Grumi (Memorie del cazzo)

di

NICCOLO’ MATCOVICH

 

UOMO: Ho le dita strisciate di sangue, perché il sangue non è dappertutto, ma solo sui polpastrelli, subito sotto le unghie. Me le sono tagliate stamattina, le unghie. E adesso i polpastrelli sono risaltati da queste piccole strisce di sangue.
Ho scoperto di quella poveraccia un po’ di tempo fa. Com’è che si chiamava? Tate qualcosa. No, Tate era il cognome. La moglie di quel regista famoso, quello rumeno o polacco che hanno accusato di molestie sessuali. Cazzo… Oggi con i nomi proprio non… Va beh, si chiama Roman qualcosa. La Tate era sua moglie, ma era anche un’attrice, una gran bella attrice! Niente di nuovo: bionda, misure a posto, sensuale. Eh sì, gran bella attrice! Come cazzo ha fatto a sposarsi uno come quello… Voglio dire, uno può anche essere un artista, ma un matrimonio… Figurati se s’era innamorata. Va beh, comunque lei era una gran donna. E insomma questa è cronaca nera, mica rosa: quella poveraccia è stata massacrata.
Marilyn Manson, il cantante, quello che è stato per un sacco di anni con una porno-star, quello che dicevano si era tolto le costole per succhiarsi l’uccello e cavato l’occhio con un cucchiaio durante una delle sue crisi: da piccolo mio fratello si comprava i cd, e io me li ascoltavo di nascosto. Ce n’era uno che mi faceva impazzire già dalla copertina: Holy Wood, e in foto c’era lui mezzo nudo appeso al crocefisso. Insomma, chi sa come si concia quello può ben immaginare la scena… Comunque Marilyn Manson è un ibrido. Mica lui, poveraccio; il nome d’arte è un ibrido: Marilyn è un tributo a lei, la biondissima Monroe; Manson è il signor Charles, bandito maledetto e impegnato e ribelle. E fu proprio Charles Manson a massacrare la Tate. Bisogna cercarsi le foto su Google: sono nauseanti. Ad accrescere il dolore e la commiserazione universale, la pancia rigonfia dell’attrice: aveva una creatura lì dentro. Massacrata anche lei, non c’è che dire.
Insomma Marilyn Manson me lo ascoltavo in seconda media, e a scuola era l’unico argomento che mi faceva parlare con Gabriele. Gabriele era il bulletto della classe: tarchiato, bassetto, bella faccia, primi peli di barba, occhi verdi, brufoli dell’adolescenza. Diceva di avere l’uccello lungo. Credo che ce l’aveva davvero, perché a mensa si divertiva a farselo venire dritto sotto la tovaglia, e quando gli veniva dritto ci chiamava uno per uno, noi maschi, e ce lo faceva vedere con quel sorrisetto da stronzo che gli si stampava in faccia. Quelli che gli andavano dietro ridevano come iene. Mi sembravano tutti froci. Io lo guardavo e me ne tornavo a posto a mangiare quel pane pieno di farina che faceva tossire Andrea, il bassetto con gli occhi a mandorla che Gabriele e i suoi amici di merda sfottevano perché dicevano che aveva un testicolo solo. Lo chiamavano mono-palla.
Insomma con Gabriele, Gabro, come dicevano tutti, parlavamo di Marilyn Manson e ridevamo come cretini. A lui gli piaceva la sua musica. Gli piaceva soprattutto Holy Wood, quello che aveva mio fratello. Ogni volta che ne parlavamo lui faceva finta di fare un bocchino, per la storia delle costole che quello si era fatto segare, e a me mi veniva un senso di fastidio e di eccitazione.
Un giorno portò in classe una rivista e mi chiamò al suo banco. Per me fu un evento: Gabro, il bulletto della classe, il figo, quello tarchiato con l’uccello lungo, chiamava me per dirmi chissà cosa. Mi avvicino curioso, e vedo che sulla copertina della rivista c’è proprio una foto di Marilyn Manson e qualcosa relativo alla sua vita, la sua biografia insomma. Gabro sfoglia, sfoglia, poi si ferma e mi fa il suo sorrisetto compiaciuto. Io guardo la pagina, guardo lui, riguardo la pagina: non capivo. C’era la foto di un ragazzino sorridente e con i capelli lunghi.
‘Ndovina ‘m po’?
Mi fa lui continuando a sorridere, con quel romano di borgata che mi faceva impazzire. I miei occhi compiono lo stesso percorso già fatto; continuo a non capire.
Ao, ma che te sei rincoglionito?
Non mi dire che…
Era lui. Era Marilyn Manson.
Non ci potevo credere. L’avevo sempre visto con quella faccia da cazzo, brutto come la fame e la morte fatte sorelle, bianco come un fantasma e con quell’occhio di finto-vetro che sembrava la vecchia di Psycho. Insomma, vederlo lì, a 10 anni o che ne so io, mi faceva un certo effetto. E Gabro continuava a sorridere. Poi così, d’improvviso, senza dire nulla, mi sono andato a sedere.
Vedere Marilyn Manson, il vero Marilyn Manson, quello che all’anagrafe si chiama Brian Hugh Warner e che non ha niente di diverso da qualsiasi altro comune mortale, mi lasciò di merda. Come quando avevo scoperto che i soldati di Guerre Stellari nascondevano sotto le uniformi robotiche dei faccioni umani; clonati, sì, ma umani.
Erano maschere. Tutte maledette maschere.
Che mondo di merda! Mi sono detto. Poi col tempo ci ho fatto l’abitudine. Però Marilyn Manson l’ho lasciato perdere, non lo ascolto più.
Di Gabro invece non ho saputo più nulla. Chissà che fine ha fatto… Chissà se quell’uccellone di cui tanto si vantava gliel’hanno mozzato o è volato via.
I tagli sotto le unghie sembrano delle stronzate, ma invece che ne so io di cosa c’è qua sotto? Comunque qualcosa che mi fa sanguinare parecchio.
Alle elementari ogni volta che qualcuno sanguinava parlavamo di capillari rotti. Ma forse quelli riguardavano il naso… Che, ci stanno i capillari nelle dita? Va beh, non mi interessa.
