Una Grossa Indecenza

di

Alberto Milazzo



Personaggi:
Alan Turing, quarantenne.
Arnold Murray, diciannovenne, l’amante di Turing
Christopher Morcom, quindicenne, spettro del compagno d’adolescenza di Turing. 
Harry, ventenne, il ladro.
Agente Wills, trentenne.
Agente Rimmer, trentenne.
Infermiere Scott, trentenne.

Luogo:
La scena si svolge in due luoghi diversi.
Il primo è la casa di Alan Turing, un monolocale sporco e disordinato arredato con un divano che fa anche da letto (le lenzuola sono scomposte. Alan non rifà mai il letto); un tavolino che Alan usa anche come comodino, ingombro di ampolle e oggetti da chimico; vicino al letto una scrivania con un vecchio calcolatore.
Il secondo invece ci mostra la camera d’ospedale in cui Turing era sottoposto a trattamento ormonale.
La scena quarta ambientata in un esterno non ha bisogno di essere connotata in alcun modo: sarà sufficiente una luce che inquadri il solitario Turing.

Tempo:
Gli anni Cinquanta dello scorso secolo.



Nota dell’autore

Questo testo ripercorre l’ultima fase della vita di Alan Turing: dall’arresto per omosessualità al suicidio. 
Mi sono avvalso del saggio di Andrew Hodges, Storia di un enigma, e del libro di Gianni Rigamonti, Turing il genio e lo scandalo. Ho usato luoghi e personaggi reali. 
Ma l’intento non era una ricostruzione storica delle ultime, travagliate vicende del genio matematico che ha cambiato la storia con i suoi pionieristici studi sull’intelligenza artificiale. Piuttosto la scoperta dell’ennesimo caso di conflitto fra società e genio. Un rapporto complesso di amore e odio che sembra però scandito da un preciso ritmo interno. Alan stesso si sentì più volte vicino alla figura di Oscar Wilde, anch’egli genio prima osannato e poi umiliato pubblicamente. E indietro nel tempo si trovano echi della vicenda galileiana. Il genio usato per fini bellici e umiliato per le sue certezze più radicate. 
Ad Alan Turing dobbiamo il nostro modo nuovo di lavorare e vivere confrontandoci quotidianamente con l’intelligenza artificiale del computer. Alla sua genialità nel calcolo, che gli permise di infrangere il codice Enigma, dobbiamo la vittoria dell’Inghilterra sui sommergibili tedeschi, che fu un contributo decisivo per arrestare le folli mire espansionistiche di Hitler. Il test Turing in filosofia della scienza è ancora al centro di accesi dibattiti.
Mr Enigma è una riflessione sull’uso strumentale che la società fa del diverso. L’uomo nuovo, l’essere di confine capace di apportare cambiamenti, innovazioni, nuove letture del reale. Qualcuno che possiede il mana, la visione, che è simile ma differente. Con cui dialogare ma da tenere a distanza in un continuo gioco di irregimentazione e sregolatezza.


PROLOGO

31 marzo 1952.
Interno appartamento di Alan Turing.
Alan è seduto al suo scrittoio. Il pavimento è ricoperto di appunti, calcoli matematici, fogli di carta appallottolati.
Alan è un bell’uomo. Alto, snello, bruno.
Accanto a lui, in piedi, gli agenti Wills e Rimmer.
E’ notte.

Alan: Una camicia, cinque coltelli da pesce, un paio di pantaloni, tre paia di scarpe, una bussola, un rasoio elettrico, una bottiglia di sherry… già aperta… Patetico.
Wills: E’ sicuro? Non manca nient’altro?
Alan: No. Mi sembra che sia tutto. Mi sento come se mi stesse per cadere un mattone sulla testa, o come se qualcosa di sgradevole e inatteso stesse per succedere. Da un momento all’altro.
Wills: Ha scritto, agente Rimmer?
Rimmer: Una camicia, cinque coltelli da pesce, un paio di pantaloni, tre paia di scarpe, una bussola, un rasoio elettrico, una bottiglia di sherry già aperta.
Wills: Ovviamente lei non ha idea di chi possa essere stato.
Alan: Arnold.
Wills: Scusi?
Alan: Potrebbe. Non posso esserne certo, ma ho motivo di sospettare di lui.
Wills: Lei crede che questo Arnold sia l’autore del furto nel suo appartamento?
Alan: Arnold è capace di tutto. Una volta mi ha rubato sette sterline dal portafoglio.
Wills: Questo Arnold è un suo conoscente? Qualcuno che l’ha importunata in passato, dunque?
Alan: Niente affatto. Direi… il contrario.
Wills: Lei afferma che Arnold avrebbe potuto commettere il furto. Vuol dire che deve conoscerlo bene. E’ un suo amico?
Alan: Arnold è il mio compagno.
Wills: (Esitando) Dividete l’appartamento?
Alan: Solo il letto. Il resto è roba mia. O almeno così credevo fino a un’ora fa.
Wills: (Nervoso) Signor Turing, cercherò di essere chiaro. Lei sta formulando un’accusa di furto hai danni del suo… amante?
Alan: Lei mi ha chiesto se avevo dei sospetti. E Arnold è l’unico che mi viene in mente.
Wills: Sa che in questo stato ci sono pene severe per chi commette atti contro natura?
Alan: Il furto è talmente naturale che perfino Dio si è preso la briga di condannarlo. Lei crede che si sarebbe affannato tanto per … non so … chi non rimette il tappo al dentifricio.
Wills: Io parlavo di due uomini che… giacciono insieme. Nello stesso letto.
Rimmer: (scandalizzato) Buon Dio.
Alan: Quello è ancora più naturale e diffuso della tendenza ad appropriarsi di oggetti altrui. E poi, mio caro agente, se c’è una cosa che non faccio quando sono a letto con Arnold è giacere.
Wills: Dobbiamo prenderne nota. 
Alan: Vi aiuterà a scoprire il ladro?
Wills: Agente Rimmer, ha scritto?
Rimmer: Parola per parola.
Alan: Sono sicuro che se glielo chiederete voi mi renderà tutto. E nessuno avrà ulteriori disturbi da questa faccenda.
Wills: Mi fornisca le generalità di questo Arnold. Quanto alle sue certezze sono tutte da dimostrare.

Entra Arnold, affannato per la corsa.

Arnold: Alan, Alan. Cristo. Stai bene? Ti ha fatto del male?
Alan: Io sto bene.
Arnold: Sono venuto appena ho realizzato. Quel farabutto di Harry. 
Alan: Harry? Il marinaio?
Arnold: Avrei dovuto capirlo che non scherzava quando mi raccontava le sue idee di vita spensierata. E’ così che si gode la vita, il bastardo. Si finge amico, ottiene informazioni riservate sulle tue abitudini e quando meno te lo aspetti ti piomba in casa e prende quello di cui ha bisogno.
Wills: Posso sapere chi è lei?
Alan: Agente Wills, il signor Arnold Murray. Arnold questi sono gli agenti Wills e Rimmer. Li ho chiamati io.
Arnold: Sono così felice che stai bene. Non sai che corsa ho fatto. E la casa? Cosa si è portato via?
Rimmer: Una camicia, cinque coltelli da pesce, un paio di pantaloni, tre paia di scarpe, una bussola, un rasoio elettrico, una bottiglia di sherry già aperta.
Alan: In effetti, niente di importante. Saranno al massimo cinquanta sterline.
Wills: Signor Murray, lei conosce il signor Turing?
Alan: Ovviamente no. E’ il gioco del quartiere. A turno rubiamo nella casa del vicino così abbiamo una scusa per presentarci.
Arnold: Sì, agente lo conosco. E conosco anche il ladro.
Rimmer: Sembra che tutti qui conoscano il ladro. 
Arnold: Anche lei conosce Harry? 
Alan: Sarebbe divertente. Chissà se l’agente Rimmer frequenta … il porto, ogni tanto?

