Femminopatia
di
Anna Mauro
Ascoltaci, o Signore.
Il parroco è bravo, la funzione ben organizzata, ma il coro…di più. Cattura subito la mia attenzione e inchioda il mio sguardo su tutte quelle bocche spalancate, che intonano inni al Signore.
Sai…dico sottovoce a mio marito…mi piacerebbe cantare in un coro.
Ti manca solo questo…replica acido con aria di disgusto.
Secondo me, è stato messo al mondo per tarparmi le ali, per stroncarmi le carriere. E più io vorrei costruire, più lui tenta di distruggermi.
Malvagio continua…Ma che devi fare a questa età…
Ma a quale età, a quale età. Mica ho novant’anni io!…incalzo..E anche quando? Un vecchietto di novantun anni, non so dove, sta prendendo la licenza elementare.
…Sì, e a centosei si laurea in medicina…ribatte il perfido, alzando il tono della voce.
Un pssh!, che sta per silenzio, ci raggiunge dalle file posteriori.
Io sono una -contro -la -non-violenza, sennò a quest’ora lo avrei già fatto a pezzi.
Ma ecco che giunge il mio momento.
Il parroco invita tutti i fedeli a intonare l’Alleluja prima del Vangelo.
Guardo il consorte con aria di sfida, imposto la respirazione e parto in quarta, ultraconvinta della mia bravura.
ALLE…sulla lu di LUJA schizza dalla mia bocca un suono gutturale che non ha nulla di umano, ma che dico di umano…non sa neanche di campana…
Sembra uno spaventoso grugnito strozzato animalesco.
E mentre lui (che colpirei volentieri con un manrovescio, anche se sono contro la non violenza) si accascia sulla panca sghignazzando come un pazzo, la platea si zittisce, mi guarda, e si unisce alla sua risata.
Solo il coro finisce la canzone puntandomi con una tale aria di sufficienza che, se non fossi contro la non violenza, prenderei tutti a calci nel sedere.
La funzione continua, mentre assumo sempre più l’aspetto di una divinità offesa.
E nel frattempo penso che i buoni che stanno pregando, in quel momento, lo fanno per non farmi andare in Paradiso.(per non essere costretti ad ascoltarmi per tutta l’eternità).
I cattivi cattivi, quelli che vanno in chiesa solo per occhio di mondo, pregano affinché io non vada all’inferno (perché il diavolo, sadico com’è, sarebbe capacissimo di inaugurare un altro girone e farmelo gestire con un microfono in mano).
Io mi unisco col pensiero a tutti quanti loro e prego…
Né su, né giù,
ma tutti quanti in buona salute
e perfettamente autosufficienti
qui,
su questa terra che hai creato
e che è stupenda.
E ti prometto
Che non canterò più per tutta l’eternità
E come se tutti quanti mi avessero sentito, magica e prorompente, arriva la risposta:
ASCOLTACI, O SIGNORE.
Sono un aspirante futuro grissino pentito
Mi sono guardata allo specchio e mi sono detta: l’estate è alle porte, devo andare assolutamente dal dietologo. Tanto lo so, da sola non riesco a concludere un fico secco. Piuttosto il fico secco me lo mangio! (con la mandorla in mezzo). Da trentanove anni circa, soffro di un disturbo da me volgarmente definito “pozzo senza fondo”, causato, probabilmente, da un’operazione di tonsillectomia subita all’età di quattro anni che mi avrà sicuramente allargato l’esofago, collegandolo ai centri della gola, costringendomi, nonostante immani sforzi di volontà, ad ingurgitare ciò che di meglio propone il mercato alimentare. Debolezze assolute: la Nutella - formato da £.38.000 - e le patate fritte - formato party -. Ho cercato, nel corso della mia vita, tutte le strategie idonee per risolvere il problema: dieta americana, scarsdale, dieta punti, dieta dell’ananas, dieta nuvola, dieta dell’astronauta, altalena, eccetera, eccetera, che mi hanno fatto meritare appellativi come yo-yo, boule d’acqua. Una volta consultai un iridologo che sbirciò fra le mie pupille e affermò che per me sarebbe stato molto difficile dimagrire. Risposi che poteva stare fresco che pagassi, perché quello lo sapevo già da me e non avevo bisogno di specialista alcuno. Comunque ho già prenotato la visita e sono in macchina per consultare un dietologo geniale che inserisce nei piani alimentari nutella e patate fritte. Accodata in Via Belgio, in quel di Palermo, fisso lo sguardo sulla pubblicità di una marca di vestiti “Oltre la 46” che sicuramente saluta “altre”, non me. E’ una bella ragazza, piena, solare, allegra. Sento un clacson suonare dietro la mia macchina. Ingrano la prima e vado avanti, dispiaciuta. Quell’immagine mi piaceva. La coda di macchine si blocca di nuovo. Un’altra immagine: una tizia magrissima che sponsorizza una marca di jeans. Ha il volto pallido, emaciato, triste. Sembra anoressica. Non ha nulla di simpatico, di cordiale, tantomeno di sensuale. Il traffico procede lentamente. Lascio anche la seconda immagine, mi osservo nello specchietto retrovisore e m'identifico con la prima. Soprattutto decido che non voglio, per nessuna ragione al mondo, assomigliare alla seconda. Mi piaccio e sicuramente piaccio a qualcuno come sono “ora”. In fondo i vestiti mi entrano ancora … Allora, anziché tirare dritto, svolto a sinistra, mi fermo alla prima cabina telefonica e disdico l’appuntamento. Ebbene sì, sono un “futuro grissino” pentito. Stato, ti prego! Come fai per tutti gli altri pentiti, dai anche a me cinquecento euro di stipendio!
Li utilizzerò per le nutelline e le patate fritte.
Ciao magri!
