DONNE IN GUERRA

DI

LAURA SICIGNANO E ALESSANDRA VANNUCCI

 

PERSONAGGI:
MILENA
ANITA
ZAIRA
LA SIGNORA DE NEGRI
MARIA
IRENE


PROLOGO
Siamo sulla banchina di un treno in partenza

Milena – C’erano tutti quei gerarchi che mi guardavano e io mi sentivo grande. Fin da bambina volevo farmi notare, essere in primo piano. Il mio punto forte sono i capelli: certi giorni li tiro su per darmi un’aria da donna fatale o mi metto un fiocco sulla testa per sembrare ancora più alta. Sono una creatura a cui piace viaggiare, che ama la notte passeggiare da sola.

Anita – Pippo Iena, Bini che è il Franco, Giacinta, poi c’era Vera e c’erano i miei cugini, Rolando e Dinamite e c’era Pablo lo slavo. Il nome era ricamato sul fazzoletto: la gente lo leggeva quando passavamo, come si leggono i numeri dei ciclisti. Ho conosciuto anche dottori, ma non saprei, nessuno diceva il nome. Breda: perché disinnescava le granate con due dita. Ombra: perché dovevamo muoverci come ombre. I nomi si sceglievano noi. E’ stato il momento più intenso della mia vita, che dopo mi sono anche un po’ annoiata. Il giorno della liberazione ero felice ma sentivo anche un po’ la nostalgia: era tutto finito per sempre.

La Signora – Non è un bello spettacolo. Pagliacciate che non mi piacciono. Cos’è? Insultare il capo dello stato? Offenderlo? Maltrattarlo? Allora non mi piace questa democrazia. Preferisco il rispetto. Neanche il buon dio è democratico: non ci ha fatto uno alto, uno basso, uno grasso, uno sano, uno malato, uno scemo, uno furbo? Se era democratico ci faceva tutti uguali, con lo stampino. Tanti discorsi. La politica, il fascismo non mi interessa. C’è e basta. Io spero solo in una Italia più ricca e più giusta con i nostri figli.

Maria – Era giovedì: facciamo la pastasciutta per tutto il paese. La farina, tutti ne avevano un po’ nascosta. Abbiamo fatto la pastasciutta, quintali, un gran assaggiare la cottura e il bollire che sembrava una sinfonia. Ho sentito tanto parlottare sul fascismo ma la più gran parlata è stata quella della pastasciutta in bollore. Sembrava che dicesse mangiami, ora che il nazismo e la tristizia sono andati a ramengo. Quando è cotta, riempiamo i carri coi paioli. Mario mi abbraccia e si scotta col pentolone. Per la strada tutti i contadini si accodano, è il più bel funerale del fascismo che c’è. Era l’8 di settembre e i fascisti buttavano le camicie nere nei fossi. Uno invece se la vuol tenere. Dice che ne ha poche di camicie e quella gli fa comodo.

Zaira – Pancia a prua: maschio. Pancia a poppa, femmina. Non si deve cucire i vestiti addosso alla partoriente, non deve mettersi collane né pantaloni né arrangiar gomitoli né far le trecce ai capelli. A me mi pagano un po’ d’olio, una focaccia. I bambini come vengono, vengono. Acqua fredda, acqua bollente quando nascono che sembran morti. E giù un bel po’ di schiaffi. Per rimanerci di sicuro, si aspetta la luna nuova. Le patate non van toccate, quando c’è luna nuova perché se no vengon nere.

Irene – Il centrino sul fonografo l’ho ricamato io. Per Natale il nonno mi ha fatto un gesù bambino ritagliato dal libro di catechismo e io gli ho fatto un piattino di fichi secchi. Quando c’era ancora la mamma abbiamo fatto un tè danzante con i dischi in casa, ma io non sapevo ballare e non mi ha invitato nessuno. La mamma girava, girava e le si alzava la gonna.
Se la teneva giù con le mani. (canta) Bimba tu non sai cos’è l’amore, è una cosa bella come il sole, più del sole da calor… Il marito io lo volevo maestro elementare o magari ragioniere impiegato in banca.

Scena 1
Sempre sulla banchina di un treno in partenza.

Milena – A castello MacKenzie c’è il comando dei tedeschi e da lì si controlla tutto il movimento alla stazione di Manin. Quando vedono qualcuno di sospetto, partono con il sidecar e sbucano lì dalla curva.

Maria - Gli americani bombardano le fabbriche. Sampierdarena, Cornigliano. Di pomeriggio, quando la gente lavora. Il baccano si sente su fin da Trensasco.

Signora - Al mercato di Genova non si trova più niente. Alle bambine do le rape al posto delle patate. Meglio chiuder casa e sfollare a Casella.

Zaira – C’è la galaverna. Io sono diventata vecchia tutt’insieme, ciglia ghiacciate, capelli ghiacciati, ero vecchia.

Maria - Ce l’avevo la tessera quando sono uscita dal droghiere, altrimenti non me la davano l’avena. Oddio, come faccio ora senza l’annonaria?

Anita - Corro, corro, corro. Gli scarponcini son bucati, non c’è carta o cartone che tenga. Io mi vendo la collana della comunione e compro le scarpe di tela autarchica. Piove e si disfano. Entro in un negozio a Manin scalza. La macellaia me le impresta. Son piccole. Me le metto lo stesso.

Milena – I tedeschi fanno la guardia alle pensiline. Ma quando sei in viaggio e passano gli americani con la mitraglia, si salvi chi può! Io mi butto giù dal treno nel fosso e scappo nel bosco. Al comando devo arrivarci a tutti i costi.

Signora - Un’apocalisse. È saltato tutto dal Campasso a Teglia. Uscivo da messa, pensavo pure di comprare due pasticcini. Niente. Mai vista una cosa del genere.

Anita – Speriamo che il treno parta, sennò mi vengono le piaghe a forza di andar su a piedi.

Signora – Neanche la corriera Caprile funziona più. Se si ferma questo treno, ci tocca salire in campagna a dorso di mulo.

Zaira – Una primavera ricca come questa non si vedeva da un pezzo. Nessuno raccoglie i frutti. Pere, pesche e susine infradiciano la terra.

Signora – La mitraglia di Pippo ha bombardato anche Casella. Al parroco una scheggia gli straccia la tonaca senza ferirlo. Ma lui continua a dare la comunione in canonica, mezza crollata.

Milena – Siete scesa a Genova per la levata?

Anita – Che levata?

Milena – Delle sigarette, la rivendita voglio dire.

Anita - Ah, quello.

Milena - Ci fate i quattrini col mercato nero delle sigarette eh?

Anita - Avete voglia di ridere, si vede che non mi conoscete.

Milena – Vi siete offesa. Non volevo mica offendervi, era tanto per dire…vi aspetta qualcuno a Casella?