Da ragazzino avevo preso la pessima abitudine di mangiare e bere davanti al computer, perché ormai non potevo farne a meno; avevo troppa roba da controllare, tra Facebook, msn, i forum da adolescente, la posta elettronica e altre stronzate simili. Insomma mangiavo e bevevo davanti allo schermo, con una mano; con l’altra continuavo a scrivere, cliccare, navigare. E vedi un po’, un giorno che stavo bevendo faccio un gesto che non dovevo fare e plaf! Tutta l’acqua sulla tastiera. Anzi, nella tastiera! Le ho tentate tutte prima dell’arrivo di mio padre, provando a rovesciarla e poi passando ai mezzi pesanti: l’alito, il phon, il forno.
Niente.
La tastiera era morta stecchita. Al diavolo lei, la tecnologia del cazzo, l’anima mia e quel maledetto pollo al forno con la pelle viscida che se n’era rimasto in quel piatto di merda.
Inutile dire come reagì mio padre, isterico com’era e maledettamente legato ai suoi Macintosh che trattava meglio di me e mio fratello.
L’ho dovuta ricomprare io, la tastiera. Con i miei soldi. Che poi era la paghetta che mi dava mia madre ogni sabato pomeriggio, questo è chiaro, ma restavano comunque soldi miei. La chiamava stipendio, perché “paghetta” gli faceva schifo.
E a proposito di stipendio, io ho iniziato a “guadagnarmi” i soldi da quando avevo quattro anni. In casa non facevo un cazzo. E che dovrebbe fare un bambino di quattro anni? In realtà ho continuato a non fare un cazzo fino ai sedici abbondanti. Non facevo un cazzo, e pigliavo lo stipendio. All’inizio mi dava 500 lire a settimana: quelle belle monete col bordo argentato e l’interno di bronzo. Qualche volpe oggi le confonde con i 2 euro e se le spende nei bar. Va beh. Iniziavo con le 500 lire, poi 1000, poi 5000 e così via. A 15 anni prendevo sui 20 euro a settimana. 20 euro per un quindicenne sono bruscolini. Che poi manco a dire che ero uno scapestrato, uno che si drogava o spendeva soldi in sigarette o alcool o chenesoio. Ero ancora un bravo ragazzo. Ma tra il cinema, i regali alle ragazzette che mi piacevano, le uscite il sabato con gli amici e i videogiochi 20 euro non erano veramente un cazzo. Così ho iniziato a infilare le mani dentro le tasche dei pantaloni di mia madre, quando di notte erano in bagno, appoggiati al coperchio del cesto dei panni sporchi, con lei che dormiva come Santa Qualcosa. In tutti gli anni in cui gli ho fregato i soldi non si è mai accorta di nulla. Gli avrò rubato qualche centinaio di euro. Forse ho anche sfiorato il migliaio. Lo facevo senza piacere, ma con naturalezza sì: ne avevo bisogno. All’inizio mi dava qualche bruciore, un prurito sulla schiena e sotto le unghie, quel cazzo di settimo comandamento. Poi passava. Dormivo e passava tutto. La mattina mi alzavo e mi ritrovavo più ricco del giorno prima, e questo mi divertiva; ero un ladruncolo con i controcazzi.
Con tutti i soldi che gli ho rubato mi sono pure comprato il computer. Tutto mio, da piazzare sulla scrivania. L’avevo pagato un occhio della testa, e mia madre si stupiva e si chiedeva dove avevo preso i soldi. Io continuavo a sparare stronzate sulla scia del gran risparmiatore che ero e via dicendo. Mica lavoravo!
Insomma mi ero fatto questo bel computer grande, nero più della notte, schermo piatto, mouse e tastiera senza fili. Poi in realtà non ci facevo nulla. Ci avevo installato qualche giochetto e messo le foto della mia donna. Manco internet. Poi, qualche tempo dopo, ha iniziato a farmi male il fegato, o giù di lì, insomma quella parte del corpo in basso a destra, sulla pancia. La notte non potevo sdraiarmi a pancia in giù: un dolore assurdo. Allora ho iniziato a pensare che la colpa era di quel cazzo di computer, che quando dormivo, da sotto, perché avevo una specie di letto su soppalco, con sotto la scrivania incastrata nella struttura in legno del letto, insomma la notte mi mandava radiazioni, e alla fine mi ha ammalato il fegato. Questo fegato di merda che ancora mi fa male e ancora non mi ha ammazzato. Va beh, alla fine il computer l’ho venduto: 150 euro. Meno di un decimo di quanto l’avevo pagato qualche anno prima. Comunque meglio di niente…
A 20 anni ho ricominciato a pensare all’uccellone di Gabro e a quei baffetti del cazzo che si spostavano in su quando sorrideva compiaciuto; al tempo credevo che erano tutti froci, poi ci sono cascato io, come una femminuccia.
Ho iniziato a spararmi le seghe pensando a lui, a quel bozzo gigante che spuntava da sotto la tovaglia di carta della mensa. Poi ho scoperto i gloriosi siti porno, e iniziavo a rendermi conto che invece delle ragazze guardavo i cazzi giganti di quei maiali che le sfondavano.
Ho provato a parlarne con un mio amico, che a momenti mi mollava un cazzotto sui coglioni. Da quel giorno non l’ho più visto, ma ho saputo qualche tempo dopo che anche lui era diventato parte della “tribù”.
A 23 anni è arrivata la prima vera scopata. Lui era un ragazzino tranquillo, brutto anche: capelli rossicci, corpo smunto e scheletrico, peli solo sotto le ascelle, attorno ai capezzoli, sopra il cazzo e nel culo. Tanti peli. Poi tutto il resto sembrava un corpo di un undicenne. Era anche un rompicoglioni, perché studiava ingegneria ed era un saccente. Io avevo lasciato lo studio dopo il Liceo e mi ero messo a fare i lavori che mi capitavano sotto mano, però intanto leggevo qualche libro e mi facevo una specie di cultura mia. Ma lui questa cosa non la poteva accettare: che avevo lasciato gli studi proprio non lo poteva accettare. Io gli dicevo di non rompere i coglioni perché non era né mia madre né la mia donna, allora iniziava a fare le vocette da checca isterica e a muoversi in modo ridicolo e pietoso. Mi veniva duro dalle risate, tanto era assurdo.
La prima volta gliel’ho messo nel culo a casa di sua nonna. Lei era nella stanza accanto, ma era tanto rincoglionita che non sentiva nulla. Passava tutto il pomeriggio a dormire, e un cannone non gli avrebbe manco fatto fare brutti sogni.
L’abbiamo fatto per terra, come i cani. Lui all’inizio se ne è stato buono e zitto. Mi ricordo che muoveva solo un po’ la testa con tutti quei capelli rossi. Poi mi sono incazzato e mi sono messo a spingere e a sbattere forte contro le sue chiappe, così ha iniziato a urlare come un disperato e a dirmi di andare avanti senza rallentare. Ho stretto i denti e per un buon quarto d’ora gli sono stato dietro come una piattola.