Da grande voglio far la benzinaia
Un tema dal titolo idiota…classico tema di terza elementare degli anni ’60…”Parla di cosa vuoi fare da grande”. (la prima sgrammaticata cacofonica era proprio la mia maestra, per questo io sono venuta fuori così male.)
Noi non capivamo perché glielo dovevamo scrivere a sette anni,soprattutto perché ci dovevamo scervellare a sette anni. E lei ci spiegava, con calma e “ammodino” che dovevamo progettare il nostro futuro tenendo presente le cose che ci piacevano di più (altra cavolata orba).
Io sentivo bisbigliare i miei compagni…c’era chi voleva diventare principessa, chi armatore, chi presidente degli Stati Uniti D’America. Io mi sforzavo di capire che cosa mi piaceva di più…la principessa, neanche a parlarne! A casa del principe mi avrebbero fatto coricare sul pisello per verificare se ero di sangue blu.(e invece quando io mi tagliavo, mi accorgevo che il sangue era rosso che più rosso non si poteva…e, blu non ci diventava neanche se lo mescolavo con l’inchiostro)…L’armatore… impossibile! Le navi mi facevano venire il mal di mare. I presidenti degli Stati Uniti D’America in quel periodo li facevano fuori…Pensa e ripensa, pensa e ripensa, fui avvolta da un odore inebriante, che mi portò in “sollucchero” . Ecco cosa volevo fare!
La benzinaia, la benzinaia perdio! Che mestiere straordinario! Tutto il giorno a distribuire benzina a destra e a manca…naturalmente dopo avere aspirato dalla pompa tutta quella meraviglia che mi mandava in estasi. Finalmente non avrei più dovuto sporgere la testa dal finestrino della seicento di mio padre per elemosinare un po’ di odore. Per la mia maestra, che forse i temi neanche li correggeva, questa era una bell’idea…
Sono passati tanti anni da allora…e io faccio l’insegnante, ma mi fermo sempre ai distributori “fai da te”.
Esco il bocchettone e, prima dell’erogazione, quando nessuno mi vede, lo avvicino al naso e mi faccio
una sniffata profonda.
Oggi sono rimasta in panne sotto casa di una mia amica. Ero a secco. Mi hanno accompagnato in macchina al primo distributore per riempire una bottiglia di due litri di benzina.
Sulla strada del ritorno, ho svitato il tappo ed ho annusato l’intruglio. Risultato: mi è passata la chiacchiera, mi si è abbassata la palpebra destra, mi si sono rizzati i capelli in testa e mi sono sentita straordinariamente felice.
Ho deciso. Quando andrò in pensione, rileverò una pompa di benzina “fai da me ” e venderò rigorosamente benzina super e normale perché oggi, quella senza piombo, era tagliata male.
L’autostrada del terrore
Lo sapevo! Lo sapevo che avrebbe perso il trenino per l’aeroporto…
E ora?
Mi guarda e mi dice…perderò l’aereo se non mi accompagni.
Vengo quasi colta dai conati di vomito…
Però all’andata la macchina la porti tu (aggiunge)
…così andiamo a sbattere prima (penso io).
Io parto più tranquillo (udite,udite!) perché controllo come guidi.
Non urlo per non farmi ricoverare all’Istituto d’Igiene Mentale, considerando il fatto che siamo fermi alle sbarre di un passaggio a livello e tanti occhi sono puntati sulla mia faccia stravolta.
E che? Non lo sa come guido? Dopo ventisette anni non lo sa come guido? Ha dimenticato che nessuno accetta passaggi da me? Perché, secondo lui? Perché jogging è bello?
…E vabbè, ti accompagno…(rispondo laconica col cervello schizzato dai 37° gradi all’ombra e dal calore irradiato dal finestrino destro della Ka che non si abbassa perche si è inceppato)…però da qui a lì guidi tu.
Il guaio è che sono rimasta traumatizzata.
No, non per un incidente. Ventisette anni fa sono stata bocciata agli esami di guida. Scioccante! Come la faccia dell’ingegnere della motorizzazione dopo la mia prova, con i capelli ritti in testa e il “morbo di Parkinson” provocato dallo spavento (avevo fatto un’inversione a U senza mettere la freccia). Ebbene sì, l’unico esame che non ho superato nella mia vita mi ha reso fortemente insicura nelle mie prestazioni automobilistichE.
Il caldo mi soffoca…la claustrofobia mi opprime, la paura del ritorno mi attanaglia le viscere.
E’ semplice…(continua imperterrito lui)…tutta autostrada, metti la quinta, ti stabilizzi sugli ottanta km orari...
A quella velocità supersonica? Ma co ‘sto caldo che m’ha preso per Barriquello? Mentalmente ripasso le persone da contattare in caso di malore o d’incidente. E mi ritrovo, non so come, da sola, sulla via del ritorno. Non ritorno neanche di averlo salutato.Gli occhi appiccicati sul parabrezza incandescente…le ginocchia incastrate sotto il volante e il contachilometri che segna 20 Km/h. Imbocco la corsia e, dopo neanche quattrocento metri , vengo investita da una colonna sonora di clacson impazziti e minacciosi che mi mettono paura. Guardo faticosamente allo specchietto retrovisore e vedo sventolare un paio di corna al mio indirizzo. Superata la corsia unica, una sfilza di autisti di Tir, di pullman , di autoveicoli cominciano a sfrecciarmi accanto, ingiuriandomi….Ma chi c…. te l’ha data la patente? Ma cammina a piedi, che arrivi prima! Ma che m……. fai? Ma levati dalle p…. str….! (sostituire vocali e consonanti come da “Ruota della fortuna di Mike Bongiorno” per identificare le parolacce) Potessi denunciarli! Sarebbe come vincere un sei al superenalotto incassare tutte quelle multe. Ma non posso. Corrono troppo e non posso staccare gli occhi dal parabrezza, sennò mi schianto. Allora perdo le staffe e mi fermo sulla corsia d’emergenza, profondamente offesa. Incrocio le braccia e…quando meno me l’aspetto, vengo fulminata dal colpo di genio. Scendo, apro il portabagagli e comincio a frugare senza sosta alla ricerca di un grande foglio bianco. Lo trovo. In borsa ho il resto che mi serve per completare l’opera: nastro adesivo e pennarello gigante di colore nero. Riprendo la guida e, da quel momento, è tutto uno sfolgorio di colori…il mare azzurro a sinistra, la campagna lussureggiante a destra, il cielo terso e luminoso in alto. Una stupenda passeggiata a 20 Km/h, con gli automobilisti che mi sorpassano irradiandomi con sorrisi d’incoraggiamento, mentre sul lunotto posteriore troneggia, maestosa e impavida, la gigantesca P di principiante.
