Giannino

di

Alberto Patelli

 

Incontrai per la prima volta Giannino casualmente.

Quel pomeriggio, ricordo, il cielo era grigio e non prometteva niente di buono.

Ero seduto nel mio piccolo studio ma non sapevo cosa fare. Avrei dovuto sbrigare delle faccende familiari ma non ne avevo voglia nè sentivo il desiderio di impegnarmi in qualsiasi attività che occupasse il cervello. Il cervello, lui, era già impegnato in vane elucubrazioni sul tempo che passa senza che gli si riesca a dare un senso compiuto.

Il mio cervello è spesso in lotta col mio essere . Si sente umiliato, tradito; pensa , forse giustamente , di poter sfruttare di più le proprie capacità ma si sente ingabbiato in un animo pigro, pazzamente stanco di non so cosa. La lotta tra me ed il cervello mi stressa e per uscire da questa situazione decido spesso di impegnarmi in attività fisiche.

Quella volta ruppi gli indugi uscendo in bicicletta. Dopo poche pedalate capii che il gironzolare per il quartiere -che conosco fin troppo bene e tutto sommato mi piace poco -finiva per riportarmi ad uno stato d’animo simile a quello per il quale avevo deciso di uscire di casa.

Mi diressi verso una piccola stradina che sapevo andare in direzione di una collinetta al di là della quale avrebbero dovuto esserci campi coltivati. Dico "avrebbero" perchè quella stradina l’avevo percorsa solo qualche volta a piedi per un centinaio di metri, fino alla fine dell’asfalto. Ora avevo voglia di natura, di spazio , per quietare la mia noiosa lotta interiore. Avrei finalmente visto cosa c’era oltre il piccolo rilievo. Inizialmete pedalare sulla strada sterrata fu agevole. Il fondo era piuttosto regolare e bisognava solamente evitare piccole pozzanghere che la pioggia del mattino aveva lasciato quà e là. Ai lati della bianca carreggiata, alti rovi si mostravano pieni di more ormai prossime alla maturazione..sulla strada non c’era nessuno e iniziavo a sentirmi a mio agio.

Lo sterrato pian piano si restringeva. Dopo aver attraversato un piccolo ponticello che guadava un canale di irrigazione, la strada cominciò a salire . La pendenza aumentava gradualmente e presi a sudare ma già vedevo la sommità della collina e decisi di continuare.

La strada si fece impervia.

Il fondo, fatto di un misto di ghiaia e fango, non dava alle ruote una sufficiente aderenza e slittarono più di una volta rischiando di farmi perdere l’equilibrio.

Ad un tratto fui costretto a mettere un piede a terra. Scesi dalla bici; la salita era ripida e non ce l’avrei fatta a ripartire da fermo. Ero stanco e fui tentato di tornare indietro...d’altronde sarebbe stata la cosa più logica in quelle condizioni: la strada era diventata ormai un sentiero, ero in abiti borghesi e mi sarei infangato.

La vegetazione ancora umida che costeggiava il percorso, occupandolo parzialmente in alcuni punti, avrebbe poi finito per bagnarmi, accentuando il senso di disagio fisico che provavo in quel momento. Ma c’era in me uno strano desiderio di proseguire, di arrivare lassù per guardare oltre...come se qualcuno mi avesse fissato un importante appuntamento che, se mancato, avrebbe destato un grave senso di colpa.

Puntando bene i piedi per non scivolare nel fango, proseguii trascinandomi a braccia la bicicletta. Ci vollero non più di dieci minuti per arrivare in cima ma ricordo che quell’ultimo tratto fu molto faticoso.

Appena su appoggiai a terra la bici e, piegando le gambe, misi le mani sulle ginocchia per riprendermi dal fiatone. Poi, lentamente mi rialzai, finalmente pronto per guardare intorno.

Il colmo della collina era a schiena d’asino e si prolungava ad occhio e croce per circa un chilometro verso levante. Lo ricopriva un tappeto di bassi sterpi secchi tra i quali già spuntavano teneri fili d’erba autunnale. Il verde chiaro del giovane prato era interrotto ciclicamente da otto alti pini disposti a coppie tra le quali sembrava intercorrere la medesima distanza, all’incirca duecento metri. Il fatto mi sembrò curioso; qualcuno diversi anni addietro aveva voluto dare un aspetto simmetrico a quella sommità. Non trovai altre spiegazioni se non una ragione estetica.

