Fratelli

di Valentina Diana

© 2009. Tutti i diritti sono riservati

 

 

Vasectomia nel maschio.
I canali deferenti, ossia i condotti che mettono in comunicazione i testicoli con la prostata, vengono tagliati e legati. Ciò impedisce agli spermatozoi prodotti nei testicoli di entrare a far parte dello sperma. Non si deve confondere la vasectomia con la castrazione: la vasectomia non implica la rimozione dei testicoli e non altera la produzione di ormoni maschili (come il testosterone) né la loro secrezione. Perciò il desiderio sessuale e la capacità di avere un’erezione, un orgasmo e una eiaculazione non subiscono variazioni. Poiché gli spermatozoi costituiscono solo una piccola parte dello sperma, la vasectomia non altera il volume, l’aspetto, la consistenza dell’eiaculato. Sebbene gli uomini che prendono in considerazione la vasectomia non la considerino come reversibile e siano in maggioranza, con le loro compagne, soddisfatti dell’intervento, esiste una procedura in grado di riparare alla vasectomia utilizzando tecniche microchirurgiche. Non è tuttavia efficace in tutti i casi, con un tasso di successo dipendente da molti fattori, come la tecnica usata per la vasectomia e il lasso di tempo trascorso dall’intervento.

 

M.

Nel millenovecentosessantotto, il dodici marzo.
È una casualità strana, molto strana. Perché in tutto questo tempo la madre mia e di B. non mi ha mai detto niente? Mai. Lei e nostro padre, mio e di B., si sono sposati il giorno in cui io sono nato. Lo stesso giorno, lo stesso anno.
L’ho dovuto scoprire per caso. Ho dovuto leggerlo qui, dove c’è scritto: “La coppia, coniugata il giorno dodici marzo millenovecentosessantotto”. Il giorno che c’è scritto che sono nato io. Ciò significa che ogni volta che festeggiavamo il mio compleanno, loro sapevano (non è possibile che non si ricordassero) che quel giorno era anche l’anniversario del loro matrimonio. Dodici tre millenovecentosessantotto, se sommi tutte le cifre viene tre. Uno più due: tre. Più tre: sei. Uno più nove: dieci. Uno e zero: uno. Sei e otto: quattordici. Più uno: quindici. Uno più cinque: sei. Più sei: dodici. Uno e due: tre.
I numeri. Anche da piccolo io ho sempre avuto questa fissazione dei numeri che mi piacevano. Anche se a scuola sono andato male, la matematica mi piaceva per i numeri; per questo ci ho fatto subito caso, quando ho visto la data scritta. Dodici marzo. “La coppia, coniugata il giorno dodici marzo millenovecentosessantotto”. Il giorno del matrimonio, lo stesso giorno che sono nato io.
Anche se non potevano saperlo, dopo non possono non averci pensato.
Papà. Il padre mio e di B.
Nostra madre, la madre mia e di B., era già incinta da due mesi e oltre. Si saranno sposati per questo. Le famiglie. Non so. Anche se erano un po’ rivoluzionari e non credevano in Dio, qualcuno avrà detto loro che era meglio sposarsi per il bambino che arrivava.
Che poi era una bambina. Anche se allora non potevano saperlo, B. era già una bambina. Qui c’è scritto che “dopo”, dopo che è nata B., papà, nostro padre, il padre mio e di B., “ha ritenuto giusto” farsi sterilizzare.
Aveva ventidue anni e sei mesi. “Ha ritenuto giusto” farlo, anche se nostra madre, la madre mia e di B. non era molto d’accordo. C’è scritto che la signora M., madre mia e di B., nutriva alcune perplessità a rilasciare il consenso al consorte. Non c’è scritto il perché di quelle perplessità, c’è scritto però che le perplessità c’erano.
C’è scritto che sulle prime aveva delle perplessità a concedergli il consenso (l’intervento richiedeva obbligatoriamente la firma della moglie), ma alla fine lo ha firmato, ha firmato il consenso per non ledere la libertà personale del marito in quanto individuo in grado di disporre liberamente del proprio corpo e della propria mente. E forse anche per altre ragioni. Chissà. La libertà di nostro padre di farsi sterilizzare.
E così nostro padre, il padre mio e di B., finalmente libero, si è sottoposto all’intervento di sterilizzazione, in un ospedale svizzero. Il sei aprile millenovecentosettantuno. Qui nella cartella c’è anche la documentazione della clinica. C’è tutta la storia che non mi hanno raccontato. Nostro padre, mio e di B., ha sottoscritto la richiesta d’intervento per aver scelto deliberatamente senza alcuna pressione esterna, per ragioni etiche e non mediche, c’è scritto, per ragioni etiche, ha deliberato di sottoporsi all’intervento di sterilizzazione, a proprio rischio e pericolo, a ventidue anni e sei mesi.

 

B.

