalo. Ma voi mi dovete credere, non siete un poliziotto!
OTTIERI: Certo che le credo, Accettura.
ACCETTURA: Allora mi avete convocato perché mi volete dare ’o posto di lavoro!
OTTIERI: Ma Accettura! Le ho spiegato prima che non ci sono posti di lavoro; e poi mi spieghi come pensa di lavorare – mi scusi – con la sua invalidità?
ACCETTURA: Quale invalidità? Quale invalidità? Io con questa mano lavoro benissimo. (Mostra la mano buona, mettendola sul tavolo) Non mi credete, eh? Questo è il torto di un cristiano? Scongiurare un direttore? Ma voi non siete ’nu poliziotto, mi avete fatto salire per darmi giustizia. Questa mano è sana, dottore, io me moro ’e famm’, dottò.
OTTIERI: Accettura, vi aiuteremo in qualche modo… (Fruga nella tasca interna della giacca)
ACCETTURA: Che state facendo, dottò?
OTTIERI: Lo vedete cosa sto facendo.
ACCETTURA: Nooo, dottore, mettete a posto quel portafoglio. Io non sto qua, da voi, a chiedere l’elemosina, mi sentirei umiliato. Voi avete fatto l’onore di ricevermi questa volta. E poi devo sempre tornare a scocciarvi. Mi date 10.000 lire? Bastano quindici giorni. E dopo devo tornare a chiedere? Io vi prego che mi date un posto per tutta la vita, anche pulire i gabinetti, così non sarete scocciato più.
OTTIERI: Capisco, Accettura, ma io non posso far niente d’altro.
ACCETTURA: Allora vado dal direttore in persona, anzi vado a Ivrea, dal presidente dello stabilimento, anzi, no, vado a Roma dal presidente della Repubblica, da Scelba?!

Conosceva anche Scelba…

OTTIERI: Non scappi Accettura! Venga qui. Non deve credere a una disgrazia solo sua. La fabbrica per ora ha esaurito i posti di lavoro, ma se aumenta la produzione avremo bisogno di nuovi operai. Ma la produzione aumenta e abbiamo bisogno di nuovi operai solo se l’organizzazione è perfetta, se non c’è un uomo in più…
ACCETTURA: Voi avete ragione, avete ragione però per l’intanto io me mor’e famm’, e la fame è brutta, dottò!

Quando i giornali scrivono che la disoccupazione è un cancro, il male più grave che mina la società, bisogna sentirlo e vederlo per crederlo; la disoccupazione butta all’aria, corrompe, ridicolizza tutti gli sforzi della ragione, della psicotecnica. Infatti!
(Legge una lettera manoscritta che trova sulla scrivania) “Se non ci assumete tutti prima del 15, ci sono per lei, signor Direttore, sei pallottole. Un amico pazzo”. Ossa e teschio incrociati sostituivano la firma. Confrontammo la calligrafia con quella di alcuni tra i più irosi tra gli scartati. Non risultò nulla…
I sospetti allora caddero su Donnarumma, uno dei pochi alla portineria che non aveva ancora presentato domanda scritta.
Chiamare la polizia poteva essere viltà. Esporci al pericolo, incoscienza. Scegliemmo l’indifferenza, ma abbiamo continuato i colloqui così da stringere il cerchio attorno a Donnarumma.

