Gli Altri
Indagine sui nuovissimi mostri

di Nicola Borghesi e Riccardo Tabilio

© 2020. Tutti i diritti sono riservati

 

 

I.

UNA PARABOLA INDIANA
 

Nel buio vengono riprodotte le Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach, interpretate da Glenn Gould. Appare, sullo schermo in fondo alla sala, un collage di immagini giornalistiche: la folla assiepata al porto di Lampedusa la notte del 29 giugno 2019 per lo sbarco della Sea Watch 3 e l’arresto della comandante Carola Rackete. Le immagini scorrono mute sulle note del pianoforte.

Entra Nicola a bordo palco, illuminando prima il pubblico, poi se stesso con la torcia del cellulare. Finché si rivolge agli spettatori.

Un uomo retto e pio, che aveva trascorso tutta la vita nella meditazione, nella virtù e nella preghiera, ebbe un giorno l’occasione di incontrare il dio Shiva. E gli pose una domanda: o grande Shiva, quante volte dovrò ancora reincarnarmi prima di sciogliermi nell’immensità, nel Nirvana, nel Vuoto? Se ti amo, ti venero, ti onoro ogni giorno, quante vite dovrò ancora vivere?
Nove.
Nove?
Nove…
E se invece ti odio, quante altre vite dovrò ancora vivere?
Tre.
Tre?
Tre.

Le Variazioni Goldberg si interrompono.

Perché se mi odi tu mi penserai sempre.

 

 

II.

NOI E LORO
 

La gragnuola di insulti della folla contro Carola Rackete irrompe sulla scena, riprodotta insieme alle immagini dello sbarco. Nicola raggiunge il centro del palco, dove sta un microfono. Ascolta e ribatte gli insulti della traccia audio, pronunciandoli uno per uno, quasi tra sé.

Spero che ti violentano ’sti negri… A quattro a quattro te lo devono infilare… Le manette… Zingara…

Silenzio. Audio e video si dissolvono. Luce piena.

(Al pubblico) Noi e loro siamo diversi.

Pausa.

Noi e loro siamo diversi… Io – che è una parola che si fa sempre fatica a dire… “io”… Io e lui siamo diversi. Lui che parla, lui che si sente più degli altri, si chiama Mario Lombardino. Mario è un mio amico… Di Facebook. E io e Mario siamo diversi. Per molte ragioni. Intanto non siamo la stessa persona… Poi lui, per esempio, ha una figlia, mentre io – uh, si fa fatica a dire io – non ce l’ho una figlia, non ho un figlio. Mi piacerebbe avere un figlio, però… non ce l’ho. Forse lo avrò, però non ce l’ho e lui ha una figlia.
Poi, per esempio, un’altra cosa che ci distingue – e non è una questione di “meglio o peggio” – io non penso di essere migliore di nessuno… Be’, in effetti io penso di essere migliore di quasi tutti, però se ci penso, razionalmente, davvero, io capisco che non sono meglio di nessuno. Neanche di Mario Lombardino. Io non credo di avere niente da insegnare a Mario Lombardino. Se io mi guardo, come sto al mondo io, le mie giornate, quello che faccio, vedo che io non ho niente da insegnare nemmeno a Mario Lombardino.
Ecco, un’altra cosa che ci distingue, per esempio, è il fatto che io – difficile dire io! – io per esempio non ho mai detto quelle cose in pubblico. E credo che nessuno di noi, “noi” che siamo qua oggi, noi quelle cose… Io credo che nessuno di noi le abbia mai dette quelle cose in pubblico. Io pensavo a questo – cioè io ora una figlia non la posso fare… – ma pensavo: ecco, ora c’è un pubblico! Ci siete voi. E che cosa succederebbe se io quelle cose ora le dico in pubblico? Cosa succederebbe? Saremmo un po’ meno diversi, forse, io e lui. Noi e loro. Ecco, allora io per tutti voi adesso mi sacrifico – io per voi – noi per loro. E provo a dire quelle parole. E alla fine vi dico come è stato. Provo a capirci qualcosa. Allora io vado lì e le dico!

Va al microfono, prende un respiro, mette le mani “a cucchiara”. Si interrompe e ride. Torna in proscenio.

Ecco: capito? La prima cosa che io faccio se devo dire quelle parole in pubblico è questa, no? Perché lo faccio? È uno stereotipo! È un cliché. E perché faccio così? Per dire subito, a voi – a “noi” – che io non sono dei “loro”. Io – difficile dire questa parola – io segnalo: «Ah, guarda, quelli là! Quelli che fanno la mano a cucchiara – quelli là!». Che poi nel video non si vede che fa così! E allora io devo segnalare questa differenza. Questa distanza. E allora io sai cosa faccio? Io la dico proprio neutra. Io dico quelle parole, mi prendo quella responsabilità di dire quelle parole, qua davanti al pubblico. E poi vi dico com’è. Senza cliché o stereotipi.

Va di nuovo al microfono. Secondo fallimento, non ce la fa nemmeno a iniziare. Altro disagio e altra risata.

Eh. Non c’è niente da ridere. Non è che rido davvero: è una cosa nervosa. Perché se rido prima, voi capirete che «io non sono come loro, io dico quelle parole – ma non sono come loro!». Ma adesso io vado e dico quelle parole. Ma è una cosa nervosa. Adesso noi stiamo qua finché non le dico. C’è mica fretta.

Terzo tentativo. Con enorme disagio, pronuncia le parole. Si interrompe dopo un po’.

Ti de… ti devono stup… ti devono stuprare i negri, puttana.
A quattro a quattro te lo hanno a infilare, zingara.
Ti piace… ti piace… ti piace il cazzo neg…

Torna in proscenio stizzito: neutro non funziona.

Ma no, vedi? Sono anni che nelle accademie di teatro ci fregano con ’sta storia del «less is more» «less is more» «less is more», ma invece «less» è niente! Io non ho sentito niente. Ero nel ruolo di quello che diceva la cosa in neutro. Io dico la cosa in neutro e… Ma io invece qua devo dirla! Perché loro non pensano mica. Siamo noi invece, che pensiamo – ma adesso io vado là e lo dico – vado là…

Fomentato torna al microfono e grida, tutto d’un fiato.

Ti devono stuprare i negri, puttana, a quattro a quattro te lo devono infilare, zingara. Ti piace il cazzo negro?

Si stacca dal microfono quasi nauseato: «Dah!».

Mmh. Cioè meglio. Perché qualcosa io cominciavo a… Sai cos’è? Ma sì, è chiaro! Perché c’è qualcosa di liberatorio. E sai perché? Lui non è mica da solo. Loro si fanno forza a vicenda. Sanno fare gruppo. Stare insieme! Visto come si sostenevano? «Venduta, venduta!» E quindi io vi domando… se mi date una mano.
Cioè, io vi capisco: quando io vado a teatro e un attore mi chiede di fare qualcosa, una parte di me muore. E penso: «Ma che cazzo vuoi? Hai voluto fare lo spettacolo? Fai lo spettacolo! Ti pagano? Eh, a me non mi pagano! Cazzo vuoi?». Ogni volta che mi chiedono di fare una cosa a teatro, a me mi girano i maroni. Però qua secondo me ha senso, un po’. Intanto perché oggi ci sono qua io… Ma soprattutto perché, quelli là… insomma c’è una circostanza data importante per fare questa cosa. Non vi chiedo di parlare, sarebbe troppo imbarazzante. Perché… vedete? Noi, siamo tanti “io”, tutti separati… Ma invece buttiamoci! Fate così!