Anita – Chi volete che mi aspetti?

Milena – Mah che so io, un innamorato

Anita – Avete voglia di ridere voi (ridono)

Zaira – Agosto. Aria pesante. Cielo di fuoco. Speriamo proprio di perderla, questa guerra.

Signora – Uccellaccio del malaugurio!

Milena – Oggi l’allarme ha suonato 13 volte.

Anita - Scià De Negri. Ho preso quella cosa che mi avete chiesto… per vostro marito. (fa il gesto di passarle la scatola)

Signora – Me li dai su. Poi mi dici quanto ti devo.
Maria – Gli inglesi hanno distrutto quasi tutto il porto. In via di Francia m’han detto che è morto anche Tabor, il terzino del Liguria. La partita la fanno lo stesso.

Milena – Si parte? Si parte?

Zaira – E speriamo che Pippo stavolta non ci prenda di mira.

Scena 2
Siamo su un vagone del treno.
Irene entra per prima. E’ spaesata. Poi Zaira entra e l’aiuta. Infine entra la Signora.

Signora – Sapete, Zaira. Quella mia vicina di Genova che avete visitato, quella che aveva un brutto male, se n’è andata l’altra notte.

Zaira – Pace all’anima sua. Ho visto la processione al cimitero.

Signora – Non bastasse la guerra… E cosa ci facevate al cimitero?

Zaira – Una madre di nome Ines aveva quattro maschi, uno è morto in culla, due più grandi son caduti in guerra e il più piccolo rosso di capelli come lei, l’aveva nascosto in cantina. I nemici l’han trovato e l’hanno appeso nell’aia. La madre l’ha steso per terra e lo cullava. “Indietro, guai a voi se toccate il mio bambino. Andate via”. E tirava i sassi. I rovi gli son cresciuti attorno e quei capelli rossi, trapassati dai pruni, parevano un mazzo di fiori selvatici. Han dovuto chiamare me. Con le forbici ho tagliato capelli e rovi finché la donna si è placata e ha lasciato andare il cadavere.

Signora – Noi facciamo i figli e ce li mandano al macello. C’è un’aria in giro! Si parla di fame, di carestia, di depredazioni, furti e peggio! Sarà vero?

Irene – Non ce lo dice nessuno. La verità, chissà dov’è.

Signora – Ho messo il lucchetto alla porta. Fa poco, ma io son più tranquilla. Cerco di mettere in casa delle provviste di quel che si trova. Che momenti! Ogni sera, mio marito tormenta la radio per avere più notizie: Roma in mano di questo e di quello, ordini e contrordini, Milano in guerra. Troppo sporca l’ha fatta quel traditore di Badoglio. Adesso vedrete i tedeschi... Lo dice sempre mio marito: quando era in Libia, persino i bambini turchi ci gridavano dietro: italiani mangia maccheroni, al primo colpo di cannone ve la fate nei pantaloni. Lui quando era tenente della Marina di Guerra, nell’11, è stato ferito alle gambe e l’han portato con la nave-ospedale Menfi alla reggia di Caserta. E’ stato curato direttamente dai medici del Re. Dovevano dargli la medaglia d’oro al Valor Militare. Dico la verità che son successe tante cose ma la medaglia non gliel’han data, l’han promosso di grado, l’han fatto tenente colonnello... Lui avrebbe fatto tutte quante le altre guerre che son venute dopo, ma con quelle gambe lì, che non cammina più, l’han riformato. E meno male! Ora dovrebbe combattere i tedeschi? Noi che siamo italiani… possibile che il Re ci abbia gettati così in questo immane disonore? Mica tutti siamo voltagabbana. I tedeschi non sono mai stati nostri nemici.

Zaira - Allora chi sono i nostri nemici?

Irene - I nostri nemici sono i tedeschi.

Signora - No, sei rimasta ferma alla prima guerra mondiale. Non ricordi, con chi siamo alleati?

Irene – Siamo alleati con gli inglesi.

Signora – Non hai capito niente. O fai finta… Ma questa ragazza tutta sola come fa? Tutta sola non fa bella figura.

Zaira – Son venuti i tedeschi a casa sua. Aveva solo il nonno e ora non ha più nessuno.

Signora – Poveretta. Ma ne ha da mangiare? Voi lo sapete Zaira, che noi un piatto di minestra non lo rifiutiamo a nessuno. È così smunta. Glielo dica di venire, voi lo sapete dove stiamo. Questa settimana no, però. La mia grande fa i quindici anni e la portiamo a Palazzo Fieschi. Alle signorine piace ballare con quei begli ufficiali tedeschi, così eleganti.
C’è il tenente Gunther, che balla come un principe, con quelle gambe lunghe… una sinfonia..

Zaira - Ci si fidanza e si fa l’amore…

Signora – Si suona il pianoforte: (canta) Tornerai da me perché l’unico sogno sei del mio cuor ….

Zaira - Poi qualcuno ci porta al cimitero, s’accende un cero e non se ne parla più.

Signora – Ah beh. Bisogna pur vivere. Cosa volete, che una madre non pensi al futuro della figlia? Pur con tutta questa confusione! Io oggi son andata fin giù a Genova a cercarle un cappellino per il ballo. E poi ho anche le due gemelle, ve le ricordate? Le avete fatte nascere voi!

Zaira – Ventre fortunato il vostro, che partorisce solo femmine. Soldati si nasce maschi.

Irene – Le donne non fanno la guerra?

SCENA 3
Sul vagone.

Anita (sporgendosi dalla porta del treno )– Maria!

Maria (dal binario) – Arrivo! Aspettate! (entra) Ce l’ho fatta! Buona sera… scusate…

Anita – L’hai poi trovata la tessera?

Maria – Meno male. Sono andata così in confusione. (si sistemai capelli e si ricompone) Pensavo di perdere il treno. Non son mica abituata come te ad andare e venire dalla città.
Ma da quando è partito Mario, tocca a me.

Anita – Ti ha scritto?

Maria – Sì. Deperisce. Non riesce a mandarmi neanche cinque lire. Posso leggerla?: “Amatissima Maria, perdonami se ti scrivo solo ora, ma di tempo ce n’è poco. Le mie dodici ore di lavoro che faccio tutti i giorni servono solo per mangiare una minestrina dolce che non mi ci posso abituare. Ci vorrebbero paste asciutte e minestroni. Fammi un piacere, vai al sindacato e puoi dirgli liberamente che noi qui lavoriamo come bestie e siamo pieni di pidocchi e cimici. La balla che ho fatto di venire qui volontario a lavorare in Germania! Mi vien voglia di levarmi di mezzo. Se non fosse per il pensiero di te, non mi fa paura nemmeno la fucilazione. Io tutte le sere prego la Madonna di tornare presto a casa. Con tutto il mio affetto, ti saluto. Mario. ”.
Sono così in pensiero…

Anita – Te la devi cavar da sola, cara mia.