DATTILO: Dottore buongiorno. Nessuno è nelle condizioni mie, dottore. Io sono sposato/fidanzato… Che significa? Ah, non sapete che significa? Significa che un disoccupato non si può sposare in chiesa, un disoccupato non è cattolico un disoccupato non è benedetto. Per dare la parola alla mia ragazza ci siamo sposati. Ma clandestinamente, in municipio, perché in chiesa, con la benedizione posso solo si teng’ o lavoro. Ma quando la notizia è trapelata, il padre della mia fidanzata – mia moglie per la legge – l’ha cacciata dalla casa. E allora dove deve dormire la sposa/fidanzata di un disoccupato: per la strada? L’ho portata a casa mia. L’ha presa mia madre nel suo letto.
OTTIERI: E voi dove dormite?
DATTILO: A casa mia. Con mia madre e con la moglie/fidanzata. Sotto lo stesso tetto ma camere separate. Voi capite, dottore. I miei nervi. Anche lei è nervosa. Camere separate d’estate… camere separate d’inverno…
Lo capite, dottò? È una condizione tremenda. La ragazza mia non si fidava del fidanzamento; m’ha voluto sposare prima in municipio per prendere la parola almeno con la legge. Ma finché non ci sposiamo in chiesa non possiamo consumare! E io mi trovo ’sta condizione! Siamo esauriti! Pure lei, ’a fidanzata, ’a moglie mia. È lei che mi manda qui. Deve aspettare che mi prendano nella fabbrica. Aspettare, aspettare, aspettare! Chi resiste, d’estate!? È un purgatorio, dottò, tanti stanno in questa condizione ma per me è peggio, per via delle camere vicine, capite, dottò?! Se mi convocaste, almeno per i test, posso avviare la pratica in chiesa e finalmente intridere di amore benedetto questa mia unione, no?!

No, purtroppo!
Dattilo mi è rimasto confitto nella memoria, con la moglie/fidanzata, che sbarra gli occhi seminuda nel letto della futura suocera. Battono le nocche alla parete, quando la vecchia dorme. Se fosse chiamato agli esami, subito potrebbe unirsi a questo fantasma al di là della parete.
Ma come si fa a stabilire una gerarchia del bisogno? Facciamo degli orditi di ragione, di giustizia, che continuamente si lacerano.

Antonio Donnarumma, già con lo  stomaco contro il tavolo: petto quadrato in un maglione, capelli grigi a spazzola, occhi duri.

OTTIERI: Donnarumma, finalmente! Di lei non abbiamo alcuna pratica… ma lei ha compilato la domanda?
DONNARUMMA: Che domanda?
OTTIERI: Come, che domanda… Perché si meraviglia se le chiedo questo? Non sa che deve presentare una domanda scritta di lavoro…
DONNARUMMA: Che domanda e domanda. Io debbo lavorare, io voglio faticare, io non debbo fare nessuna domanda…
OTTIERI: Ma se lei vuole faticare ci spedisca per posta la domanda.
DONNARUMMA: E che vi devo scrivere? Qui si viene per faticare, non per scrivere.
OTTIERI: Sì, ma lei ci invia uno scritto, noi lo esaminiamo e poi vedremo.
DONNARUMMA: Eh, che vedremo?
OTTIERI: Vedremo che ci sta scritto sulla domanda.
DONNARUMMA: Ci sta scritto che devo faticare.
OTTIERI: (batte con violenza il pugno sul tavolo e urla) Solo lei deve faticare in tutta la città e in tutta la Campania? Lo sa che 40.000 persone vogliono faticare qua dentro? Lei è il primo che pretende di faticare senza avere prima fatto una domanda di lavoro.
DONNARUMMA: (si fa grigio, del colore di una pietra e con l’apparenza del sordo; gli occhi bui, rossi. Torvo e severo, solleva il braccio) Dottore, voi il pugno sul tavolo non lo battete.
OTTIERI: Io batto il pugno sul tavolo soltanto perché voi non volete capire, non volete, pretendete quello che non pretende nessuno, e perché?
DONNARUMMA: Voi il pugno sul tavolo non lo battete. Se no lo batto anch’io. E io non lo batto sul tavolo! Ma sulla capa vostra e su quella del direttore.
OTTIERI: Guardi che con le minacce non otterrà nulla da noi. È assurdo, invece di fare la domanda, picchiate me e il direttore. È un buon modo per essere assunti.
DONNARUMMA: Se oggi la scrivo e domani la mando, domani mi mandate a chiamare?
OTTIERI: La esaminiamo e poi…
DONNARUMMA: Voi non esaminate niente. Voi avete battuto con me il pugno sul tavolo, e stracciate le domande. voi e il direttore farete i conti con me! (Uscendo, canta)
’Stu vico niro nun fernesce maje
e pure ’o sole passa e se ne fuje.
Ma tu stai llà, addurosa preta ’e stella,
Carmela Carmè!
Tu chiagne sulo si nisciuno vede
e strille sulo si nisciuno sente,
ma nun’ è acqua ’o sanghe dint’ ’e vvene, Carmela Carmè!
Si ll’ ammore è ’o cuntrario d’ ’a morte, e tu ’o ssaje.
Si dimane è surtanto speranza, e tu ’o ssaje.
Nun me può fà aspettà fin’ a dimane,
astrigneme ’int’ ’e braccia pe' stasera,
Carmela Carmè!