Rimmer fa di no con la testa, rispondendo imbarazzato allo sguardo indagatore di Wills.

Arnold: Non mi stupisce. Avrete il suo nome schedato da qualche parte.
Wills: Per il momento il nome che abbiamo schedato è un altro.
Arnold: Ah, sì?
Alan: Agente non è il caso di proseguire. Credo che ritirerò la denuncia. Più ci penso e meno me ne importa.
Arnold: Qual è il nome?
Wills: Il suo. Arnold Murray.
Arnold: Il mio? Io davvero non riesco a capire come possiate… io ero a casa mia… una birra… a casa. Da solo. Non capisco come possiate avere avuto il mio nome.
Wills: E’ stato il signor Turing a fornircelo.
Arnold: Sei stato tu?
Alan: Non facevi che raccontarmi di Harry, e della ricetta per la felicità. Poi, sparisci. Per giorni…
Arnold: Scommetto che è ancora per quella stupida storia delle sette sterline. Io mi fidavo di te. E tu non ci hai pensato due volte a fare il mio nome alla polizia. Non ho bisogno dei tuoi stracci io. Cosa credi? Non sono una marchetta del porto. Sette sterline erano un prestito. Merda. E io, adesso, cosa dovrei fare? Gettarti nello scandalo. Occhio per occhio. Se non fossi l’uomo che sono dovrei raccontare a questi due agenti certe informazioni riservate sul tuo conto, Mr Enigma. 
Alan: Non ho calcolato le variabili impazzite.
Arnold: Variabili? Impazzite? Sarei io la variabile impazzita? Io quello che ruba…
Rimmer: Una camicia, cinque coltelli da pesce, un paio di pantaloni, tre paia di scarpe, una bussola, un rasoio elettr…
Wills: Va bene, agente. La refurtiva è l’unica cosa chiara di questa faccenda. Quello che non mi è chiaro è se il signor Murray conosce o no il signor Turing.
Arnold: Così credevo.
Wills: Il signor Turing sostiene che il vostro rapporto vada oltre il lecito.
Alan: Ritiro la denuncia. 
Wills: Che tipo di legame esiste fra di voi, signore?
Alan: La smetta di girarci intorno come uno scolaro. Arnold è il mio amante. Gliel’ho detto.
Arnold: Avrei fatto meglio a seguire il consiglio di Harry.
Wills: Signori, devo chiedervi di seguirmi in centrale. Da questo momento siete in arresto.
Arnold: Con quale accusa? Io sono innocente. E’ stato Harry.
Wills: Gross Indecency. Atti osceni gravi, Sezione 11 dell’emendamento del 1885 della legislazione penale.


Buio



Atto Unico

Scena Prima

Interno clinica. Una stanza buia. Una sedia con i braccioli piatti e lunghi con delle fibbie per bloccare il braccio.
Accanto alla sedia un’asta da ospedale dalla quale pende una flebo.
La luce è poca e fredda. 
Alan Turing avanza verso la sedia. La osserva silenzioso. Poi si siede.
E’ molto diverso dall’uomo del prologo.
Ha il volto gonfio. Dalla camicia a maniche corte vengono fuori braccia tumefatte dai lividi. Ha un incedere goffo, stentato. Si intuisce un piccolo seno sotto il tessuto della camicia.
Dal fondo buio della stanza compare un infermiere in camice bianco che controlla l’etichetta della flebo. 



Infermiere: (Ha una voce lenta, distaccata, da ipnotizzatore e gesti lenti e continui, metodici) Buona sera, signor Turing.
Alan: Buona sera, Scott.
Infermiere: Devo pregarla di appoggiare il braccio qui. Ecco. Così. Ha passato un buon fine settimana, signor Turing?
Alan: Non riesco più a correre.
Infermiere: Stringa il pugno. Devo trovare la vena.
Alan: Correvo per chilometri a Cambridge. Ogni giorno.
Infermiere: Stringa più forte. So quanto può essere doloroso se non si trova la vena al primo tentativo.
Alan: Andai vicino a rappresentare il Regno Unito ai Giochi Olimpici di Londra. Che hanno era?
Infermiere: Il 1948, signor Turing. Stringa.
Alan: Una volta gareggiai con Chataway. Il primatista mondiale. 
Infermiere: E vinse?
Alan: (Lamentandosi dell’ago che entra nella carne) Ahi. 
Infermiere: Sì, la vena al primo colpo. Si rilassi adesso. Ci metterà… il solito. 
Alan: Vinsi?
Infermiere: Verrò a controllarla.

L’Infermiere esce.

Alan: Chataway. Cinquemila metri. Primato mondiale. Chataway. Come si chiamava? Ehi? Scott? Infermiere? Infermiere? Come si chiamava Chataway?

Christopher si affaccia un po’ alla luce. Rimarrà per tutta la scena alle spalle di Alan e in penombra.

Christopher: Chris.

Alan ride. Prima uno sbuffo. Poi sempre più forte.