Maria – Una donna sola è più difficile. Di questi tempi, poi. Anche tu, Anita, non è ora che ti sistemi? Quel giovanotto, quel Luciano che ti gira intorno, quand’è che si decide?

Anita – Tu scherzi. Quello è un amico.

Maria – Eh amico, amico! mi sa che lui la vede in un altro modo l’amicizia….

Anita - Io sto bene così e non mi manca niente: trovo tutto io. Anche cose preziose come il sale grosso, rocchetti, bottoni e uova, che la zia mette tutto in cantina.

Maria – In quella cantina? …

Anita – In quella dove giocavamo da piccole…

Maria - Deve venire un odorino di salame, di formaggi e di muffa da quella botola della cantina! Attenta, che se vi scoprono le vicine a te e alla zia! Si mettono a pianger miseria e magari vi fanno la spiata.

Anita – Ma tu, se hai bisogno, vieni.

Maria – Io non ho una lira. Hai capito? Come ti pago?

Anita – Mi pagherai.

Maria – Eh, “mi pagherai”. Mi son già venduta la bicicletta.

Anita – Guarda che di lavoro ce n’è per le donne, ora che gli uomini son via. Per esempio, in fabbrica…

Maria - Tu pensa che appena Mario è andato su in Germania, in fabbrica hanno aumentato gli stipendi: 230 lire per gli uomini e 150 per le donne, più della metà dei mariti.

Anita – Con tutti gli scioperi che han fatto quest’inverno gli operai... anzi, erano quasi tutte operaie. Perché alla donna solo la metà dei soldi? Le ore di lavoro son le stesse. Vai anche tu a lavorare in fabbrica, Maria. Così capisci.

Maria – Io? E cosa faccio? Non so fare niente!

Anita – Impari un mestiere! Metalmeccanico, fonditore, tornitore.

Maria – Ma son mestieri da uomo!

Anita – Embè, allora? Sai che ci vuole. E poi le operaie fanno anche corsi di cucito, dattilografia, pronto soccorso,

Maria - Mi prendi in giro?

Anita - … telegrafia e pure di sabotaggio.

Maria – Ma cosa dici?

Anita – Ti dico quello che succederà dopo. Il mondo bisognerebbe rifarlo daccapo. Pensa quando si andrà a votare anche noi ragazze. Sarà questa la democrazia: la patria di tutti. Uomini e donne.

Maria – Zitta Anita. C’è un sacco di gente. Sei matta?

Anita tira fuori un salamino e lo taglia col coltello.

Maria – Ma dove l’hai preso? Che odore buono. Mettilo via. C’è un sacco di gente.

Anita – Ce n’è per tutti. Prendete prendete. Capisci, cugina. Lassù vivi in un altro mondo. Ti senti esaltata, necessaria. Non riesci più a concepire il mondo come prima. (offre ancora al pubblico)

Maria – Zitta! Non lo sai che hanno messo al muro una donna perché aveva portato un sacco di patate ai ribelli! Pane non ne hai?

Anita – Io ho una gerla, so quanto vale. (tirando fuori una pagnotta) Ci porto di tutto qua dentro, da Genova alla montagna, dalla montagna a Genova. Mi han detto: “questa è una famiglia e tu sei la nostra sorellina” ed io ho capito cosa bisognava fare. Non c’è tanto da star lì a pensare. O di qua o di là. Vai in fabbrica, Maria.

Maria – Ma tu dici che mi assumono, a me? E mi danno lo stipendio? Con lo stipendio mi ricompro la bicicletta. E poi faccio tornare Mario in Italia.

Anita – Se hai la bicicletta puoi portare delle cose su e giù. Cose importantissime.

Maria – Sei matta? Io armi non ne voglio sapere.

Anita – Armi? Avercele! Ci sono altre cose. La gerla non deve mai viaggiare a vuoto..

Maria – E se ti fermano?

Anita - Una volta son salite le brigate nere a Vico Morasso e avevo un biglietto nella mollica del pane. Ci han messo nella saletta con le mani alzate per la perquisizione. Piano piano ho mangiato tutto il pane col biglietto. Quando era il mio turno, non avevo più niente.

Maria – Tu sei una testa matta, Anita. Io ho da pensar a mangiare, altro che mettermi nei pasticci.

Anita – (canticchiando una canzone partigiana) Lo vuoi il pane? Vai in fabbrica…

Stop veloce del treno durante il quale le attrici si spostano di vagone.

SCENA 4
Sul vagone.