Ho sbagliato! Il razionale selezionatore, lo psicologo attento, ha perso il controllo… ho fallito perché qui è tutto sbagliato. Avremmo dovuto assumere i Donnarumma. Non sai scrivere né leggere? Bene! Allora ti mettiamo in catena di montaggio. Ti indirizziamo, ti educhiamo e tu produci, come un bue al basto. Invece riesci, leggi, scrivi, hai dei sogni? Vai nel mondo e miglioralo! Noi, qui livelliamo il meglio della società al minimo delle possibilità.
Voi che potete, voi che riuscite, voi che avete dei talenti spendeteli per dare lustro alla vostra società. La psicotecnica va usata al contrario: per liberare i migliori ed educare i Donnarumma. Forse vivremmo tutti meglio.

Infatti la Sandri, il mattino dopo, è entrata con un tremito lieve in tutto il corpo, quasi vergognandosi di questa minima manifestazione di inefficienza.
“Che succede signorina?”
“Donnarumma… ha infilato un braccio nel finestrino. Addosso a me, a me, me lo ha spinto, il braccio, piegato contro la gola, voleva strangolarmi. L’autista ha accelerato, quello ha dovuto sfilare via il braccio. Se no gli si spezza”.
“Si sieda, signorina, stia calma. Stavolta lo denunciamo alla polizia. E lo diffidiamo dal passare il confino della portineria.”.
Donnarumma è stato denunciato. Si è stabilita anche l’assunzione di una guardia giurata a sicurezza della portineria.

Ora la nostra famiglia, il nostro clan privilegiato sarebbe stata protetto da una guardia armata. E avremmo fatto un piccolo passo in più verso l’esclusione con il mondo fuori. Questa fabbrica è una casa, non si percepisce differenza tra padroni e operai. La smania di lavoro li unisce tutti annullando la coscienza di classe, eliminando ogni possibile conflitto. I sindacati non avevano mai dovuto veramente lottare, i diritti degli operai, erano acquisiti, al momento dell’assunzione. L’unico sciopero a cui ho assistito è stato alla rovescia, per restare a lavorare.

È stato quando si è annunciata una visita di Eduardo De Filippo. Se non fosse giunto per mezzogiorno, non avrebbero lasciato la catena di montaggio, non sarebbero corsi alla mensa per mangiare. Lo aspettavano come un padre, il santo della loro religione tragicomica, il simbolo del teatro e della libertà che noi gli ricacciavamo continuamente in gola. Quando fu annunciato alla porta scoppiò il finimondo: “È arrivat’! Uè è trasut’oi, è arrivato!” Fin dai primi banchi del montaggio, un fotografo, precedendolo, ma camminando all’indietro, riprendeva coi flash il visitatore e gli accompagnatori; in tutte le foto, l’operaio Dioguardi, ex attore del varietà incaricato di assisterlo durante la visita.
Ognuno voleva entrare nella foto assieme a lui, tutti si davano all’obbiettivo sgranando gli occhi, mostrando facce da commedia, con una espressività esagerata, come bambini esagitati in un giorno di festa.
Questi operai amano il palcoscenico come il loro paradiso perduto.
Ma Eduardo si interessava solo della durata, delle fasi, della produzione oraria. L’officina, il rumore, il ritmo, lo commuovevano. Passava rapido per paura di turbare. Domandava dei tempi di lavoro: in quanto, dallo scheletro di una calcolatrice, si passa al collaudo. Cercava con gli uomini del Sud un contatto nell’amore del lavoro. Egli voleva che essi, suo stesso sangue, perseverassero per quella nuova via silenziosa, verso un destino di riscatto. Comprendeva tristemente le loro nostalgie, ma la sua fretta, la sua ritrosia sembravano dire: “Il teatro non basta!”. Infatti prima di lasciare l’officina, Eduardo si è fermato un momento. Ha aperto la bocca. Voleva recitare qualcosa per tutti, ma s’è trattenuto.
“Siate bravi” ha soltanto detto. “Veloci, veloci assaie!!”
E via! Svelto per non creare disordine tra i banchi.
“Forse gli abbiamo fatto spavento” si rammaricava l’operaio Dioguardi.
Non era spavento, aveva rinunciato per non mescolare il mondo irrazionale, emotivo, del teatro con quello industriale della razionalità.
L’ho poi visto dietro i vetri dell’ufficio del direttore, con Dioguardi, l’ex attore.