Molestie a pagamento
Sono le sette e trenta del mattino. La squadra, che gioca una trasferta difficile, si avvia al campo col “suo” allenatore.
Io, moglie dell’allenatore, piuttosto che andarmi a fare “le pere” ascoltando le strategie di gioco da adottare, scelgo di fare una passeggiata per le strade del paese.
A quell’ora non circola anima viva, il cielo è terso e l’aria frizzante. Come me che, pimpante e briosa, imbocco una pittoresca viuzza in salita alla ricerca di un bar.
Dopo pochi metri però, dal nulla, si materializza una voce alle mie spalle, che biascica qualcosa.
Credendo che si tratti di qualcuno che vuol sapere l’ora, mi giro e chiedo…prego?
E’ così che il mio sguardo incrocia quello di un tipo molto strano, con cappuccio sulla fronte e mantello sulle spalle. Sembra un ectoplasma travestito da “Beato Paolo”. Mi rifà la domanda che io non ho sentito …La vuole vedere la mia mi…?
Io, terrorizzata da quella visione e da quella proposta, accelero il passo, sbirciando fra le imposte terrificantemente chiuse. Anche il tizio accelera il passo ripetendo meccanicamente e ritmicamente…La vuole vedere la mia mi… la vuole vedere la mia mi…
Vorrei tanto poter invocare aiuto, ma i centri respiratori sono paralizzati dal terrore di essere violentata e fatta a pezzettini, mentre la squadra conquista la tanto agognata serie B.
A questo pensiero, le mie gambe acquistano la stessa velocità delle zampe di una lepre, i miei occhi la visibilità di quelli di una lince, il mio battito cardiaco comincia ad oscillare fra la gola e il basso ventre.
All’unisono il tizio reagisce allo stesso identico modo, sempre gracchiando la stessa battuta.
Io non ho più niente di frizzante, sembro piuttosto una coca cola sventata.
Ma ecco…più su… si staglia un campanile…una chiesa…dovrebbe essere aperta a quell’ora.
Guadagno velocemente il percorso divorando un centinaio di metri e mi catapulto fra le porte, pronta a chiedere asilo al prete.
Dentro la “perpetua” di turno sta lavando i pavimenti.
Indietreggio respirando profondamente e mi appoggio allo stipite di una delle due porte d’accesso.
Pfuii!!!Sono in salvo.
Anche il tipo si catapulta e indietreggia appoggiandosi allo stipite dell’altra porta. Adesso siamo di fronte.
Io lo scruto con superba aria di sfida della serie “C’è gente. Appena parli ancora te la taglio”.
Lui porta la testa indietro lasciando scivolare il cappuccio sulle spalle e mi guarda fisso con la lingua penzoloni da un lato e la bava dall’altro.
E’ lo scemo del paese.
Imperterrito continua sollevando i lembi dell’ampio mantello e indicando le sue zone basse…La vuole vedere la mia mi..?
E io, senza scompormi, forte della presenza della “perpetua” e vinta dalla stanchezza… E vabbè…e fammela vedè!
E lui…Sì, però mi devi dare mille lì!
…Pure!…schizzo io…e vabbè, faccio la mia opera buona, ma tu fai la tua. Indico la sacrestana che, secondo me, in tutta la sua vita non ne ha visto manco mezza, apro il borsellino, estraggo una banconota e, porgendogliela, gli dico… Io te do duemila lì, ma tu fagliela vedere a quella lì.
Quella degli struffoli
E’ risaputo: non so cucinare. E allora? Non si può certo dire che la mia sia una famiglia proveniente da Aushwitz! Tutt’altro…Eppure tutti mi criticano. Non che le mie pietanze abbiano un cattivo gusto, forse una cattiva forma. Ogni tanto la maionese impazzisce e la panna si smonta, il pan di spagna non lievita e i soufflè si sgonfiano, le lasagne si attaccano e i parfait sono alquanto imparfait. Né più, né meno di quello che può succedere alla maggioranza delle persone che si cimenta in cucina. Stasera sono stata invitata ad una cena con gli ex-compagni di scuola di mio marito e relative famiglie e, purtroppo, non posso esimermi dal presenziare. La compagnia non mi entusiasma molto e vi spiego il perché. Una sera in prossimità delle vacanze natalizie, la stessa compagnia organizzò una riunione a tema con contributo personale (una pietanza preparata a casa) ed io preparai degli struffoli. Buoni, ma un po’ duretti per la verità. Un astante buontempone nel bel mezzo della cena, invitò la comunità ad affacciarsi al balcone, perché sul marciapiede c’era un signore che strillava come un ossesso e mi spiegò che la causa di tutto ero io.