Milena - Forse ho agito così perché ero sedotta dalle antiche rovine imperiali, sopravvissute sotto la cenere. Sono cresciuta a Napoli in una famiglia piccolo borghese anche se i nonni di mio padre erano stati molto ricchi. Quando nacqui io però non è che mio padre avesse tanti soldi. La famiglia di mia madre era diversa. Non solo per i soldi, perché erano sempre stati poveri, ma soprattutto perché erano cattolici praticanti mentre mio padre era ateo anarchico e poi anche socialista. Mio padre si era trovato incastrato con mia madre e aveva dovuto sposarsi per forza perché io dovevo nascere. Lui voleva un maschio per mettergli il nome Lenin. Invece io nacqui femmina. Il consiglio di famiglia capitanato da mia zia Teresita detta Tita, sorella di mio padre, e dalla nonna Pia, decise di chiamarmi Milena. Mio padre però mi ha sempre chiamato Lenina. Questo nome io lo odiavo e gliel’ho detto 1000 volte che non esiste neanche all’anagrafe e neanche sul calendario. La vita di mio padre fu rovinata dal fascismo. Nel suo portone c’erano sempre due che lo aspettavano per fargli lo sgambetto. Le zie non facevano nulla se non ricamare come usava per le signorine di buona famiglia. Mia madre che non metteva il cappellino la consideravano una donna volgare. A me poi mi dicevano, credi di star bene? Legati quei capelli, solo le puttane vanno in giro con la zazzera. Mio padre quando rientrava la sera, mia madre si metteva in ginocchio e gli sfilava gli stivali. Questo fu il motivo per cui me ne andai di casa, la prima volta. Mi piaceva studiare: al Gruppo Universitario Fascista la divisa era bellissima, una specie di tailleur nero con le spalline azzurre. Io la volli di stoffa fine, costosa, non una di quelle che si comperavano confezionate. La cucì mia madre. La gonna la volli molto attillata, sopra le ginocchia. Per sfilare nei cortei ci sarebbero volute le scarpe basse, ma io ne ho comperato un paio di nascosto con i tacchi altissimi. Andavo ai sabati fascisti e all’opera nazionale Balilla, come le mie amiche. A quelle che conoscevano mio padre, dicevo: “Bada! Non chiamarmi Lenina!”
Mia madre non usciva mai di casa, mio padre glielo aveva proibito, non poteva nemmeno fare la spesa, del resto non aveva neanche un vestito decente o un paio di scarpe. Mio padre gliele aveva buttate, dicendo che intanto non le sarebbero mai servite. Il fatto è che mia madre gli aveva ceduto prima di sposarsi e lui non glielo aveva più perdonato. Mi dispiaceva essere femmina. Così un giorno misi le scarpe con il tacco e presi il treno. Era esaltante risalire la penisola a bordo di un espresso senza che mio padre ne sapesse niente. A Roma un mare di folla mi trascinò verso una piazza gremita. Mi sentivo chiamata a fare qualcosa. Suonavano le sirene, le campane delle chiese, centinaia di altoparlanti e di radio facevano rimbombare la terra. Eravamo una massa di giovani, una massa invincibile, sana e viva, lanciata verso il futuro. Le statue, i marmi, le colonne, tutto quel bianco mi esaltava, mi faceva sentire al centro dell’Impero. Gli uomini mi guardavano e mi giravano intorno in un cerchio sempre più stretto. Avevano delle divise mezze militari e mezze borghesi con la giacca d’orbace, il cinturone, gli stivaloni, il cappello goliardico con ninnoli e tappi di champagne e alzavano il braccio con un urlo ripetuto. “ehia ehia”
Ricordo i minuti di attesa quando fu annunciato lui. Non era più Mussolini Benito, ma era il condottiero. Lui avrebbe parlato. Silenzio profondo. Si alzò un vento caldo, fortissimo che cancellò tutte le sue parole. “…. Olo .. ita….. erra….. per…. Rmione….” Lui era giusto, incorruttibile, infallibile. Mi sentivo irresistibilmente attratta. L’onda umana mi trascinò e mi trovai a pochi metri da lui: urlai con tutte le mie forze: “Sei il mio Duceeee!” Allora lui si voltò e mi rispose: “Come ti chiami, Rondinella? ”.
Rimasi senza fiato, non riuscivo a ricordare. Dissi: “Lenina!”. Dopodiché le mie memorie di quel giorno si arrestano, perché svenni.
Poi ora sono scappata per fare l’ausiliaria di guerra per la Repubblica Sociale. Mio padre si è infuriato quando mia madre gliel’ha detto. Chissà come ci sono rimasti. Io sono felice.

Anita, Signora, Operaia – Eccolo! Lo sapevo che non avremmo fatto un viaggio tranquillo. Ci bombardano. Maledetto Pippo. Sbrighiamoci o facciamo la morte dei topi. Scendete, scendete tutti.

scena 5
In un bosco.

Tutte: Ave Maria, gràtia plena,
Dòminus tècum, benedìcta tu in mulièribus,
et benedìctus fructus vèntris tui, Iesus.
Sancta Maria, mater Dei, ora pro nobis peccatòribus,
nunc et in hora mortis nòstrae.
Amen

Irene - Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato
Perché te ne stai lontano e non mi soccorri?
E non dai ascolto al mio lamento?

Milena - Mi siedo nel bosco, sola, risento l’urlo della sirena, il treno è fermo in campagna mentre sopra di noi passa l’apparecchio e gira tutt’intorno. Pallottole traccianti, razzi luminosi, nastri lucenti di riflettori tingono il cielo di mille colori. Nella boscaglia forse si nascondono i partigiani.

Zaira – Una mattina di buon’ora, Lucrezia andò a portare due preziose uova alla vicina che aveva appena partorito. Attraversando un praticello, mise il piede su una mina. Nell’attimo che seguì si chiese quale esercito l’aveva messa là. Quale soldato. Solo un maschio potrebbe usare un aggeggio così ingegnoso, pensò.

Anita - Andammo avanti. I primi casolari, che ben conoscevamo, li trovammo incendiati, devastati, saccheggiati, vuoti. Tutt’intorno carte da gioco, spazzolini, dentifrici, ogni cosa e tanta legna bruciata. Incontrammo per primo un prete vestito di bianco. Si aggirava attorno a quelle fosse e sembrava pregasse. Poi incontrammo una donna con un grembiulino chiaro, una bottiglia d'alcool e del cotone. Poi un uomo seduto su una pietra e lui stesso, immobile e pallido, pareva una pietra. E poi c'era un bel ragazzo con gli occhi azzurri e i capelli nerissimi. Era in piedi guardava e non diceva nulla.

Irene - Dio mio, io grido di giorno e tu non mi rispondi
Io grido di notte e non ho mai riposo
Eppure tu sei il Santo.
Mi hanno insegnato a credere in te
Che tu mi avresti liberato che tu mi avresti salvato dal male.
Forse io sono un verme e non una donna?
Forse io sono il vituperio delle genti e la reietta della creazione?

Zaira – L’Andreani, un fascista di qui, è stato ucciso. L’han lasciato coperto di poca terra con la mano destra di fuori, nel gesto del saluto romano. Nella notte, quella mano impedisce il sonno ma nessuno osa andarlo a prendere. Aspettano che vada io.

Maria – Sono andata alla fabbrica. I cancelli sono chiusi, davanti ci sono i soldati. Gli operai vogliono uscire. “Evviva, evviva, evviva la pace” grida uno che è salito sul palo del telegrafo. Il piazzale grande della fabbrica è pieno e azzurro di operai in tuta, con cartelli e bandiere tricolori e rosse anche. Arriva un’altra colonna dalle fonderie “pace, vogliamo la pace”. Gli operai premono sulle sbarre. L’ufficiale grida “non uscite carogne o vi sparo”. Sporgono le braccia fuori dai cancelli e guardano i soldati: “unitevi al popolo e cacciamo i tedeschi”. I soldati non riescono a star fermi. Un’operaia: “soldati, fatelo per le vostre madri, per le vostre spose”. I soldati si sono commossi, non stanno più in riga, allora gli operai aprono i cancelli e corrono verso di loro. “fermi” urla l’ufficiale e tira fuori la pistola.

Signora – C’è mia figlia nel portone e Gunther che attraversa la piazza verso di lei e la trova bella. Gunther, con quelle gambe, una sinfonia, ballava come un principe. Quando è passato l’aereo, con la mitraglia gli ha falciato tutte due le gambe. Lui ha guardato mia figlia e poi si è afflosciato come un sacco.

Irene - Non dimenticare le mie parole:
Tu sei quello che mi ha tratto dal grembo della terra
E mi hai fatto posare il capo sul seno di mia madre
A te fui affidata fin dalla nascita.