Di noi due tu eri il più piccolo. Anche se eri più grande. Tu compivi gli anni prima che li compissi io: avevi sei anni prima di me, sette anni prima di me, ma restavi il più piccolo, perché mancavano gli anni in cui non c’eri stato, gli anni che non eri stato con noi era come se ti mancassero dal calendario. Forse eri nato prima, ma chissà da chi e chissà dove. In definitiva per me era più facile pensare che eri nato dopo, dato che nella mia cronologia venivi dopo di me, in quella cronologia eri più giovane e più piccolo e in quanto più piccolo dovevi sottometterti. Anche se non eri veramente più piccolo. Per me lo eri. Secondo i miei piani dovevi sottometterti. Ma tu non ti sottomettevi. Non facevi niente di quello che avresti dovuto fare, secondo i miei piani. Non ti sottomettevi e basta.
Quando sei arrivato, sei arrivato come una cosa normale. Mamma e papà mi avevano detto che probabilmente di lì a qualche tempo sarebbe arrivato un fratello.
La parola fratello era la prima volta che la sentivo applicata a me. Non mi ha fatto né male né bene. Non mi ha fatto niente. Non sapevo cos’era un fratello, né mi preoccupava. Era una parola come le altre di quelle che papà diceva per insegnarmi delle parole nuove. Una parola da mettere lì e saperne una di più.
Non immaginavo che attaccate alle parole ci fossero anche delle cose che succedono.
Invece poi, proprio in quel periodo e qualche tempo dopo, ho capito anzi che sono proprio le parole che anticipano i fatti, o che li portano, li conducono a noi. I fatti senza le parole, da soli, così come sono, i fatti non sono capaci di fare male a nessuno.
Quando sei arrivato eri stato annunciato da alcune frasi di papà, come: tra qualche tempo arriverà questo fratello, sarà una buona cosa per te. Avere un fratello è un modo per non essere soli, per avere qualcuno con cui giocare e crescere insieme.
A essere sincera non mi ricordo. Non mi ricordo cosa papà diceva di te prima che arrivassi. A essere sincera mi ricordo solo, con precisione, della volta che in corridoio ho sentito la parola fratello detta da papà in relazione al fatto che ne sarebbe arrivato uno. E basta.
Se penso alla parola fratello, mi viene in mente il corridoio.
Anche qualche tempo dopo, quando la mamma ci ha detto che papà era morto, non so perché, mi viene in mente il corridoio. Perché è la prima cosa che ho visto dopo aver sentito la parola morte associata a qualcuno che conoscevo. Tutte le volte che c’era una parola nuova, io stavo o andavo in corridoio. Forse perché c’era uno spazio lungo, uno spazio per vedere le cose in prospettiva. Non so.
In ogni caso quando sei arrivato non eri un piccolo fratellino. Eri magro, sì. Eri magro e fragile. Ma non eri un fratellino. Eri uno che si faceva ampiamente i fatti suoi.
Con i miei giochi. Nella mia casa. Con mia madre e mio padre.
Un’altra cosa che mi è stata spiegata in quello stesso periodo è che l’amore non è come una torta. L’amore, anche se si divide, non rimpicciolisce. Ossia: tu tagli l’amore, ne tagli una fetta per Tizio, una fetta per Caio, poi arriva Sempronio, ne tagli una fetta anche per lui. L’amore di Tizio e Caio non si rimpicciolisce solo perché ce n’è una fetta anche per Sempronio.
In teoria.
Ma secondo me questa teoria aveva una falla.
Era una teoria fallace.
Non è vero che l’amore non rimpicciolisce se lo devi dividere.
Anche se non sapevo come dimostrarla.
Tu eri più smilzo, più silenzioso e più veloce. Però parlavi male e giocavi poco. Non disegnavi, non immaginavi niente. Con me non ti andava di fare alleanze. Eri il piccolo di papà. Era un fatto. Eri il suo piccolo privato. Papà ti insegnava le cose, ti spiegava, ti elogiava se facevi dei progressi e metteva sempre in evidenza se notava delle doti particolari in te. Per esempio, il fatto che tu avessi una certa predisposizione al calcolo matematico. Papà era molto ammirato dalla tua capacità di far andare i numeri in file ordinate e di sputare cifre significative.
Tu avevi la capacità di calcolare somme, differenze, divisioni, moltiplicazioni e altre considerazioni numeriche. E papà l’aveva notato e lo faceva notare agli altri. Era una cosa tua, una tua peculiarità positiva, che ti metteva in buona luce con lui e ti faceva risultare speciale e dotato. Ma come ho detto era una cosa tua. Una cosa che riguardava solo te e al massimo papà in forma di sfidante o spettatore.

 

Sterile: infecondo, incapace di concepire, di riprodurre; senza frutto, senza effetto.
Sterilizzazione: processo termico o chimico che ha lo scopo di distruggere ogni forma di vita in una sostanza o in un corpo qualsiasi; eliminazione della possibilità di generare. Un intervento al quale si sottopongono normalmente i portatori di malattie genetiche.

 

M.

Nostro padre, mio e di B., c’è scritto che ha fatto questa scelta da solo; nostra madre, mia e di B., concedette sì l’assenso formale, ma gli fece anche capire, a parole, che non era convinta del valore etico di quel gesto, che riteneva eventualmente più opportuno e meno autolesionistico avvalersi della facoltà di non riprodursi più attraverso l’utilizzo di mezzi alternativi quali profilattici o antifecondativi come la pillola (già in uso al tempo), diaframma (già in uso al tempo) o spirale. Questo è scritto qui, nel documento.
Ma nostro padre, mio e di B., ha deciso che la sua scelta interiore doveva comportare in lui un cambiamento definitivo. Irreversibile.
E in quegli stessi anni, mentre con tanta ferma determinazione nostro padre, il padre mio e di B., si batteva per evitare che vi fossero ulteriori nascite indesiderate, con altrettanta fermezza e volontà, si batteva per richiedere e ottenere l’adozione di un figlio.
Tutto questo faceva parte, secondo quanto riferito agli assistenti sociali, (ibid.) “del suo programma etico […] che non vi sia necessità di far nascere altri bambini quando ve ne sono attualmente in vita che versano in stato di grave abbandono, sofferenza e bisogno. Noi” – dichiara nostro padre, mio e di B. – “noi” dice, intendendo lui e sua moglie “possiamo e intendiamo offrire benessere a uno di questi bambini già nati”.
E io ero a tutti gli effetti un bambino già nato. Adottabile. In attesa che il principio etico del padre mio, e di B., si compisse come una profezia. Ero nato il giorno del loro matrimonio, avvenuto in municipio (non erano credenti) il giorno dodici marzo, giorno della mia nascita.
E poi sono stato adottato.
A seguito della richiesta formalmente pervenuta al Tribunale per i Minori, con allegata la documentazione richiesta, c’è tutto qui: colloqui, assensi dei familiari paterni. Dubbi e perplessità dei familiari materni, i quali dichiarano (ibid.) “non essere più di tanto convinti dell’idea della coppia di adottare un bambino”. Motivazioni: “Non se ne vede la ragione, hanno già una figlia, sono troppo giovani, un bambino adottato non sarà mai veramente tuo figlio” (nonna materna).
Quella bastarda non mi voleva.
Poi io sono stato portato a casa loro. A casa nostra, mia e di B., avevo tre anni e sei mesi, non camminavo perché ero stato tenuto troppo a lungo seduto.
C’è scritto che l’affidataria temporanea, la signora Ola, aveva sei bambini tutti provenienti dal tribunale dei minori, tranne uno, che era suo naturale. La signora Ola lamentava la fatica di gestire questi sei bambini tutti insieme e per tale ragione ne teneva alcuni, i più piccoli, il più possibile seduti su un seggiolone, consentendo loro di passeggiare, a turno, con una sorta di imbracatura-guinzaglio.
Questa limitazione forzata della deambulazione aveva, stando a quanto dichiarato dalla signora Ola (ibid.) “motivazioni igieniche e di sicurezza […] finalizzata ad evitare che i bambini potessero in alcun modo nuocere a se stessi e o recare danno ai beni della [di lei, della signora Ola] casa”.
Non so se la signora Ola prendesse un tanto a bambino, o percepisse uno stipendio forfetario.
In ogni caso (come poi si evince dal fatto dei bambini in affido temporaneo, uno – Tu – sia da lei stato richiesto in adozione; mentre gli altri, io e altri tre bambini di cui non ricordo i nomi, siano rimasti in stato di adottabilità) la signora Ola, in fatto di bambini, aveva le sue preferenze.