I presenti, infatti, non volendo farmi la scortesia di lasciare gli struffoli nei piatti, li avevano lanciati dal balcone e un passante, credendosi preso a sassate, si era attaccato al citofono, facendo le sue rimostranze e reclamando l’assicurazione infortuni contro terzi dalla persona che li aveva cucinati. Scherzava naturalmente, gli altri ridevano sguaiatamente. Meno male che io-non-sono-una-contro-la-non-violenza, sennò lo avrei preso a calcagnate nelle gengive.. Inutile dire che l’episodio è passato alla storia, stroncando, sul nascere, la mia carriera di aspirante cuoca per comunità. Da quel momento le mie pietanze-contributo personale restano integre nei piatti da portata, perché tutti chiedono ridacchiando…”Ma chi le ha fatte quella degli struffoli?” E passano avanti. Se decidono di assaggiare qualcosa…un giorno la cosa è salata, un altro insipida, un altro deformata. Sembrano tutti componenti di un’associazione a delinquere. Sono in macchina e ripenso a tutte le umiliazioni subite in questi ultimi anni, non ultima quella inflittami dal cane di una mia amica, che pure reputavo mio amico. Mi ha fatto uno sgarbo, che non gli perdonerò mai: non ha voluto neanche leccare il timballo di chiaro stile gattopardiano-tomasiano-lampedusano, che tutti gli altri invitati avevano, con fermezza, sdegnosamente rifiutato. Ebbene sì! La voce si è sparsa in tutta la città, tanto che neanche i barboni della missione di Biagio Conte mi farebbero l’onore di accettare. Folgorata dal colpo di genio, mi dirigo in un rinomato negozio di gastronomia della città e ordino piatti tipicamente siculi: sarde a beccafico e involtini di milinciane. Li pago un occhio della testa. Torno a casa, stacco il marito dal computer e mi presento alla cena. Ci sono più invitati del previsto; i presenti, pertanto, sono costretti ad assaggiare le mie mercanzie. I commenti sono feroci…”Ma quanta uva passa ci ha messo quella degli struffoli?” “Oddio, come sono bruciacchiati questi involtini di melanzane!” E risatine sommesse tanto da farmi convertire alla violenza e avere il desiderio di sparare ad ogni tizio che mi sfotticchia un colpo di lupara dritto in mezzo agli occhi, per bruciargli le cervella. Mi torna in mente la voce della Bertè…Non sono una signora...E infatti non vorrei essere una signora in quel momento, vorrei imbracciare un cannone e sparare a tutti i presenti gli involtini in bocca, nel naso e in chissà in quanti altri buchi. Sto per esplodere quando Maria, considerata la gran cuoca della combriccola, si avvicina e mi sussurra…”Ma tu queste cose le hai comprate da…” Mi sorride, solidale, si apparta con me e mi fa una proposta, che accetto prontamente.
Oggi ho cucinato tutto il giorno a casa di Maria.Sono distrutta. Adesso osservo con disgusto i commensali che ingozzandosi dei miei soufflè sgonfiati, dei miei involtini di prosciutto alla maionese impazzita e dei fragoloni alla panna scoppiata , fanno complimenti sperticati alla padrona di casa per la sua cucina. Mi viene la nausea, ma aspetto il momento opportuno per uscire allo scoperto: il dolce, una sfogliata ripiena di struffoli al miele. Lo servo, salgo su una sedia e urlo”Ho cucinato io! Io, quella degli struffoli!”
Gli imbecilli, continuando famelici a raschiare le teglie e a strafogare la sfoglia, mi rispondono in coro e con la bocca piena…”Ma vagliela a raccontare a tua sorella!!!..
La dieta del fantino
Quanti chili hai perso in tre giorni? Tre?
Dettamela subito che domani la inizio. Aspetta che prendo la penna…Che scocciatura! Non c’è mai una penna in questa casa. Ecco, l’ho trovata. Vai, sono pronta.
Prima colazione
Caffè dolcificato con saccarina
Metà mattino
Un bicch di marsala e 100 gr di emmental
Pranzo
150 gr di bistecca
Merenda
Un bicch di marsala
Cena
100 gr di Emmental e un uovo sodo
Solo acqua lontana dai pasti e a digiuno.
…Pensi che riuscirò? Sono astemia e la saccarina mi fa schifo. Preferisco il caffè amaro.
“Devi seguire tutto alla lettera” ingiunge la voce imperiosa di Lea dall’altro capo del filo “alla lettera, hai capito?”
Per tre chili in tre giorni questo ed altro. Amen.
Di pomeriggio vado alla ricerca di una farmacia (tutte chiuse per ferie). Ne trovo una all’estrema periferia della città. L’eliminacode mi cede il numero 148, siamo al numero 8. Non potendomi suicidare, e per non sciupare il tempo ad aspettare, comincio a fare training autogeno. Comincio a concentrarmi, fino a visualizzarmi magra come una silfide. Continuo a ripetermi “devo seguire tutto alla lettera…devo seguire tutto alla lettera…potrò nuovamente rispolverare i capi che ho nell’armadio, potrò mettere il bikini, e via discorrendo. Mentre coordino la respirazione il signore che mi precede comincia ad agitarsi e ad indicarmi alla folla, dicendo: “La signora, sta male…Ha l’affanno. Prego, passi pure avanti…Fate largo alla signora, non respira, non respira…”Si apre un varco inaspettato. Faccio di necessità virtù, mettendomi la faccia compunta e accelerando gli atti respiratori. Guadagno in un battibaleno circa 120 posti. Con la faccia d’occasione ordino la saccarina. Tutti mi osservano pietosi e solidali. Forse pensano che sono in coma diabetico. Torno a casa dopo aver comprato il resto del mangime per l’indomani.
Primo giorno
Ore 6: colazione. Il caffè è un’autentica skifezza. Ho i conati di vomito.
Ore 10: Ingollo l’etto di emmental e trangugio, da astemia, tutto d’un fiato, il bicchiere di marsala turandomi il naso. Dopo dieci minuti comincio a ridere sola come un imbecille, fin quando non vengo assalita da singulti. Il piloro sembra un babau e il formaggio sale e scende provocandomi rigurgiti da lattante.
Bussano alla porta: è il portiere che deve leggere il contatore dell’acqua. Lo accolgo sghignazzando. Io sono una che quando passa dai banconi del supermercato e guarda gli alcolici ride, figuratevi se li beve.