Christopher: Cosa c’è da ridere in Chris?
Alan: Che anche tu ti chiami Chris, Chistopher.
Christopher: Già. Buffo.
Alan: Ho passato la vita a decodificare i messaggi segreti del nemico. Dei messaggi segreti della vita non sono mai riuscito a venirne a capo, invece. 
Christopher: Forse sì, Alan.
Alan: Chris?
Christopher: Ancora una volta, Alan. Perché ti trovi qui?
Alan: E’ la nuova frontiere scientifica. Il trattamento ormonale.
Christopher: Frontiera?
Alan: Estrogeni per un anno. Come prescrive la Regina. La Regina contro urino e Murray. E’ un segno della civiltà dei nostri tempi.
Christopher: Civiltà?
Alan: La castrazione era una barbarie. In più non risolveva il problema. Vedi, Christopher, la Regina non si preoccupa tanto di come usi il tuo corpo ma delle pulsioni che lo governano. E’ evidente che si può togliere… il pennello al pittore ma non per questo lo si farà meno pittore. I castrati hanno gli stessi desideri anche dopo l’evirazione, solo che sono frustrati perché non possono più attuarli come vorrebbero. La civiltà del trattamento ormonale sta proprio in questo. Non offende il corpo e rigoverna la mente.
Christopher: Sono gli ormoni che ti dicono come amare, Alan?
Alan: La Regina dice di sì.
Christopher: La Regina ha provato il trattamento ormonale?
Alan: A giudicare dal suo aspetto direi che è possibile, Christopher. Io le somiglio ogni giorno di più. Gli estrogeni mi stanno gonfiando. Ho le gambe pesanti. Non riesco più a correre. Ti ricordi come correvo, Christopher? Mi sta crescendo il seno. Il seno della Regina. La regina muove. Scacco matto.
Christopher: Perché sei qui, Alan?
Alan: Potevo scegliere fra il carcere e la scienza. Ho scelto la scienza.
Christopher: La scienza sono gli ormoni?
Alan: La scienza è la scienza.
Christopher: Tu scegli sempre la scienza, Alan. 
Alan: Il dottore dice che non c’è nessuna riduzione della libido senza un’adeguata crescita delle mammelle.
Christopher: Vuoi che la tuo libido cali?
Alan: Non ci ho mai pensato. Per me era un piccolo animale domestico. Un yorkshire da salotto. Ma pare che al mondo sembrasse un dobermann ferocissimo. 
Christopher: E’ per la scienza che sei qui, dunque?
Alan: Sempre. Sembra che sia nato per la scienza. Sono qui per la scienza. Su questo pianeta.
Christopher: E’ lo scienziato che hanno arrestato?
Alan: Qualcuno dice che sono qui perché sono ingenuo. A che serve essere uno scienziato se poi non sai dare le risposte giuste a un processo?
Christopher: Hai dato le risposte sbagliate?
Alan: Ero accusato di essere omosessuale. Lei come si dichiara? Non colpevole, ho risposto.
Christopher: Eri colpevole?
Alan: Era il vecchio paradosso di Godel che saltava fuori di nuovo e all’improvviso. Dichiaro il falso in ogni caso. Se sono colpevole, perché non è una colpa amare un uomo. Se non sono colpevole, perché nego di amare un uomo, cosa che invece faccio e che non comporta alcuna colpa. Fra due spiegazioni possibili, per quanto false, scegli sempre quella meno complessa. Dunque, per come era posta la questione, mi dichiarai colpevole.
Wilde mi avrebbe stretto la mano.
Christopher: E’ la tua ingenuità che ti fa sedere su quella sedia?
Alan: Infermiere? Scott? Brucia. Questo maledetto ago mi sta uccidendo. Infermiere?

Nessuna risposta

Alan: Christopher? Sei ancora lì?
Christopher: O è il tuo genio che stanno curando, Alan?
Alan: MI hanno sempre usato. Questo è solo un altro modo di abusare di me.
Christopher: Cancella, riscrivi, muoviti a destra, muoviti a sinistra. E’ tutto qui.
Alan: Tutto.
Christopher: E’ la tua macchina. Il mondo l’ha amata subito, la macchina di Turing. L’estrema semplificazione di operazioni complesse. Usala. Perché sei qui, Alan?
Alan: Stanno seguendo anche te? E questo che intendi?
Christopher: Seguire?
Alan: Le spie della Regina. Gli alfieri. Mi osservano da lontano. Giochiamo una partita. Non cercano di anticipare le mie mosse. Semplicemente le registrano. Mi stanno studiando. Solo con una profonda conoscenza dell’avversario e delle sue mosse puoi sperare di compiere quell’unica azione decisiva. Vincente.
Christopher: Ma tu non sei il nemico, Alan. Il nemico sono i tedeschi. Il loro codice segreto. La loro maledetta macchina Enigma. Tu sei il nostro salvatore. Tu sei l’alleato più importante, Alan.
Alan: Ho sconfitto Enigma. Ho decriptato il codice. Il mio reparto segreto è stato il più veloce. Ci siamo arrivati per primi. Enigma cambiava la posizione delle lettere di continuo. La A poteva valere Z, o T. E i messaggi intercettati risultavano incomprensibili. Ma le infinite combinazioni iniziali si riducevano a poche decine facilmente calcolabili, dopo un attento studio. La macchina Enigma tedesca aveva un sistema di dischi rotanti capaci di quattro punto dieci alla ventisette trasposizioni al minuto. Quattro seguito da ventisette zeri. I tedeschi dormivano sonni tranquilli. Gli Inglesi non sarebbero mai riusciti a violare Enigma.
Christopher: E la nostra flotta sarebbe stata distrutta. 
Alan: Gli U-Boote tedeschi affondavano una nave inglese dietro l’altra ed erano praticamente invisibili. La marina inglese intercettava i messaggi nemici in codice che segnalavano posizione e obbiettivi, ma nessuno riusciva a decriptarli.
Christopher: Hai sconfitto la Sfinge, piccolo Edipo. E l’Inghilterra ha vinto la guerra.
Alan: Dimmi una cosa Chris, a che serve vincere la guerra? Ho salvato le vite dei giovani marinai inglesi e ho contribuito a migliaia di morti atroci di giovani tedeschi. Imprigionati nella lamiera dei sommergibili. Intercettati. Affondati. Piccoli pesci ignari, direttamente nella bocca del grande squalo. Una mattanza.
Christopher: Abbiamo vinto la guerra. La nostra vittoria vuol dire la pace del mondo.
Alan: Il potere usa il genio. Finché può trarne vantaggio. Poi, lo teme.
Da Vinci ha passato la vita a inventare macchine belliche per fascinare i potenti e ottenere i finanziamenti per i suoi studi più interessanti. 
Galileo si umiliava in invenzioni marinaresche per la Serenissima, purché lo lasciassero in pace a scrutare nel fondo del cielo. E Einstein…
Christopher: Sei l’alleato più prezioso della nostra patria.
Alan: Proprio per questo. Il più prezioso è anche il più pericoloso. Loro non hanno il controllo sulla mia mente. Nessuno ce l’ha. Io stesso non lo posseggo. E mi temono. Per ciò che penso, per le informazioni segrete che non hanno potuto tacermi, per le mie amicizie.

Entra l’Infermiere. Christopher si ritrae nel buio.

Infermiere: Quali amicizie, Signor urino?
Alan: Amicizie? No. Io…non ho più amici. Non vedo nessuno, non frequento più nessuno.
Infermiere: Lei stava dicendo qualcosa a proposito delle sue amicizie. Con chi parlava, signor Turing?
Alan : Chris…. Si chiamava Chris. Chataway. Il maratoneta. Si chiamava Chris. Chris Chataway. Se ne ricorda ? Ne stavamo parlando prima. Ho ricordato il nome. E la nostra breve amicizia.
Infermiere: Lei sa che non c’è nessuno in questa stanza a parte noi due?
Alan: Certo. Nessuno.
Infermiere: Non le fa bene coltivare amicizie, Signor Turing. Se ne rende conto, vero? Non dimentichi che questo trattamento potrà essere sospeso in qualsiasi momento se lei verrà trovato ancora in compagnia dei suoi vecchi amici. E a quel punto la galera… ho paura che il carcere sarà inevitabile. 

L’infermiere controlla la flebo. Scruta nelle palle degli occhi di Turing. Poi lo fissa in un lungo silenzio.