 

B.

Lui ti poneva un quesito numerico, del tipo seicentoquarantaquattro per novecentotré, tu stavi lì a far andare i numeri avanti e indietro per conto tuo e poi, dopo qualche secondo, mentre io cercavo di immaginarmi i numeri in fila nell’aria per organizzare una moltiplicazione, tu sputavi il risultato, papà sorrideva e annuiva come dire: che intelligenza. Una bella intelligenza.
Tutto qua.
La tua bella intelligenza numerica tu la usavi solo per far vedere a papà che ce l’avevi.
Infatti poi, quando papà è morto hai smesso, l’hai usata sempre meno, perché forse non trovavi nessuna motivazione nell’usarla così, a vuoto, senza nessuno che la guardasse e se ne stupisse.
Quando papà è morto la tua intelligenza se ne andata con lui nella tomba perché non ti serviva più. Era uno strumento legato a lui.
In ogni caso non sei mai stato stupido. Eri solo per conto tuo.
In più c’era la differenza di sesso, tra noi tu eri un maschio e ti piacevano cose da maschio. Eri abbastanza rigoroso. Ti piacevano i Playmobil, le macchinine, le figurine dei calciatori, le biglie di vetro (abbastanza), alcuni tipi di Lego e un po’, ma non molto il Big Jim. Tutte cose che a me non piacevano, perché essendo femmina mi piacevano le bambole, in particolare le Barbie; il maschio di Barbie non era Big Jim, era Ken. Ma a te Ken non piaceva, ti piaceva di più il Big Jim, che per Barbie era fuori misura. Cioè era troppo piccolo. Aveva la testa e il corpo troppo piccolo. Ma tu il Ken non lo volevi usare. Ti piaceva di più il Big Jim, perché il Big Jim dicevi che poteva muovere il braccio muscoloso in su e in giù se gli schiacciavi la schiena, mentre il Ken, dicevi che non poteva muoversi. E perciò non ti piaceva. Allora io con le Barbie giocavo da sola. Dato che una Barbie col Big Jim non erano compatibili. Erano di due specie differenti. Come i lombrichi e gli ippopotami. Una Barbie non poteva giocare con un Big Jim. Era evidentemente sbagliato e orrendo. Ma siccome tu il Ken non lo volevi prendere perché non si muoveva il braccio come il Big Jim, siccome il Big Jim ti piaceva di più, tu alle Barbie con me non ci giocavi e basta. E non te ne fregava niente di giocare con me o no. Tu potevi giocare anche da solo. Non avevi bisogno di giocare con me, mentre io avevo bisogno di qualcuno che mi tenesse il Ken, perché il Ken era maschio e le femmine non si divertivano a tenere il Ken. Perché il Ken non aveva vestiti, o comunque non ne aveva molti come le Barbie, e aveva i capelli disegnati e non si poteva pettinare. Anche se poi, a dir la verità, han fatto anche il Ken coi capelli, ma quello è stato dopo e noi non giocavamo più né io con le Barbie né tu col Big Jim.
In più eri collezionista di tutto. Collezionavi francobolli, simboli di bandierine, fogliettini dei chewingum, puntine da disegno, medaglie, scherzi di carnevale, denti, figurine doppie, adesivi pubblicitari, monete straniere e altre cose.
Più che un collezionista eri un conservatore. Conservavi le cose nei cassetti. Le tenevi in ordine rigorosissimo. Senza un perché. Le conservavi in ordine e basta.
Dopo il tuo arrivo io non mi sono mai lamentata di te. Una volta, pochi giorni dopo il tuo arrivo, papà mi ha chiesto come andava con te. Era evidente che non si trattava di una vera domanda. Ossia: era una domanda di rappresentanza, perché anche se avessi detto che per me andava male, non sarebbe successo un bel niente. Anche se avessi detto che tu non mi piacevi, che avrei preferito riportarti indietro e scegliere un altro fratello, o anche stare senza fratelli del tutto, non sarebbe successo niente.
Era una domanda trabocchetto, fatta per vedere se ero buona dentro. Se fossi stata buona dentro avrei risposto: bene. Se non fossi stata buona dentro avrei risposto: male.
Era una domanda tranello. Forse addirittura una prova. Forse papà era intenzionato a lasciare te e portare via me. Avrebbe tenuto te, che eri il migliore, il più agile e il più rapido nei calcoli matematici, e restituito me, che ero cattiva, una pessima sorella, egoista e buona a nulla in matematica.
Ho risposto in modo evasivo. Ho chiesto quanto tempo tu saresti rimasto ancora con noi, simulando un certo disinteresse per la cosa, come se non mi riguardasse poi tanto ma mi informassi solo per gentilezza e curiosità nei tuoi confronti. Papà mi ha risposto: “Per sempre”.
Per sempre.

 

M.