Zaira – Nonna Jonilde non diede fastidio a nessuno. L’ho trovata già defunta, composta nel suo lettino di lamiera, con le mani aggrovigliate al rosario. Gli ho solo dovuto chiudere gli occhi, erano spalancati e spauriti sotto la fronte di carta pecora.

Signora – Bambine, venite qui che la mamma vi fa le trecce. La mamma vi racconta una cosa che mi ha detto la suora. Era vestita di bianco, la suora, ha preso per mano la mamma e l’ha portata fuori, su un prato verde con le margheritine. Ci siamo sedute sul prato. Il vestito della suora era come una corolla candida. Ha detto che il babbo l’han preso i partigiani e oggi non torna. Adesso la mamma vi fa l’uovo fritto sul fornellino elettrico.

Anita – Luciano era il mio amico. Nei rifugi dormivamo insieme. Ho preparato le uova sode da mangiare sul prato, un pic-nic, c’era il sole. La sera l’ho ritrovato con gli occhi sbarrati, era steso sul bancone di marmo, aveva ancora delle briciole d’uovo sulla bocca. Gliele ho tolte io con questa mano (la fa vedere).

Irene - Non dimenticare le mie parole.
Non mi abbandonare perché l’angoscia è vicina
E non c’è nessuno che mi aiuti.
Io sono come acqua che si sparge
E tutte le mie ossa si frantumano
E il mio cuore è come di cera.

Milena – Passano le brigate nere con la parata dei condannati a morte. Una partigiana della mia età ha le mani legate col fil di ferro e il muso macellato. Di divise ce n’è per cento carnevali. Ogni ribelle porta con sé un pezzo di soldato ucciso. Stivali della Wellmacht, scarponi chiodati, berretti alpini, colbacchi alla russa, giacche a vento ritagliate dai nostri teli mimetici. Mi fa impressione un partigiano che mi fissa, rivestito dell’uniforme di gala di un colonnello d’artiglieria cogli alamari neri e le medaglie.


Maria – Gli operai si fermano in blocco davanti al plotone. C’è silenzio. All’ufficiale trema la pistola in mano. I soldati tengono i fucili come se pesassero quintali. Gli operai riprendono a camminare piano, vogliono abbracciare i soldati per impedirgli di sparare. “arretrate, indietro, io sparo, sparo, spariamo, attenti!” Pausa “fuoco”

Milena (con i capelli sciolti e canta) – Gli canto: siamo in cento cento cento tutti forti arditi e sani un po’ pazzi un po’ poeti ma il fior fior degli italiani, c’è a chi piace far l’amore e a chi piace far denaro a noi piace far la guerra con la morte paro paro. Cos’hai da guardare, cocco? Non ti piace la mia canzone? Mi dice: Ti faremo la festa. A noi la morte non ci fa paura. A te sì? Mi dice: Puttana fascista! Torna a casa dalla mamma!

Maria – Sono per terra e senza alzare la testa guardo i corpi distesi intorno a me. Appoggiato alla mia spalla c’è uno che ha un buco di sangue sulla tempia. Un altro ha il viso rivolto al cielo e chiama la mamma. Un’operaia addossata ad un albero perde sangue dalla pancia e piange come una bambina.

Zaira - L’ultima volta che Enrichetta ha visto il papà vivo è stato proprio lì. Il papà era in divisa e l’ha salutata. Devo partire per un viaggio. Lei voleva dirgli: salvati, non ci andare, ci sono io! Ma c’era un altro soldato e la imbarazzava. Il papà si è chinato, le ha dato un bacio e tutto è finito. L’ha visto ancora sull’autocarro che lo portava via, con quella giacchetta abbottonata male. Avrà avuto freddo, mentre lo uccidevano.

Irene - Non dimenticare le mie parole.
Cani mi han circondato
Hanno forato le mie mani ed i miei piedi
Essi mi guardano e m’osservano
E tirano a sorte la mia veste.
Tu dunque, Santo, non abbandonarmi
libera l’anima mia dalla spada
salvami dalla gola del leone.
Non dimenticare le mie parole.

Scena 6
Maria -
- “Cittadini! Genova è sottoposta al Comando Tedesco. Tutti i servizi civili continueranno a svolgersi normalmente ma è indispensabile una ferrea disciplina. Tornate perciò con piena fiducia ai vostri posti di lavoro che per nessun motivo può essere interrotto. Contro i trasgressori provvederà direttamente il comando militare germanico”
Prima dell’alba la città è tappezzata di proclami. Ho preso la bicicletta e son volata in fabbrica. Le compagne del Gruppo Difesa Donne mi aspettano al cancello. “Guardate”. Sulla carta rosa pallido dei ciclostili spicca la scritta “Guerra alla guerra!” . Ne tiro fuori a manciate dal tascone della tuta. Ci arrampichiamo sulle scale del reparto e li infiliamo nelle pulegge. Poi comincia il turno. Viene data l’energia… Evviva! Dalle macchine nevica ciclostili come coriandoli! Ora tocca a me parlare. Mi passo una mano nei capelli. “Compagne, i nostri uomini sono in trincea. Però io vi dico: ovunque è trincea! trincea la galera, trincea la città bombardata e trincea la nostra fabbrica! Boicottiamo i padroni ed il comando militare tedesco. Rifiutiamoci di prolungare con il nostro lavoro la sopravvivenza del mostro hitleriano. Guerra alla guerra!”
Mi hanno caricato su questo treno. Che caldo. Siamo in troppi qui dentro. Non si respira. Il finestrino non si apre. E’ piombato. Non mi han dato il tempo di prendere neanche una camicetta pulita. Voi sapete dove ci portano? Gliel’ho chiesto, ma parlano solo tedesco. Arbeit, a lavorare hanno detto, poi mi sembra che hanno detto Bayer, Bayern. Sarà il nome di un posto in Germania. Non è lo stesso posto dov’è mio marito. Poverino: sapete, mi ha scritto che pesa cinquanta chili. Mario adesso chi gli dà mie notizie? Ora che ho il lavoro in fabbrica io, chiedi il rimpatrio, gli ho scritto. Se torna e non mi trova? Tutto è allo sfascio. Chi ci capisce chi comanda? Ho una fame io: già in prigione mi sognavo le pastasciutte. Però ‘sta guerra non può durare ancora molto. Mia cugina Anita dice che gli inglesi fanno degli aviolanci incredibili per aiutare i partigiani sui monti. Han buttato giù addirittura un carro armato intero, smontato a pezzi. Ma anche stecche di sigarette, cioccolato! Buttano le minestre in polvere e il latte condensato. Quando ci rivediamo, a Mario gli faccio da mangiare io. Il risotto. Lo faccio mangiare proprio, mangiare fino a scoppiare. (ride)
Su signora. Non bisogna perdersi d’animo. Ve lo ricordate cosa dice quello là: chi si ferma è perduto (ride). Oh, mi sembra che stiamo arrivando. Ma dove siamo? Non si vede niente. Solo fumo bianco. Ciminiere… mi sa che è già la fabbrica. Forza signora. Vuole un po’ di rossetto? (si mette il rossetto e tira fuori il pettine) una pettinata… ecco, sono pronta.