Alan: Il segreto della corsa è … la solitudine. Ore di allenamento in perfetta solitudine. Da Cambridge giù lungo il fiume Cam, costeggiando i sobborghi e fin nei paesini al di là della campagna. Una sosta sull’erba e via, di nuovo verso il King’s College. Nessuno da superare, nessuno con cui confrontarti. E quando arrivi sei il primo. In solitudine hai superato te stesso. Correre per proprio conto è come pensare per proprio conto. Non ci sono altre forme di pensiero. O si pensa per conto proprio o non si pensa.
Infermiere: Molto bene, signor Turing. E’ a questo che serve il trattamento. Ad aiutarla a stare da solo. 
Alan: Credevo di essere un campione della solitudine.

L’infermiere esce.

Alan: Correrò di nuovo. Chris? Correrò di nuovo? Ho conservato tutte le tue lettere, Chris. E la fotografia di te ragazzino che mi inviò tua madre.
Christopher: (affacciandosi di nuovo alla luce) Cancella, riscrivi, muoviti a destra, muoviti a sinistra. 
Alan: Tutti sapevano che del mio passato non si poteva parlare. Che lavoravo per i servizi segreti. Che arrivavo da un posto senza nome. Che avevo condotto ricerche in campo bellico. Ero un mistero. Ero affascinante. Avevo amanti. Lusinghiere attenzioni dei colleghi.
Christopher: Eri un agente segreto.
Alan: Vedevo codici Enigma ovunque guardassi. C’è un codice dietro ogni cosa, nel volo di una farfalla, nel profilo di un monte, nel sorriso di un bambino. Sono codici, regole matematiche che subiscono infinite piccole variazioni, scarti, modificazioni. Vanno calcolate anche quelle. Infrangere Enigma era… un modo per comunicare. Qualcuno mandava segnali incomprensibili? Bisognava comprenderli. E, in fondo, nessun messaggio è veramente comprensibile. Ogni forma di comunicazione. Ogni frase contiene un enigma da decriptare. L’intera esistenza del singolo essere umano è un enigma. Tu sei il mio enigma. Io stesso sono un enigma per me.
Christopher: Arnold Murray. Potevi evitarlo.
Alan: Potevo evitare di vivere? Dannazione, Christopher. Sei morto. Mi hai lasciato da solo a sedici anni. Eri l’unica persona con cui sia mai riuscito a parlare. L’unica illusione di comunicazione che riuscivo a tollerare. Tu non hai vissuto. E’ una scelta fin troppo facile.
Christopher: Era tubercolosi. Solo tubercolosi.
Alan: Sei morto. E chiedi a me se potevo evitare di vivere. Tu potevi evitare di morire? A cosa credi che servano i miei studi sull’intelligenza artificiale? A che serve costruire un cervello? A resuscitarti. Una macchina capace di pensare. Immortale. Un giorno tutti avranno la loro intelligenza artificiale domestica. E sarà anche merito tuo. Della tua morte, Chris.
Christopher: E Arnold? 
Alan: Tu sei la mia morte. Lui la mia vita. Acceso spento. Ricordi? Uno, Zero. Poi l’arresto. Il processo. La condanna. La fama. Pubblica. I vecchi amanti che mi evitano. Hanno paura. I colleghi. Freddi. Di ghiaccio. 
Christopher: Zero, uno. Acceso, spento. 
Alan: Ho sentito che in Norvegia organizzano balli per soli uomini. Non possono arrestarmi se coltivo le mie amicizie fuori dal paese. Se salti fuori dalla scacchiera la Regina non può più darti scacco.


Christopher ritorna nell’ombra.

Alan: Chris? Christopher? Dove sei? Non riesco a vederti. Parla più forte. Non ti sento.
Eravamo terrorizzati da un’invasione tedesca. Poteva accadere da un giorno all’altro, dicevano. E tutti compravano lingotti d’argento. Li comprai anch’io. Esplorai un bosco in bicicletta, subito fuori Bletchley Park. Divisi i lingotti in due gruppi. Seppellii il primo accanto ad un ruscello, sotto le arcate di un ponte. L’altra metà ai piedi di un albero. Poi mi sedetti. E inventai una mappa. La stracciai. La riscrissi in codice. E decisi di nascondere anche quella. Quando la grande guerra finì, tornai al boschetto. Ritrovai la mappa. Quasi subito. Non riuscii a capirci niente. Era incomprensibile. Un codice impossibile. Il mio codice. Ci sono ancora alcuni lingotti d’argento seppelliti nei boschi di Bletchley Park. Chris?

Buio.


Scena Seconda


Interno casa di Alan.
Non è cambiato molto dall’interno che avevamo visto al momento del furto. C’è un cesto di frutta e i resti di una colazione lasciata a metà sul tavolo da lavoro.
Alan indossa pantaloni larghi strizzati in vita con una corda e una giacca da pigiama. Si muove fra il comodino con il piccolo laboratorio chimico e il tavolo con gli appunti di matematica. E’ agitato, pensieroso. Come prossimo ad una soluzione che ricerca da tanto tempo.
Harry è appoggiato ad una parete. Sta fumando. Indossa la divisa inglese da marinaio.

Harry: Sono passato davanti al carcere oggi. Perché diavolo mi trovassi da quelle parti non lo so. Mi sono seduto a fumare. Ci sono rimasto un bel pezzo. 
Alan: Ma dove l’ho messo?
Harry: C’era una ragazza. Bella. Bruna. Triste. Aspettava davanti al portone chiuso. Giocava coi suoi capelli. Li arrotolava sul dito e poi li lasciava andare. Sai come fanno le ragazze? Quando non sanno che fare. Lei aspettava. Doveva esserci il suo uomo rinchiuso lì dentro. Non poteva essere il fratello. Una non si veste in quel modo per andare a trovare il fratello. Sì, doveva essere il suo amante. Si era messa bene. Pareva agitata come una che deve fare la prima comunione. 
Alan: (Pestando sui tasti del calcolatore che ha sul tavolo) Questo calcolatore è così lento. Faccio quasi prima da solo. 
Harry: Devi prenderne uno più grosso.
Alan: (Rovistando fra le carte che ha in terra) No. E’ in questo che sbagliano tutti, Harry. Non serve a niente fare macchine sempre più grosse. Bisogna avere programmi più efficienti, invece. E un giorno avremo macchine sempre più piccole. Di un po’, Harry, se vedi uno scemo per strada, cosa pensi? Con una testa grande il doppio sarebbe forse meno scemo? Oppure che non è la quantità di cervello ma la qualità ad essere scarsa. 
Harry: Fa come ti pare. Ma che c’entra una macchina per calcolare con un cervello?
Alan: Se non ritrovo la sequenza esatta di calcoli sono rovinato.
Harry: Ma tu ci sei stato in carcere?
Alan: Ho scelto gli ormoni. Scelta coatta. Come qualsiasi altra scelta. La libertà non esiste. Se puoi scegliere scegli fra due già dati, e se non hai niente da scegliere allora non si può parlare di scelta. Perciò, Harry, la libertà non esiste.
Harry: Dicevo di Arnold. Non sei mai andato a trovarlo in carcere?
Alan: A che servirebbe? Tanto non me lo farebbero vedere. E se anche fosse, dubito che Arnold voglia vedermi.
Harry: Se sapesse che io sto qua a parlare con te. Mentre lui si uccide di noia in quell’inferno…
Alan: Potresti aiutarmi a cercare i miei appunti.
Harry: Gesù, questo posto è un porcile. Ma come fai a vivere così? E poi ti stupisci se ti manca qualcosa.
Alan: Devo ritrovare i miei calcoli. Non posso ricominciare da capo. Ci vorrebbe troppo tempo. E troppa fatica.
Harry: Così, non sei mai andato a trovarlo.
Alan: No.
Harry: Ma lui è lì dentro per te.
Alan: Per me? Hai dimenticato di avere svaligiato questo appartamento, Harry?