Quando sono venuto, mi sono buttato sul pavimento distrutto. Non so che mi era successo, ma il mio uccello aveva un piccolo buco che sanguinava. Lui si è buttato accanto a me e tutto appiccicoso di sudore mi ha baciato sorridendo.
Ci siamo addormentati per un’ora.
Con il roscio è andata avanti per un po’. Nessuno dei due voleva una relazione, una roba seria insomma, quindi ci vedevamo spesso a casa della nonna rincoglionita e ci chiudevamo in camera per il pomeriggio. Stop. Poi ogni tanto capitava che andavamo al cinema insieme o a mangiare una pizza, o ancora che mi presentava qualche suo amico e andavamo a bere una birra. Ma non ci siamo mai presi troppo sul serio.
Dalla prima volta che l’abbiamo fatto, mai una precauzione. Non ci eravamo neanche posti il problema. Siamo stati due coglioni, perché ci potevamo beccare tutte quelle malattie di cui tanto si parla. La prima volta mi era anche scoppiato l’uccello. Sicuro un po’ di sangue gli era entrato nel culo. Ma c’è andata bene. Comunque, un pomeriggio dei tanti eravamo in camera sua ed era lui a starmi dietro, sempre sul pavimento. Stava per venire e ha iniziato a urlare una marea di porcate senza senso. Urlava forte sul serio. Così la porta si è aperta ed è entrata la nonna rincoglionita, che stavolta non riusciva a prendere sonno e con le urla del nipote si era messa paura. Abbiamo fatto dei movimenti ridicoli, ci siamo arrampicati uno sull’altro cercando di inventare una qualsiasi maledetta scusa, e credo che al roscio gli si sia pure storto l’uccello perché non riusciva a sfilarmelo dal culo finché non ha urlato dal dolore e si è accasciato a terra piagnucolando. A quel punto mi sono alzato in fretta, con il culo che mi bruciava come mai, mi sono messo le mutande e i calzoni e sono corso in strada senza neanche le scarpe o la maglietta. Da sotto la finestra ho sentito la rincoglionita che gliene diceva di tutti i colori a quel poveraccio con l’uccello storto. Quando hanno iniziato a bestemmiarsi contro mi sono tappato le orecchie e sono scappato via rodendomi di rabbia.
Non l’ho più rivisto.
Pochi giorni dopo avevo già conosciuto un altro. Era completamente diverso dal roscio: capelli castani arruffati, occhi leggermente a mandorla di un azzurro strano, un bel corpo, poco sportivo ma elegante, due chiappe sode come uova e un uccello da capogiro.
Diceva di fare l’artista. Sapeva suonare la chitarra e aveva un gruppo con cui faceva le serate nei locali. Suonavano tutte le sere tranne la domenica, e finito il lavoro si sbronzavano come tedeschi tutto a gratis perché ormai i locali che li ospitavano se li erano fatti amici. Così rincasava sempre tardi e la mattina andava in letargo fino alle tre. Se lo chiamavo prima delle tre si incazzava come una biscia e non mi parlava per una settimana.
Effettivamente con lui la faccenda si stava facendo seria. Troppo seria. Io ci ero andato sotto parecchio. Mi eccitava quella sua rude spensieratezza, quel suo modo di fare, quelle sue dita lunghe e affusolate e maledettamente belle. Forse è stata l’unica volta in cui ho davvero rischiato di innamorarmi di un uomo. Che testa di cazzo. Avevo perso le staffe per un artistoide ubriacone bello e dannato.
Mi ricordo che una volta mi scrisse addirittura una poesia, me la lesse e poi scoppiò a piangere come un ragazzino che ha fatto cadere il gelato. La poesia era una merda. Per quello aveva pianto. Voleva leggermela a tutti i costi pur sapendo che era una merda. E faceva talmente schifo che la trasformò in una canzone. Quattro accordi uno dietro l’altro e pare pare le parole che aveva scritto. Era dedicata a me, ma siccome si vergognava di dire in giro che era frocio e che stava con un uomo faceva finta che era una poesia di uno dell’‘800. Anche questo mi eccitava. Non ero mica permaloso. Non me ne fregava un cazzo se non voleva vomitarlo a tutti gli sconosciuti che andavano alle serate.
Comunque la canzone ebbe successo fin da subito, tanto che decise di metterla in apertura di ogni serata.
La cosa lo aveva tanto fomentato che nel giro di due settimane me ne scrisse un’altra, ancora più brutta della prima. Poi anche su questa appiccicò un giro di DO, e un’altra merda era sfornata. A differenza però che non venne apprezzata da nessuno. Si era montato la testa e aveva scritto davvero uno schifo. Aveva dato il peggio di sé. Però gli piaceva, e così decise di metterla alla fine di ogni serata nonostante il ringhio degli altri musicisti.
Con lui ho passato parecchi mesi senza andarci a letto. Il suo corpo mi piaceva e mi eccitava, ma con tutti i discorsi che facevamo tendevo sempre a restare sulla difensiva. E lui che faceva tanto il maschio, che sul palco si sbranava tutti, musicisti e microfoni compresi, quando si doveva arrivare al sodo diventava una femminuccia e si mordeva le unghie. Io però non mi offendevo: avevo ancora il culo irritato dall’uccello del roscio, e il pensiero di riprendere subito a farmi sbattere da un altro mi dava fastidio.
Poi il momento arrivò, e fu un gran bel casino. Lui non era mai stato con un uomo, e io avevo poca più esperienza in materia. Avevamo deciso di affittare una stanzaccia per stare tranquilli, giusto per la prima volta, anche perché gli avevo raccontato del roscio e della rincoglionita e si era tanto spaventato che a momenti mi piantava in asso.