Il portiere è sconvolto… penso sia per me… invece lo è per i metri cubi d’acqua sciupati. Mi guarda e mi dice “E’ troppo assai…ma che ci ha le perdite?” e io quasi mi butto a terra dal gran ridere e, anche se ho la vista annebbiata dai fumi dell’alcool, intravedo la sua espressione della serie “ma che ha bevuto?”. Lo accompagno volteggiando all’uscita.
A pranzo la bistecca è una leccornia, ma dopo un’ora la fame mi attanaglia le viscere. Fortuna che c’è la merenda. Che si mangia? E controllo il menu. Niente, niente si mangia…Dio santo, si beve!
Se solo mi facessero l’alcool-test subito dopo la visione della bottiglia di marsala mi darebbero l’interdizione perpetua dalla guida per stato di profonda ubriachezza. Figurarsi dopo!
E infatti, dopo la seconda tracannata del marsala, comincio a farmi domande idiote della serie “Ma perché si chiama dieta del fantino?” e comincio a ridere come un cavallo. Cavallo? Quale? Ma quello a dondolo dei miei figli, naturalmente! Meno male che i ragazzi non sono in casa, perché io devo seguire tutto alla lettera. Metto su la cavalcata delle walkirie e comincio a dondolarmi dissennatamente sul cavallo a dondolo, al ritmo progressivo wagneriano col rischio di ribaltare a terra per la foga. Poi il buio!
Ricordo vagamente mio marito che prepara la caffettiera di ventiquattro tazze, per poi costringermi ad ingurgitare il beverone di caffeina per farmi vomitare.
…”non c’era il caffè nel menu” penso di aver biascicato “devo seguire tutto alla lettera” poi confusione, un maledetto senso di malessere e tanto, tanto liquido espulso.
Ed è la tragica interruzione di una dieta appena cominciata e già finita.
PS. Mentre sconfortata e sobria rileggo il menu…un atroce dubbio mi assale: ma bicch stava per bicchiere o per bicchierino?
La dieta dell’anguria
Da fare un giorno alla settimana.
Colazione, pranzo, cena: anguria a volontà.
Bere soltanto acqua lontano da pasti.
Tutte le altre bevande, incluso the e caffè, sono escluse.
Colazione.
L’anguria avanzata ieri sera l’ha già fatta fuori mia figlia, perché ha deciso di seguire la mia stessa dieta. Ma siccome la trova particolarmente squilibrata, ha abbinato le ultime cinque merendine presenti in dispensa, a danno del fratello minore che, rimasto digiuno come me, sbraita e impreca. Come me.Tragitto balneare.
Accosto la macchina dal mio amico-lambrettaro-mulunaro (amico-possessore di moto/ape-venditore di angurie) di via Lanza di Scalea. Scendo con l’espressione rincoglionita da astinenza di caffeina e stringo la mano a colui che detiene il primato dei prezzi più bassi della città:
2 angurie 2 euro e cinquanta
4 angurie 4 euro
8 angurie 6 euro.
Scelgo la terza soluzione e riparto col marito logorroico che lamenta i tonfi e gli scrocchi delle angurie rotolanti nel portabagagli.
Lido balneare.
Cammino reggendo un’anguria per braccio. Sembro un’anfora etrusca dissotterrata. Infatti tutti mi guardano, liquefacendosi in stupefacenti espressioni di grande meraviglia.
Il parentado stretto finge di non conoscermi.
Io me ne frego, ripongo le angurie in cabina e corro a fare un bagno nelle acque cristalline di Capo Gallo.
Più tardi, apro il tavolino pieghevole ed esco con l’anguria fra le braccia.
Incrocio Filli, la mia vicina di capanna, fisico da pin-up, nata da una relazione fra il dio dei cretini (anche il suo nome è cretino) e la dea dei rettili. Infatti, mentre sgranocchia una tavoletta di nocciolato che trasuda lussuria e burro cacao da ogni più piccola crepa, sibila “Sembrate gemelle”.
“Sembrate chi?” gracchio io.
“Tu e l’anguria” risponde l’infida “…hai il costume dello stesso colore” aggiunge, salvandosi in corner. Purtroppo è vero, allontano l’anguria dal mio costume e comincio ad affettarla.
Prima fetta, rubata dal marito.
Seconda fetta, rubata dalla figlia.
Terza fetta, rubata dal figlio.
Dalla quarta fetta in poi, cominciano a fare capolino le varie: signora Giacomazzi, dottoressa Bottiglioni, sorelle Marrazzo e l’architetto Levalle (che il quel momento, se volete sapere cosa rompono, basterà che facciate la rima), che si sciolgono in mielose frasi della serie “Qui ci si rinfresca ad anguria, vedo!” “Ma che idea refrigerante”, “ Ma che stupenda idea estiva …”ecc. ecc. ecc.
Mio marito, che fino ad allora mi ha disconosciuto come consorte, mi strappa il coltello dalle mani e, galante, comincia ad offrire a destra e a manca, incurante delle mie ginocchiate al suo basso ventre.
“Come dolce, e come è fresca!” ribattono quelli che fanno rima ancor più di prima, e lui imperterrito “Prego, prego, ne abbiamo ancora!”. Si alza persino le chiappe dalla sua maledetta sdraio per andare a prendere la seconda anguria in capanna per la vipera-serpe-rettile-coccodrilla Filomena, detta Filli. Nel giro di pochi minuti si trasforma nel “mulunaru” (venditore di anguria) del Foro Italico. Si facesse pagare almeno! Potremmo saldare la bolletta di internet che in questo bimestre chissà a quanto ammonterà. Invece niente.
E soprattutto non resterebbe niente per il mio pranzo se non ci fossero altre sei angurie nel portabagagli.