Harry butta a terra la sigaretta e la spegne con un piede.

Harry: E’ dentro per indecenza. Non per furto. E poi erano quattro cose senza valore. In effetti, non ne valeva la pena.
Alan: No. Sono d’accordo con te. Non ne valeva la pena.
Harry: (Prendendosi una mela dal cesto di frutta e cominciando a morderla svogliatamente) Ti odierà. Questo lo sai, Alan. Arnold ti odia. Per colpa tua sarà la fidanzatina di un pluriomicida.

Harry ride.

Alan: Se non ti avesse abbordato al porto… o lo hai abbordato tu? Adesso non saremmo qui, insieme. 
Harry: (Mangiando la mela) Andiamo, Alan. Non te ne frega niente di me. Ammettilo. E non te ne frega niente nemmeno di Arnold. Non te n’è mai fregato niente. Tu sei superiore. A tutti. Sei il genio. Vedessi come guardi il mondo. Come ci guardi. Pensavi davvero di essere superiore a tutto? Eh, Alan? Superiore ad Arnold? A me? Ci vuole poco. Ma superiore alla legge, merda. Sei solo uno spiantato, un matto che ha fatto corto circuito e ha avuto qualche buona idea. Pensavi che le tue buone idee ti avrebbero salvato? Ti avrebbero difeso davanti al giudice? Credevi che si sarebbero fermati davanti alle tue idee? Tu gli fai ancora più schifo. Perché sei un degenerato. E in più sei un genio. 
Alan: Un cervello e una macchina hanno più cose in comune di quante tu riesca a immaginare.
Harry: Uno stramaledetto genio che non sta mai a sentire. 

Harry butta la mela e si accende un’altra sigaretta.

Harry: Chi se ne frega. E’ stato divertente. Vedere quell’idiota di Arnold finire in prigione al posto mio. Criticava tanto. Mi faceva la morale. Al porto! Ed è finito in prigione per tutti quei discorsi che disapprovava. 
Alan: Arnold è adulto abbastanza per ammettere le sue responsabilità. Al contrario di te, Harry.

Alan trova gli appunti che cercava sotto il cesto di frutta.

Alan: Trovati. Non li ho persi. Ne ero sicuro. Ecco dove si erano cacciati.

Alan legge velocemente gli appunti. Febbrile.

Alan: Sì, esatto. Anche questo passaggio. Si può semplificare. Da cui discende che… no. C’è un errore. Qui non torna. Non è possibile. Non torna. Non torna. 

Alan appallottola il foglio e lo lancia lontano da sé.

Alan: (Disperato crolla per terra) Non è la sequenza esatta.

Un tempo

Harry: (Dopo una lunga boccata di fumo) Vuoi che mi spogli?

Alan lo guada. Non trova le parole.

Harry: Sei teso. Hai bisogno di una bella gita in barca col marinaio. E io ho bisogno di soldi. 

Harry, con la sigaretta serrata fra i denti, comincia a spogliarsi lentamente.

Harry: Adesso Harry ti porta in barca. Ad Alan piace quando Harry lo porta in barca.
Alan: (Guardandolo mentre si spoglia) Le macchine computano. I cervelli pensano. Ma pensare è computare. Solo con versatilità illimitata. Ogni struttura capace di questa versatilità, pensa. Un pensiero complesso si fonda su uno più semplice e poi su uno più semplice ancora, fino all’istruzione di base. La più semplice di tutte. Sì, no. Acceso, spento. Le nostre macchine sono ancora ferme a forme di computazione elementare. Ma è da lì che tutto parte. E un giorno saranno capaci di computazioni tanto complesse da sembrare libere da schemi di riferimento. E allora penseranno. 

Harry continua a spogliarsi.

Alan: Perciò non c’è niente di più simile al cervello di una macchina che computa. Capisci? Il sostrato materiale non ha nessuna importanza. Che siano neuroni o transistor a chi interessa? Se poi hai un sistema capace di leggere domande e scrivere risposte. E chi costruisce un simile sistema costruisce un cervello. La macchina… pensa.

Harry è nudo davanti ad Alan.

Harry: Facciamo presto.

Buio


Scena Terza

La stessa clinica della prima scena.
Alan è seduto con l’ago della flebo in vena.
L’infermiere Scott scrive su un piccolo banchetto di metallo.

Infermiere: (Tirando su il naso dalle sue carte e cavandosi gli occhiali per guardare meglio Alan) E’ contento, signor Turing?
Alan: Suppongo di sì. 
Infermiere: Ma certo che lo è. L’ultima flebo e poi ha finito.
Alan: Non dovrò ritornare più.
Infermiere: Questo dipende da lei, signor Turing. Nessuno vuole trattenerla qui.
Alan: Davvero? E io che ho sempre pensato il contrario.
Infermiere: Il regno ha bisogno della sua mente. Dimentichi il corpo. Lo pensi come un contenitore che serve solo a sostenere la sua mente. E’ quella l’unica cosa che conta.
Alan: Dimenticare il corpo… è il corpo che non mi dimentica. Voglio ricominciare a correre.
Infermiere: Ma certo. Col tempo. 
Alan: Le ho già detto che ero un maratoneta?
Infermiere: E’ stato vicino a rappresentare l’Inghilterra ai Giochi Olimpici di Londra.
Alan: Vicino. Ma non abbastanza.
Infermiere: Non si lamenti. E’ un gran risultato. Lei vuole troppo. Un fisico da atleta, una mente da scienziato. Ai più basterebbe avere o l’uno o l’altro. Non è forse stato ammesso alla Royal Society? E le è stato concesso l’Ordine dell’Impero Britannico. 
Alan: E’ vero. Quella medaglia deve essere finita nella cassetta degli attrezzi. Con le pinze e i cacciaviti. 
Infermiere: E a Cambridge, ha conosciuto Il grande Wittgenstein.
Alan: Una volta gareggiai con Chris Chataway. Il campione.
Infermiere: Deve essere elettrizzante poter sedere allo stesso tavolo di Wittgenstein. Di che parlavate insieme, a Cambridge, signor Turing?
Alan: Finì che vinse lui. Correva meglio di me. Non era più veloce. Era solo più abile. Sapeva farlo meglio. 
Infermiere: Con un po’ di pazienza riprenderà a correre, signor urino.
Alan: Lei corre, Scott?
Infermiere: Io? No. Io no. Non sono mai stato uno sportivo. Prima di conoscerla pensavo che i geni matematici fossero tutti dei rammolliti. Ho dovuto ricredermi. 
Alan: Ha fatto di me il suo Frankenstein. Adesso grazie alle sue flebo di ormoni sono un genio matematico rammollito. E questo la fa sentire più tranquillo. Vero, Scott?
Infermiere: Forse lei lo sa. Ma perché è un genio questo Wittgenstein?
Alan: Wittgenstein… una volta mi disse: Alan, le nostre convinzioni più antiche e radicate sono il nostro unico vero nemico.
Infermiere: Una battuta di spirito.
Alan: Credo fosse il perno di tutto il suo pensiero. 