Allora la maggior parte dei bambini adottabili era meridionale o di origine meridionale. Io e te eravamo di origine meridionale. Anche se noi non siamo fratelli in tutto e per tutto. Portavamo lo stesso cognome: Cimmino. Ma non eravamo fratelli. Perché tu sei nato dopo. Un anno dopo. E sei nato da un altro padre. Mio padre, il mio vero padre, non mi ha riconosciuto e lui, Cimmino, il tuo vero padre, il compagno della nostra vera madre, ha riconosciuto anche me, dandomi il suo cognome che è anche il tuo, Cimmino, appunto.
Anche se non siamo fratelli perfetti, tu mi somigli, diciamo un cinquanta per cento.
Nostro padre, o dovrei dire il mio secondo padre per distinguerlo dal primo che mi ha abbandonato, e dal terzo che mi ha adottato, il Cimmino, insomma, quando sei nato tu, era operaio in Fiat. Ma poi, a seguito dei ripetuti ricoveri psichiatrici della sua compagna, la nostra vera madre, dovendosi occupare fisicamente dei bambini bisognosi di cure materne che la madre non era in grado di fornire loro, il Cimmino, causa la vita che gli franava sotto i piedi, lascia la Fiat e diventa raccoglitore venditore di ferro vecchio. Con un carrettino. Muore poi “per un incidente occorsogli sul lavoro” come riferisce qui “nel millenovecentottantasei”.
Avrà cambiato lavoro, come si può morire stipando ferro vecchio su un carrettino? Mentre nostra madre, la nostra vera madre, di lei c’è scritto che è ancora viva. Al momento attuale risulta in vita. Ha subito numerosi ricoveri psichiatrici ma nessuno di questi, evidentemente, l’ha uccisa.
Sembra che mi picchiasse. È scritto qui: “La signora T., dopo la nascita del secondo figlio, manifestava forte ostilità nei confronti del primo, più grande di solo un anno e un mese, il quale, a sua detta, piangeva troppo o troppo forte […] per tale ragione gli infliggeva colpi sulla faccia e sulla testa (test. Cimmino), con le mani”.
Poi il Cimmino non ce l’ha più fatta a tirare avanti, ha presentato richiesta di aiuto al Tribunale per i Minori.
“Non essendovi né nella famiglia della madre né nella famiglia del padre, parenti in grado di occuparsi dei bambini (trovandosi tutti in stato grave di indigenza), i bambini vengono affidati d’ufficio alla signora Ola, operatrice dei servizi sociali”.
Dalla signora Ola, io sono stato, stando a quanto dice qui, un anno e undici mesi. Prevalentemente seduto su un seggiolone, con acqua razionata, (ibid. “perché non si bagnasse”) talvolta, una o due volte al giorno, accompagnato per brevi giri della stanza con imbracatura-guinzaglio.
I documenti riferiscono infatti una mia difficoltà motoria, segnalata ai servizi dai nuovi genitori. Una difficoltà motoria dovuta a una disabitudine alla deambulazione, insieme ad alcune difficoltà di comunicazione verbale, di relazione e disordini affettivi.
Noi siamo stati separati perché la signora Ola, di noi due fratelli, ha adottato solo te.
C’è scritto che “probabilmente” anche questo può essermi stato causa di sofferenza.
“Appena arrivato nella nuova casa, M. ha fatto richiesta più volte di un bicchiere d’acqua, fino a riempirsene lo stomaco oltre misura e non c’è stato modo di spiegargli che l’acqua è sempre lì, che la può avere se la desidera. I primi tempi richiedeva M. acqua molto al di là delle sue reali esigenze, come per una sete mentale, più che fisica”.
Tu sei diventato il figlio della balia. Il figlio preferito. Io sono stato adottato e sono andato a vivere con loro.
Sapevo del mio passato, ma non mi ricordavo niente. In casa non si parlava mai di questo. Nessuno ne parlava. Neanche mia nonna materna e mio nonno materno hanno mai rimarcato che io fossi adottivo o che loro non mi volessero, come invece avevano dichiarato: “Perché adottare un bambino non è proprio il caso”.
Nostra madre, la madre mia e di B., a quanto sta scritto qui, all’inizio non era del tutto favorevole, ma ha accettato. In quegli anni non accettare di essere dalla parte di chi si schiera a favore dei più deboli, non si poteva. Si era in piena contestazione, si contestava un vecchio sistema e non ci si poteva sottrarre alla logica del nuovo. Nostra madre, la madre mia e di B., ha accettato per “non poter non accettare il fatto”. Per non sentirsi tacciata di perbenismo, di ignoranza, di egoismo, di vetusta logica piccolo borghese o di meschinità. Ha accettato. Studiava filosofia.
Nostro padre, il padre mio e di B., era lui che mi ha voluto di più. Mi adorava.
A quel punto avremmo potuto anche essere una famiglia perfetta.

 

B.

Eravamo in corridoio.
Poi ci sono state date delle cose. Siamo stati aiutati anche psicologicamente. Tu andavi da una psicologa che ti faceva fare dei disegni e ti faceva giocare e ti guardava. Anch’io andavo da una psicologa a disegnare e giocare e farmi guardare. Non si sa cosa queste psicologhe pensassero dei nostri giochi e dei nostri disegni. Non si sa cosa disegnassimo né che giochi facessimo. C’era del disagio. Era normale che ci fosse. Tu non parlavi bene ed eri abbastanza asociale. Io ero traumatizzata dall’idea che tu ci fossi e che ci saresti stato per sempre. Era normale che ci fosse del disagio.
Allora nostra madre credeva ciecamente nella psicologia. Aveva studiato filosofia all’università e si era laureata apposta per potersi dedicare interamente allo studio della psicologia. Nostra madre, avendo una cieca fiducia nella psicologia, riteneva che mandarci da uno psicologo a disegnare e giocare avrebbe potuto smuovere delle cose che sul lungo periodo avrebbero a loro volta aiutato delle cose a sbloccarsi e ad andare meglio fra di noi.
Ma noi questi psicologi li usavamo soprattutto per giocare con dei giochi nuovi, mai toccati da nessuno. Non mi pare che questo periodo nel quale ci mandavano a psicologi, sia stato un periodo di scoperte significative. Avevamo sette, otto anni.
Anche meno.
Andavamo da due psicologi diversi a disegnare e giocare per conto nostro. Che era più o meno quello che facevamo anche a casa. Ce ne stavamo per conto nostro.
Tu parlavi poco, e male. In compenso andavi bene coi calcoli. Io parlavo bene e disegnavo bene, ma ero disordinata in tutte le cose e i numeri non mi piacevano per niente. Tu eri il preferito di papà, lo saresti stato per sempre, e io per sempre sarei stata la numero due di papà. O forse anche la numero tre, con in mezzo un posto vuoto per qualcun altro che avesse voluto venire ad aggiungersi così, tanto c’era posto.
Poi papà è morto e le cose sono cambiate.
Quando la mamma ci ha detto che papà era morto tu stavi lavando i piatti. La mamma ti ha chiamato in soggiorno, per parlarci, e tu hai detto che stavi lavando i piatti e che volevi finire. La mamma ha detto che era una cosa importante e urgente, che i piatti li finivi dopo, e di venire in soggiorno che ci doveva parlare. Tu eri restio ma dopo un po’ sei arrivato in soggiorno, ti stavamo aspettando. Ti sei seduto su una sedia del soggiorno. Io ero seduta sul materasso del letto che usavamo come divano. Il materasso era di quelli di gommapiuma leggera, non era molto comodo come divano. Perché era un letto, in effetti. Era difficile starci seduti. Se stavi seduto non potevi appoggiare la schiena. Se appoggiavi la schiena, allora le gambe non potevano piegarsi all’altezza del ginocchio perché non erano abbastanza lunghe e non toccavano terra. Perché quello era un letto e non un divano, anche se noi lo usavamo come divano e lo chiamavamo divano. Perciò io stavo seduta sul divano, inginocchiata sul divano, vicino alla mamma, che anche lei era seduta sul divano con le gambe appoggiate a terra e la schiena ritta, senza appoggio. Tu sei arrivato e ti sei seduto. E c’è stato silenzio. Poi la mamma ha cominciato a parlare e da come ha cominciato si è capito, anche se non aveva ancora detto niente, si è capito che stava per dire qualcosa di nuovo. Qualcosa con le parole in un modo nuovo. Ché le parole, il significato delle parole, stavano per assumere per noi un valore che mai nella nostra vita avevano assunto in precedenza e che niente, dopo, sarebbe stato più al suo stesso posto, come significato. È stato come se tutte le parole del vocabolario si sollevassero un po’ e slittassero in avanti di un posto. E tutto questo quando nostra madre non aveva ancora pronunciato nessuna parola significativa, ma aveva solo cominciato a dire la parola papà, senza accostarla alla parola morte, che era il posto che da quel momento le sarebbe spettato per sempre. La mamma aveva solo cominciato ad accostare la parola papà, con cautela, alla parola incidente e alla parola montagna. La parola montagna non faceva male a nessuno, di per sé. La parola montagna era una parola che si poteva guardare. Anche la parola papà vicino alla parola montagna si potevano guardare, perché papà in montagna ci andava, e ci portava anche spesso a far le gite. Gite, durante le quali tu dimostravi la tua prodezza nel salire veloce senza stancarti, mentre io camminavo molto più piano anche a causa delle pietre che mi piacevano e che raccoglievo per portarle a casa. In ogni caso in montagna ci si andava con papà, era normale che la parola papà stesse in montagna. Ma la parola incidente associata alla parola montagna non c’era mai stata. Non che non potesse, dico solo che non c’era mai stata prima. Allora, mentre io mi sforzavo di organizzare nella mente tutte le combinazioni di immagini possibili tra la parola montagna e la parola incidente, tu stavi zitto. Stavi seduto, zitto, e fermo. E secondo me non immaginavi niente. Forse pensavi ai piatti. Che dovevi tornare di là a finire di lavare i piatti, dato che non ti è mai piaciuto lasciare una cosa senza finirla.