Mi sentivo meglio ora e continuai a girare lo sguardo respirando intensamente. Proprio avanti a me, la collina declinava dolcemente verso un largo pianoro in parte coltivato. Grandi fette di terreno erano state da poco dissodate e la pioggia ne aveva scurito il colore tingendole di un marrone intenso, affascinante.

Laggiù varie tonalità di verde si alternavano tra i campi lasciando intravedere un piccolo sentiero che attraversava serpeggiante la piccola valle. E proprio su questo sentiero, accanto ad un olivo isolato, mi accorsi esserci un bambino.

Ma era veramente un bambino ? La distanza in linea d’aria tra me e quella figura umana sarà stata di circa centocinquanta metri; dunque ad una prima occhiata avrei potuto essermi sbagliato... avrebbe potuto trattarsi di un uomo di piccola statura... ma il dubbio era motivato più dall’incredulità di vedere un bimbo solo in una valle che non dal sospetto di aver visto male. Nella piccola borsa che tengo sotto al sellino della bici, tra le altre cose c’è un piccolo binocolo. Lo presi e,.. si, era un ragazzino di otto o nove anni.

Mi appostai dietro ad un pino. Non volevo che mi vedesse.

Bruno di carnagione, corporatura esile, indossava una maglietta a strisce orizzontali bianche e rosse e un paio di pantaloncini blu che gli arrivavano poco sopra al ginocchio. Fermo, immobile, come ipnotizzato , guardava fissamente in una direzione. Staccai il binocolo dagli occhi e, girando il capo, scoprii cosa attirava prepotentemente la sua attenzione. Il rudere di una vecchia torre si ergeva su una piccola altura alla mia sinistra. Decine di cornacchie le volavano attorno gracchiando e, con il cielo plumbeo, davano a quel quadro un senso ammaliante e nel contempo misterioso, spaventevole. Certo una visione del genere, se colpiva una mente adulta, chissà che fantasie aveva scatenato in quella fertile e dinamica di un fanciullo !

Portai di nuovo il binocolo agli occhi e puntai il viso del bambino per trovarvi impressa una espressione sognante...Ma rimasi turbato.

C’era, su quel volto, la voglia di una favola felice che tuttavia non riusciva a completarsi. Gli occhi intelligenti velati di una appassionata malinconia, esprimevano più di ogni parola la ricerca di un appagamento soddisfatto solo parzialmente.

Chinai il capo sentendo una stretta al cuore.

Il bimbo era sempre lì, immobile, davanti alla sua torre, chiedendole forse di aiutarlo ad afferrare un sorriso tanto agognato...

Mi chiesi cosa poteva spingere una giovane creatura ad isolarsi così, a cercare la felicità in un vecchio rudere piuttosto che nei giochi con i coetanei.

Quale storia si nascondeva dietro ai sentimenti che, incredibilmente, quel tenero faccino riusciva ad esprimere ?... Ed immaginai proprio quello che successivamente confermò una mia discreta ed amorevole indagine.

Immaginai insomma un bambino inascoltato, trascurato da genitori sempre in lite tra loro, insoddisfatti delle proprie esistenze e incapaci di dare spazio al desiderio di attenzione di un figlio. Un figlio che non fa "capricci", che non chiede di soddisfare bisogni materiali ma che vorrebbe scoprire nel papà e nella mamma un gesto di comprensione, che ha la necessità di un camminare per mano che parla di affetto, di solida unione. Un bambino capace di sentire quanto grigio squallore c’è nella nostra epoca e che legge nei volti degli adulti la sottomissione ad una società che corre insensata e frenetica disinteressandosi e, spesso non comprendendo, la sensibilità di un fanciullo.

Giannino, questo il suo nome, non è un misantropo ma sa che la prepotenza, l’aggressività, la volgarità dei nostri tempi si sta insinuando anche nei giochi tra bambini. E allora, quando tutto questo gli è diventato insopportabile, ha cercato un posto dove fosse possibile liberare la voglia di buono, di bello, di positivo che c’è in lui. Ed il posto è quella valle, quella vecchia torre diroccata dove, adesso, torno spesso anche io. Fissando il volo di nere cornacchie, spero di ritrovare la voglia di sorridere.