L’infermiere lo guada stupito e deluso.

Alan: Ma sa una cosa, Scott? Wittgenstein… non correva. 

L’infermiere sorride. Anche se non è sicuro di avere capito la battuta.

Alan: Mio padre diceva: per fare andar il cervello, figliolo, devi fare andare i piedi.
Infermiere: Ecco, questa sì che è filosofia. Era un brav’uomo suo padre.
Alan: L’unica volta che gareggia nella mia vita, persi.
Infermiere: Gareggiò con un campione olimpico.
Alan: E con chi altro avrei dovuto gareggiare?
Infermiere: Ho quasi finito. Poi serve qualche firma del medico e lei sarà definitivamente dimesso.
Alan: Mi spaventa.
Infermiere: E’ buffo.
Alan: Crede?
Infermiere: Alan Turing ha paura del mondo. E il mondo ha paura di Alan Turing. 
Alan: Non ci conosciamo. E ci temiamo.
Infermiere: Certo, lei crede nella luce della conoscenza. Il lume dell’intelligenza che scaccia le ombre dell’ignoranza.
Alan: La più grossa fregatura. Crediamo che la conoscenza serva a penetrare nel mistero ed invece è la conoscenza stessa il più fitto e impenetrabile dei misteri. E il mistero ha bisogno di rispetto. 

L’infermiere appone dei timbri alle carte, in silenzio.

Lei è mai stato a Blackpool?
Infermiere: No. Mai.
Alan: Blackpool e il suo piccolo Luna Park. L’ho visitato qualche giorno fa.
Infermiere: Potrei portarci mio figlio. Al Luna Park di Blackpool.
Alan: Si divertirebbe. C’era la tenda di una maga, la Regina Zingara. 
Infermiere: Zingari? Ladri e ciarlatani.
Alan: Tremava mentre scrutava la sua sfera di cristallo. Per me. Come una foglia. Rabbrividiva fin nelle ossa. E gli occhi guizzavano dietro alle ombre della sua mente. Apprensivi, materni. E poi, cominciò a piangere. Col volto immobile e le lacrime che le colavano sul viso da madonna.
Infermiere: Attrici. Esperte. Streghe. 
Alan: Lei non crede nel mistero, Scott? 
Infermiere: Suvvia, non ci crede nemmeno lei. E’ uno scienziato.
Alan: Se non credessi nel mistero non potrei fare il mio lavoro. In fondo, non c’è molta differenza fra me e quella zingara. Forse solo che quella donna sembrava sapere qualcosa sul mio futuro che la mia scienza non può calcolare.
Infermiere: Sciocchezze. Mi faccia controllare.

L’infermiere si alza e controlla la flebo. Annuisce. Con delicatezza slaccia il braccio di Alan dalle cinghie e sfila l’ago dalla sua carne.

Infermiere: Passi a ritirare le sue carte firmate dal medico. La prossima settimana, signor Turing.
Alan: (alzandosi) Grazie, Scott.

Alan dà la mano a Scott. Lo coglie impreparato. Esita. Poi Scott stringe la mano ad Alan e lo avvicina a sé per parlare senza essere udito.

Infermiere: Mi stia a sentire – sono cose che non dovrei dirle, ma… stia lontano dalle amicizie maschili.
Alan: D’accordo, Scott, me lo ha già detto tante volte.
Infermiere: No. Lei non capisce. Non è solo un fatto di decenza. Da questi uffici passano tante carte. E io ho letto qualcosa. 
Alan: A che proposito?
Infermiere: Si indaga sull’impiego di omosessuali negli enti governativi. Si dice che sono indesiderabili perché facilmente ricattabili. Fa parte della loro natura. Della natura delle loro relazioni. E per questo vanno eliminati. Trasferiti. Gli omosessuali sono deboli di mente, e gli atti di perversione sessuale a cui si abbandonano è noto che indeboliscono la fibra morale di un individuo fino a renderlo inadatto a posizioni di responsabilità.
Alan: E’ questo chi lo dice?
Infermiere: Non ha importanza chi lo dice. Ma non capisce? Oltre a fare del male a sé, al suo corpo, alla sua famiglia, lei è un rischio per la sicurezza nazionale.
Alan: Far male al mio corpo? Io? Ero un atleta, prima di venire legato a quella sedia per una anno. Non ho mai fatto male al mio corpo. L’ho allenato, come ho allenato la mia mente. Gli aghi nelle vene, invece, gli ormoni che stillano dall’alto come una manna infernale, la tortura dell’attesa, tutte le settimane, da solo, in silenzio, in questa stanza. Mi è cresciuto il seno, Scott. Il seno, per colpa della vostre flebo. E chissà se riuscirò mai a correre di nuovo. E lei crede che sia io a fare del male al mio corpo? 
Infermiere: E’ solo una cura… per la sicurezza nazionale.
Alan: (Sorridendo amaramente) La sicurezza nazionale è minacciata dall’uso che faccio del mio corpo, Scott?
Infermiere: Crede di farmi ridere?
Alan: Mi piacerebbe proprio, Scott.
Infermiere: Il Federal Bureau of Investigation, il Central Intelligence Agency, i servizi di informazione dell’esercito, della marina, dell’aeronautica. Sono tutti d’accordo: i pervertiti a servizio del governo sono un rischio per la sicurezza. Sono esposti alle lusinghe degli agenti di spionaggio straniero. I servizi di informazione di tutto il mondo considerano gli omosessuali che hanno accesso a materiale confidenziale come obiettivi primari di pressione. Lei non può sapere chi si nasconde dietro un uomo che le si avvicina. Quali intenzioni cela. Diffidi degli stranieri. In questa clinica non curiamo solo la perversione, ma diamo un valido contributo alla difesa della nazione. Noi la preserviamo dal ricatto.
Alan: Scott, lei crede che io sia un rischio per la sicurezza nazionale? Io? Deve ringraziare me e i miei studi se adesso non stiamo parlando in tedesco e obbedendo alle leggi razziali di Hitler. E lei crede che io sia un rischio per la sicurezza nazionale.
Infermiere: Quello che credo io non ha importanza. Io le ho detto queste cose in amicizia. Ma se ci sono delle leggi apposite vuol dire che c’è un problema reale.
Alan: Mai come oggi l’intelligenza mi è apparsa un mistero. Passerò a prendere le mie carte la prossima settimana. Non si disturbi a consegnarmele di persona. 

Alan fa per uscire.