La stanza puzzava di merda e di umori che altri prima di noi avevano lasciato. Eravamo tutti e due imbarazzati, anche se ormai ci frequentavamo da un po’. Abbiamo iniziato a spogliarci insieme e poco dopo ci siamo ritrovati impietriti su quel letto sudicio. Faceva freddo e neanche ci sfioravamo. Poi ho preso l’iniziativa e gli ho fatto una sega. Aveva un uccello incredibile: molto più grosso del mio, gonfio, viola. Mentre glielo trastullavo, lo guardavo negli occhi, e vedevo la faccia dello sconfitto: era lo schiavetto del piacere. Penso che a un tratto mi ha pure fatto un complimento con un filo di voce. Prima mi sono sentito una troia, poi mi sono fomentato: non avevo mai fatto una sega. Gliel’ho preso in bocca per qualche minuto buono. Lui lì ha iniziato a gemere come una cavalla. Ho pensato che nessuno gli aveva mai toccato l’uccello. Allora ho approfittato del momento e mi sono messo in posizione per prenderlo dentro, ma lui ha cacciato un urlo tanto forte che mi ha messo un terrore fottuto addosso. Gli ho chiesto che cazzo c’era che non andava, e ha iniziato a farmi mille discorsi sull’AIDS, la sicurezza, le precauzioni eccetera. Una macchinetta. Come se si era imparato le battute a memoria. Non lo riconoscevo. E poi con il roscio mi ero viziato. Mi ero illuso che nessun maschio badava a queste cose, e che l’istinto carnale durante una scopata era talmente forte da andare oltre qualsiasi pensiero logico. Invece l’artista era lì a farmi discorsi da ginecologa o da madre paranoica. Allora gli ho chiesto se aveva i preservativi e lui mi ha detto di no. Mi sono incazzato e gli ho detto che lo volevo nel culo, e che poteva scordarsi che glielo finivo con la bocca. Gli piaceva da matti, ma cazzo, anch’io volevo godere. Tanta era la voglia di prenderlo dietro che mi sono rivestito e sono uscito correndo. Ho comprato il necessario al primo tabacchino e sono rientrato eccitatissimo in camera, anche se il suo atteggiamento mi aveva fatto incazzare; ma lo stronzo aveva pensato bene di addormentarsi. Che figlio di puttana. Per svegliarlo gli ho dato una bella schicchera sull’uccello e lui ha cacciato un altro urlo primordiale. Mi sono messo a ridere, poi, un po’ per fargliela passare un po’ per farglielo drizzare, gliel’ho ripreso in bocca.
Finalmente me l’ha messo dietro: mi ha fatto un dolore fottuto. Avevo visto che era un gran bell’uccello, ma non me l’aspettavo. Tra l’altro è anche durato poco. Quando è venuto ha iniziato a scusarsi dicendo che era nervoso e stronzate simili. Io stavo zitto. Ero insoddisfatto e distrutto. Così l’ha buttata sull’offensiva e ha iniziato a dire che era colpa mia che gliel’avevo preso in bocca troppo a lungo, poi ero uscito, l’avevo fatto addormentare e un’altra serie di stronzate. Ho capito che quell’uccellone non faceva per me. Evitando di poco un amore che mi avrebbe ammazzato, mi sono rivestito e col broncio, senza neanche salutarlo, gli ho sbattuto la porta in faccia.
Neanche lui l’ho più rivisto, finché una sera di qualche mese dopo non lo rincontro casualmente in uno dei tanti locali in cui aveva una serata. Lui non mi aveva visto e io non mi ero voluto far vedere. Mi ero seduto in uno dei tavoli in fondo, ero solo e la luce era bassa. Ho bevuto una birra e poco dopo un’altra, poi mi sono detto che dovevo restare sobrio abbastanza per guardarlo e ascoltarlo. Mi sono anche detto che se aveva cambiato repertorio, se non cantava più le poesie a inizio e fine serata me ne sarei andato imprecando.
E di fatti le aveva tolte. Così, mentre i ragazzini coglioni e mezzi ubriachi chiedevano il bis, mi sono alzato e, mettendo le mani in tasca e schiacciandomi il berretto fino agli occhi, sono uscito urlando come un dannato all’inferno. Non credo che mi ha riconsciuto.
Dopo l’artista ho avuto storielle ridicole e passeggere. Poi ho deciso di partire con quei pochi soldi che avevo. Sono andato a Parigi e ci sono rimasto per un po’, sia perché la città mi piaceva sia perché era un covo di frocioni che mai mi sarei immaginato. Tutti io li beccavo. Dopo poche settimane li riconoscevo anche solo con uno sguardo. Avevo allenato l’occhio, perché molte volte non era facile: si nascondevano come talpe. Io invece li fissavo qualche minuto e bang! Mi avvicinavo, dicevo due cazzate in francese e un’ora dopo ero in una casa mai vista con un bell’uccello nel culo. Me ne sarò fatti una decina in qualche settimana. Tutte stronzatelle così.
Qualche talpa merdosa, una volta uscita allo scoperto, provava ad iniziare una discussione, un qualcosa che poteva andare più in là: più stabile, più serio. Non so perché, ma mi portavano sempre nello stesso “café”. Si beveva in silenzio, ci si guardava un po’ negli occhi e poi tac! “Le débat”, come lo chiamavano loro. A quel punto io sbottavo a ridere, gli davo uno schiaffetto sulla guancia e me ne andavo fischiettando. Tra l’altro tutti i francesi con cui sono stato puzzavano da fare schifo. Sono sempre stati così i francesi: fuori puliti, poi una volta nudi sono lerci come maiali. Molti di loro ho dovuto costringerli a farsi una doccia prima e una dopo.
Dopo Parigi ho fatto tappa a Siviglia. È stato un errore del cazzo, colpa dell’agenzia che mi aveva dato un volo sbagliato o nonsocosa. Fatto sta che quel giorno dovevo tornare a casa, perché mi ero rotto i coglioni di stare in giro a scoparmi i francesi, e invece sono atterrato a Siviglia. Che giornata di merda è stata quella! Non sapevo una parola di spagnolo. All’inizio neanche capivo in che città mi trovavo, e pensavo che mi avevano fatto uno scherzo di quelli che fanno le televisioni. Poi però, facendomi un giro, ho capito che mi piaceva, che non so come mi invitava a restare per qualche giorno. E devo dire che gli spagnoli erano dei gran bei maschioni!
Ed è proprio lì che ho incontrato quella che ha rischiato di essere la donna della mia vita.