OTTIERI: Dioguardi, ma che vi siete detti per tutto il giorno?
DIOGUARDI: Gli ho raccontato che io prima facevo l’attore, dottore. Ero come si suol dire a Napoli un “macchiettista”, facevo le macchiette e m’arrangiavo con dei lavoretti, tiravo avanti! E si guadagnava bene, se la cosa era continuata, ma essendo che le scritture a Napoli sono pochissime, veramente pochissime e allora io preferii un altro lavoro e possibilmente una cosa buona e così, effettivamente, trovai l’Olivetti. Ed è veramente una bella situazione, è come stare in famiglia, e alla sera non sapete che tramonti ci godiamo. “Ah,  vi accorgete ancora del tramonto, anche in fabbrica, direttore?” ha chiesto Eduardo al direttore. Mentre parlava col direttore sono andato a casa di Bellomo – il portiere – ho chiesto alla moglie di preparare una caffettiera e l’ho portato caldo caldo: “Scusate per l’attesa ma qui, dentro allo stabilimento, non tenimm’a machinett’…”
EDUARDO: Davvero?! A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori, a un balcone bello come questo… Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne che a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io, con le mie stesse mani. Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce È molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate, chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo, con la stessa cura? Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… E io pure. Anzi, siccome, come vi ho detto, mia moglie non collabora, me lo tosto da me… Pure voi, professo’?… E fate bene… Perché, quella, poi, è la cosa più difficile: indovinare il punto giusto di cottura. Il colore a manto di monaco… Color manto di monaco. È una grande soddisfazione ed evito pure di prendermi collera, perché se per una dannata combinazione, per una mossa sbagliata, sapete… ve scappa ’a mano o’ piezz’ ’e coppa, s’aunisce a chello ’e sotto, se mmesca posa e cafè… insomma, viene una zoza… siccome l’ho fatto con le mie mani e nun m’ ’a pozzo piglia’ cu nisciuno, mi convinco che è buono e me lo bevo lo stesso. Professo’, è passato (versa il contenuto della macchinetta nella tazza e si dispone a bere). State servito?… Grazie. (Beve) Caspita, chesto è cafè… (Sentenzia) è ciucculata. Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo…

Eduardo lo dipingeva e lo incarnava perfettamente l’uomo meridionale...
È diverso dagli altri, deformato, dalla storia, dalle avventure della sua vita, che lo peggiorano e lo esaltano fuori dalle comuni leggi. La loro storia li ha deformati, ma non c’è riscatto per loro né oggi, né domani. Perché il male che si subisce diventa male che si produce e male resta anche se ne conosciamo perfettamente la ragione. Il loro male diventa la loro colpa, la loro incomprensibile razza; e noi, i privilegiati con il cretino casco colonialista sul capo, da cui niente più esce e niente più entra.

Così, con questo stupido casco colonialista in testa, ho rivisto Donnarumma.
“Ho spedito la domanda, per raccomandata” mi dice.