Batte sul palco, gridando: «Venduta! Venduta! Venduta!». Fomenta il pubblico a fare lo stesso.

Eh, così! Dai! Dai! Dai!

Torna al microfono stracarico. Grida.

Ti devono stuprare i negri, puttana, a quattro a quattro te lo devono infilare, zingara. Ti piace il cazzo negro?…

Striscia sotto la scarica di insulti la canzone Can the Can di Suzi Quatro, e – con il suo shuffle di batteria – sale di volume, quasi schiacciando la voce di Nicola.
Un momento di disorientamento: «Che cosa sto facendo?».
In dissolvenza incrociata
Can the Can scompare e ritornano le Variazioni Goldberg.
Nicola si ritrova da solo, e si interrompe. Rimane immobile. Si riscuote: va a prendere un cubo, lo piazza in proscenio. Si siede, come per parlare. Poi ci ripensa e allestisce una panca da studio psicanalitico. Si stende. Si fa silenzio.

(A un immaginario psicanalista, parte a soggetto) Allora: come mi sono sentito… Eh… All’inizio comunque agitato… Perché comunque io in scena – son quindici anni che vado in scena, però ci ho sempre l’angoscia… Ma dopo un po’, certo: imbarazzo! Io non le conosco queste persone – io nel pronunciare queste parole – e poi mi chiedevo: si possono dire queste parole, in scena? Cioè, sono parole grandi queste: «Puttana! Stuprare! Zingara! Cazzo negro!». È una cosa grande il «cazzo negro» – sono parole forti! potenti! Io quando ho detto queste cose ho sentito come un clic, ho sentito che ho gettato il secchio in un pozzo da qualche parte nel mio animo dove c’era della roba importante – cioè se io non dico quelle parole «cazzo negro», «puttana», «zingara», «stuprare»… io va a finire che mi ammalo – cioè: a me ha fatto bene dire quelle parole, ne ho tratto un giovamento. A me ha fatto bene, a me è piaciuto, a me è piaciuto! (Si rivolge al pubblico) È normale?

 

 

III.

COME MARIO E IO SIAMO DIVENTATI AMICI
 

Scandisce il tempo la suoneria di una chiamata Skype.
Per tutta la sequenza, alle spalle di Nicola, appaiono le immagini delle pagine web e dei social network che cita.

Vado su Google. E scrivo «insulti sea watch» e mi saltano fuori una serie di articoli su questa storia di due anni fa: la Sea Watch 3, nave di una ONG impegnata nel Mediterraneo, forza il blocco imposto dalle autorità italiane e attracca nel porto di Lampedusa. L’operazione solleva un’onda di insulti e di odio anche sui social, tipo questa frase qui (indica un commento Facebook isolato sullo schermo): «Impalamento (con tubo d’acciaio che le entro dalla figa e le esca dalla bocca) in pubblica piazza».
Ed è qui che incappo nel nome di Mario Lombardino, che è quello che ha gridato quelle parole.

Un articolo su Mario scorre alle sue spalle.
Si ferma sulla battuta «Non sono razzista: ho molti amici di colore».

La stampa lo ha preso d’assalto, e viene fuori un altro video di Mario Lombardino. In cui Mario Lombardino si scusa, con le donne, in generale. E anche con se stesso. E dice che quelle cose le ha dette perché il giorno prima tre tunisini avevano molestato la sua fidanzata. Interessante.
E allora cerco su Facebook: «Mario Lombardino».

La bacheca Facebook di Mario scorre dietro Nicola.

E subito mi viene fuori quel Mario Lombardino: lo riconosco subito. Ma certo, è lui! Guardo il profilo: l’immagine di copertina è una pizza, non può che essere lui. E allora comincio a scrollare, scrollo verso il basso, scrollo verso il basso. Ed è una bacheca piena di frasi motivazionali, post che promuovono la sua pizzeria, frasi di incoraggiamento a non mollare mai. «Mi hanno gettato in mezzo ai lupi: ne sono uscito capobranco.» E poi cuori, fiori, gif di peluche con gli occhi a forma di cuore intermittenti. Soprattutto sotto le foto di sua figlia: sì, perché Mario Lombardino ha una bambina – una bambina grande. Florida.
Scrollo ancora verso il basso. Scrollo ancora verso il basso. E appare un test in cui tu devi cliccare il limone che corrisponde al tuo mese di nascita. E ti dice qual è il tuo carattere dal limone. E salta fuori che Mario Lombardino è molto testardo perché è nato in maggio. E scrollo ancora verso il basso. Scrollo ancora verso il basso. C’è una frase di Gio Evan che dice che «quelli che rimangono ad aiutarti a raccogliere i bicchieri quando la festa è finita, quelli sono i tuoi veri amici». Scrollo ancora verso il basso. Scrollo ancora verso il basso. C’è un post che dice: «Ma perché gli immigrati devono fare la spesa a Lampedusa?», e tagga per conoscenza Luigi Di Maio e Giuseppe Conte – sai mai che se lo perdano? E uno gli risponde: «Be’, ma se pagano alla cassa…». E Mario dice: «Ma magari hanno il coronavirus e infettano mia figlia!». E l’altro gli risponde: «Ah, già, vero, non ci avevo pensato». E la dialettica sotto la bacheca di Mario Lombardino finisce così. Scrollo ancora verso il basso. Scrollo ancora verso il basso. Ha un amico arabo. Ha un amico arabo! Vado sulla pagina dell’amico arabo. È scritta tutta in arabo. E fa un po’ paura. L’arabo è una lingua che quando la vedi, quando la senti, sembra sempre che stia dicendo delle cose aggressive. Magari il messaggio è: «Fa freddo, mettiti il golfino», ma suona tipo…

Grammelot arabo.

E fa paura! Be’, come spesso accade quando sono su Facebook mi perdo! (Pausa) Gli chiedo l’amicizia. Perché no? Gli chiedo l’amicizia su Facebook! E lui me la dà. È così che sono diventato amico di Facebook di Mario Lombardino! E lui me la dà! Pochi minuti e diventiamo amici. Mi concede la sua amicizia.

Il video mostra lo scambio di messaggi Messenger tra loro.

E allora gli scrivo, un messaggio un po’… corposo: buongiorno Mario, sono di una compagnia di teatro di Bologna, Kepler-452, noi facciamo degli spettacoli prendendo delle storie dalla realtà. Io ho un po’ seguito la tua storia – un po’ esagero… – deve essere stato difficile per te, emotivamente… Ma io non sono interessato a discuterne, non sono un giornalista, poi è passato più di un anno, a me interessano gli esseri umani, vorrei avere un confronto con te. Parlare con te. Capirci!
E Mario Lombardino mi risponde: mi risponde che «Sì, volentieri! Parliamoci! Incontriamoci. Oggi pomeriggio non posso, magari un altro momento… Ma certo!».
Allora io gli propongo mercoledì alle 16, che sarà arrivato anche Riccardo. Magari noi ti chiamiamo su Facebook, su Zoom, e ti facciamo un’intervista – fantastico!
E allora io mercoledì alle 16 chiamo Mario Lombardino!

Si mette in attesa. Audio: la suoneria di Skype si intensifica.

Non risponde.

Audio: la suoneria di Skype si interrompe. Il video mostra la chiamata a vuoto. Un buco nell’acqua.

Boh… Cioè… avevamo un appuntamento. Io un po’ capisco: certo, se prendi un appuntamento su Facebook non è una cosa seria… Certo: è normale che se hai un appuntamento su Facebook magari non ci badi.