Costanza quel giorno era incazzata nera. Io ero sotto la Giralda a guardare le maledette zingare col ramo d’ulivo in mano che dicono di indovinarti il futuro e poi ti spillano un sacco di soldi. La prima volta ci sono cascato anch’io. Che ne sapevo? Questa mi si avvicina con la faccia supplichevole, sporca, piena di rughe e denti d’oro. Mi parla una lingua che non credo neanche essere spagnolo e poi mi prende la mano. Gli occhi gli si allargano e fa un sorriso orrendo. Inizia a farfugliare qualcosa, mentre io mi guardo intorno per vedere se qualche stronzo sta ridendo di me. Poi capisco che mi chiede di mettere dei soldi sulla mano. Metto dieci centesimi e mi fa segno di no con quelle sue rughe di merda: per la profezia servono soldi di carta. Gran bella puttana. Io non li metto e lei si allontana come a dire che non vuole prenderli, ma solo finire la profezia. Prendo 5 euro e li tengo sul palmo della mano. La zingara si avvicina, li guarda, di nuovo allarga gli occhi e splat! Ci sputa sopra una merda mista di saliva e catarro. Pieno di schifo, butto i soldi per terra e lei subito che se li acchiappa. Gli avrei dato una ginocchiata negli occhi, ma ero sconcertato. Credo che è stata l’unica persona a farmi bestemmiare. E mentre chiamavo in causa il Padre Eterno e tutti gli angeli che gli stanno intorno quella se ne andava soddisfatta di averne inculato un altro.
Da quel giorno ho iniziato a osservare le zingare sotto la Giralda, e vedevo che la strategia era sempre la stessa. Gli allocchi non facevano in tempo ad aprire bocca che quelle già se ne erano andate. Così una volta ho deciso di farmelo rifare. Avevo beccato proprio quella che mi aveva fottuto. Ovviamente non mi ha riconosciuto. Il procedimento è stato identico, solo che appena lei ha sputato sui soldi io gli ho sputato in faccia. Mi ero preparato una bella bolla di saliva durante tutto il rituale, e al momento giusto ero più carico di un lama. Dopo avergli sputato in faccia, gli ho pulito addosso la banconota e me la sono rimessa in tasca. È rimasta immobile, con la saliva che gli colava sugli occhi. Da quel giorno non l’ho più rivista sotto la Giralda.
Comunque Costanza era incazzata nera. Tanto incazzata che mentre la zingara mi fotteva lei ci guardava e non mi diceva nulla. Stava parlando al cellulare, forse con un uomo, o forse era lesbica. Sembrava una lesbica Costanza: per come si muoveva, per i capelli corti, le bocce piccole, la corporatura magra ma sportiva. Cazzo. Fino a pochi giorni prima mi sbattevo con i parigini fetenti e adesso ero lì a squadrarmi da capo a piedi una ragazza. C’era qualcosa che mi convinceva che era lesbica. Comunque urlava divinamente, da farlo venire duro a qualsiasi persona sana su questa terra. Il suo accento spagnolo era marcato e sensuale.
Solo dopo un po’ mi sono accorto che, andata via la zingara, ero rimasto immobile e allocchito non per i soldi, ma per guardare Costanza. Tanto che ad un tratto ha messo via il cellulare, è venuta verso di me come un bisonte alla carica e mi ha urlato in faccia un “checcazzovuoi” nel più perfetto italiano. Ancora stregato dall’incantesimo, gli ho chiesto il numero di cellulare, e lei me lo ha dato. Che situazione ridicola! Mancava solo che la Giralda si sgretolava in una montagna di merda liquida alle nostre spalle.
Il giorno dopo eravamo a mangiare tapas nel “locale più buono della città”, parole di Costanza, che conoscevo da poche ore e che già si era guadagnata la mia fiducia, oltre all’ammirazione. Scoprii lì che era romana. Era a Siviglia in Erasmus. No, non è vero. Mi disse che era a Siviglia in Erasmus, ma più avanti mi confessò che l’Università l’aveva lasciata pochi mesi dopo averla incominciata, che ai suoi non l’aveva mai detto, che in un paio d’anni s’era tenuta tutti i soldi che gli avevano dato per pagare le tasse universitarie e che il giorno stesso in cui aveva deciso di partire gliel’aveva confessato e loro si erano talmente incazzati che gli avevano vietato di rimettere piede in casa. Poveracci: non potevano immaginare che poche ore dopo sarebbe stata lontana centinaia di chilometri. E così, nel giro di un giorno, avevano preso a chiamarla in continuazione, e lei che gli ripeteva che era in Spagna, che se continuavano a chiamarla spendevano tutti un mucchio di soldi eccetera. Alla fine trovò il modo per farli incazzare ancora di più: cambiò numero al cellulare e ciao mamma e ciao papà.
Mi piaceva il modo in cui Costanza mi raccontava le cose. Non capivo che mi prendeva, ma sentivo che in lei c’era qualcosa di diverso dal roscio, dall’artistoide che girava i locali, dai parigini fetenti. Forse era una donna. Tutto qui. Credo che di me si era innamorata da subito, se no non mi avrebbe lasciato il numero. Uno di quei colpi di fulmine davvero fulminanti. Va beh. Fatto sta che io ero lì, a passare intere giornate con lei, sospeso tra una fottuta voglia di condivisione e un urgente bisogno di un uomo. Non gli avevo detto niente di me, niente della mia sessualità insomma. Una volta mi chiese se in Italia avevo la donna e avevo iniziato ad inventare una marea di stronzate del tipo che la mia fuga era stata simile alla sua, solo che io scappavo proprio da una donna. Lei ogni volta mi chiedeva di raccontare questa storia e pendeva dalle mie labbra. Fortuna che fin dall’inizio la feci semplice, altrimenti mi sgamava subito. Credo che provava piacere a sentirla perché voleva baciarmi e scopare con me.
Siviglia la conosceva a perfezione. Al contrario di quanto credevo all’inizio, era una ragazza interessata e preparata. I primi giorni facevamo lunghe passeggiate e spesso ci fermavamo nei parchi a riposare stesi per terra. Poi un pomeriggio mi ha portato nella plaza de Espana e mi ha visto che sgranavo gli occhi. Pensava che stavo male e mi ha chiesto se avevo bisogno di qualcosa, un bicchiere d’acqua, una panchina. Ci ho messo effettivamente un po’ a riprendere fiato; poi sono stato un fiume in piena: lì avevano girato dei pezzi di Guerre Stellari, e l’avevo riconosciuto subito. Così, dopo lo sconcerto iniziale, ho cominciato a raccontare tutto per filo e per segno, anche perché lei non aveva visto neanche un episodio della saga. Si stupì perché non mi aveva mai visto così acceso, e soprattutto così preparato su un argomento. Quella stessa sera ci siamo visti a casa sua gli episodi I-II-III. Gli piaceva da matti! Ma ne ero sicuro. Era sveglia Costanza. Molto sveglia. E la notte mi fermai a dormire da lei.
Non successe nulla.