OTTIERI: Non l’abbiamo ricevuta.
DONNARUMMA: Sono stato alla posta ieri l’altro.
OTTIERI: Perché non l’abbiamo ricevuta?
DONNARUMMA: Perché mi volete rovinare. Mi avete messo nelle mani della Polizia.
OTTIERI: Perché lei ha messo le mani addosso alla mia collega.
DONNARUMMA: La collega vostra straccia le domande di tutti quelli che vogliono lavorare.
OTTIERI: Lei non le straccia, se ce la mandasse riceverebbe una risposta scritta.
DONNARUMMA: Vuje ’e risposte ’e date à la polizia.

Ed effettivamente ci è arrivata la lettera. Un’altra minaccia anonima: “Se assumete la guardia giurata Antonio Del Carmine entro il primo ottobre diamo fuoco allo stabilimento”. Stessa calligrafia della prima, stessa mano stenta dei semianalfabeti della nazione.
Andai dal tenente per una seconda denuncia a Donnarumma Antonio!

TENENTE: E che lo denunciate a fa’? Ne avete fatta una, e lui nonostante la denuncia e la diffida a non oltrepassare più il terreno della portineria, ogni giorno passa dal muretto e sfila lungo i vetri del vostro ufficio. Avanti e indietro, indietro ed avanti. E questo vi disturba. E che si fa? (Pausa) Sentite a me, ho un’idea, dategli un emolumento in danaro.
OTTIERI: Dei soldi?
TENENTE: Sì, una cifra una tantùm. Così sgonfiate la vescica gonfia, nera, della sua ira; lo spiazzate!
OTTIERI: Un sussidio in risposta ad una minaccia?
TENENTE: È meglio, tanto Donnarumma non lo cambiate. Fate un gesto di pace e vo livat’ a nanze ’e piedi! Ve ne liberate!!

Ma Donnarumma ha rifiutato il sussidio una tantùm. Esige una indennità fissa di mancata assunzione di lire 40.000 mensili. La trattativa è naufragata in fretta.
Ci siamo ridotti a chiedere anche un poliziotto all’ingresso. Passerò alla storia come l’uomo del servizio d’ordine della portineria dell’Olivetti.
Ora i militari ci proteggevano dai poveri, dagli emarginati che volevano entrare.
Non era una bella conclusione, ma che fare?
Questo è il volto ingannevole della fabbrica… nonostante tutti gli sforzi i dirigenti sono i colonizzatori e gli operai i privilegiati, gli aristocratici. E l’orgoglio aziendale taglia ogni contatto con la plebe, col mondo fuori. Ed io per una mia dannata vocazione mi occupavo proprio dell’infelicità creata dall’isola felice in cui lavoravo; prima verso l’esterno, ma ora – con i militari alla porta – all’interno della fabbrica. Mi hanno dato incarico di prendermi cura dell’infelicità degli esseri umani, creata dalla felice condizione dell’essere operaio. Tanti erano a disagio, depressi.
C’era, ad esempio, Attanasio che, da circa un mese, non rivolgeva la parola a nessuno.