Si sposta al centro del palcoscenico.

Ma io mi faccio una domanda. Ma Mario Lombardino… mercoledì alle 16… a Lampedusa… cosa deve fare? Lui fa il pizzaiolo! cosa deve fare? Me lo chiedo come artista, esercito l’immaginazione!
Forse starà leggendo un libro, Mario Lombardino. Difficile…
Forse ha mancato l’appuntamento perché era troppo appassionato alle vicende di Anna Karenina e del conte Vronskij, della tardiva conversione di Levin… Ma ci sarà una biblioteca a Lampedusa? Perché Lampedusa deve essere bella, ma… è piccola! Sei sempre lì. Che cazzo fai alle 16 di mercoledì pomeriggio? Forse è andato in biblioteca, al museo! Forse è con la bambina. Ma mi viene da dire che tra loro – loro, quegli altri – sono più le mamme a stare con i bambini. I maschi non… Forse è un pregiudizio, magari…

Appare l’immagine dello scambio di messaggi successivo.

Però vengo subito smentito in questi miei pensieri, perché pochi minuti dopo Mario mi scrive. «Scusa Nicola, oggi ero al lavoro, perdonami…» Ma nessun problema! Mario, figurati: noi siamo qui in teatro tutto il giorno – anche se veramente avevamo organizzato tutta la giornata per questo… – però comunque non ti preoccupare! Dice: «Io sono arrivato a casa adesso, sono impresentabile, sono tutto sporco di cemento… Domani alle 14?».
Ma certo! Grande Mario, grazie mille! Scusa ancora, ma figurati!
E allora il giorno dopo, alle 14, io richiamo Mario Lombardino. Però stavolta io allestisco la situazione per bene. Perché voglio fare bella figura io, con Mario Lombardino!
Metto il computer qua, che quando l’accendo dalla webcam si vede che siamo in teatro, si vede che non è che siamo dei cioccolatai, che provano in garage… Una cosa che ci dà prestigio!
E poi penso: «Cazzo, Rick, se ci vede a tutti e due, magari Mario Lombardino si spaventa…». E allora facciamo così: io dico, a Mario Lombardino, guarda, di là ci sarebbe anche un mio collega. Se mi dice che va bene, io faccio finta che ti chiamo e vieni. Sennò tu ti metti dietro e lo ascolti da dietro, come Polonio dietro la tenda.
E poi devo registrare, così poi nello spettacolo posso far vedere qualcosa, posso usare questo materiale. Magari succede qualcosa di interessante! Però su Zoom se uno sta registrando si vede. E allora io glielo chiedo. Se mi dice di sì, bene. Sennò io qua dietro metto un microfono, e registriamo l’audio. Che capisco che è una piccola scorrettezza, però al servizio dell’arte. E allora io mi metto qui in postazione, Rick è pronto a entrare, e chiamo Mario Lombardino.

Si mette in attesa, seduto, spalle al pubblico. Nuovamente, la suoneria di Skype si intensifica. Ancora nessuna risposta! Si volta. Sbotta.

Ma porca puttana! Che cazzo. Cioè, nel senso… è la seconda volta! Uno funzionalizza una giornata di prove apposta per parlare con Mario Lombardino. Comunque, lui non lo sa, ma per una compagnia non è facile avere un palco per provare. Una situazione così. Comunque noi qua siamo a spese dei contribuenti. Non è garbato. Mario Lombardino, te stai sperperando i soldi dei contribuenti – non so se lo sai! stai sperperando i soldi dei contribuenti. Certo, per te, se senti la frase «soldi dei contribuenti» ti viene in mente il reddito di cittadinanza. Perché quelli come te non hanno ’sta grande idea della res publica, vorrei dire… Non è che riesci a capire esattamente che la cultura è un valore – cosa vuoi che sappia Mario Lombardino, che non ha mai letto Shakespeare, non ha mai sentito parlare di Čechov, non ha mai letto un libro in tutta la sua vita! Qual è l’ultimo libro che avrà letto, Mario Lombardino? Il libretto delle istruzioni della lavastoviglie? Ma figurati, quella la userà la moglie. Che cazzo c’hai da fare tu, Mario Lombardino, alle 14 di giovedì – vaffanculo – in quello sputo di isola del cazzo? Per una volta che qualcuno si interessa di te, che vuole sapere qualcosa di te, senza lucrarci sopra, solo per parlarsi, tra esseri umani, tu che cazzo fai? Che cazzo fai alle 14? Sei andato a prenderti il caffè in quel bar merdoso che c'è lì, a Lampedusa, con Ciccio, Tore, sempre con le stesse persone – a parlare sempre delle stesse stronzate, di cui parlerete tra voi? Eh, io sono due giorni, porca puttana, che dedico il mio tempo a te per parlare, Mario Lombardino, che cazzo deve fare alle 14, stronzo di un ominide senza il pollice opponibile? Analfabeta, non «funzionale»: analfabeta e basta; che avrai la terza media se l’hai fatta, e non ti sei fatto promuovere da un amico del cugino di tuo zio. Stronzo di un coglione di merda, analfabeta del cazzo, che non sai nemmeno leggere né scrivere, e non sai fare una O col bicchiere con due che ti aiutano – coglione del cazzo! Ma come cazzo è possibile che io, che passo una vita a studiare, voglio contattare te, e tu a me non mi caghi? Ma come cazzo ti permetti, coglione di un lampedusano isolano del cazzo? Ma la cosa che mi sconvolge è che questi qua votano: questi votano come noi! Il suo voto vale uguale al mio. Questa è gente che non dovrebbe votare. Questa è gente a cui bisognerebbe togliere i diritti civili. Questa è gente che andrebbe messa in galera. Che andrebbe spazzata via dalla faccia della terra – il suo cazzo di voto vale come il mio! Questo è un bambino con un bazooka! Questa gente vota, capite? Questa gente vota! Bisognerebbe chiedergli un patentino per votare. Questa gente vota!

 

 

IV.

UN PROBLEMA CON LA RABBIA
 

A schiaffo cambiano le luci, entra la musica: Loud Pipes dei Ratatat.
Nicola libera la scena della sedia, del tavolino con il computer, resta il microfono sull'asta in disparte: il ring di un incontro di pugilato. Si sgranchisce un po', comincia a boxare saltando sul posto, sul brano.

