Il viaggio

di

Nini Ferrara



non chiedermi il come. d’ogni cosa tu voglia sapere, non chiedermi il come. 
il perché chiedimi.
e nudo io te lo direi il perché. se io lo sapessi, io te lo direi. 


non c’è una stazione. non c’è un treno da aspettare. non c’è una fila di persone che si snoda pigra impaziente mai ordinata attendendo un sorriso cordiale che li spartisca. 
infine finestrino corridoio finestrino. 
finestrino.
non c’è il bagagliaio di un’auto da riempire.
nemmeno uno zaino. 
nemmeno quello.
c’è una strada. 

non so quando è cominciato il viaggio. forse qualcuno me lo ha detto. ricordo che chiesi - “dove si va?”- ma forse lo dissi distrattamente. 
o forse a bassa voce.

o forse in realtà non mi rivolsi a nessuno in particolare.
o nessuno aveva avuto voglia di ascoltarmi.
o di rispondermi.

ciò che ricordo è una sorta di fischio del vapore… o qualcosa di molto simile.
avrei immaginato altro.
né il fischio. né il vapore.
una luce.
più semplicemente un verde che si illumina.
banale, sì. ma più probabile.
invece solo quel segnale - un fischio lungo acuto insolente - diradò la nebbia di dieci passi sollevandola a sbuffi. 
macchie d’umido in terra. 
ed io ero già in cammino.
“la nebbia basta soffiarci perché vada via.” 
così diceva un vecchio con cui avrei amato dialogare un po’ di più. ma era uno di quelli che si incontrano per caso nelle vinerie di periferia, con le botti d’alluminio appese una spanna sopra il bancone e il rubinetto che gocciola in “mezzo litro” di vetro opaco macchiato del rosso di schizzi di vino. 
“basta soffiarci.”
e si riavvolse nella sua nebbia che un soffio non basta.

adesso me lo ripetevo.
ad ogni passo.
ma ad ogni passo, per non più di un passo, si rivelava la via al di qua della mia nebbia. 
poi era silenzio.
silenzio. 
ciò che più amo odio. il silenzio.
sensazione sublime. orribile. mai uguale.
irrinunciabile.
come occhi che ami. che ami odi.
irrinunciabili occhi.
come il silenzio.

non so da quanto tempo camminassi quando senza accorgermi avvertii una mano cercare la mia mano. prenderla.
poi una voce.
- “sei arrivata. ti aspettavo.” - e mi venne incontro un bambino. forse per meraviglia o perché quel bimbo - quale certezza poteva darmi un bimbo? - io sorrisi.
- “mi aspettavi?” - e cercavo di intuire chi fosse. e guardavo i suoi occhi. per riconoscerli, li guardavo. 
- “è già tardi. vieni.” e tirandomi a sé, si mosse dentro la nebbia. lì dove era più fitta.

facile a volte lasciarsi condurre. volere lasciarsi condurre.
ancora più facile perché improvvisamente desideravo anche io abituarmi a quegli inconsistenti lunghissimi fili di una tela drappeggiata lungo i raggi del sole. 
fin lì dove muoiono.
così mi appariva la nebbia.
sentivo la mano del bambino che tratteneva due dita della mia. e le stringeva. forte. come temesse che potessi sfuggirgli. ma non meno forte io mi afferravo alla sua piccola mano e insieme cercavo di distinguere intorno a me qualcosa che ad altro potesse ricondurmi. 
intuire, scorgere, percepire. 
troppo sarebbe stato riconoscere. 
a questi pensieri mi conducevano i passi di quel bimbo - ed erano passi senza indugio i suoi - … ed io a lui mi abbandonavo. senza alcuna cautela. come se tutto fosse… mai percorso, un cammino già noto.
per entrambi già noto. 
diversamente, per entrambi.
come se insieme dovessimo incamminarci lungo quella via. o in qualche modo lo avremmo fatto. 
forse non ora.
forse non ora era il tempo. forse non ora era il luogo.
erano solo scosse. niente più che scosse di una certezza che cercava di affiorare dentro di me. 
ma adesso come se qualcosa fosse stato rimosso. 
o fosse ancora da ricomporre.
una tessera dopo l’altra.
solo la sua mano - ora - si serrava forte intorno a tre dita delle mia mano. ancora. ed io la sentivo. e non so perché quel mio ritrarmi… incapace di far scivolare le mie dita sulla sua mano… incapace di una carezza…
di tutto, più fitta era la nebbia. 