Dal nulla salta fuori mio figlio il piccolo (è alto un metroenovantotto centimetri) che chiede con nonchalance “C’è qualcosa di dissetante?”.
“Si, la coca cola” rispondo io “in capanna”.
“No, dicevo di dissetante…da sgranocchiare”.
“Vai a prendere le altre due angurie in macchina” ordino secca.
Dopo un po’, ritorna anche lui travestito da anfora etrusca longilinea, e comincia a fare man bassa dei frutti, sotto i miei occhi attoniti, con i suoi amici.
Poco dopo, con portamento sinuoso ed elegante, arriva l’altra anfora etrusca di mia figlia seguita da una ciurmaglia di bambini che vorrei fossero nati ai tempi di Erode che, festanti e chiassosi, applaudono mentre la divina affetta le altre due angurie che mi ha sottratto.
Aspetto il mio momento, prendo il coltello e vado di soppiatto in macchina dove faccio fuori avidamente, e con il rischio di soffocare, la penultima anguria. Finalmente lontana dagli occhi di tutti i lapardei.
Il pomeriggio, quando entro in acqua, improvvisa, si alza la marea.
Possibile che l’anguria sia tanto diuretica? Via via che i liquidi si disperdono i crampi mi fanno rattrappire piedi e gambe, facendomi avvertire dolori lancinanti. Prima di arrivare al massimo delle crisi ipotensive vengo tempestivamente salvata dai bagnini, che mi riportano a riva.
Il pensiero di andare al concerto di Antonella Ruggeri mi fa rianimare e, per non incorrere in tentazioni varie, faccio fuori l’ultima anguria rimasta.
Villa Lampedusa, la sera.
Il marito mi abbandona all’ingresso per tentare di parcheggiare nel raggio di qualche chilometro. Non ho notizie per circa venti minuti, e mi sorge il dubbio che Filli sia nei paraggi. Intanto sento uno stimolo: l’anguria continua la sua incessante fase di depurazione. Sono troppo lontana dalle toilettes ed impossibilitata a comunicare col consorte perché il suo cellulare è dentro la mia borsa. Contorcendomi, mi addentro furtiva in mezzo alla vegetazione alla ricerca di un albero al buio. Lo trovo. E’ circondato da cani randagi con la zampa alzata. Forse anche loro stanno facendo la dieta dell’anguria. Mi presento…dico che sono un’animalista, che a sedici anni ero iscritta all’ente protezione animali, che a ventiquattro ho votato per i verdi, che sono contro la vivisezione e che ogni tanto faccio volontariato al rifugio del cane. Capiscono e mi fanno posto…
Che Dio li benedica!
E mentre il sollievo mi fa sentire leggera leggera tanto da levitare accanto a San Francesco, e Antonella Ruggeri in lontananza canta “Cavallo Bianco”, arriva mio marito con un voluminoso involucro e me lo porge contento, dicendomi “Sorpresa?!”.
Apro e... alla vista dell’anguria affettata… svengo fra le sue braccia.
Una vipera a Marsiglia
Io non ho una grande capacità di parlare le lingue straniere. Grande? A dire il vero neanche minima, anche se ho studiato sia l’inglese che il francese. La mia dizione è pessima e, detto tra noi, mi vergogno perché quando intercalo qualche frase estera, tutti scoppiano a ridere, mentre io, umiliata, mi rintano nel mio guscio frammisto di lingua nazionale e dialettale.
Viaggio d’istruzione in Provenza. Hotel di Marsiglia. Tarda sera.
Mi viene incontro un’alunna in pigiama infreddolita.
“Prof, avrei bisogno di una coperta e di un cuscino, ma l’armadio della mia stanza è vuoto. Può chiederli a qualcuno?”.
Mi guardo intorno con circospezione, i colleghi sono spariti, ma il viso si illumina: è giunto il mio momento! Ricordo benissimo sia i due vocaboli che i due articoli indeterminativi in francese. Faccio un cenno col capo ad un impiegato dell’albergo, che mi raggiunge prontamente. Atteggio le mie porzioni labiali sporgendole sensualmente in avanti, ristrette e piene come in attesa di un bacio e gli chiedo:
“S’il vous plait, monsier, une couverture et un couchon”.
Mentre l’impiegato mi fissa con gli occhi strabuzzati, ricompare dal nulla una delle colleghe accompagnatrici, la più acida, talmente acida che, secondo me, nel suo apparato cardiovascolare al posto del sangue scorre acido muriatico, la classica professoressa fattidapartechesotuttoio, che, al vedere lo sguardo perplesso dell’impiegato, sbotta: “Ma che cosa gli hai chiesto?”. Io, sempre più sicura di me, risucchio gli addominali, mi ergo di una spanna, riatteggio faticosamente le mie porzioni labiali e rispondo: “Iun chiuvertiur e en cuscion”. A questo punto la figlia dell’acido muriatico comincia a sghignazzare, senza ritegno e additandomi fra un singulto e l’altro “Ma che sei scema?” ...risata... “Che sei cretina? Gli hai chiesto una coperta e un maiale!”. Dopo un po’ si ricompone, riprende la sua consueta aria da pseudointellettualoide da strapazzo, si aggiusta gli occhiali talpigni sul naso a pappagallo, con verruche pelose sparse qua e là e sporge le labbra a mo’ di proboscide. Impettita e arcigna corregge: “Monsieur, s’il vous plait, une couverture et un oreiller”. Il cretino d’oltralpe, che stavolta ha capito tutto, si accinge ad obbedire quando io, per evitare di mordere la collega , ricaccio indietro le lacrime, lo prendo a parte per la manica e irradiandolo con un sorriso a trentadue denti, ribatto:”Monsieur, s’il vous plait, une couverture et un oreiller pour la jeune fille, a quella stronza lì porti pure la coperta e il maiale 'rchè sta all’asciutto da parecchie settimane”. E quello che fa? Scoppia a ridere come un pazzo e non mi sembra più tanto cretino. “Ha capito, ha capito!” esulto felice e comincio a correre da una parte all’altra della hall, mentre la collega rintuzzata in un angolo, schiatta dalla bile.