Io nel buio pensavo a lei e a quella situazione strana. Pensavo che l’avrei resa felice anche solo con un bacio; ma non me la sentivo. Per convincermi, ripensavo all’uccellone pieno e gonfio di Gabro. E scoppiava il bisogno disperato di un uomo.
La casa di Costanza era semplice e colorata. Mi spiegò che appena arrivata aveva condiviso l’appartamento con altri ragazzi che erano davvero in Erasmus. Poi loro erano rimpatriati e si era ritrovata da sola, con le spese d’affitto triplicate. Ma di soldi ne aveva davvero tanti. Non so dove cazzo se li era procurati. Forse si era portata la carta di credito del padre. O forse aveva messo da parte un bel gruzzolo quando era in Italia con il solo scopo di partirci. Fatto sta che in tutto quel tempo che era rimasta lì non aveva mai avuto problemi di liquidi. Io, povero stronzo, non avevo un centesimo con me, e dovevo vivere a sue spese. Mi sentivo una merda a dovermi far pagare tutto da lei, ma col suo carattere incredibile riusciva a buttarla sempre sullo scherzo; diceva che ero magrolino e mangiavo poco, quindi soldi per la spesa ridotti all’osso, e che la topaia che mi ero preso in affitto a momenti me la regalavano tanto faceva schifo. Il resto erano tutte piccole cazzate.
Che donna Costanza! Con il tempo mi rendevo conto che aveva capito tutto della vita, o perlomeno aveva capito cosa voleva. Tanto che mi capitava spesso di sentirmi un intruso. Lei vedeva che avevo dei cali, dei cambiamenti improvvisi. Mi chiamava “allunato”, perché diceva che oltre a descrivere bene i miei sbalzi ricordava la parola “allupato”. Per lei ero un allupato represso. Me lo diceva sempre, e poi guardava il cielo ululando come un lupo mannaro. Io ridevo e l’abbracciavo strettissima, tanto stretta che a volte la soffocavo, gli si strozzava il fiato in gola e si buttava per terra facendo la morta. Io allora mi piegavo e gli baciavo il naso, quel cazzo di dolcissimo naso all’insù, e lei si risvegliava come la bella addormentata e mi guardava con due occhi incredibili e gonfi di lacrime. Era un gioco, quasi un rituale: si ripeteva sempre nella stessa maniera.
Ero cambiato con lei. Quando me ne sono andato, ho ripensato spesso a quel periodo, e non riuscivo a riconoscermi; mi sembrava di essere tornato il moccioso innocente che guardava male i compagni di classe e urlava al cameratismo con orrore.
Ero una merda che puzzava di tenerezza.
Con Costanza mi ero fatto anche la mia prima canna, che poi fu l’ultima, visto l’effetto devastante.
Eravamo a casa sua e lei aveva tirato fuori questa palletta di merda compatta, con un sorriso che sembrava il lupo che stava cagando la nonna dopo la digestione. L’aveva preparata con cura: ci parlava! Sembrava che aveva davanti un neonato, o un cane. Ce la siamo tirata tutta in pochi minuti. Non sentivamo un cazzo. Ho iniziato a scherzare facendogli vedere come camminavo bene per la stanza e a momenti non finivo di sotto dalla finestra. Quella merda ci ha messo qualche minuto buono a farmi effetto. Che ne sapevo io che funzionava così? Il cuore ha iniziato a battermi a mille: credevo che a momenti usciva fuori dal petto e se ne andava affanculo per conto suo. Lei rideva come una ragazzina deficiente. Mi è salito il panico. Ho iniziato a toccare gli oggetti per convincermi di essere ancora vivo, ancora lì, e quella stronzetta che continuava a ridere. Non riusciva a smettere. Aveva gli occhi pieni di lacrime: sentivo che era molto nervosa. Eravamo ridicoli, come due clown del circo. Poi ho visto che ha smesso di ridere e si è accasciata sul divano di traverso con gli occhi chiusi e la bocca semi-aperta. Mi è preso un colpo. Non si muoveva. Mi sembrava che neanche respirava. Ho iniziato a dargli gli schiaffetti in faccia, mentre il cuore continuava a pompare come un pazzo, e lei niente, ferma. Una tomba. Ho urlato un po’ di volte il suo nome e poi sono collassato vicino a lei, per terra, come un cane.
Ci siamo svegliati la mattina dopo nelle stesse posizioni. Siviglia brillava di un sole meraviglioso; per strada c’era la gente, le famigliole del cazzo che andavano chissaddove, e noi lì, schiattati di fame e con la bava alla bocca: stavamo risorgendo.
Mentre preparavamo il pranzo Costanza mi ha svelato che anche per lei era stata la prima volta. Mi sono incazzato fino a sgolarmi, ho fatto una tirata di non so quanti minuti facendogli capire che poteva finire davvero male e a quel punto chi ci avrebbe aiutato, e lei si è avvicinata, mi ha baciato il collo e ha detto che invece era andato tutto bene. Era una maledetta strega Costanza: sapeva sempre come fottermi.
Dopo quell’esperienza non abbiamo più fumato. Non insieme. Poi che ne so di cosa ha fatto lei quando me ne sono andato.
Quel pomeriggio siamo rimasti in casa: il sole ci barricava. Era talmente forte che ci imprigionava in quelle pareti di merda tutte colorate. Non abbiamo fatto nulla, ci siamo detti poco. È come se ognuno voleva stare per cazzi suoi a tirare un po’ le somme del nostro rapporto. Io pensavo a quello, e sono sicuro che anche lei.
Poi la sera siamo usciti e abbiamo bevuto come cammelli. Mi ha portato in uno dei soliti locali che conosceva lei e mi ha offerto di tutto. Ce ne siamo andati da lì che già eravamo sbronzi, e io per ricambiare l’ho portata in un buco di culo che avevo visto tante volte senza mai avere il coraggio di metterci piede. Anche lì di nuovo a mandare giù come bicchieri d’acqua. Abbiamo fatto lo schifo. Abbiamo mischiato di tutto senza farci problemi. Tornando indietro, due corpi sbilenchi e abbracciati ne formavano uno che a stento si reggeva in piedi.