Zaira –
E poi c’è stato Romeo, il tranviere, c’è stato Attilio, il maestro di scuola. Domenico che aveva solo 12 anni e un fratellino appena nato. Nerina è rimasta sotto la neve e l’ho trovata a primavera in mezzo alle primule. C’è stato Amedeo che aveva sempre voglia di scherzare e al suo funerale piangevano tutti. A vent’anni Angioletta pensava ancora che i bambini nascessero sotto i cavoli ed è morta partorendo un maschio grande e grosso. Sopra il corpo gobbo di Efisia è cresciuto un gelsomino profumato. Sebastiano che era bianco e rosso come una mela, l’han fucilato nel campo e se lo sono mangiato i corvi. Riposino in pace, amen.
(ad uno spett) Sta fermo. Fermo. Ti è caduta una ciglia. Dimmi quale dito scegli. Su, via. E’ una cosa seria.
(spett) Pollice.
Indice, hai perso. Per così poco. Come nascere o morire, è proprio solo questione di niente (soffia sul dito). Di una ciglia.
Dunque tutto questo dolore si perde come una ciglia nel vento? Ma no. C’è una provvidenza anche nella caduta di un passero. Tutto marcisce e tutto rifiorisce. Avete paura di morire? Tu hai paura? Non vergognarti. Tutti hanno paura. Chi non ha paura della morte? Basta esser vivi. Ora pensateci, non può mai nascere nessuna cosa al mondo se prima non ne muore un’altra. Il tempo tutto toglie e tutto dà, ogni cosa si muta e nulla s’annichila. Guardate il seme che germoglia dopo la gelata.
Io son vecchia e per me questa è l’ultima domenica. Ma ancora spero di riavere il latte alle mammelle, se non sotto questo mantello, sotto un altro; se non in questa, in un’altra vita. Perciò noi che siamo nella notte, aspettiamo il giorno e quelli che sono nel giorno aspettano la notte.
Per me iniziò così. La mitraglia colpì la locomotiva. Scendemmo tutti seguendo i filamenti rossi delle lampadine nella notte nerissima. Il treno non ripartiva più. Rimase lì immobile come un gigante. Uno andò a vedere. Franco, il macchinista, aveva chinato la testa sul manubrio. Quello disse: “E’ morto il macchinista. Come facciamo?”. Gli risposero: “Non possiamo rimanere qui, ci mitragliano di nuovo”. Allora uno disse: “Andiamo a piedi”. “E quel poveretto?”, disse una donna: “Non si può lasciarlo così, ha gli occhi aperti” e proseguì: “Chi può comporre il morto?” Qualcuno rispose: “C’è una levatrice, sul treno”.
Mi sembrò naturale. Lo voltai supino. I capelli gli coprivano gli occhi aperti ma il segno della sorpresa filtrava fisso. Sapevo già come compiere il rito: abbassare le palpebre, congiungere le labbra, intrecciare le mani sul petto. Da una testa d’aglio staccai qualche spicchio e lo misi in croce sulla terra. “Ecco, è finito”. E fu così sepolto.
E’ stato il mio primo morto.

Signora De Negri -

Me l’hanno preso. Me l’hanno preso. Me l’hanno preso. Me l’hanno preso. Me l’hanno preso. Me l’hanno preso. Chiudete le finestre? Chiudete anche le persiane. Mi sentirete lo stesso. Mi metto qui al centro della piazza. Tutti, mi dovete sentire bene tutti. Avete preso mio marito, eh? Bell’affare, bravi. Un mutilato di guerra, un eroe! Un padre di famiglia. Fatevi vedere, venite fuori. Vi nascondete come topi nei buchi? Credete che non vi conosca, miserabili, che andate in giro con i pantaloni di mio marito. Chi ve li ha dati quei pantaloni quando scappavate dalle caserme, eh, vigliacchi? Disertori, nudi come vermi siete venuti a chiederci aiuto. Chi ve li ha date quei pantaloni? Io ve li ho dati. Erano di mio marito. Ve lo ricordate? Bell’ affare che ho fatto. Bravi. Ora cosa volete fare? Volete fare lo scambio di prigionieri? Non accetteranno mai i fascisti. E se non accettano? Sarete così vigliacchi da ammazzare un invalido? Un padre di famiglia. E da lasciarmi vedova con tre figlie femmine? Ammazzate me allora. Se siete dei conigli! Ammazzate una donna indifesa. Dai, chi spara? E tu lasciami fare, che non ho paura di morire per mano di questi maledetti. Traditori. Lo dico in faccia alle vostre madri, a una a una. Vergognatevi. Dovreste prenderli a schiaffoni questi figli.
Ma ormai è troppo tardi. Le cose non vanno mica così. Troppo grossa l’avete fatta, adesso vedrete i tedeschi. So io dove sono andata oggi. Mica dai fascisti che non contano più niente. Diretta al comando tedesco sono andata. Quelli sanno farsi rispettare. Tre giorni, ha detto che avete tre giorni, per restituire mio marito. Il tenente-colonnello De Negri. Mio marito. La sua vita vale dieci delle vostre. Avete capito bene? Uno a dieci, così mi ha promesso il tedesco. Rappresaglia. Bruceranno tutto qua. Adesso avete paura? Cominciate a svuotare le case. Andate, andate ad ammazzare i maiali. Maleditemi pure. Fate i salami che sarà la prima volta che si appenderanno in segno di sventura e non di festa.