È una cosa che è successa qualche settimana fa, a Bologna, la mia città, in un bar dove io vado spesso. Si chiama Bar La linea: sta in piazza Maggiore. Un bel bar. Ed ero con un’amica – si chiama Virginia – una sera che ero veramente triste, ero preso male, di cattivo umore. Eravamo io e lei a bere una birra… parlavamo… Ed è bello parlare con qualcuno quando sei triste, in una sera di inizio autunno. È bello. E arriva al tavolo a fianco al nostro un gruppo di persone. Sono tante, eh? Solo che c’è un tavolo solo, piccolo, sarà da quattro o da cinque, e loro sono tipo in quindici e si assembrano tutti a questo tavolo… Fatti loro, però… ci sarebbe una pandemia. Comunque non siamo qui a fare gli sceriffi da balcone. Non è che devo insegnargli io come stare al mondo: se vogliono fare così, fanno così! Solo che questi cominciano a parlare – cominciano a parlare ad alta voce – a parlare forte. È un compleanno: «Tanti auguri a te!». E io stavo parlando così bene. Questi urlano. E Virginia che è davanti a me dice ad alta voce: «Ma come urlano questi? Ma che fastidio!». Io dico: «Ma no, Virginia, tranquilla, dai… Non roviniamoci la serata. Non c’è nessun motivo di rovinarci la serata. Stiamo tranquilli. Parliamo tra di noi». E lei continua a dire: «Eh però, che due palle!». «Va be’, Virginia, tranquilla…» Solo che dietro di me – no? – a contatto con la mia sedia si siede una tipa… come posso dire? Be’, tanto ormai io ho detto zingara, negri… una tipa che è un gran bagaglio, cioè brutta! Proprio brutta! Una brutta presenza: brutta, lombrosiana, mi dà fastidio. E urla! Urla! Però io sto calmo. Perché non c’è ragione per arrabbiarsi, non c’è ragione per rovinare una bella serata. Stiamo calmi, manteniamo la calma. Solo che a un certo punto arriva un altro tipo, anche lui sfigato, cazzo. E brutto, eh? sai di quelli col borsello, tipo gli ingegneri col borsello… che vuole sedurre quest’altro bagaglio… E io penso: «Be’ dai, un bell’incontro da bagagli. Mi sembra qualcosa che funziona, come se fossimo al nastro trasportatore dell’aeroporto Marconi di Bologna». Ma lo penso tra me, e io non la direi mai a voce, questa cosa qua: non la direi mai in pubblico, io, questa cosa. Ma il problema è che questo qua… Ecco… (colloca la posizione dei due bagagli nello spazio) se io sono qua e lei qua, lui arriva qua. E comincia a parlare, a parlare – sempre ad alta voce. E io sono calmo, e Virginia dice: «Ma quanto parla ad alta voce questo?». E io non la sento perché questo tipo mi sta parlando da qua, ad alta voce! Ma la cosa peggiore è che io sento che mi sta buttando addosso dei droplets. Mi sta inondando proprio, li sento. «Che c’è il coronavirus, cazzo! Che cazzo ti urli», penso. Eh? Infatti Virginia dice: «Certo che quello che ti sta proprio attaccato… Ma ti sputa addosso!». «Virginia, stai tranquilla, eh? Non c’è ragione di agitarsi, non… non bisogna agitarsi: non roviniamoci questa serata. Ha diritto di stare lì. Una bella dinamica di seduzione. Dai, dai, dai, Virginia, stai tranquilla: non ti preoccupare». Ma quello parla ancora di più, urla ancora di più – parla di musica contemporanea! Parla ancora di più, e parla ancora di più, finché a un certo punto io percepisco chiaramente sul mio zigomo sinistro arrivare un droplet, che è una cosa che fin qua, per me, era un concetto teorico: “droplet”! (Smette di boxare per un momento) Lo leggevo sul giornale, dei droplet, e io l’ho sentito proprio, il droplet, qua! E là fuori c’è il coronavirus. E allora io… devo stare calmo: devo stare calmo. Non c’è nessun problema, ma quello parla di più, parla di più e ancora mi sputa, e ancora mi parla, e urla di più, e ancora mi sputa – senti!

Afferra il microfono. La musica si interrompe bruscamente. Piazzato totale.

«Scusa, scusa. Davvero… sarebbe un’ora che tu mi stai parlando attaccato. Cioè. Davvero. Se magari puoi stare un po’ distante, magari meglio.»
Dah…
Bellissimo quando ho cominciato… ho finito che… Ah. Brrr. Che figura di merda.
Era tutto sbagliato. Come l’ho detto, come…
E infatti lui si volta. Io guardo Virginia, e lei si volta così (lentamente, esterrefatta).
Io sento dentro di me qualcosa che fa poc! Qualcosa si stappa, si deposita sul fondo, come sabbia. E faccio l’unica cosa che si può fare in questi casi. Lo so che è sbagliato. Lo so nel momento in cui lo faccio. Ma è l’unica cosa. Dico: «Va be’ però scusa! Magari non lo sai ma ci sarebbe anche una pandemia mondiale in corso. Eh? Non so se te l’hanno detto! Che magari – no? – l’OMS dice distanza di sicurezza di un metro, magari di due. Magari siamo tutti un po’ più responsabili – no? – magari è un po’ meglio, no?».
Che capolavoro di sfiga passivo-aggressiva. Che coglione. Che schifo. Mi guardo da fuori. Tutti mi guardano da fuori. E sentono che c’è un qualche sfigato passivo-aggressivo che grida. E i tavoli di fianco, tutto il bar, tutta la città di Bologna si volta a guardare quanto faccio cagare. Io aspetto che tutti si siano voltati, e poi dico: «Virginia, però scusa, no? Avevo ragione, no?». Virginia mi guarda, colma di compassione e tenerezza.
«Nicola, tesoro… tu hai proprio un problema con la rabbia.»

Risuona The Nightingale di Julee Cruise. Le luci si stringono su di lui che prosegue il monologo.

E capisco che sì. Ho un problema con la rabbia. Cosa ci faccio con questo problema? Cosa ci faccio con questa rabbia? Cosa ci facciamo noi con tutta questa rabbia? C’è un pittore russo che ha detto che se estraessimo da un solo essere umano tutta la sua rabbia che ha in corpo si potrebbe riempire un secchio di un liquido corrosivo che basterebbe a iniettare la rabbia a tutti i cani di Berlino, che sono centocinquantamila. Che cosa ce ne facciamo?
Io capisco che se non riesco ad ascoltare, a capire la rabbia di Mario Lombardino, se io non parlo con Mario Lombardino, con quelli come lui, io con la mia rabbia – io – non so cosa farci. (Alza lo sguardo verso la regia) Rick, Andrea, Michi? Andiamo a Lampedusa. Ma sì. Prendiamo un aereo. Andiamo a Lampedusa! E poi andiamo a mangiare la pizza alla pizzeria di Mario Lombardino. Come abbiamo fatto a novembre scorso, a Mondaino, con quelli là, che erano un po’ fasci e del tutto disperati. Ma è stato bello parlare con loro.
Rick, Michi, Andrea… Io se non capisco loro, gli altri, io non mi salvo dalla mia rabbia.
Non ci si salva da soli. Non ci si salva senza Mario Lombardino.

La musica arriva a pieno volume, poi sfuma lasciando il posto a un soundscape di onde marine. Nicola dipinge il quadro idilliaco dell’incontro sognato con Mario Lombardino.

Lampedusa… Lampedusa! Atterriamo e Lampedusa per prima cosa è un odore. Un odore di mare, di sale, di fiori – ginestre? – di fiori che non so dire… La porta d’Europa! Lampedusa è una terra di confine e di incontro, un crocevia da sempre, dai fenici, i greci, i saraceni… I migranti di oggi la chiamano così: «Lampa Lampa»… Lampa Lampa! Come una luce, lontana, nel nero del Mediterraneo. E noi arrivamo a Lampedusa, dove questo incontro tra civiltà oggi è cronaca – cronaca di sbarchi, di navi quarantena, la Sea Watch… – oggi è cronaca ma un giorno sarà epica! (Al pubblico) Ma ci siamo mica andati a Lampedusa.

Le onde marine si sono dissolte in modo da non accorgersene.

Ma no…
Ma ci avevate creduto, ci avevi creduto?

Interazione col pubblico.