Appena siamo entrati in casa, ho sbrattato buona parte dello schifo nell’ingresso. Ho riempito tutto: non si riusciva a passare. Lei ha iniziato a ridere e non si fermava più. Mi stava incollata come una piattola e rideva. Quando sono andato in bagno per sciacquarmi la bocca lei era ancora lì appesa a me che rideva. Poi ha iniziato a toccarmi dappertutto, e anch’io mi sono messo a ridere. Non c’era davvero un cazzo da ridere. Ho preso la carta per pulire lo schifo, e lei mi ha trascinato di peso sul divano e mi ha spogliato ancora prima che me ne potevo rendere conto. Poi ha iniziato a togliersi tutto, e rideva. Ridevamo insieme. Due stronzi ubriachi, uno frocio e l’altra mezza lesbica, che ridevano come coglioni e si preparavano a scopare. Il mio uccello era moscio come un palloncino. Ho visto Costanza sparire in cucina e tornare qualche secondo dopo con un bicchiere pieno di alcool. Ancora alcool. Mi ha costretto a bere tutto d’un sorso. Avevo la bocca che si ribellava e sbavava e sputava, ma ho dovuto mandar giù, tra gli stenti e il disgusto. Poi tossivo, e ridevo.
Non so che ci aveva messo là dentro, ma pochi secondi dopo il mio uccello era dritto duro e bello gonfio. Mi è salita sopra e ha iniziato a muoversi nervosamente: era una tigre.
Non mi piaceva neanche un poco, e lei invece era lì che scalpitava, si agitava, cacciava urli di godimento e di dolore. Poi si è alzata scusandosi ed è corsa in bagno. Io stavo per addormentarmi. È tornata con la bocca ancora sporca di vomito e ha ripreso la cavalcata.
Pochi minuti e il mio uccello è esploso come mai aveva fatto. Che ne so di cosa mi è successo. Forse la roba che Costanza mi aveva messo nel bicchiere, o forse per troppo tempo se n’era rimasto lì moscio e fetente.
Lei mi ha abbracciato fortissimo che a momenti mi ammazzava. Mi ha anche detto che non mi baciava perché sapeva di avere la bocca sporca di vomito, ma che ero stato fantastico e tutte quelle stronzate lì. In un bagliore di lucidità gli ho detto che eravamo stati due pazzi, che in quel modo poteva finire male, gli ho chiesto se aveva il ciclo e poi sono crollato.
La mattina dopo ho aperto gli occhi e lei era ancora sopra di me, tutta abbarbicata, con la testa penzolante, la bocca aperta e gli occhi di un cadavere. L’ho stesa sul divano e mi sono ritrovato l’uccello pieno di umori secchi della sera prima. Non ci capivo un cazzo, mi ricordavo poco. Però sapevo di aver fatto una grande stronzata, la seconda grande stronzata in due giorni, dopo quella maledetta canna che a momenti mi stroncava.
In testa ha iniziato a frullarmi l’idea di aver messo incinta Costanza. Sarebbe stato un casino. Ho fatto colazione nudo, pieno di schifo, con la bocca impastata del sapore del vomito e dell’aria della notte, e pensavo a Costanza col pancione, a un mocciosetto che sarebbe potuto uscire da lei, a che cazzo può voler dire essere padre. Ci ho pensato talmente tanto che dopo la colazione sono corso in bagno e ho sbrattato alla grande. Ero disgustato, terrorizzato, e Costanza non si svegliava.
Ha riaperto gli occhi nel pomeriggio, che il sole già se ne stava andando affanculo. Anche lei era tutta nuda e incrostata di umori. Adesso sembrava davvero una strega, con quei capelli anarchici e la bocca piena di croste, di vomito, di bava rappresa.
Mi ha abbracciato e all’orecchio mi ha confessato quanto sono bello quando sono nudo, “così pulito e primitivo”, parole sue. Poi nell’abbraccio siamo scoppiati in una grande risata, e ci siamo infilati insieme sotto la doccia. Subito dopo eravamo profumatissimi; sembravamo altre persone.
Il discorso l’ha tirato fuori lei: ha detto che non dovevo preoccuparmi, che si ricordava poco ma non era una stupida, che prendeva la pillola. Ho tirato un sospiro di sollievo. Gli ho detto che per un momento avevo pensato il peggio e non sapevo a quel punto cosa avrei fatto. Lei mi ha stregato ancora una volta facendomi passare ogni sospetto.
Quella sera siamo andati a cena fuori, in un piccolo ristorante della Siviglia borghese. Ci sentivamo fuori luogo, ma il cibo era buonissimo. Era come se volevamo cancellare lo sfascio dei due giorni precedenti. Lei era splendida, con un vestito nero, corto, sensualissimo, la bocca perfetta, piena di un rossetto delicato, e gli occhi stanchi e lucidi. Poco mi era rimasto impresso della tigre che qualche ora prima mi cavalcava con la bocca sporca di vomito, e la sua perfezione di quella sera cancellò le ultime tracce.
Fu una bella serata, tranquilla, con uno stronzo che ci è stato appiccicato per tre quarti d’ora con una chitarretta stonata e una voce ammuffita. Abbiamo riso tanto, quella sera: c’era una pace perfetta.
Nei giorni a seguire si alternarono pomeriggi e serate di sfascio completo a giornate di quiete esagerata. Avevamo preso un cazzo di ritmo di merda, che a volte ci faceva pensare di essere schizofrenici, ma ci stava bene così. Io mi ero addirittura trovato un lavoro in un locale che vendeva tapas; era più il tempo che passavo a mangiarle che non a servire i clienti. Però mi stava bene, perché lavoravo solo di mattina, quattro ore, dalle 9 alle 13. Così finalmente potevo ripagare una piccola parte di tutti i soldi che Costanza aveva speso per me. Passarono un paio di mesi strani e divertenti. Pensai addirittura di essere diventato etero. C’era qualcosa di molto forte che mi portava verso Costanza; ma che ne sapevo io se era amore affetto amicizia stima paura della solitudine o nessuna di queste cose.
Quando mi disse di essere incinta ero appena tornato dal lavoro incazzato come una iena: due italiani di merda mi avevano tirato dietro qualche porcata pensando che non potevo capire, e mi era tanto salita la bile che gli avevo rovesciato addosso le tapas e stavo per sferrargli un cazzotto in faccia; sono stato licenziato. Fanculo a quel locale di merda, fanculo agli italiani, fanculo alle tapas.
Insomma, Costanza era in salotto seduta sul divanetto con le gambe verso destra e i piedi scalzi; aveva le mani unite come se stava pregando e gli occhi sbarrati e immobili. Non sbatteva neanche le palpebre. Per un attimo ho creduto che si era fatta ipnotizzare o qualcosa del genere. Poi quando ha realizzato che ero tornato ha fatto un sorriso restando con gli occhi sgranati. Mi sono seduto vicino a lei e me l’ha detto.