 

M.

Pochi anni dopo, però, proprio l’anno in cui l’adozione avrebbe dovuto essere confermata, nostro padre, il padre mio e di B., manifesta il proprio timore che l’adozione possa essere revocata a causa di una crisi interna alla coppia, la quale coppia, un anno e dieci mesi dopo l’adozione, ha infatti preso la decisione di separarsi. Dichiara però la coppia, di voler assolutamente tenere con sé il bambino, il quale, dicono le carte “aveva comunque fatto grossi progressi motori e di verbalizzazione”. La coppia dichiara inoltre di considerare la separazione solo a titolo temporaneo, esprime ripetute volte la speranza di risolvere certi problemi in alcun modo connessi alla presenza del nuovo figlio. Le ragioni esposte fanno riferimento piuttosto (ibid.) “a un bisogno di prendersi un tempo di riflessione, per riflettere sulla tensione generata dal fatto che la signora, studiando ed essendo spesso fuori casa per ragioni di studio (tirocinio psicologico presso il reparto di neuropsichiatria infantile presso l’ospedale XY) desiderando diventare psicologa, non si occupava minimamente della casa, mentre il signore, avendo interrotto i propri studi universitari per far fronte al mantenimento della famiglia, non si sentiva realizzato e pativa, molto, la casa sporca e in grave stato di trasandatezza. Mentre la signora non pativa in alcun modo questa trasandatezza casalinga considerandola da un punto di vista per così dire ‘dinamico’, funzionale ossia al raggiungimento di uno scopo da lei perseguito, ossia di un lavoro gratificante”.
La coppia si separa. C’è scritto.
Ricordo che nostro padre, il padre mio e di B., aveva preso in prestito un furgoncino di un ente no-profit, con all’esterno la scritta: “Trasporto Spastici”. Aveva cercato in tutti i modi di coinvolgerci con allegria e leggerezza (quasi una festa) all’operazione di carico e scarico dei propri libri ed effetti personali, dalla vecchia alla nuova abitazione (una specie di comune).
Ricordo che nostro padre, mio e di B., alla fine del trasloco ci ha portati in un bar, ha ordinato champagne anche per me e B. e ci ha detto, dopo una specie di brindisi al trasloco, che si trattava comunque di una separazione di prova. Coerentemente – noto – con quanto dichiarato allora ai servizi sociali. Alla fine di questo periodo di prova, con ogni probabilità, lui e la mamma, la madre mia e di B., sarebbero, forse, tornati assieme.
Bevendo quella coppa di champagne io e B. ci sentivamo come investiti di una responsabilità nuova. Una responsabilità di adulti che non potevano piangere né dispiacersi per cose futili da bambini. Abbiamo brindato come degli adulti.
Neanche dopo che papà, il padre mio e di B., è morto, ho mai chiesto niente sull’adozione e sulle mie origini.
Quando nostro padre, mio e di B., è morto, io e B. abbiamo realizzato che il periodo di prova della separazione tra lui e nostra madre, mia e di B., era finito.
È stata un’altra fine. Una delle tante.
In ogni caso da lì in poi le cose sono andate precipitando.

 

B.

In ogni caso poi, dopo la parola papà, i tempi erano pronti per far scivolare la parola morte. Morte. Papà e morte erano due parole che insieme funzionavano come un detonatore interno. Erano due parole che insieme facevano come una bomba interiore. E così, in quel preciso momento, mi sono alzata in piedi e sono andata in corridoio, per cercare un posto, uno spazio sufficiente a far esplodere quelle due parole nella mente, uno spazio per l’esplosione. E lì, in quel momento ho imparato la potenza deflagrante delle parole, che solo le parole hanno. La morte, senza le parole, non esiste. Quando nostro padre è morto, cadendo giù dalla montagna, noi non lo sapevamo. Non provavamo alcun dolore. Sono state le parole a tradurci il fatto in dolore. Le parole.
E allora poi ho camminato lungo il corridoio perché l’aria raffreddasse i pensieri e li rendesse visibili e li rendesse osservabili. Ma il corridoio non è bastato. Le parole avevano prodotto un’esplosione tropo grossa per un corridoio e noi non avevamo una grande casa a disposizione. Ci sarebbe forse voluta una piazza. Ma non c’era una piazza. E tu stavi ancora seduto, credo. Perché non ti vedevo. In corridoio, almeno, non c’eri.
Poi, credo, sei tornato, in silenzio, a finire il tuo lavoro dei piatti.
Non ci siamo parlati.
Ma tu le parole, quelle parole, non le hai toccate. Le hai lasciate lì. Io le ho mangiate, io sono deflagrata. Tu non le hai toccate. Sei stato prudente. Le hai lasciate sul pavimento del soggiorno. Tu avevi confidenza con i numeri, le parole non ti interessavano. E questo ti ha salvato. Se fossero stati numeri, se ci fosse stato un numero per dire papà, un numero per dire montagna, e un numero per dire incidente, e un numero per dire – definitivamente – morte, allora sì: tu saresti esploso, io mi sarei salvata. Ma non è andata così.
È andata che io stavo in corridoio a cercare spazio per le mie tre parole nuove mentre tu stavi ancora in salotto seduto sulla sedia. Non so cosa facessi lì seduto, non ti potevo vedere, ero troppo occupata con le mie cose in corridoio. Forse tu sei rimasto seduto lì perché non ti sembrava il caso di correre subito ai piatti, o forse ti sarai chiesto cosa questo fatto avrebbe comportato per te. Ma non credo. Secondo me non hai pensato a niente. Secondo me hai contato. Probabilmente hai contato fino a cento. O fino a centocinquanta. O forse hai contato fino a mille e cento. E poi hai moltiplicato tutto per duemilanovanta. O hai diviso tutto per tre e poi per nove e poi ri-diviso tutto per venticinque e moltiplicato tutto per sedici poi, quasi certamente, non ne sono sicura, ma credo di sì, sei andato a finire i piatti.