Infermiere: Lei non può cambiare il mondo.
Alan: Non volevo cambiare il mondo. Volevo solo interpretarlo.

Buio


Scena Quarta

Esterno. Notte. Alan indossa un ampio impermeabile scuro che continua a stringersi addosso per il freddo. E’ in attesa di Kjell. Il suo nuovo amante norvegese.

Alan: (Guarda la fotografia che ha in mano. Poi si guarda intorno per cercare di scorgere la persona della foto. Ficca la fotografia di Kjell nella tasca. Si accende una sigaretta. Fa pochi tiri, poi la butta per terra e la spegne con un piede. Ritira fuori la fotografia e dalla tasca gli cade un biglietto. Si abbassa a raccoglierlo e legge) “Caro Alan, finalmente sono riuscito a trovare il modo di raggiungerti. Non mancare al nostro appuntamento. Bergen non è più la stessa senza di te. L’ora e il luogo li conosci. Quanto a me spero che tu non mi abbia dimenticato. E se la memoria non ti assiste hai sempre la mia foto. La conservi ancora, vero? Tuo Kjell”. Fa così freddo Kjell. Non pensavo che avrebbe fato tanto freddo. Ti avrei dato appuntamento in un locale. Al chiuso. Povero ragazzo. Lasciare la Norvegia solo per vedermi. Non c’è davvero niente qui che un ragazzo come te possa amare. A parte me, forse. Questo paese è così… triste. Niente di simile ai balli spensierati della Norvegia. In verità, non so perché dovresti fare il viaggio fin qui. Ti è bastato poco. Quattro chiacchiere e una birra sono bastate ad accendere il tuo interesse. Per me. Il pensiero umano è un mistero. Per questo sarà utile costruire una macchina pensante. Ci aiuterà a comprendere meglio il nostro stesso cervello. (Alan guarda il suo orologio da polso) Che ritardo sarà necessario calcolare per un appuntamento al di là della manica? Io comincio ad intirizzire, Kjell. E poi dove ti porto? Di cosa ti parlo? Ammesso che tu voglia parlare. A casa mia? Posso mostrarti il piccolo laboratorio di elettrolisi che ho allestito fra il letto e il bagno. Esattamente il genere di cose che interessano ad un ragazzetto della tua età. L’elettrolisi. Figurarsi. Vieni Kjell, ti porto a vedere la “stanza degli incubi”. Come cos’è, il luogo della mia casa che più terrorizza mia madre. No, non spaventarti. E’ solo il mio laboratorio di chimica domestico. (Gli sembra di scorgere il ragazzo in lontananza e lo chiama) Kjell? Kjell? Sono qui. (Fa qualche passo in avanti. Poi si ferma. Ritira il braccio con cui salutava. Prende la fotografia. Controlla. Non è la stessa persona) Matematico ritrovato assiderato in un parco pubblico. Ecco, oltre alle mosse probabili come arrivare in ritardo, una buona macchina pensante dovrà calcolare anche quelle improbabili. E per farlo dovrà avere a sua volta una nozione di… libero arbitrio. Bisognerà cominciare dal fornire alla macchina una memoria delle mosse fatte. Delle carte giocate. E un indice di riferimento in cui incasellarle. Poi si potrebbe inserire un programma di casualità. Come una pallina in una roulette. La casualità della scelta della pallina sarà leggibile all’esterno come una certa dose di libero arbitrio. Il libero arbitrio non è casuale? Presuppone una scelta ragionata? E chi lo dice? La libertà di compiere azioni impreviste vuol dire gettarsi nel vuoto, assumere in sé la casualità come criterio di scelta. Tu avresti potuto decidere in qualsiasi momento di non venire più. E con altrettanta facilità potresti non aver voluto avvisarmi. Oppure potresti essere stato trattenuto. Tua madre, magari. Un programma di intelligenza artificiale che si rispetti deve calcolare anche queste variabili. E deve funzionare meglio di me che non le ho previste e sto qui ad aspettarti da ore. (Si stringe nell’impermeabile) Kjell. Arnold. Harry. Sento freddo ragazzi. Chris? Christopher? Perché non ci sei mai quando ho bisogno di te? E‘ questo il freddo che conosci, Christopher? Sarà l’inverno più freddo degli ultimi cinquant’anni.


Scena Quinta – Finale


7 Giugno 1954
Interno appartamento di Alan Turing. Identico nel disordine alla scena precedente.
Il fantasma di Chris è accovacciato sul letto. Gioca con una mela passandola da una mano all’altra. Fra le gambe ha delle lettere. Accanto al letto, il comodino con le ampolle da chimico e il cesto di frutta.
Alan è al tavolo da lavoro con la cornetta del telefono in mano. E’ ritornato il bell’uomo di una volta. Anche i suoi abiti sono in ordine. Indossa un vestito di lana pesante. C’è una stufa portatile vicino al tavolo.

Alan: (Urlando) Pronto. Pronto. Maledizione. Bastardi. Mi state controllando ancora. Mi state ascoltando? Vi odio tutti. Servi. (A Chris) Mi hanno messo il telefono sotto controllo. Perché? Voglio solo sentirlo. Non è un agente segreto.
Christopher: E come fai a saperlo?
Alan: Kjell? Se fossi venuto con me a Bergen lo avresti visto. E allora avresti capito.
Christopher: La Norvegia non mi è mai piaciuta. Non parli d’altro. E’ un’ossessione. Hai chiamato Kjell perfino il tuo programma di ricerca biologica.
Alan: Perché non posso parlargli? Perché non posso vederlo? Quei bastardi della polizia sono arrivati prima di me. Conoscono perfino i luoghi dei miei appuntamenti amorosi. E piombano come un’aquila … a rubare il mio Ganimede. E riportarlo nell’olimpo delle divinità nordiche. Si gela qui dentro. Questa stufa è andata.
Christopher: Vuoi una mela?
Alan: Non mangiarla. Ho maneggiato del cianuro e avevo quella mela vicino. Devo chiamarlo.

Ricompone il numero.

Alan: Chiama. Zitto. Pronto. Pronto? E’ muto maledizione. Ma vi siete traditi, bastardi. Non potrete continuare a negare che mi pedinate. Mi sorvegliate giorno e notte. Ormai vi riconosco dal puzzo. Bastardi.
Christopher: Chiama un altro. Avevi conosciuto dei ragazzi anche in Francia. E in Grecia non c’era il tuo preferito?
Alan: Gli scriverò una lettera.

Alan cerca carta e penna poi si siede a scrivere.

Christopher: (Ironico e canzonatorio) Caro Kjell, mio piccolo Ganimede, angelo biondo, mio culto nordico. La vita non è più la stessa da quando l’aquila reale ti ha sottratto al mio mondo.
Alan: Detesto il romanticismo.

Alan butta via il foglio sul quale non ha scritto nulla.