Ma no!
A parte che con la pandemia altro che prendere aerei e andare a Lampedusa…
A parte che Lampedusa sarà un posto di… calamite da frigo, di turisti ammassati, sudati, sull’autobus che dall’aeroporto ti porta all’albergo, col centro storico dove ti fanno il vero pesce della tradizione, ma che intanto è importato dalla Cina – a parte tutto questo…
Andare a Lampedusa sarebbe stata un’azione smisurata, fuori formato e fuori norma. Saremmo stati noi – i regaz del centro di Bologna, con le Clarks – che incontrano il pizzaiolo isolano per dirgli: «Adesso ti spieghiamo noi come si sta al mondo». Poi ne avremmo fatto uno spettacolo facile, ecumenico, che finiva bene… Sarebbe stata un’azione a perdere. Un gesto d’amore. E noi non abbiamo bisogno di gesti d’amore, no: né di farli, né di raccontarli. Abbiamo bisogno di fare un’indagine: di un confronto. Diretto. Anche brusco. Non di fare un dono. Non di filantropia. Perché ne uscirebbe non il ritratto di una unificazione, ma il mio stesso ritratto, di uomo buono, fortunato, altruista.

Estrae il telefono, manda un messaggio vocale a Mario Lombardino.

Ciao, Mario. Non ci siamo più sentiti. Volevo dirti che… non ci siamo più sentiti al telefono, ma io avrei ancora desiderio di parlarti. Perché è venuto fuori che lo spettacolo, lo spettacolo di cui ti parlavo, ha a che fare con te; è su di te, Mario. Quindi, se puoi, facciamo che ci sentiamo.
Fammi sapere.

Poi, innestato sulla canzone A New Error dei Moderat, ecco il messaggio vocale di risposta inviato da Mario: in cui si scusa per essersi fatto di fumo e propone di confrontarsi. Di persona. È a Milano adesso.

 

 

V.

BREVE STORIA DELLA RABBIA
 

Nicola va al microfono, sul brano musicale, incalzante; il battito secco di una notifica accompagna una cifra bianca sullo sfondo nero alle sue spalle. Un anno: «1898».

1898. Mentre in Europa Nietzsche afferma che «Dio è morto», e mentre Freud ci informa dell’esistenza dell’inconscio, nelle polveri del Sudafrica gli inglesi inventano il campo di concentramento per prigionieri civili. Un tabù viene infranto, per sempre: la guerra d’ora in avanti non sarà più una cosa riservata ai militari. Poi ce lo insegneranno nuovamente i nazisti, in grande stile, ad Auschwitz. La guerra nuova non risparmia i civili. Non risparmia te. Nella guerra moderna hai guadagnato un ruolo nuovo: ora sei un obiettivo.
Perché ora sì. Sì. Ora può succedere anche a te.

Notifica e, sullo sfondo, la cronologia avanza: «1945».

1945. Hiroshima e poi Nagasaki semplicemente scompaiono in un una nube di polvere, luce e radiazioni a forma di fungo smisurato. Finora la scienza ha portato progresso e scoperte, ma ora l’essere umano ha paura di se stesso. E ha ragione. Il giorno del giudizio è in mano all’Uomo, ora. A te. È a portata di pulsante. Un altro tabù cade. Dio è morto. L’Uomo può fare come Dio.
Ora sì. Ora basta veramente poco.

Notifica: «1961».

1961, primo volo umano nello spazio. «La terra è blu» dice Gagarin. «E non c’è nessun Dio lassù» aggiunge Chruščëv. In capo al decennio l’uomo atterra sulla Luna, fa un piccolo passo e un grande balzo, ma trova nello spazio solo «a magnificent desolation». Una magnifica desolazione.
E sì. Lo spazio è una cosa fredda, vuota, enorme, inospitale – questo è. È insieme l’apoteosi e l’inizio della fine dei programmi spaziali, così come dei sogni delle persone. Sì. Moriremo terrestri.
E no, ora no. Ora non puoi scappare.

Notifica: «1980».

Anni Ottanta. L’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche collassa su se stessa. L’Occidente, il mercato globalizzato, il capitale internazionale hanno vinto. Tutto. Dappertutto. Sbancato! «There is no alternative» dice Margaret Thatcher, e sono parole che fanno eco.
La politica d’ora in poi è solamente azione tecnica: amministratori che risolvono problemi. Amministratori che faranno il bene di tutti, indistintamente. Dei ricchi, dei poveri. Anche il tuo, che ti piaccia o no.
E no: no, no, no, no. Non c’è – non c’è – non c’è alternativa.

Notifica: «1990».

Prodotti. Consumo. Prodotti. Sono arrivati gli anni Novanta e l’obiettivo della prima rivoluzione industriale sembra raggiunto: la maggior parte della popolazione occidentale ha i mezzi per sostentarsi, un relativo benessere diffuso. Sta bene – stiamo bene. Stai bene, sì. Ora che non ci sono più bisogni, per continuare a capitalizzare, a monetizzare, a produrre, la sfida è crearli, i bisogni. I prodotti, ora, sono su misura per te. Solo per te. Solo.
Eh sì. Eh, sì. Solo. Sei solo ora. Sei sola.

Notifica: «2001».

Anni Zero: la data precisa non serve nemmeno citarla – in un mattino di tarda estate New York va a fuoco. Terrorismo. Lotta al terrorismo. Lotta al terrore. Noi e loro. Noi… e loro! Gli altri! Gli Altri. Gli stranieri, da figure pittoresche da spiaggia, cariche di occhiali da sole e braccialetti made in China, diventano maturamente quello che sono oggi: errori. Invasori. In un contesto di calo generalizzato del crimine, boom degli antifurti privati, boom del bisogno di sicurezza. La sinistra dice: ascoltiamo questo bisogno di sicurezza.
Anni Zero, hashtag: sicurezza.

Notifica: «2010».

Anni Dieci! Anni Dieci e la crisi diventa endemica. La coperta è corta – e no, non importa che i ricchi siano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri. La coperta è corta. Austerità. Alla fine del decennio la Sea Watch 3, guidata dalla comandante tedesca Carola Rackete, col suo carico di profughi entra nel porto di Lampedusa, forzando il blocco imposto dal ministero degli Interni…

Notifica: «2020».

… Ma si fanno gli anni Venti! E – dopo un aumento della temperatura globale che ricorda così tanto la storiella della rana bollita da farne una metafora stucchevole – negli anni Venti, a braccetto con una crisi economica generalizzata, ha inizio il più grande happening virale del secolo, la pandemia, la…

Le notifiche cominciano a impazzire.

… La pandemia. La pandemia che ti dimostra definitivamente una verità indimenticabile: che l’uomo uccide l’uomo, anche senza volerlo – anche senza saperlo. Che siamo – che sei – pericoloso per gli altri, sempre.
Andrà tutto bene? Andrà tutto bene? No. Non andrà tutto bene. Non supereremo mai questa fase – no. Andrà…

Notifica.

… Andrà sempre peggio.

Notifica.

Ora può succedere anche a te.

Notifica.

Ora basta veramente poco.

Notifica.

Ora non c’è alternativa.

Notifica.

Ora sei solo.

Notifica.

Hashtag: sicurezza.

Notifica.

Andrà sempre peggio.

Le battute sono ripetute più volte, mentre le notifiche risuonano convulsamente fino a saturazione.

Ora…

 

 

VI.

INTERVALLO
 

All’acme della tensione, la musica si interrompe con il rumore di uno schianto. Compare la scritta «Intervallo». A schiaffo, le luci si accendono illuminando tutto il palco.
Nicola disorientato guarda lo schermo.