 

M.

Nostra madre, la madre mia e di B., si è costruita nel tempo una buona posizione sociale e ci ha fatto vivere nell’agio di una grande casa. Aveva poco tempo, ma non ci negava i soldi. Se glieli chiedevi te li dava, ma io non glieli chiedevo. Era come se non mi sentissi in diritto. Aspettavo che fosse lei, eventualmente, a offrirli. Ma lei non offriva, perché non aveva tempo o perché non ci pensava. Molte volte andavo a scuola in tram senza biglietto. Non avevo soldi e non volevo chiederglieli. Lei non lo sapeva. Non lo faceva apposta. Se chiedevi te li dava i soldi. Ma dovevi chiederglieli. B. glieli chiedeva. B. non aveva problemi a chiedere. Chiedeva. Io non chiedevo. Non mi veniva. Ma B. chiedeva, era molto viziata, e nostra madre, mia e di B., le dava quel che chiedeva. Era la sua preferita. B.
Raramente ho domandato a nostra madre qualcosa sulle mie origini, ma nostra madre, mia e di B., mi dava risposte stringate. Diceva: “Se vuoi fai richiesta. Quando vuoi. Se vuoi fare richiesta dimmelo. Facciamo richiesta. Io” diceva nostra madre, mia e di B. “non so molto, ma se vuoi si può fare richiesta”.
Lei non sapeva niente perché si era dimenticata. Era una zona della sua vita dove aveva subito una violenza, una coercizione, aveva dovuto adeguarsi a una scelta che preferiva non rievocare.
In ogni caso non parlavamo mai di questo. Io cercavo di non esserle di disturbo. Da quando nostro padre, mio e di B., è morto (aveva trentun’anni), ho sempre cercato di non disturbare. Se c’era da fare qualcosa la facevo. Lavare i piatti o altro. Ho sempre fatto tutto il possibile per non disturbare. Dato che ero un ospite. In un certo senso. Mi sentivo un ospite. Non mi pesava darmi da fare in casa. Pensavo: “Questo è il tuo modo per non chiedere, non chiedere aiuto, non chiedere amore, non chiedere informazioni”.
Mi sono esercitato. Da quando nostro padre, mio e di B., è morto non ho più chiesto niente. E niente – a parte nei tempi in cui nostro padre, mio e di B., era ancora in vita (mi riempiva di attenzioni, mi adorava: ero suo) – ho ricevuto.
A volte nostra madre, mia e di B., si arrabbiava con me, diventava furente e mi picchiava. Non mi ha mai fatto molto male: qualche volta erano sberle sulla faccia. Qualche volta calci nel culo. Era umiliante. Trovava delle scuse per arrabbiarsi con me, in realtà si arrabbiava perché non chiedevo.
Non avevo bisogno di lei.
Per molto tempo non ho avuto bisogno di nessuno. Ho giocato a scacchi. Non ho amato nessuno e nessuno mi ha amato.
Ci sono anni nei quali il tempo scorre più rapido, anni in cui più scorre lento. Non è successo niente. Niente di rilevante. Ho aspettato. Alle medie sono stato bocciato due volte. Nostra madre, mia e di B., non si è mai preoccupata del nostro rendimento scolastico. Non si preoccupava di noi. B., studiava da sola anche se nessuno le diceva di farlo, era promossa. Io non studiavo, ero bocciato. Nostra madre, mia e di B., non riteneva utile imporre le cose: se studiavi, studiavi; se non studiavi, non studiavi.
Alle Superiori sono stato bocciato altre tre volte. Una volta il primo anno, due volte il secondo anno. Quando ho interrotto gli studi avevo diciassette anni. Avevo perso molto tempo, ma la cosa mi lasciava indifferente.
Sono andato a lavorare. Avevo imparato a fallire senza perdermi d’animo. Ho fatto dell’indifferenza la mia forza: se qualcuno bussava alla mia porta io non rispondevo. Non avevo bisogno né di pietà, né di compassione, né di amore. Non li chiedevo, non li concedevo. Per il resto ero disposto a tutto. In casa, come ho detto, ero molto servizievole, praticamente un servo. Eseguivo degli ordini. Erano piccoli ordini, come mettere a posto qualcosa, lavare i piatti, fare commissioni, portare a spasso il cane. Anche B., se c’era da accendere o spegnere il televisore chiedeva a me di farlo. Sentivo che se mi fossi rifiutato, se mi fossi di colpo sottratto a quei servigi, l’equilibrio delle cose sarebbe cambiato. Ma non mi ci sono mai sottratto, mi piaceva solo sentire che avrei potuto farlo e che un giorno, forse, l’avrei fatto. Mi dava forza.

 

B.