stava ai piedi di una scalinata una piccola bicicletta azzurra riversa sul selciato. una bicicletta disegnata come quella dei grandi, ma piccola. alta giusto per quel bimbo. 
però era scatenata quella bicicletta. 
ed io lo vidi subito. 
nudi i denti della corona; la ruota di dietro continuava a girare senza fermarsi. gocce di ruggine macchiavano il manubrio. sul sellino di finta pelle bianca e rossa si distinguevano le cuciture ed un piccolo strappo. la catena restava come una biscia cui fosse stata schiacciata la testa. inerte innocua ferma. aveva unto i copertoni bianchi. bianchi senza traccia di terra. bianchi senza traccia di fango. bianchi senza traccia di alcuna strada. solo due piccoli segni. il primo lì; lì dove la catena poggiava. l’altro - lo stesso unto - appena più su. 
- “sei tu che devi ripararla.” - e mi rivolse nuovamente lo sguardo, il bambino, tirandomi giù per la mano, fino al capezzale della sua bicicletta.
- “io?” 
- “solo tu. non c’è nessun altro che possa farlo.” - e fugava ogni mia remora la verità semplice che è solo nelle parole di un bimbo.
- “io sono in viaggio.”
- “tu devi aiutarmi. lo sai. devi farlo. non posso restare qui. non più.” 
- “perché?” 
- “non più.” 
- “servirebbe una pinza. o un cacciavite. ed io non li ho.” - mille gesti mille parole facevano ressa. ma io sfuggii. solo avevo voglia di toccarla quella catena. anche se sapevo che un po’ di grasso sarebbe poi rimasto sotto le mie unghie. forse avevo anche voglia di ripararla la bicicletta. ricordavo come si faceva. da bambina sapevo farlo. e mi prendevano in giro perché non era una cosa come le bambole riparare una bicicletta. però io sapevo farlo. senza pinze né cacciaviti. ma adesso non ci provai. non volli. mi alzai, invece, guardando la scalinata alle mie spalle che scivolava sotto la nebbia. pochi gradini. vorace nulla poi la inghiottiva.
- “non mi guardi?” - ma non mi volsi verso di lui - “lo farai?” 
- “ti propongo un patto…” 
- “è una cosa seria, un patto.” - e limpidi i suoi occhi tornavano ancora a catturarmi.
“lo so. vuoi?” - e mi sorpresi ad aver bisogno della sua fiducia - “vado a cercare gli attrezzi. la pinza. il cacciavite. poi ritorno da te. la ripariamo insieme la tua bicicletta. vuoi aspettarmi?”
“devo.” - e mi fissò negli occhi. ed ebbi la sensazione netta insistente nitida di saperli, io, i suoi occhi.
- “me lo prometti?” - e non riuscivo a non guardarlo… -“me lo prometti?” - e non riuscivo ancora a riconoscerli i suoi occhi… - “me lo prometti?” - ma li sapevo. io già li sapevo i suoi occhi…
- “te lo prometto.” 
- “io ti aspetto qui.” si sedette sul gradino più basso, guardando la sua bici. 
e restai a guardarlo per qualche istante, inconsapevolmente per qualche istante, quel bambino seduto davanti alla sua bicicletta. 
il volto tra le mani. 
i gomiti poggiati sulle gambe. 
e mi apparse già un piccolo uomo.

mi avviai su per i gradini della scalinata. ma la nebbia adesso non si diradava più passo per passo. 
mi si faceva presso. 
scalino dopo scalino più vicina. 
portavo istintivamente le mani sul volto. sugli occhi. tra i capelli. sensazione necessità illusione di scrollarmi qualcosa di dosso. 
respiravo piano. 
mi muovevo piano. 
cercavo di sentire i gradini sotto i miei piedi. avvertire la pietra il marmo. o forse solo cemento. 
mi fermai. 
non udivo alcun rumore. 
mi guardai attorno movendo la testa a scatti. nulla oltre la nebbia riuscivo a distinguere. se il buio avesse un colore mai avrei immaginato potesse essere bianco.

chiusi gli occhi. 
non era quiete. 
eppure percepivo che ogni cosa, io per prima, era ferma. 
credo sia stato sottilissimo, allora, il “timore” che si imbastì nei miei pensieri. timore senza preavviso. timore di quella inconsistenza che era tutto intorno a me e che dentro me si insinuava senza mai stentare. timore che potesse catturarmi. strapparmi di dosso gli abiti. denudarmi. 
posai le mani sul mio corpo. 
per toccarmi, le posai. 
cercai le tasche della mia larga gonna. ficcai le mani dentro, fino in fondo... erano vuote. 
più nulla del mio “ogni giorno”. 
istintivamente tastai il mio polso sinistro. non indossavo più l’orologio. 
di che cosa adesso ero in balia? non riuscivo ad andare avanti, né a tornare. ma tornare dove? sapevo solo di aver fatto una promessa. una promessa grave. una promessa vera. una promessa a un bambino. 
non sapevo quanti gradini avevo già percorso, né immaginavo quanti ve ne fossero ancora davanti a me. riapersi lentamente gli occhi. impalpabile nulla. la nebbia pressava lievissima. piegai le gambe allungando le braccia davanti a me a cercare i gradini. il più vicino. lo toccai. 
ed era freddo. 
ed era asciutto. 
sedetti. 
ed ebbi come la sensazione - ma fu più di una sensazione. quando avverti qualcosa sulla pelle è più di una sensazione ed io sulla pelle avvertivo. - che intorno a me qualcosa cominciasse ora a pulsare. ritmicamente battere. come il respiro di qualcuno che mi si avvicinava. 
mi abbracciai stringendo gli occhi. e sentii la nebbia prendere le forme del mio corpo. avvolgermi in un guscio. 
cristallizzarsi proteggendomi. 
e pulsare. 
ancora pulsare. 
mi tornò in mente il bambino. i suoi occhi sconosciuti e però noti. e la sua bicicletta divelta. ed una ruota che gira ancora animata da una inesauribile inerzia. e le mie unghie mai sporche di grasso. 