La prattagnosia
Finalmente ho scoperto il nome della malattia da cui sono affetta: "Prattagnosìa".
Sintomi:
1.Deambulare e prendersi di petto i pali della luce;
2. Indossare il soprabito e mandare in frantumi i soprammobili esposti, in bella vista, nelle vicinanze dell'attaccapanni;
3. Spremere il tubetto del dentifricio e schizzare di pasta lo specchio del bagno;
4. Apparecchiare elegantemente una tavola e impigliare un bottone della giacca nel ricamo della
tovaglia trascinando per alcuni metri cristalleria, posateria e vasellame;
5. Soffriggere la cipolla e dimenticarla sul fornello acceso;
6. Versare il vino sulla tovaglia mancando il bicchiere;
7. Uscire da casa con le pantofole, convinta di indossare i tacchi a spillo;
8. Sbagliare flacone e lavare i pavimenti con lo shampoo e i capelli con la candeggina;
9. Rientrare di fretta a casa con i sacchi della spesa e spiaccicare il viso sulla bussola di vetro della portineria;
10. Sentire squillare il telefono ed aprire la porta d’ingresso dicendo “Pronto”;
11.Mettersi a braccetto di un altro credendolo il marito.
Prattagnosìa, si chiama prattagnosìa.
La diagnosi me l’ha fatta un mio amicoinsegnantedisostegno mentre, nel tentativo di zuccherargli il caffè bollente glielo versavo sulla camicia immacolata. Ha anche aggiunto che alla mia età non c’è più nulla da fare, ma che gli alunni in età scolare che soffrono di questo disturbo, necessitano di un insegnate di sostegno.
Giunta a scuola ho chiesto alle collegheluminariedilatinoegreco (illuminano gli anfratti bui del mio cervello) l’etimologia della parola. E siccome non la conoscevano, in quanto termine medico, mi hanno promesso una risposta.
Dovendo aspettare tutto il week-end sono entrata in crisi.
Allora vi chiedo… E’ grave essere una prattagnòsa?
Oppure mi hanno preso per i fondelli per l’ennesima volta?!
La letargia
Il segnale: sento calare due veli sugli occhi, stile cataratte che, incuranti delle palpebre rimaste aperte, producono un suono simile ad un poff che mi fa inghiottire da un buio pesto e beato.
E sì! Passo dalla veglia al sonno profondo improvvisamente, senza accorgermene. Tutto ciò suscita le invidie dei presenti, soprattutto di quelli che soffrono d’insonnia. Quando riapro gli occhi, mortificata, incontro sorrisi smaglianti, ammiccamenti vari e frasi che sottolineano le grandi capacità di recupero di cui mi ha dotato madre natura. Nei casi più eclatanti, al mio risveglio si scatenano applausi a scena aperta, mentre mio marito ripete sempre la solita solfa trita e ritrita…“Quand’è troppo stanca, spegne l’interruttore della luce”. Da parte mia ho sempre nutrito seri dubbi sul fatto che questi episodi potessero essere segnali di ottima salute.
Infatti…
Stamattina ascoltavo casualmente, "e con molta attenzione", una conversazione fra colleghe. Una sparlava dell’attuale compagna dell’ex marito esaltandone i difetti e le malattie. A quanto pare, la giovincella presa di mira soffriva di una strana malattia che, guarda caso, ha gli stessi sintomi da me accusati. Come si chiama? Letargia, le-tar-gi-a.
“Allora sono malata!” mi sono urlata interiormente. “Ho la letargia!” continuavo a ripetermi mentre il terrore di sentirmi simile alla moglie dell’orso Yoghi e a quella schifezza di rubamariti, mi attanagliava le viscere. Giunta a casa, sono entrata trafelata nella camera da letto, ho chiuso la porta con doppia mandata, ho assunto la posizione del loto e, per psicoyoganalizzarmi, ho cominciato ad emettere gli hohm di rito, sollevando le braccia e concentrandomi sul problema. La prima fase è stata un disastro, perché la famiglia digiuna, picchiando violentemente sulla porta e con l’ignoranza accentuata dalla fame, chiedeva se avessi di mal di stomaco. Dopo aver fornito esaustive spiegazioni, sintetizzate in mavaffanquì e mavaffanlà, ho ripreso il metodo per esaminare gli episodi più eclatanti che mi hanno visto protagonista della letargia. Dopo avere assodato che non si tratta di carenza di sostanze adrenaliniche perché:
a)nelle mie vene scorre caffè;
b)nelle mie arterie scorre sempre the;
c)nei miei capillari i globuli rossi sono stati soppiantati da filamenti di ginseng e guaranà;
sono risalita ai quattro elementi scatenanti:
1. il cinema. Una sera sono riuscita a leggere soltanto i titoli di testa e i titoli di coda. Fra i due momenti ho sognato mia nonna paterna che mi dava dei numeri, solo che alla fine, nel vedere la faccia incazzata di mio marito, mi sono sfuggiti di mente;
2. il sole. Durante una vacanza nell’isola di Levanzo, mi sono addormentata alle nove del mattino in riva al mare e mi sono svegliata alle ore 18 sommersa dall’alta marea, sotto gli obiettivi delle web-cam di turisti incuriositi che riprendevano la scena da qualche ora. Poca più in là, mio marito, senza alcun ritegno, faceva il tifo per l’alta marea.
3. i collegi dei docenti. Sistematicamente alla fatidica frase d’apertura del mio preside logorroico che s’impone con il “sarò breve”, crollo in sonno irreversibile. Al risveglio sono tutta un livido per le gomitate che ho ricevuto dai colleghi per tutta la durata della riunione.