Poi per molto tempo non ci siamo visti. Non ho ricordi di noi insieme.
Forse in quel periodo tu avrai ragionato su quel che era successo o forse hai smesso di ragionare. Papà era morto. Non c’era più nessuno che si interessasse ai tuoi calcoli.
Allora io e te, come fratelli, eravamo l’ultima delle cose alle quali valeva la pena di pensare.
Non eravamo più il problema principale, eravamo un problema secondario.
Così poi ciascuno di noi ha fatto come poteva, ciascuno per sé.
Non giocavamo più insieme. Forse non giocavamo più neanche da soli.
Mi dispiace dire queste cose, perché in definitiva non c’è nessuna differenza tra un fratello vero e uno adottivo. Che differenza potrebbe esserci? La somiglianza? Non so.
Sinceramente non credo che se ci fossimo somigliati le cose sarebbero andate diversamente.
Il problema è che poi le cose non sono andate in modo equo.
Io mi rendo conto.
Se tornassi indietro dividerei tutto per due: mezzo pane, mezzo arrosto, mezza scarpa, mezza bottiglia, mezza faccia. Anche l’amore dividerei per due. Tanto, come dicono, l’amore è l’unica cosa che se la dividi non diminuisce.
Allora noi eravamo in questa condizione. Avevamo perso parecchi pezzi. Come agli scacchi. Avevamo perso il papà, che era un pezzo grosso, come una specie di re. Ma il re agli scacchi è l’unico pezzo che non si può perdere. Si può anche perdere tutto, a scacchi, tutti i pezzi si possono perdere, ma senza il re non si può continuare il gioco. Noi avevamo perso il re e dovevamo continuare il gioco. Perciò abbiamo finta di niente; che il re non fosse il re, che il gioco continuasse lo stesso, come se nulla fosse.
Tu da quel momento non eri più un genio della matematica. Eri un lavatore di piatti.
Ti dedicavi con ostinazione alle cose umili, facevi i servizi di casa, ti rendevi utile. Io, per mio conto, non facevo niente. Cercavo il più possibile di tenermi libera da qualunque impegno. Non facevo niente perché non ero in grado di fare niente e anche perché c’eri tu che facevi tutto. Era il tuo campo, il fare. Il mio campo era: cercare di capire. Così, mentre tu facevi io cercavo di capire. Senza naturalmente riuscirci. Ma il gioco era quello. Io cercavo di capire, tu non cercavi di capire. Non ti interessava la realtà. Forse non ti era mai interessata o forse, più banalmente, non ti interessava più. Avevi già visto a sufficienza, non avevi più voglia. Tu ti occupavi delle tue collezioni, le tenevi a posto. E anche il resto: lo tenevi a posto. Io guardavo tutto quell’ordine, nei tuoi cassetti, e non ci capivo niente. Una volta ti ho chiesto cosa ne pensavi. Non sapevo da dove partire e sono partita dalla fine del discorso. Tu mi hai chiesto: “Di cosa?”. Ti ho detto: “Di papà”. Tu hai chiesto: “Cosa di papà?”. “Che è morto” ho detto io. Tu hai risposto: “Niente. Non penso niente”.
Eravamo al mare, mi ricordo che eravamo immersi a metà nell’acqua. Era già passato parecchio tempo, forse diversi mesi dalla tragedia e io te ne parlavo solo allora perché solo allora avevo trovato la forza di formulare una domanda su un argomento così difficile. Quando mi hai risposto “Niente”, ho sentito precisamente tutta la tua forza. Tra tutte le risposte possibili quella era l’unica che non sarei stata in grado di immaginare, eppure era la più semplice, la più semplice e insieme la più ostinata.
Così siamo diventati grandi. Per dire così.

 

M.

Sai cos’è che mi ha stupito di più? la cosa che mi ha più stupito di più è che appena ti ho visto ti ho riconosciuto. Mi somigli moltissimo, anche se siamo fratelli solo al cinquanta per cento. È la prima volta che incontro qualcuno che mi somiglia. Io e B. non ci somigliamo affatto. Com’è ovvio. Anche se talvolta qualche conoscente si sforzava di riconoscere in noi una qualche somiglianza nella bocca, nello sguardo, nel modo di abbassare gli occhi.
La gente vede quel che vuole vedere. Quando ti ho visto ho pensato che siamo alti uguali. Anche se in comune abbiamo solo la madre. Nostra madre, la nostra vera madre, ci ha dato la stessa altezza. E anche nel naso e nella bocca ci somigliamo.
Chiediamo a qualcuno qui, al cameriere, di farci una foto assieme: ci mettiamo vicini e ci facciamo fare una foto col bicchiere in mano, un brindisi. Il cameriere scatta la foto. Non fa nessuno sforzo a vederci fratelli.
Mi racconti di te. Della tua infanzia passata in casa della signora Ola, dopo che io non c’ero più, dopo che se n’erano andati tutti gli altri fratelli. I turisti. Eri rimasto solo tu, con un figlio naturale di Ola, la tua madre adottiva.
Di nostra madre, la nostra vera madre, non hai ricordi né notizie. Non sapevi neanche che fosse ancora viva né che fosse pazza. Era già pazza, quando siamo nati. Dicono che i pazzi non muoiono giovani, che la pazzia, dentro, li fa camminare sopra la morte degli altri.
Mi hai chiesto questo incontro, mi hai cercato a lungo, hai indagato tra le carte di Ola, le carte di affido temporaneo, hai trovato il modo di scovarmi, dopo quasi quarant’anni. Dici che l’avresti fatto anche prima, se avessi trovato gli indizi giusti. Sei un poliziotto, sei abituato a indagare. Ma non ti è stato facile.
Versi del vino. Bevi molto.
Della tua vita con tua madre adottiva non racconti molto, dici che non hai ricordi di guinzagli. Lei è stata buona con te, ti ha fatto da madre. Quando è morta otto anni fa, di cancro, hai davvero perso una madre. Ti è rimasto il fratellastro, il suo vero figlio, Aldo, più grande di te. È stato grazie a lui che sei entrato in polizia. Tra fratelli ci si dà una mano. Sei sposato. Anch’io. Siamo sposati a due donne straniere. Russia, Cuba. Beviamo alla loro salute. Hai due figli. Battezzati. Io un figlio, figlio di mia moglie, che deve arrivare, in novembre. Ha sette anni. Il padre, il vero padre – dice mia moglie – che è un poco di buono, uno spacciatore, un pappone, o qualcosa del genere. Lo dimenticherà, questo padre, e ci vorremo bene. Lo porterò alla partita di calcio, gli insegnerò a giocare agli scacchi. Mia moglie sono tre anni che non lo vede, che lo aspetta. Lavora da un parrucchiere. Dovevano esserci le condizioni economiche per il ricongiungimento. Ho firmato. Per me va bene. Un figlio, tuo o no, prima o poi ci vuole.

 

B.