e poi fioca si impossessò dei miei pensieri la luce di una candela. e lentamente si rischiarava la cantina dove accatastati alla rinfusa rimangono ricordi antichi. e il dolore e la gioia hanno preso l’identica forma di ninnoli impolverati. e non hanno un loro luogo. 
né più riesco a distinguerli. 
ed una cassa di legno in fondo alle altre. ampie cerniere in ferro battuto. lucchetti. 
mi inginocchio. 
né tarli né altri segni del tempo. 
levigatissimo legno. pregiato. ne distinguo le venature. provo a seguirle con un dito. non hanno fine. ognuna mi conduce in un’altra. 
e poi ancora in una. 
e poi. 
ancora. 
fiumi. 
un cesello ha segnato sulle cerniere di ferro parole di cui non comprendo il significato. ma sotto le dita tattilmente intuisco solchi. vorrei aprirla. lucchetti pesanti arrugginiti forti. ne stringo uno. percepisco sul palmo la ruggine ruvida. provo a far forza. a tirarlo. ruotarlo. da una parte. dall’altra. velocemente. tirando. stringo le mani più forte. sento… qualcosa… cedere… un ultimo spasimo stringendo gli occhi. più forte stringendoli. e… in quell’istante, improvvisa, tra le mie palpebre serrate filtrò di nuovo lievissima luce.
dischiusi gli occhi. 
insospettato si aprì il giorno.

non conoscevo quella piazza su cui il sole si adagiava prima di riprendere il suo cammino verso la sera. restai qualche istante immobile lasciando che il suo tepore mi abbracciasse. mi scaldasse. poi i miei occhi cominciarono a muoversi piano in quella luce bianca. di sole, bianca. 
distesi la mia mano ancora stretta in un pugno. polvere di ruggine macchiava le mie dita. 

lasciavano spazio a nient’altro che vicoli antichi palazzi barocco. mi scrutavano volti fratturati di uomini draghi animali scolpiti negli archi di grandi portoni. battenti d’ottone opaco ormai non riflettevano luce. come se nessuno da anni avesse più bussato ad alcuna porta. e su ognuna di esse rosoni in ferro battuto accoglievano nidi di rondine. le uniche capaci adesso di spezzare il silenzio. 
ed io. 
io, se avessi avuto il coraggio di urlare e col mio urlo spalancare le persiane serrate d’ogni palazzo. 
strinsi gli occhi come a volere incuneare il mio sguardo tra le fenditure, strette da negare aria e luce, delle doghe di legno d’ogni finestra. le osservai una ad una. dapprima le più vicine. ordinatamente. da sinistra a destra. quelle più in basso. poi più su. e ancora le guardai. velocemente. a scatti, da una parte all’altra della piazza. 
qualcuno avrei sorpreso a spiarmi se qualcuno ci fosse stato. 
ma nessuno era. 
nemmeno il bambino seduto giù in basso alle scale, né una piccola bicicletta senza catena.
guardai il sole. lasciai che mi accecasse per qualche istante. poi mi alzai. cercando insistentemente illusoriamente una voce. un rumore di passi. semplicemente un’ombra che si allungasse oltre i vicoli, sulla piazza. 
lungamente nulla. 
desolatamente vuoto. 
mi voltai adagio seguendo la mia ombra. i miei movimenti. volutamente più ampli. volutamente marcati. ma lenti. e la seguii ancora la mia ombra, ancora girandomi, fino a vederla spezzarsi sui gradini davanti a me e morire su un sagrato di chiesa. 
e come alito mi chiesi dove io fossi mentre dinnanzi a me sovrastava ogni domanda l’inaspettato silenzio di quelle mura.