OTTIERI: Avete difficoltà ai banchi? I tempi di lavoro sono troppo stretti? Questo me lo potete dire. Sono qui per questo!
ATTANASIO: No, no! Ho un’idea fissa.
OTTIERI: È il lavoro che vi snerva? 
ATTANASIO: No, no. Sono snervato, ma no per i banchi.
OTTIERI: Ho capito Attanasio, ma per l’assunzione di sua sorella…
ATTANASIO:  No dottò! Io ho bisogno di uno pizzicologo. Io da un mese ho un’idea fissa.
OTTIERI: Quale idea fissa, Attanasio? Io magari posso aiutarla. Uno psicologo qui non si trova facilmente e poi costa molto caro. Le assicuro che tutto quello che dirà resterà tra me e lei.
ATTANASIO: (lunga pausa) Da un mese non divento ben duro. C’ho una ragazza nuova e con lei godo senza diventare ben duro. Non era mai accaduto prima? Andavo con una sposata. Non mi interessava per niente, però indurivo moltissimo: ero marmoreo. Non tenevo paura del marito, di niente, ero marmoreo. Per me, prima, le donne erano come camicie da buttare via appena sporche!
OTTIERI: Ecco magari adesso di questa nuova ragazza è innamorato.
ATTANASIO: Sì, bravo dottò, mi avete indovinato. Io questa nuova l’amo, benché non sia vergine! E quella m’accusa di freddezza, disgraziata, disgraziata!
OTTIERI: Quale sbaglio! Quale sbaglio! Lei deve dirle che proprio il suo amore è causa dell’inconveniente! Ma come avvengono i contatti con questa ragazza?
ATTANASIO: In casa di lei.
OTTIERI: Ah, lei vive sola?
ATTANASIO: No coi genitori, con cinque fratelli, il padre, la madre e una nonna. La vado a trovare quando è sola. Cinque minuti, mentre gli altri tornano dalla messa. E quella dice che so’ freddo! E io, prima, marmoreo: le donne… come camicie sporche!
OTTIERI: Magari è la fretta, il timore di essere scoperti…
ATTANASIO: Quando c’è timore di essere scoperti, andiamo a passeggio sul lungomare: dopo le terme c’è una roccia, là stiamo tranquilli, a un metro passa il treno e dalla parte del mare, ci sono i bambini che giocano, siamo tranquilli.
OTTIERI: Ma mi pare di capire che nemmeno lì lei possa sperimentare una vera intimità? Ora non pretendo che lei entri nei particolari. Ma bisognerebbe esaminare le situazioni, le… posizioni.
ATTANASIO: Frequentemente in piedi quando siamo all’esterno, sopra la sedia a casa sua… con la sposata la posizione d’o cavallo, quella d’o prevete, ’a triccaballacc …che sarebbe con le gambe così (mostra la posizione) …e io sempre marmoreo! Non è la posizione, dottò. Con la sposata non mi era mai successo, mai! Due volte al giorno andavo e… sempre marmoreo. E mo questa m’accusa di freddezza… io, nun ce pozz pensà, le ragazze le buttavo come…
OTTIERI: Camicie sporche, ho capito! Guardi Attanasio, le garantisco che non esiste la più piccola menomazione della sua virilità, anzi. Anzi! Lei è il contrario della freddezza, lo spieghi alla ragazza, il contrario della freddezza. Le donne intuitivamente capiscono.

Ho chiuso così. Non ero preparato a imbattermi in questioni di sesso, o meglio di sessi.
Ancora una volta la ragione dell’attento psicologo, i sentimenti, il senso del dovere, la logica della classe operaia si frantumavano. Avrei dovuto spogliarmi da tutti gli abiti e parlargli da amico: “È un fenomeno passeggero, sposala, portala in viaggio di nozze e vedrai che così la marmorizzi”. Invece non saprò mai se l’ho aiutato. Forse ho perso un’occasione. Ma oramai lo so, qui è così.

Perdo il mio tempo; i colloqui, questo vedere tutti in un momento, non sapere più niente, non seguire nessuno lungamente sembra una giostra folle oppure un lavoro da impiegato allo sportello, da confessore, da prostituta. Ho confessato questo dubbio al nostro cassiere, un uomo probo, che abita nel cuore di Pozzuoli; un legame fra noi e il paese.
Ha detto che il paese ci era grato di ricevere i richiedenti uno per uno. Capiscono che la bellezza degli edifici corrisponde al valore umano di questi incontri, dei “no” spiegati con migliaia di vuote parole.
“Ma Donnarumma?”
“Donnarumma è pazzo, dottore”.
A me, nei giorni più neri, la nostra mi pareva una pazzia inutile, un lusso paternalistico questo incontrare tutti senza apparenti risultati. Per questo ho deciso di lasciare il lavoro.
Parto. Voglio dedicarmi a scrivere e basta.
Naturalmente non me ne vado subito: resto giusto il tempo per scampare di poco un attentato.
Alle 7 di sera, dopo il mio passaggio, hanno lanciato nel buio una bomba carta davanti allo stabilimento, a un metro dell’auto di un ingegnere. Donnarumma all’assalto. Una telefonata anonima avverte il direttore che vi era stato uno sbaglio: la bomba spettava a lui.
Hanno fermato Donnarumma: non per l’attentato, perché non esistevano prove, ma per le minacce e Donnarumma si è fatto quindici giorni alle carceri.
La bella fabbrica, libera e altera, continuava a produrre dopo essersi scrollata di dosso questo fastidio.
Io e la Sandri eravamo i soli partecipi di paura, passione e scetticismo: sentimenti che forse l’unico a condividere, da dietro le sbarre, con uguale intensità, era Donnarumma, il più vicino a noi in quel momento.