Come prima reazione gli ho chiesto chi era il padre. Coglione. Maledetto coglione. Mi ha detto che mi aveva mentito: che prendeva davvero la pillola ma l’aveva interrotta apposta. Mi ha detto anche che voleva a tutti i costi un bambino da me e solo da me. Mi ha detto che mi amava follemente e che voleva sposarmi e vivermi e scoparmi sempre. Che mondo di merda! Avevo un gran desiderio di dargliele, di fargli male, di farla sanguinare e vederla piangere e soffrire e perdere muco da tutti i buchi. Per fortuna il mio corpo si è spento: il cervello mi è andato in stand-by. Per qualche ora sono diventato un automa. Lei si era anche spaventata a vedermi così. Poi si era incazzata e alla fine aveva fatto la scenata e se n’era andata affanculo dicendo che tornava il giorno dopo. Che cazzo ne so se il giorno dopo è tornata: io non c’ero più. Ho preso le mie poche cose che avevo lì e sono ripartito. Mi sono fatto le notti in aeroporto perché il primo volo per tornare in Italia c’era due giorni dopo.
L’ho lasciata lì, con le sue voglie, le sue paranoie, la sua schifosa palletta di nervi dentro la pancia.
Non l’ho più rivista.
L’anno passava, e con lui anche Costanza. Ero riuscito a convincermi che era stata solo una parentesi della mia vita, come il roscio, come l’artista, come i francesi. La palletta di nervi era roba sua. Io non l’avevo voluta. Mi aveva anche mentito con la storia della pillola. Ad abortire non ci vuole un cazzo. Se lo Stato non te lo permette lo fai per qualche euro. Vaffanculo. Stramaledetti cazzi suoi!
La mia vita era ripresa normale, con i giusti ritmi, i giusti incontri, le sane scopate. Nulla di serio. Non ne avevo nessuna intenzione. Mi ero trovato un lavoro facile e avevo messo da parte un gruzzoletto.
Durante l’inverno avevo deciso di prendermi una bella vacanza di qualche giorno e andare a sciare: mi piaceva un sacco fin da quando ero un moccioso, ed era l’unica attività che mi faceva staccare il cervello da tutto.
Alla prima discesa mi sono ricordato che già quand’ero piccolo mi divertivo a guardare il bozzo del mio maestro di sci con quella ridicola tuta attillata.
Quando ho preso la seggiovia, quel giorno, il maestro di sci mi ha detto una roba nel dialetto del posto: una raccomandazione. Non ci ho capito nulla, ma il concetto era che dovevo stare attento a Paolino, “Lino”, come lo chiamavano loro: una caccoletta di nonsoquantianni che saliva sul mio stesso seggiolone, o come cazzo si chiama.
Lino era piccolo e imbranato, tutto chiuso nella sua tuta blu completa di casco e occhialetti da neve. Poi gli occhialetti se li è tolti e aveva due occhi stretti e sottili, come i cinesi. Gli colava il mocciolo dal naso e non voleva fazzoletti.
Il tragitto era lungo, altissimo. Mi iniziava a salire l’ansia, e quello stronzetto era vicino a me con tutta calma, che sbatteva gli sci per scrollare la neve. Non ci dicevamo nulla. Ogni tanto si voltava a vedere se sul seggiolone dopo c’era ancora il suo maestro. Gli volevo gridare in faccia che c’era per forza. Dove cazzo poteva essere? Controlli una volta e basta. Ma i ragazzini sono così. E intanto continuava il percorso. Man mano che salivamo, l’aria si faceva più densa; c’era una nebbia di merda che iniziava ad inghiottire i pali e i seggioloni che ci precedevano. Lino continuava a smocciolare e aveva iniziato a piangere. Ma che ti piangi? Piangeva senza fiatare, guardando dritto, come se credeva di non arrivare mai. Poi mi ha guardato, per la prima volta, e mi ha detto che assomigliavo “al suo papà”. Gli ho appoggiato la mano sulla schiena, affondando nella sua tuta morbida, e l’ho spinto giù. È caduto in silenzio, senza neanche agitarsi. Il maestro da dietro ha iniziato a gridare come una gallina. Si dimenava sul suo seggiolino di merda, chiedeva aiuto, provava a parlare con i pali della seggiovia obbligandoli a fermare l’ingranaggio. Ma l’ingranaggio girava, girava. E Lino invece non girava più. Era immerso nella neve bianca, le gambe rotte e gli sci ancora ai piedi. Al telegiornale dissero che la testa era fracassata, aperta in due.
Morto sul colpo: la diagnosi. Colpevole: la sentenza.
Mi hanno sbattuto dentro. Sono dentro, certo. Mi ci hanno sbattuto e ci resto. Che ne so per quanto tempo. Ho perso il conto e neanche mi interessa saperlo.
Sono venuti a trovarmi i miei, un paio di volte. Mi hanno visto così assente che si sono scandalizzati. Mi volevano portare dallo psichiatra. Poi ho ricevuto una lettera di Costanza: ha detto che aveva sentito la notizia in televisione e che lì da lei aveva fatto scandalo; ha detto di avere abortito, e che quando non mi ha trovato più in casa voleva buttarsi di sotto oppure ammazzarmi; ha detto che adesso era tranquilla e stava con una ragazza carina: ci avevo visto lungo; ha detto che era scoppiata a ridere quando aveva pensato a due froci che fanno un figlio, e che quella palletta di nervi non doveva proprio venire al mondo. “Una scelta dolorosa e definitiva”, parole sue. Poi ha iniziato a chiedermi scusa un miliardo di volte. Non mi considerava un mostro, e anzi si assumeva tutta la responsabilità di quell’episodio orribile. Infine mi ha confessato che gli mancavo e che un giorno mi voleva rivedere, a costo di tornare in Italia.
Non gli ho risposto.
Ho le dita strisciate di sangue, e qualche buco rosso sulla schiena. Ho trovato questa piccola lama tra il materasso e la rete, compagna delle mie giornate di merda. Nessuno se ne accorge, nessuno si interessa. Potrei morirci, qua dentro, e marcire.
La parete di fondo ha dei minuscoli chiodi arrugginiti che spuntano. Capita che prendo e mi ci appoggio, con la schiena: è un dolore fottuto e bellissimo. Capita poi che ripenso alla mia vita, ai cazzi che ho succhiato, alla fica e al vomito di Costanza, alla neve. E mi addormento. Poi mi sveglio, vedo la piccola lama e ricomincio il rituale. Ma non mi voglio ammazzare. Voglio passare il tempo. Voglio solo passare il tempo.
Buio.