Abbiamo fatto la nostra strada, ciascuno per conto suo. Anche se non è vero che due persone che vivono insieme anni, sotto la stessa madre e sotto lo stesso padre, possano fare la propria strada ciascuno per conto proprio.
Ci sono cose che, anche se uno le dice convinto, non sono vere. Ci sono cose che uno se le dice più per convincersi o per convincere gli altri. Questa, che noi abbiamo preferito fare la nostra strada ciascuno per conto suo, è una cosa che ci siamo detti dentro e che abbiamo detto agli altri, per anni, per giustificare il fatto che non abbiamo trovato da nessuna parte segni di una nostra fratellanza. Non abbiamo prove.
(Due fotografie della nostra infanzia ritraggono: me in primo piano che tendo un arco con la freccia contro qualcosa, che potresti essere tu; te, in primo piano, intento a guardare qualcosa dalla mano di papà, con un pezzo della mia faccia tagliata via dal campo come un oggetto insignificante.)
Per questo noi crescendo ci siamo poi detti che tra le tante tipologie di possibili fratelli al mondo noi eravamo la tipologia di quelli che non camminano insieme. Come Caino e Abele, Eteocle e Polinice, le sorellastre di Cenerentola e Cenerentola. Ci siamo detti che non è detto che due, per il solo fatto di essere fratelli debbano camminare mano nella mano, confessarsi segreti, sostenersi e incoraggiarsi, difendersi reciprocamente, essere leali, correre rischi o fare sacrifici di qualunque tipo. Essere quel genere di fratelli, come Hansel e Gretel, Qui Quo Qua, come Ivan e Mitia Karamazov, per dire, è una cosa che non si decide. È un fatto. Essere figlio o cugino o madre o padre non si fa fatica, perché non comporta scelte, comporta una tacita accettazione di fatti, che a loro volta questi fatti comportano l’accettazione di altri fatti, come, nel caso dei fratelli, l’andare a sciare insieme o fare l’albero di natale insieme o dar fuoco a qualcosa assieme, cose che i fratelli quasi sempre fanno, e tale accettazione dei fatti porta poi all’identificazione del passato come un tempo felice e all’idealizzazione delle persone con le quali questo tempo passato è passato, come ad esempio – appunto – i fratelli.
Il nostro essere fratelli è stato quasi fin da subito un cattivo presagio. Ed è per questo, secondo me, che noi non abbiamo saputo e non siamo stati capaci di inventarci un modo nostro, più amichevole, più caldo, di essere fratelli.
La mente di nostro padre ha concepito il tuo arrivo, anticipato qualche settimana prima dal discorso sul fatto che sarebbe arrivato un fratello e che sarebbe rimasto nella nostra vita “Per sempre”, con l’elenco dei vantaggi, per me, dell’avere un fratello, vantaggi ai quali mai, neanche per un attimo, io avevo creduto.
Sei entrato in casa, hai trovato una camera con dei giochi (miei) e un letto a castello; si è deciso sul momento che tu saresti stato in quello di sotto e io in quello di sopra.
All’improvviso, come per una magia, anche se non ci conoscevamo, dormivamo nella stessa stanza, avevamo lo stesso papà, la stessa mamma, lo stesso diritto a essere amati, condividevamo la stessa sorte, eravamo fratelli.
Ma nessuno, neanche papà, guardava con gioia alla nostra fratellanza.
Papà guardava con gioia a te, ti teneva con sé, ti fotografava, ti insegnava gli scacchi, si esaltava per i tuoi progressi linguistici e tesseva le tue lodi; la mamma guardava con più gioia a me, perché avevo un modo di comunicare che le risultava più naturale, o perché ero femmina o perché ero venuta da dentro di lei. In ogni caso, per quel che ricordo, nessuno mai, né nostro padre, né nostra madre, né i nostri nonni e bisnonni materni e paterni hanno mai guardato a noi come a una coppia di fratelli, qualcosa da guardare insieme, nella sua unità. C’era sempre chi preferiva te e chi preferiva me, chi teneva per te, chi sosteneva me. Era la nostra battaglia: da quando sei entrato in casa “Per sempre”, si è capito che quella non sarebbe stata una convivenza fraterna, perché nessuno la vedeva come tale. Tu eri entrato in casa per affermare il diritto di papà a essere padre di un figlio su misura sua, un figlio che attestava la sua rettitudine e la sua coerenza morale, mentre io ero il simbolo del reazionario e del conservatore, ero figlia di un amplesso cieco, amorale, di un atto animale senza consapevolezza e privo coscienza. Io rappresentavo il primordiale, il primitivo, ciò che papà aveva deciso di rimuovere da sé sottoponendosi all’intervento di vasectomia (per impedire al caso di decidere), tu invece eri il moderno, il post cristus natus, il passo consapevole di nostro padre verso dio.
Anche se non lo sapevamo noi eravamo due specie di polli da combattimento ingaggiati per combattere una battaglia di principi, tu i principi di nostro padre, io quelli di nostra madre. Era una battaglia senza esclusione di colpi, alla quale tutti, chi da un lato chi dall’altro, partecipava con trasporto.
Finché poi papà non è morto e la battaglia ha dovuto dichiararsi sospesa per sempre, per iniquità. Infatti io avevo vinto. Si può dire. Ma avevo vinto solo perché tu, nella lotta, avevi perso l’allenatore. Dopo la morte di papà non c’era più motivo di fare a gara per dimostrare chi di noi fosse migliore, perché la gara aveva smesso di avere significato, e anche noi, in qualità di fratelli, non avevamo un significato, eravamo due sfortunati, figli di un eccesso di zelo e di una disdetta.

 

B.: Allora?
M.: Mah.
B.: Come te la cavi?
M. Boh.
B.: Lei?
M.: Non so.
B.: Tutto bene?
M.: Abbastanza.
B.: Hai parlato alla mamma.
M.: No. Non mi va che lo sappia.
B.: Va bene.
M.: Non mi va di dirglielo. Cazzi suoi.
B.: Va bene. Allora non glielo dico.
M.: Cazzi suoi.
B.: Non glielo dico.
M.: Non glielo dire.
B.: Com’è andata?
M.: Bene. L’ho visto.
B.: Dove?
M.: In un bar.
B.: E allora?
M.: Niente.
B.: Gli hai detto qualcosa?
M.: No.
B.: Gli hai detto di vostra madre?
M.: Dice che vuole andare a trovarla ma a me non me ne frega niente. Non me ne frega niente di andare a trovarla. È una cosa che non mi interessa andare a trovarla.
B.: Gliel’hai detto?
M.: No.
B.: E lui?
M.: Vuole andare.
B.: Gliel’hai detto che è pazza?
M.: Gli ho detto quello che c’era scritto.
B.: E lui?
M.: Vuole andare
B.: E tu?
M.: No. È una cosa passata.
B.: Una cosa passata.
M.: Sì.
B.: Ho dei vestiti che a Saro non vanno più. Ti servono?
M.: Vediamo.
B.: Sono nel sacchetto qua.
M.: Grazie. Li prendo.
B.: Non gli vanno più.
M.: Mi ha detto la zia che sei stata male.
B.: Sì?
M.: Adesso?
B.: Tutto bene.
M.: Bene.
B.: Bene. Scarpe?
M.: Non so.
M.: Sono usate poco. Certe scarpe Saro le ha usate pochissimo. (Annusa) Sono nuove.
M.: Sì.
B.: Nike.
M.: Ah.
B.: Le metto nel sacchetto.
M.: Allora noi andiamo che domani devo alzarmi.
B.: Va bene. Allora ci vediamo. Magari.
M.: Va bene. Allora ciao.
B.: Ciao.
M.: Ciao.
B.: Ciao.
M.: Va bene.
B.: Ok.
M.: C’è nebbia. Dobbiamo andare.
B.: Sì.