E ora… intervallo. Eh, sì. Non ve l’aspettavate? No? Nemmeno io… Eh, sì. Intervallo! Che è una cosa strana, l’intervallo, no? Una cosa che non usa più, una cosa molto novecentesca: la buvette, l’attesa, il foyer… È passata circa una quarantina di minuti dall’inizio dello spettacolo ed è proprio il momento in cui ci si comincia un po’ a distrarre, no? Si fa fatica a seguire dopo quaranta minuti. Sì, è una cosa che non usa più tanto, l’intervallo. Non usa molto perché gli spettacoli adesso sono più brevi, perché si è abbassata un po’ la curva dell’attenzione. E anche viceversa: spettacoli più corti, curva dell’attenzione che si abbassa… Lo dico proprio senza giudizio, è un fatto, è una cosa anche positiva per certi aspetti. Però io ho l’impressione che la curva dell’attenzione si stia accorciando ancora e ancora, infatti io – difficile dire io, eh – io quando vado a teatro… Faccio una confessione! Il teatro è tutta la mia vita, eh? Ma io, quando vado a teatro, prima che inizi lo spettacolo – soprattutto certi spettacoli – io abbasso la luminosità dello schermo così a un certo punto, dopo una quarantina di minuti appunto, posso sbirciare senza essere visto. Ah, perché voi spettatori non lo sapete, ma quando guardate lo schermo del telefono a teatro noi vi vediamo. C’è sempre un momento che in mezzo a questo mare nero, bellissimo, che è la platea vedo un volto illuminato da questa luce dal basso, là: uno stronzo che rovina questo mare nero bellissimo. Vi vediamo. Però io vi capisco anche. Anche adesso. C’è una parte di me – difficile anche dire «me»… – del mio cervello… ma nemmeno del cervello! È proprio un riflesso condizionato, nel braccio, così… (lo muove, la mano stringe il cellulare in tasca) come una voce che chiede: «E se ti hanno cercato? E se c’è un’emergenza? Se ti hanno scritto su WhatsApp?». E se qualcuno ha parlato di me? Se hanno commentato i miei post! Se mi hanno menzionato! Se qualcuno ha detto che sono stato bravo, io lo voglio sapere se sono stato bravo! O se qualcuno ha detto che sono uno stronzo, devo rispondere e spiegare che è stronzo lui, mica io. E quindi io immagino che ora, passati quaranta minuti, anche voi avrete un po’ quest’esigenza. No? Non è necessariamente colpa dello spettacolo, lo spettacolo magari vi sta anche piacendo, ma magari voi avete voglia di controllare e allora… controllate. Io voglio che il nostro rapporto sia limpido, io non voglio fare finta sul palco, voi siete un pubblico con cui mi sto trovando bene, e la sincerità è importante. E quindi scrolliamo un po’. Anche io, eh! Dai! Ci prendiamo cinque minuti per scrollare, e ci riposiamo un attimo, così poi siamo pronti per finire lo spettacolo. Allora io metto un attimo un timer, cinque minuti, così abbiamo tempo di controllare un po’ gli altri.
Ora tirate pure fuori il cellulare, per favore. Non vi abbiamo chiesto di spegnerlo, quindi direi che lo dovreste avere… acceso. No? Qualcuno lo ha spento?

Interazione con quei pochi desperados che hanno spento il telefono, se ce ne sono.

Se qualcuno non avesse proprio il cellulare… aspetta. Aspetta come si aspettava prima. Come si aspettava prima? Boh! Si guardava il muro. Non so: non so più come si aspetta senza telefono. Aprite pure Facebook, Instagram… controllate le notifiche. Ok. Controllate pure. Se volete potete anche mettere un like alla pagina Facebook di Kepler-452… Ci prendiamo cinque minuti, facciamo partire un timer, magari…

Dietro di lui un timer scandisce secondi e minuti che passano.

Cinque minuti!

Passa un minuto, scandito dal timer video-proiettato, nel silenzio. Un silenzio disagevole.

(Guarda lo schermo) Uh, che ansia… Strano – vero? – fare questa cosa tutti insieme. (A uno spettatore e/o a una spettatrice) No, no, non preoccupatevi di guardarmi, continuate pure a scrollare, state sul telefono. Se c’è una cosa che abbiamo imparato è scrollare, mentre le altre persone ci parlano! Dicevo, strano fare questa attività tutti insieme, è un’attività sempre un po’ rubata, un po’ segreta, come la masturbazione. (Alla regia) Rick, mettiamo anche una musica adatta per lo scrolling? Abbassiamo anche un po’ le luci?

Le luci si abbassano: Lose Yourself to Dance dei Daft Punk in versione strumentale accompagna lo scrolling. Pur parlando al microfono, Nicola continua a guardare il cellulare.

Oh, bene. Che bello. Guarda te, sono passati già due minuti, e non me ne sono accorto. Due minuti, due minuti di spettacolo… per scriverli, per recitarli, uno deve fare una fatica esagerata, mentre invece, così… io non ho lavorato, voi avete potuto scrollare…

Il brano continua. Nicola scrolla, gli occhi ancora solo per lo schermo del telefono.

Pensa te! Tre minuti, tre minuti facilissimi da fare. Tre minuti fantastici! Ma io sono in grado di farne anche dieci di minuti, anche mezz’ora, un’ora così. Scrollando, guardando dei video, magari arrivo a casa, sono le 22:00, ora del coprifuoco, e dico: guardo un po’ Instagram, magari… Ups! Le due del mattino. Quattro ore! e insomma io queste quattro ore che separano le 22:00 dalle due, io non so mica dove sono andate. Mi viene da dire: nessuno me le restituirà queste quattro ore. Che è un pensiero stranissimo, perché nessuna ora nessuno te la rimborsa mai. Non c’è un ufficio a cui chiedere il rimborso delle ore. Quelle intensissime, i pomeriggi d’estate quando eri bambino, il tuo matrimonio, o quelle a scrollare Instagram: le ore non te le rende nessuno! Però ecco, quando sono le tre e sono da cinque ore sul telefono, io non sono contento, non so come dire. Non vorrei dire una di quelle cose morali, che è brutto stare sempre attaccati al telefono, no. Perché se io sto attaccato al telefono è perché il resto della mia vita è orribile, e voglio dimenticarmene. Voglio tagliare via, tagliare fuori il resto della mia vita che è orribile e allora questo non è una causa, è un effetto. La causa è che la mia vita, in generale, fa schifo. Che la mia vita, la nostra vita, è talmente mostruosa che cinque ore io preferisco non viverle che viverle. Che se scrollo mentre qualcun altro parla, non è colpa del telefono ma della qualità della nostra relazione, delle cose che dice. Che se è meglio l’internet di questo spettacolo, la colpa non è dell’internet! (A uno spettatore o a una spettatrice) Cosa guardi, non guardare, non c’è niente da guardare, stai sul telefono, cos’è, hai finito l’internet? Ricomincialo da capo! Che se le relazioni sono brutte non è colpa del telefono, è colpa del mondo mostruoso in cui sono inserite.

Il brano musicale continua. Nicola scrolla. Gli occhi ancora solo per lo schermo del telefono. Finché, più serrato, ricomincia.