Irene -
La mamma se li mangiava con gli occhi quando passavano trionfanti in parata e ballava perché la guardassero. (canta) scende lentamente nelle vene / e pian piano giunge fino al cuore…
Tornava con le occhiaie viola ma sotto, gli occhi le brillavano. Era bella la mia mamma. Poi non è più tornata. (canta) ogni cuore innamorato si tormenta sempre più / tu che ancor non hai amato / forse non mi sai capire tu.
Sono arrivati di notte. Buio, buio pesto. Pioveva. Signore, come veniva giù. Hanno urlato fuori dalla porta. Il nonno si è alzato, ha attraversato il tinello, ha guardato dallo spioncino. “Tedeschi. Stai a letto, bambina, non ti far vedere”. Li ha fatti entrare con gli scarponi tutti sozzi di fango. Hanno buttato i fucili sul divano. Gli ha cucinato quel che avevamo. Erano proprio affamati. Pane e fagioli. Caffè d’orzo. Si sono spogliati in mutande. Io vedevo tutto dallo spiraglio della porta. Erano fradici. Il nonno gli ha lavato le divise nella tinozza. Gli ha ingrassato gli scarponi. Poi mi ha chiuso a chiave in camera, l’ho guardato, era diventato vecchissimo. È andato a letto e al mattino non si è più alzato. Pioveva.
Io non ho dormito niente. (canta) ogni cuore innamorato si tormenta sempre più…
Hanno acceso il fonografo e ascoltano i miei dischi. Ogni tanto uno scosta le tendine. È una mattina grigia. Non la smette più di piovere. Io li guardo dal buco della serratura mentre si spingono e rovesciano i cassetti. I flaconi vuoti di profumo della mamma per terra. Coi pezzi dei cassetti hanno fatto un falò in mezzo al tinello. Io mi sento le guance rosse e non posso respirare. Poi sfondano la porta della mia camera. Non so dove nascondermi e mi siedo sul letto. Si sono messi a ridere quando mi hanno visto e mi indicano. Non riesco ad alzare gli occhi e guardo il tappeto. Stringo nel pugno il mio gesù bambino tutto stropicciato. Mi prendono a braccetto uno da una parte e uno dall’altra e mi portano nel tinello. Gesù bambino mi cade dalle mani (canta) tu che ancor non hai amato / forse non mi sai capire tu.
“tanz, tanz” Mi hanno dato una spinta. Giro giro giro. Uno col moschetto da dietro mi alza il vestito. Me lo tengo giù con le mani. Ridono. Ora mi solleva il vestito davanti, tenendomelo fissato al petto col moschetto. Guardano e ridono. Uno si allenta la cintura dei pantaloni. “Hande hoch” mi grida e io alzo le braccia. Mi stringo la gonna tra le gambe. (canta) “bimba t’amo tanto da morire / tu per me sei forse più del sole”
Mi hanno stesa fissandomi le mani tra la terra e gli scarponi, così da parere in croce ed il primo uomo mi si leva davanti. Allora serro forte gli occhi e imploro: “Signore Gesù, ti prego, ti prego, non mi abbandonare”. Mi violano tutti alternandosi per tenermi inchiodate le mani: “Signore, signore mio Gesù, dove sei, perché mi hai abbandonato”.
Un soldato mi orina accanto e a quel gesto taccio.

Anita
L’ho legato stretto contro la pancia, sotto l’increspatura della sottana. Luciano lo teneva nella tasca della giacca, sul cuore. Gliel’ho preso all’ultimo momento, senza pensare. Ce l’ho qui. Una cosa dura e fredda. La campagna brilla di sole. Le cicale cantano pazze di gioia. Se mi trovano con questo, è finita. Fai sempre di testa tua, direbbe la zia.
Cammino sul bordo della strada e conto i papaveri nel fosso. Lo strano è che quando l’ombra nera esce dalla curva con la sua motocicletta e mi passa davanti, non sento per niente odio. Non mi ha fermata. Adesso punto lo Sten. Nel mio pugno piccolo e secco sembra ancora più grande. Ora ce l’ho nel mirino. Eccolo. Ora premo il grilletto. No, non ora. “Senti”, lo chiamo e rimetto lo Sten nella gonna “Hei! Fermati.” Lui si gira. Frena.
“Che bella motocicletta” Mi sorride. Ha i denti davanti un po’ staccati. Mi invita a salire dando dei colpetti sul sellino: non sa una parola di italiano. Lo saluto con la mano e rido “No, no. Tu scherzi! Ciao”
Quando riparte, gli sparo dietro tutti i colpi del caricatore. Ieri, quando ho lasciato Luciano sul tavolo di marmo, ho deciso di far fuori il primo tedesco che mi capitasse a tiro. La moto sembra una bestia ferita che cerchi di fuggire al cacciatore. Dopo un po’ di metri prende una cunetta e va a finire nel fossato. E lì è rimasta, rovesciata con una ruota che gira a vuoto. Il rombo del fucile mi ha rintronato le orecchie e mi ha inaridito la gola. Un calore intenso molto piacevole si è diffuso nelle mie vene. . Il fragore della motocicletta e dello sparo si dissolvono nella campagna. Poi un cane ha cominciato a latrare. “Andiamo un po’ a vedere se c’è qualcosa di bello da prendere”. Scendo nel fossato. Ha gli scarponi nuovi. Taglio i lacci col temperino. Nella gerla ci stanno. Sporgono solo un po’. (li mostra) Sono grandi ma con le calze di lana vanno bene lo stesso.
Milena -
Mammina carissima,
vorrei scriverti una lettera, ma non posso. Sarebbe la prima ed ultima lettera che scriverei nella vita e la scriverei solo a te. Vorrei tanto che tu sapessi che finire gli studi e imparare un lavoro e poi credere ad un ideale e tutte le altre cose che ho fatto e che tu non hai compreso sono state scelte giuste e mi hanno reso felice. Ne è valsa la pena anche se adesso la pago. Io ho fatto parte del gruppo ausiliarie all’ospedale militare e ho curato i feriti e facevo anche un pò la segretaria al Comando Tedesco. Il lavoro era duro, responsabile ma infinitamente soddisfacente. Invece a tarda sera quando rientravo in caserma e mi buttavo stanca morta sulla branda, allora ricordavo il passato e pensavo a te mammina, con tanta nostalgia. Là stavo sempre in mezzo ai soldati e nessuno si scandalizzava se mi lasciavo i capelli sciolti o se fumavo qualche sigaretta. Non devi preoccuparti perché sono ancora pura come un giglio. I soldati mi chiamavano sorella. Il papà non vuole che una donna esca di casa o studi, figuriamoci una che diventa soldato. Ma lui è quello che è, non è che la gente cambia.
Mamma, so che il destino continua ad essere crudele con te e perdonami se ti cagiono questo grande dolore. Certamente paura non ne sento come non ne sentivo quando me ne sono andata di casa. L’avvenire mi sorrideva, il nostro sogno era bello, troppo bello per durare. Ho dato tutta me stessa per la nostra idea, la salvezza della patria. La patria La patria La patria La patria La patria. Ne valeva la pena anche se il nostro destino era segnato.
Ero sull’autocarro con altre due compagne ausiliarie e una ventina di soldati e l’autocarro ha sbagliato strada. Che sfortuna. Era destino. Ci hanno fermato i partigiani. I nostri ufficiali a noi ragazze hanno detto di salvarci. Dovevamo dichiarare di essere prostitute della casa di tolleranza. Io, mai. Io e la mia amica Marcella che è di Firenze non abbiamo voluto saperne di passare per prostitute e ci siamo dichiarate Ausiliarie. Temevamo che ci facessero quell’affronto invece successe un’altra cosa. A me mi sciolsero i capelli. Mi sputavano addosso e mi tiravano della terra in faccia e mi hanno insultato dicendo cose che non ti posso riferire. Mi hanno rovesciato la testa e hanno preso un rasoio e mi hanno rapato a zero tutti i capelli e mi hanno fatto una croce sulla testa con la vernice rossa.
Poi ci hanno obbligate a salire su un trattore, a me e a Marcella anche lei conciata così, e ci hanno portato in giro per tutto il paese. La gente, anche quelli che prima mi salutavano e pure delle donne che io ho aiutato, mi guardano, tutti in silenzio. Adesso ci siamo fermati davanti al cimitero e andremo con loro. È così. Non doveva finire così. Marcella dice che ci butteranno nella fossa comune senza neanche scritto niente. Io mammina cara, solo questo mi fa paura, che nessuno sappia che sono stata Milena. Vieni a cercarmi, mammina mia e ancora una volta perdonami.
FINALE