4. gli ospedali. Quando è nata mia nipote, i medici mi hanno scambiato per la puerpera perché la neo mamma era già in piedi e si stava arrangiando da sola, mentre io ronfavo beatamente nel lettino accanto al suo.
Sempre sull’onda degli hohm ho scoperto i fattori deterrenti della mia letargia:
x) la stazione eretta;
y) la guida dell’automobile.
Bene! Sono pronta a risolvere il mio problema, entrerò al cinema soltanto se all’ingresso ci sarà il tabellone “posti a sedere esauriti”… prenderò parte alla riunione del collegio dei docenti quando le sedie saranno tutte occupate ed il preside finalmente avrà taciuto… al mare starò sempre dentro l’acqua a nuotare e non prenderò più il sole, tanto fa male alla pelle.
(drinn) Pronto, ciaoooo…..Ma, figurati, è un piacere, è un onore e… per quando è previsto il parto? No, guarda, tua madre è anzianotta, lasciala a casa, ti assisterò io. Ci sono abituata, non ti preoccupare, sei un buone mani. Ciao, un bacione (clic)
Parto, nottata, nottata, ospedale…Ospedale? Ospedale letargia.Le-tar-gi-a! Azz… e ora come lo risolvo questo problema?
… mica posso farla partorire mentre guido l’automobile?!
La scorazzata potiomkin
Colleziono bambole, ma la vetrina dove sono riposte, punto focale del salone, impressiona alcune mie amiche. Prima fra tutte Lea, che ha minacciato di non venire più a trovarmi qualora non avessi cambiato posto al più presto a quelle che lei chiama “i feti morti”.
Da tempo sono alla ricerca di un qualcosa che le metta in mostra in maniera meno appariscente. Inutilmente…finché, al mercato delle pulci, luogo che amo visitare, l’occhio di lince di Dora, la mia amica accompagnatrice, punta, nell’angolo di una baracca, una carrozzina semisotterrata da inutili cianfrusaglie. E’ annerita, sporca ed assomiglia a quella fantozziana della corazzata Potiomkin.
E’ un colpo di fulmine.
Già la vedo restaurata, che trabocca di pizzi e merletti, con le mie bambole dentro. Costa poco, pago, ma quando mi accingo a prenderla, il vecchio proprietario della baracca mi frena, dicendomi “ Mi rassi un jornu, chi c’ha puliziu, è china ri surci “ (Mi conceda un giorno, che gliela ripulisco, è piena di topi).
Accetto e andiamo via. Non sto nella pelle per l’affare fatto e non vedo l’ora che venga il giorno successivo… ma l’indomani la baracca è chiusa e il vecchietto, mi dicono, è ricoverato, non si sa per quanto, ha avuto una crisi cardiaca. Sono passati alcuni giorni e non si hanno ancora notizie, fin quando nella mattina del mio giorno libero, da sola, vado a saldare una rata dell’assicurazione nelle vicinanze del Palazzo di Giustizia, poco distante dal pittoresco mercatino dell’antiquariato.
“Quasi quasi faccio un salto alle Pulci” mi dico...e finalmente trovo la baracca aperta con dentro un giovane, il nipote, che mi riconosce e mi chiede se può consegnarmi la carrozzina. Non ci penso due volte, lui sta per chiudere… non avrei il tempo di andare a prendere la macchina posteggiata a circa un chilometro di distanza. Metto la sacca a tracolla e comincio a spingere la buffa carrozzina sul marciapiede, mentre la saracinesca si chiude alle mie spalle. Con nonchalance attraverso il mercato; i pulciari, che mi conoscono, mi salutano sorridendo.
Appena imbocco la via principale, è tutto uno stridio di freni di automobilisti curiosi e divertiti che lanciano frizzi e lazzi al mio indirizzo. Non raccolgo le provocazioni e continuo, imperterrita, a spingere la carrozzina fino al parcheggio…
Ma ecco sopraggiungere da una viuzza un piccolo forsennato che urla a squarciagola: “Minna picciotti, c’è Fantozzi ‘n Paliermu! Stanno facennu un firm. Viniti, viniti!” (Mammella ragazzi, c’è Paolo Villaggio a Palermo! Stanno girando un film. Venite, venite!)
Un manipolo di ragazzetti festanti lo raggiunge. Uno mi guarda e rivolgendosi agli altri esclama: “Vuliti viriri chi a chista a fannu attummuliari ri scaluna ru tribunali cu tutta a carrozzella? “ (Volete vedere che a questa qui la fanno rotolare per la gradinata del Palazzo dei Veleni con tutta la carrozzina?)… e sghignazzando come pazzi, improvvisano un corteo alle mie spalle simulando rullii di tamburi.
Non posso far finta di nulla perché le loro urla assordanti si spiaccicano inesorabili sui miei timpani. Maledico tutti gli assessori che non sono in grado di evitare i doppi turni nella scuola dell’obbligo… invoco la reincarnazione di Erode che mi permetta di perpetrare una seconda strage degli innocenti… poi, prima di essere definitivamente inghiottita dalle sabbie mobili del ridicolo, faccio di necessità virtù… aggiusto il portamento e comincio a sorridere ad una telecamera immaginaria che mi precede. Dalla recinzione del Tribunale, intanto, fanno capolino vigili urbani ed agenti di pubblica sicurezza. Uno di questi si avvicina e mi chiede incuriosito: “Come si chiama il film che state girando?”. Mi volto indietro, guardo il popolo minorile che sciala dietro di me e rispondo: “La Scorazzata Potiomkin”, poi gli sussurro all’orecchio: ”Però, la prego, si scosti, non mi rubi la scena… l’unica cosa che so è che non è un film sulla mafia.”
La carrozzina restaurata adesso è in bella mostra alle spalle del divano dove siede Lea. Le bambole sono vezzosamente adagiate su un letto di trinoline e merletti… No, decisamente non potrebbe mai essere utilizzata per girare un film sulla mafia.