E dopo queste cinque – vaffanculo, cinque! – ore che ho passato qua a guardare il telefono, io non sto bene. Io sono più incazzato, non so con chi – con la vita che non mi sta dando niente di meglio da fare che fare questo – sono incazzato con me stesso, perché davvero con tutta la fatica che faccio, con tutto il sonno arretrato di cui ho bisogno, col fatto che la sveglia io ce l’ho tra pochissimo – pochissimo, cazzo! – io non ho trovato niente di meglio da fare che star qui a guardare pezzi di pezzi di cose da niente, cose vuote, pezzi di vuoto. E odio questo telefono, questo telefono che ha dentro il mondo, ha dentro l’opera omnia di Shakespeare e anche la maggior parte degli errori di ortografia del mondo, che ha dentro la peggiore cloaca dell’umanità e anche la traiettoria delle stelle. E che vuole il mio tempo, lo assorbe come un buco nero, lo rende vuoto… vuoto… vuoto… vuoto. Niente.

La musica sfuma in un rumore di onde e di mare turbolento e distante.

Alzo lo sguardo.
E vedo voi… i vostri volti illuminati, dal basso, come il mio volto all’inizio di questo spettacolo: tanti pezzi nel buio avvolgente di questo teatro. Nel mare nero della platea. Che si accendono e si spengono, come istantanee un po’ tremolanti, come lumini intermittenti, segnali luminosi dal mare, nero. Pezzi. Perché poi è più giusta questa immagine per il pubblico, non un mare nero, uniforme, ma tanti frammenti luminosi. Pezzi.
E io – è difficile dire io…
Ed è difficile perché c’è un io anche qui, un io dei social, che mi reclama. Che sono io, ma non sono io. E c’è anche un io che sono quassù a raccontarvi delle storie, che non sono io ma è un personaggio.
Perché anch’io… io… io… io… non sono altro che questo.
Pezzi.

 

 

VII.

NON LA TELEFONATA CHE RICORDEREMO SUL NOSTRO LETTO DI MORTE
 

Il soundscape di mare grosso, lontano, si dissolve. In audio e video è riprodotta la telefonata fatta a Mario Lombardino da Nicola e la compagnia.

«Pronto!»
«Pronto, ciao Nicola».
«Ciao Mario, come stai?…»

La telefonata procede. Nicola si siede sul cubo a destra e contempla se stesso che parla nello schermo. Quando ricomincia a parlare dal vivo, il sonoro del video sfuma e le immagini continuano a scorrere mute.

Ho fatto questa telefonata.
Ho parlato con Mario Lombardino.
E noi in questi mesi, così duri, in questo inverno pandemico, abbiamo desiderato che quest’incontro fosse importante, dirimente, una svolta.
Però… non è una telefonata memorabile, non è stata una telefonata di quelle che ci ricorderemo sul letto di morte – come dice Rick che scrive lo spettacolo insieme a me.
Perché gli incontri, capirsi… è una cosa difficilissima. Tutti sono sulla difensiva. Guarda… (Indica se stesso in video) Guarda come sono imbarazzato. Circospetto…
Perché se è difficile dire “io”, pensa quanto è difficile dire “noi”…

Una pausa.

Comunque… in questa telefonata facciamo qualche scoperta.

Si alza e va in proscenio, sottolineato dalla luce.

La prima cosa. Io gli chiedo: «Chi è Mario Lombardino?».
«Un testa di cazzo» risponde Mario, con una prontezza che mi stupisce. Ah, vuoi dire che sei testardo, dico io… E impulsivo. Testardo e impulsivo! Sono due aggettivi che gli piacciono, e li userà spesso per se stesso durante la telefonata. D’altra parte l’aveva detto il test dei limoni: limone di maggio, testardaggine! E voi che non gli davate due lire!
Un’altra cosa che scopriamo è che io non sono l’unico che mentre parla con l’altro ha qualcuno in ascolto. No! Così come da noi ci sono Rick e Andrea, il nostro tecnico, dietro il microfono ad ascoltare, all’altro capo del filo c’è la mamma di Mario. La mamma di Mario che, letteralmente, gli strappa il telefono di mano e comincia a raccontare la storia della vita di Mario al posto suo. E ci racconta tutta la storia dal principio: il padre li ha abbandonati quando Mario era appena nato, a Lampedusa, e poi – lei e Mario bambino – sono emigrati a Milano, dove lei ha trovato lavoro. Sono emigranti anche loro! penso. Però Mario si trova così male, così male a Milano che tanto fa e tanto dice e in qualche modo riesce a convincere la madre a rispedirlo, non ancora adolescente, a Lampedusa, a vivere coi nonni. Quindi Mario cresce senza nessun genitore, da solo, a Lampedusa.
Poi riprende a raccontare Mario e ci dice della nascita della figlia, della sua fidanzata. E ci dice anche che è scappato da Lampedusa e ora è di nuovo a Milano, dalla madre. Ancora una volta: un migrante. Un po’ migrante economico e un po’ in fuga dalla guerra, Mario Lombardino: migrante economico perché sta cercando lavoro, a Milano, come pizzaiolo. Anzi, alla fine della telefonata avrà un colloquio. In fuga dalla guerra perché c’è stata una guerra: si è lasciato con la compagna, Mario, e ha lasciato lì la bambina. E c’è stata una guerra con i genitori di lei: una guerra che è fondata su motivi… di classe, mi verrebbe da dire. Eh sì, perché – scopro – i genitori di lei hanno una catena di negozi di abbigliamento, lì a Lampedusa, che è una roba, avere tre negozi di abbigliamento – donna uomo bambino – a Lampedusa. Mentre Mario è solo un pizzaiolo. E Mario ci dice che sono ingombranti, che vogliono imporgli come vivere, cosa fare, decidere al posto loro. Litiga, Mario: con loro e con la sua compagna, che – dice lui – ne subisce l’influenza. A un certo punto, la crisi: lei torna a vivere dai suoi, insieme alla bambina. Mario cerca di raggiungerla, di contattarla, ma i genitori di lei lo tengono lontano, lo lasciano fuori. Mario racconta che il padre di lei gli ha lanciato un vaso di terracotta in testa, che sembra una cosa da cartoni animati, ma un vaso di terracotta fa male, e lui ci è finito in ospedale.
E insomma: isolato dalla compagna e dalla bambina, Mario ritorna a Milano. Ed è lì che lo raggiunge la nostra telefonata.
E poi penso un’altra cosa, una cosa curiosa. Mi viene in mente di guardare su Google Maps e vedo che Mario per andarsene al Nord ha percorso una distanza di 1174 chilometri. 1174 chilometri che sono una distanza notevole: se fai una prova, immaginandolo sulla carta geografica, da Lampedusa invece che percorrerli verso Nord vai a Sud, lo sai dove finisci? Attraversi tutto il Mediterraneo, passi via tutta la Libia e arrivi al confine col Niger: un bel pezzo della rotta dei migranti africani, penso. Un pensiero curioso.
E poi mi racconta di quel giorno, Mario, e una cosa mi rimane impressa, forte. Un dettaglio, un particolare. È difficile da descrivere. Facciamo così: ve lo faccio sentire…

Una clip audio: Mario racconta l’abitudine lampedusana, la tradizione di fare dei giri in auto tutto intorno all’isola, con la musica a palla in macchina, in coppia o in gruppo.
Nicola commenta durante la riproduzione, magari mettendo in pausa qualche volta.

«Tu avevi pianificato di andare lì, al porto, allo sbarco della Sea Watch, per contestare Carola Rackete oppure ti trovavi lì per caso? Avevi in programma di…»
(Mario:) «No, non avevo in programma. Mi sono trovato lì per caso. Stavo facendo il giro in macchina…»

Silenzio e disagio.