La Zaira spoglia le donne e mette i loro panni in piccoli mucchi. Tutte le donne salgono su 5 casse già disposte contro il muretto.
Le donne cantano piano:

Irene- Non dimenticar le mie parole.
Bimba tu non sai cos’è l’amore
è una cosa bella come il sole
più del sole dà calor
Anche Barbara - scende lentamente nelle vene
e pian piano giunge fino al cuore
nascono così le prime pene
con i primi sogni d’or
anche Elena (poi Raffa) - ogni cuore innamorato si tormenta sempre più
(poi Fiamma) tu che ancor non hai amato
forse non mi sai capire tu
anche Margherita - non dimenticar le mie parole
bimba t’amo tanto da morire
tu per me sei forse più del sole
non mi fare mai soffrir

Poi silenzio.

Poi parte una musica americana.
Le donne di siedono sulle casse. Ascoltano. Una di loro si alza, accenna una piccola danza. Un’altra fa qualche passo di danza sul posto. Una accende una sigaretta. Una si tocca i capelli e sorride…….
Buio

Fine


ritorno

Le attrici distribuiscono cibo e lettere chiuse al pubblico, perché le legga a casa

Questo numero…Era il numero di casa tua. Della tua vita passata, prima che ti portassero lontano, conservi solo questo biglietto. E’ rimasto a marcire in una tasca per tutto questo tempo. Ormai è quasi illeggibile. Ti fanno male le ossa, non mangi da tre giorni, ma sei nella tua città. Fra poco rivedrai tuo padre che da mesi non sa più niente di te. Nel vetro della sala d’aspetto della stazione, dove ti sei seduto per prendere fiato al tuo arrivo, hai visto una faccia distrutta e solo dopo qualche attimo ti sei accorto che era la tua. Ma ora sei a casa. Potrai dormire nel tuo letto. Ti ricordi com’è dormire in un letto? Ci sarà ancora la tua casa? Componi il numero, le tue mani tremano reggendo la cornetta. All’altro capo, ti risponde il suono di una voce sconosciuta. Cosa fai ora?

Torni casa. Davanti al tuo portone ci sono sei brigate nere su una camionetta. Hanno fatto irruzione a casa tua e hanno caricato tua figlia, adolescente. Ora sono in mezzo alla strada. La tengono per le trecce e la mostrano a tutti quelli che passano. Ma nessuno ha il coraggio di intervenire. I brigatisti sono inferociti: ti urlano di rivelare dov’è tuo figlio, il disertore, sennò portano via la ragazza. Lei ti guarda e sta zitta. Ti dicono: “hai 10 minuti per pensarci su”. Vai in casa. Dalla cantina viene il rumore dei passi agitati di tuo figlio: ha sentito tutto, ma non ha il coraggio di uscire allo scoperto. Lo fucilerebbero. Cosa fai ora?

E’ buio, buio pesto e tutta la montagna è gelata. La tua cascina è ai margini del bosco. Dentro c’è un caldo buono. Stanotte hai acceso la stufa per fare la minestra ai tuoi compagni partigiani. Ti fanno i complimenti per la cucina, ridi, ti vogliono portare in montagna con loro. Ti accorgi che Marco, quello che parla poco, quando brindate, ti guarda fisso e arrossisci. Ha proprio dei begli occhi. Improvvisamente bussano alla porta. Tutti tacciono e si nascondono in camera tua. Vai ad aprire: è una piccola pattuglia di tedeschi. Puzzano d’alcool, ridacchiano, fanno dei gesti: capisci subito che hanno solo voglia di compagnia. Forse potresti intrattenerli il tempo necessario alla fuga dei tuoi compagni nel bosco. Cosa fai ora?

Questo Natale del 44 è il Natale più triste del secolo. Trovare le parole di conforto per le poche anime del paesino dove ti hanno mandato, è sempre più difficile. Hai celebrato molti più funerali che battesimi e nessun matrimonio. La gente ha fame, ha paura e non si fida più neppure dei parenti. Le povere donne del paese vengono a chiederti di nascosto un tozzo di pane. La notte del 24 dicembre la tua Parrocchia è gremita di gente infreddolita e macilenta. Stanotte vorresti pensare solo al bambin gesù nella sua culla. Ma non riesci perché tu sai che nelle canne dell’organo, i partigiani hanno nascosto delle armi. Nel bel mezzo della Messa arriva il Comandante tedesco con due ufficiali. Vuole suonare l’organo. Cosa fai ora?


Mentre corri, con la coda dell’occhio vedi una bambola che penzola da un balcone. Allora ti accorgi di una vocina lamentosa: dentro quella casa piange una bambinetta. E’ rimasta sola. E’ la piccola di Antonio, il figlio del mezzadro con cui giocavi da bambino quando venivi qui in villeggiatura. L’hai vista nascere, gli hai fatto da padrino. Tua moglie ti chiama, i tuoi figli piangono, devi correre da loro. Poi l’artiglieria tedesca scatenerà la rappresaglia su tutto il paese. Vendicano un attentato partigiano. Tua moglie, ti prende per un braccio e ti urla: lasciala lì, quella bambina, andiamo via! Lo sai che distruggeranno il paese per colpa di Antonio. Cosa fai ora?

Il vostro treno sta per partire. Fischia e sbuffa. C’è tanta confusione intorno a voi. Avete solo pochi istanti, poi partirete finalmente insieme. Cerchi le parole giuste, ma sei così emozionata, così felice. Devi dirgli che aspettate un bambino. Improvvisamente lui si gira verso di te e ti abbraccia stretta. Ecco, devi dirglielo ora. Ma lui ti sussurra in un orecchio: Ti prego aiutami, ho una pistola che non dovrei avere, prendila tu e sali subito sul treno. Io non posso venire con te. Dietro la sua spalla vedi una pattuglia nazista che sta chiedendo i documenti alla coppia accanto a voi. Cosa fai ora?