Alan: Il romanticismo è una pagliuzza in un occhio. E’ solo un’altra forma di miopia. Avrebbe sofferto il freddo di questi giorni, Chris? Se fossi riuscito ad invitarlo qui… è un norvegese, in fondo.
Christopher: Mr Greenbaum dice che non devi assecondare questo tua innata tendenza a non esprime le emozioni. Dice che un giorno o l’altro potrebbe anche esserti fatale.
Alan: Mr Greenbaum è un idiota.
Christopher: Mr Greenbaum, Alan, è il tuo analista. E’ tuo amico e sta cercando di aiutarti.
Alan: Stavo meglio quando nessuno mi offriva il suo aiuto. Kjell mi avrebbe riscaldato. Tu non mi scaldi più Christopher. Si dice che si abbiano delle crisi cicliche nelle relazioni a lungo termine. E’ buffo come non abbia nessuna importanza che uno dei due componenti della coppia può essere anche morto da un pezzo.
Christopher: Ho ripensato alla tua teoria della mente. Alle macchine capaci di pensare.
Alan: Perché? Forse l’uomo pensa? Sragiona. Ecco quello che fa. Una macchina non dovrebbe fare fatica a replicare quel poco di cervello che l’uomo dimostra di possedere.
Christopher: Ti ricordi di quell’amico di Godel, a Cambridge?
Alan: Chi?
Christopher: Quell’uomo che faceva lunghe traversate del fiume in compagnia di una ragazzina. Una bambina in verità.
Alan: Non ricordo nessuna bambina a Cambridge. Ah, sì. Charles. Charles… Lutwidge Dogson. Era un matematico, mi sembra. O un logico. E la sua amica bambina si chiamava… Alice.
Christopher: Ti ha scritto delle lettere. Le hai lette?

Christopher mostra le lettere che ha con sé ad Alan.

Alan: Kjell. Finché non leggerò le sue lettere… finché lui non riceverà le mie…
Christopher: Mi stai stancando, Alan.
Alan: Va bene, cosa scrive Dogson?

Christopher spulcia fra i fogli.

Christopher: Chiede come stai. Come sta tua madre. Ti informa dei suoi studi di logica. E pare che si sia messo in testa di fare lo scrittore.
Alan: Ci ho pensato anch’io qualche volta.

Christopher: Si firma… Lewis Carroll.
Alan: Che nome ridicolo. Fammi vedere.

Alan si avvicina al letto e controlla la firma di una lettera.

Alan: Lewis Carroll. Forse dovrei cambiare nome anch’io. Potrebbe essere un’idea. Cambio nome e fuggo all’estero. Per sempre. Come potrei chiamarmi?
Christopher: Vuoi volare da Kjell?
Alan: Che altro mi rimane? I miei libri? I miei studi?
Christopher: Verranno letti nei secoli, Alan. Le tue macchine prenderanno il posto degli animali domestici. Ogni famiglia ne avrà una. E tutti si ricorderanno di Alan Turing quando sederanno davanti alla loro macchina pensante.
Alan: Preferirei che mi dimenticassero invece. Io stesso vorrei dimenticarmi di me. Cambiare nome potrebbe essere un inizio. E ricominciare.
Christopher: A Bergen?
Alan: Lontano dal grugno della Regina, dei suoi fedeli alfieri, del suo mondo impazzito.
Christopher: Qui dice che sta scrivendo una storia per la sua amata Alice. Te ne manda qualche estratto. Curioso. Anche nella sua storia c’è una Regina cattiva da cui scappare.
Alan: L’Inghilterra mi uccide. 
Christopher: Tu dici che le macchine possono replicare il pensiero.
Alan: Il nostro pensiero si fonda su regole. Leggi. Della logica. Se tu fornisci ad una macchina queste regole e poi la macchina le applica correttamente ai dati in ingresso ecco che la nostra macchina comincerà a pensare. Nessuno sarà più in grado di distinguere il ragionamento di una macchina da quello di un uomo in carne ed ossa. E se poi il ragionamento è quello degli uomini della Regina… non ci rimane che sperare nelle macchine.
Christopher: Carroll scrive che una macchina non penserà mai.
Alan: Che faccia lo scrittore, se ci riesce. E lasci ad altri più esperti i problemi della scienza.
Christopher: Carroll dice che un sistema sarà capace di usare intelligentemente delle regole solo se… è già intelligente.
Alan: Questa è solo una battuta. Bella forza. Così ciò che è intelligente è intelligente. E ciò che non lo è, non lo sarà mai. E tutti i miei sforzi sarebbero spazzati via da una battuta di spirito? No, c’è bisogno di argomentazioni ferree. Non di battute da salotto. Non ho nessuna voglia delle arguzie letterarie di un logico fallito e riciclato in un imbrattacarte da salotto.
Christopher: Dovresti invece. C’è una sua storiella che volevo farti sentire.
Alan: Vuoi raccontarmi una favola per bambini, Chris? Io sto gelando.
Christopher: Ci sono un insegnante e uno zuccone. E l’insegnante dice allo zuccone: adesso, zuccone, ti insegno la regola deduttiva. E lo zuccone guarda il maestro con aria ebete. La regola deduttiva dice che se sono dati un’implicazione e il suo antecedente si deve asserire il conseguente.

Alan ride

Christopher: Facciamo un esempio, dice l’insegnante: se è aprile, è primavera. Dunque, zuccone, è aprile. Cosa deduci? 
Alan: (sorridendo) Che è primavera.
Christopher: Lo zuccone guarda l’insegnante e sembra non aver capito la domanda. Allora il maestro dice: Zuccone, che dati ti ho fornito? E lo zuccone ripete: “se sono dati un’implicazione e il suo antecedente si deve asserire il conseguente”. “Se è aprile, è primavera”. “E’ aprile”. E dunque zuccone?
Alan: (serio) E’ primavera.
Christopher: E lo zuccone non risponde. Ti faccio notare, dice l’insegnante, che l’implicazione è “se è aprile è primavera”. Sì, dice lo zuccone. E che “è aprile” è il conseguente. Sì, dice lo zuccone. Allora, zuccone, qual è il conseguente.
Alan: (allarmato) Che è primavera.
Christopher: E lo zuccone rimane col suo sguardo ebete. Zuccone, hai forse dimenticato la regola? Ripetila. E lo zuccone ripete: se sono dati un’implicazione e il suo antecedente si deve asserire il conseguente. E l’insegnate riprende: Dunque l’esempio dice che “se è aprile, è primavera. Ed è aprile”. Quindi? Cosa deduci, zuccone.
Alan: Basta. Smettila. Smettila, Chris.
Christopher: La macchina ripete alla perfezione la regola. Ma non la capisce, Alan. Perché non è intelligente. La ripete ma non la capisce. La applica, forse, ma non la capisce. E non la capirà mai. Ciò che non è intelligente, non potrà mai diventarlo.

Un tempo

Alan: E Kjell? Non lo vedrò mai più?

Christopher fa di no con la testa.

Alan: Anche tu? Non ti vedrò mai più, Christopher?

Christopher fa ancora di no con la testa.

Alan: Perché fa così freddo questa sera?
Christopher: (Offrendogli la stessa mela di prima) Vuoi la mela? Alan?
Alan: (Esitando prende la mela dalle mani di Chris) Sono i coraggiosi quelli che lo fanno con una spada.

Alan ride mentre mangia a morsi la mela.

Buio.

Fine.