Capito? Il giro in macchina, con il determinativo. Una tradizione… Senti il mio disagio: ma cosa rido? A Lampedusa c’è la tradizione di girare, girare intorno, come i criceti nella ruota, o come dice Andrea – il nostro tecnico, che ha l’animo di un poeta – «come la merda nei tubi».
E io allora mi sono chiesto: che musica ascolterà Mario Lombardino mentre fa il giro dell’isola? E – perché io lo seguo anche su Instagram, sono proprio ossessionato da Mario Lombardino – vedo che tra i cantanti su cui fa le storie c’è un certo Niko Pandetta, un esponente del neomelodico napoletano. Mai sentito? (Al pubblico) C’è qualcuno che conosce Niko Pandetta? Niko Pandetta è un siciliano, un catanese, che però canta – come vuole il genere – in dialetto napoletano. Il neomelodico napoletano cantato da un siciliano è una roba a metà tra il canto di un muezzin e la trap. In pratica un muezzin con l’autotune. Anzi, guarda, lo mettiamo su, lo sentiamo.

Parte Pazzo ’e te di Niko Pandetta e Gianni Celeste. Nicola fa un excursus sulla figura di Pandetta, cantante e anche sospetto mafioso, nipote del boss Turi Cappello attualmente al 41bis per reati mafiosi. Cappello, trait d’union tra Cosa nostra, camorra e ’ndrangheta, al quale il nipote – in una canzone che è una sua hit – augura «una presta libertà».

Ma eccoci, in quella sera di maggio, la sera della Sea Watch, di Carola Rackete, l’inizio dei suoi guai, lì, in macchina, con lui e la sua ragazza, che diventerà poi la madre di sua figlia, ma Mario ancora non lo sa, perché quando i vasi ti cadono in testa tu non lo sai mai prima. C’è lui, Mario, al volante e di fianco la sua fidanzata. Sono lì, in macchina, che girano in tondo, come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi, che girano in tondo perché non sanno dove andare. Girano, girano. E Mario guida e la musica è alta, altissima, Mario ha fatto anche mettere su l’impianto perché suoni più forte, ha fatto il tuning alla macchina. L’ha voluta lui la musica così alta, perché a Lampedusa non sei nessuno se non hai l’impianto, e adesso vorrebbe, vorrebbe parlare con lei, ma non può, non si sente, perché la musica è troppo alta, troppo alta. E poi non saprebbe cosa dire, come dirlo. E allora girano, girano in tondo, come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi. E io lo capisco perché anche io mi ci vedo, con la mia morosa, a girare d’inverno, per la bassa bolognese, in cerca di non so bene cosa, anche io, con la radio alta, che giro in tondo, come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi. E Mario vorrebbe parlarle, vorrebbe dirle che a lui, questo fatto che i genitori di lei lo trattino così, gli fa schifo. Che si sente da meno perché loro hanno un negozio di abbigliamento, che a Lampedusa è molto meglio di essere un pizzaiolo, vorrebbe dirle: ci sono anch’io! Guardami, che anche se non ho i soldi, ci sono anch’io! E invece girano, girano in tondo come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi. E anche io ci sono dei momenti che vorrei parlare con Sofia, la mia ragazza, e dirle che mi dispiace… mi dispiace di tante cose, perché nelle relazioni ci sono delle cose che non si possono dire e sono quelle le cose pericolose, che se le dici finiscono le relazioni e se non le dici finiscono lo stesso. E allora non le dici e tiri a campare, ma forse se parlassi, se dicessi qualcosa ora forse ci salveremmo. Ma la musica è troppo alta e allora non dico niente e giro in tondo, in macchina, come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi. E Mario vorrebbe dirle che gli dispiace se è da un po’ che non scopano più come prima, che lo sanno tutti e due ma non se lo sono mai detti e non sanno perché, e lui è spaventato più di lei e lei forse, forse potrebbe rassicurarlo, ma un uomo non le chiede queste cose e poi la musica è alta e allora girano, girano in tondo come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi. E più non parliamo e più giriamo in tondo più questa musica diventa chiaramente quello che è: rumore di fondo. Rumore di fondo che serve a non parlare più di niente, perché non c’è più niente da dire, perché non c’è alternativa ed è tutto qua, non c’è nessun Dio ed è tutto qua, la terra e lo spazio intero sono luoghi freddi, inospitali, in cui non si può mai stare al sicuro, e non puoi scappare, e non andrà tutto bene, e sono tutti nemici e non c’è nessuno su cui contare, e si può solo girare in tondo, come i criceti nella ruota, come la merda nei tubi.

Appare il video iniziale: la fiancata della Sea Watch approdata a Lampedusa; le forze dell’ordine che scortano la comandante Carola Rackete giù per la scaletta e la caricano in macchina, fra la folla che l’attacca furiosamente.

E passano davanti al porto e questa volta succede qualcosa, anziché niente. All’improvviso la Storia ti passa davanti! La Sea Watch 3 è entrata in porto e quelli stanno per sbarcare. E c’è quella ragazza, quella tedesca che ha trent’anni e guida le navi e lei lo sa che cosa sta facendo, lo sa qual è la cosa giusta da fare, lei va dritto, va dritto e sperona le navi che trova sulla sua strada, non gira in tondo come il criceto nella ruota, come la merda nei tubi, lei no, e tutti a dire che lei è brava e a me nessuno che mi dice niente, e invece ci sono anch’io! Ci sono anch’io! Ci sono anch’io! Ci sono anch’io!
(Disperatamente, gli insulti sentiti all’inizio) Ti devono stuprare i negri, puttana!
A quattro a quattro te lo hanno a infilare, zingara!
Ti piace il cazzo negro, eh?
Le mogli vi devono stuprare, ’sti clandestini!
Ci sono anch’io!

Audio: onde marine come uno schianto, e mare mosso si portano via la musica e anche la voce di Nicola, che si perde nella tempesta. «Ci sono anch’io!» urla, più volte, come un naufrago, perso nel buio del mare. Il mare infine si placa. Viene riprodotta Yerevan di Ludovico Einaudi. Nicola va a sedersi sul cubo a destra. Un buio lunare, per il finale.

 

 

VIII.

LA REALTÀ È UN DISATRO AEREO
 

Nicola in un angolo, seduto, senza fiato.

La realtà è un disastro aereo
Mario Lombardino è un disastro aereo
Io sono un disastro aereo
Un disastro aereo avvenuto molti anni fa
In una landa desolata
Di cui resta
Un sedile divelto qua
Un vassoio in plastica monoporzione là
Frammenti di motore sparsi
Vetri rotti
Un incidente aereo dice ti devono stuprare i negri puttana
Un altro lavora nel terziario avanzato
Un altro fa uno spettacolo
Un altro ancora il presidente del consiglio dei ministri dell’ottava potenza mondiale
Un altro sta in casa perché non sa dove andare
Non ha senso dire nulla di un disastro aereo
È uno spettacolo espanso incomprensibile inguardabile disarticolato
Ha senso forse
Recuperare una scarpa
Guardare come è fatta
Di che materiale è
Quanto costa
Che gusto, che moda ha
Raccogliere con pietà quei pezzi sparsi
Guardarli
Tenerli lì
Portarli a casa, metterli su una mensola in vista
Guardarli tutti i giorni, come reliquie di un senso perduto
Vagare in mezzo ai disastri aerei e cercare di capirli, guardarli tutti interi
Come se fossero nostri
Come se avesse parentela con un altro disastro che conosco
Perché tutti i disastri aerei, prima di essere disastri aerei
Erano aerei
Se ne stavano su, alti
In una mattina tersa
Che si vedeva anche
Il mare.

Lentissimamente si va al buio.
La musica termina.

 

FINE