Noi dovremmo uscire dalla fabbrica e sentirci quello che veramente siamo, una goccia nel mare: ci segreghiamo invece tutto il giorno nello stabilimento, mentre fuori per le campagne, lungo la costa, aziendalismo e colonialismo svaniscono. Al di là dello stabilimento brulica una vita collettiva estranea e forse ostile, cui la fabbrica impone un miraggio di civiltà.
L’umiliazione degli analfabeti è anche la nostra. Quando brandiscono il lapis la scienza e l’organizzazione aziendale non può insegnare loro nulla. Il privilegio dello stabilimento va a pezzi contro di loro. Corriamo su binari paralleli che non si incontrano mai, uniti da uno stesso destino, quello della nazione italiana.

Così È arrivato il giorno del mio commiato. C'è stata una festa memorabile. Non perché domani parto, perché una grande associazione centro-meridionale visitava lo stabilimento.
Guardia giurata e poliziotto parevano svolgere un festoso servizio d’ordine e di onore.
Il tenente in visita mi trasse da parte e mi disse: “Non è stato Donnarumma. Le impronte non corrispondono alle sue scarpe”.

OTTIERI: Ma le scarpe, le avrà cambiate tenente.
TENENTE: Non dica così, possono essere stati tutti… Ma noi, dottore… noi lo prenderemo, non ve ne incaricate. Stiamo tirando a riva un bel pesciolino. Finora si è giocato. A noi dovete darci il tempo.
OTTIERI: Quanto tempo?
TENENTE: Abbiamo i nostri fili speciali e presto li tiriamo. Donnarumma è un capolavoro, ma non è stato. Quaggiù occorre molto tempo per tutto. Abbiate un po’ di pazienza e risolviamo tutto.

Il tempo era l’unica cosa che non avevo più perché, dopo aver sbrigato le ultime faccende, sarei partito l’indomani mattina.
Così quella sera, prima di lasciarla, ho scrutato ogni angolo della fabbrica, come quando si abbandona una stanza amata, abitata per lungo tempo: le vetrate sul mare, i pavimenti lucidi e profumati, l’ordine sui banchi.
Ma il mattino dopo, davanti alla stazione ho visto sfrecciare due automobili nere, cariche di poliziotti in grigio-verde e di armi, verso la statale. Verso la fabbrica.  Donnarumma appena uscito di prigione era tornato all’assalto?
Ho cercato un telefono e ho chiamato subito la portineria. Mi ha risposto Bellomo, l’usciere.

“Pronto. È lei Bellomo? È successo qualcosa? Ho visto due automobili militari imboccare la statale, verso la fabbrica. Cos’è successo? State bene? Ma come tutto tranquillo, non mi nasconda niente, guardi che io rinuncio a partire e vengo subito lì. Ah, (quasi deluso) tutto tranquillo. Be’ allora meglio così, Bellomo. Molto meglio. Come? In portineria c’è solo Dattilo che vorrebbe parlare con me… Sì, sì, glielo dica… Glielo dica pure che mi hanno trasferito, del suo problema deve parlare con il mio sostituto. Ho il treno che parte ora. Lo sente che fischia? Addio Bellomo. Addio!”

(Canta)
Chi po’ dicere ca sto murenno
Chi po’ dicere ca so’ cuntento
Chi po’ dicere ca sto sbaglianno
Parlanno male ’e tutte chisti anne
Tantu tiempo ma ’nce penzo ancora
Chella nun era ’a strada bona
Chi me dice ammore
Rispongo dulore
Chi po’ dicere dimane vengo
E aspiette tutta ’na vita
E t’accuorge ca nun aje capito
E nun te po’ cchiù passà
Chi me dice umanità
Rispongo ammore ammore ammore.