scorse senza far rumore alla mia destra una piccola donna vestita di bianco. come controcorrente la lentezza dei suoi piccoli passi e l’ondeggiare lieve dei lembi della sua lunga veste sugli scalini. uno per volta. gli scalini uno per volta. nelle mani un mazzo di fiori freschi. mani piccole. la seguii percorrendo gli stessi gradini, più lenta di lei. due gradini più lenta. e mi fermai quando lei si fermò. sperai si voltasse verso di me. mi parlasse. invece riavviò solo il suo fazzoletto bianco sul capo svelando per un attimo lo stretto nodo di ciocche che raccoglieva i suoi capelli grigi. 
poi proseguì. 
non io. 
non me lo aveva chiesto. 
di aspettarla mi aveva chiesto. 
con quel suo arrestarsi e ricomporre sui capelli il suo velo. 
e la vidi fermarsi ancora. davanti al portone della chiesa stavolta. guardare in basso. solo un attimo e poi di nuovo andare. le scarpe bianche che aveva tolto rimanevano su quell’antico selciato. ad attenderla.
a me simili.
statue imponenti di canuti uomini vestiti di saio di marmo gettavano il loro sguardo sulla piazza. mi inginocchiai sulle scale. senza pregare. da troppo tempo non lo facevo. da troppo tempo quelle parole erano per la mia nudità nient’altro che un abito consunto. dall’abitudine. dalla superficialità. dallo splendore degli abiti degli altri. in nulla diversi dai vestiti nuovi dell’imperatore. 
o forse da troppo tempo non avevo più vergogna d’essere nuda. 
alzai lo sguardo, oltre le statue di marmo. in cima alla chiesa non vi era alcun crocifisso. “no! è solo un sogno! solo un sogno! cosa ci faccio qui in ginocchio! tra poco sarà giorno. devo bere. questo. un bicchiere d’acqua. poi riaddormentarmi!” e mi sollevai sulle ginocchia come stessi sollevandomi dal mio letto. e sgranai gli occhi, per svegliarmi. e per quanto li spalancassi niente intorno a me mutò. 
solo una rondine attraversò veloce il cielo planando su un raggio di sole a cui per un attimo, in cambio, regalò la sua ombra. 
ed io mi chiusi in me stessa. 
in piedi. 
aspettando.
infine la donna uscì da quella - che cos’era quell’edificio? una chiesa? senza crocifisso? - da quella chiesa senza crocifisso. restai a guardarla. recava un piccolo paniere di vimini con sé. calzò le sue scarpe. poi venne verso di me. ma non si avvicinò. restò a qualche passo. guardandomi.
- “sono in viaggio…” 
- “hai fame.” - e pose le mani nel suo piccolo cesto di vimini. estrasse un pane sottile e lo allungò verso le mie mani.
lo colsi. lo spezzai. lo portai alla mia bocca. lo mangiai.
- “adesso bevi.” - mi porse una brocca. bevvi. vino.
poi la restituii e quando ella la prese cinsi tra le mie le sue mani.
-“indicami la strada.” 
- “non vuoi fermarti? non vuoi riposare?” – senza pudore senza timore, i suoi occhi scrutarono fino in fondo i miei. fino ad intuire quel “no” che mai avrei avuto il coraggio di dirle. - “il mare è da quella parte. se è il mare che cerchi.”- scostò il fazzoletto dal suo capo denudando sul suo viso ogni segno del tempo. si avviò. così. senza guardarmi di nuovo. senza aggiungere altro.

grandi alberi. in fila. ordinati. credo siano querce. chiudono da una parte la marina.
dall’altra parte un muretto basso. facile sedile dove immagino si distendano le discussioni degli anziani, interrompendo lo struscio dei pomeriggi non piovosi o la lentezza delle ore fredde consumate attorno a giri di briscola e di vino sfuso. 
oltre il muretto, il mare.
cammino senza fretta. come senza fretta, intorno a me, si anima la via.
di uomini. di donne. di bimbi.
ma sono uomini che non parlano. accennano l’un l’altro un saluto. 
ognuno ad ognuno quanto è dovuto. 
leggere le donne sulle loro scarpe alte. 
ragazze… 
ragazzi… 
prime variopinte code ritualmente si schiudono.
bambini urlano ridono piangono… 
- “dove è?” – me lo chiedo una… due volte… - “dove è?” -...
e cerco tra loro gli occhi di un bimbo che ha una bicicletta divelta. senza catena. 
non lo trovo. 
mi avvicino.
per cercarlo, mi avvicino.
ed una marea di occhi mi investe mi scruta mi interroga. ed io… la vergogna… e vorrei dirlo a tutti che io sono in viaggio e che non so dove io sono e che forse adesso neanche lì io sono davvero… 
mi accorgo soltanto che nulla è cambiato. 
sono sola. 
tra mille occhi.
come prima di nuovo. 
io. 
sola.

un ragazzino in costume e maglietta, grondante ancora acqua di mare, vende un polpo avvinghiato per i tentacoli lungo il suo braccio. altri sono in una cassetta di legno accanto a lui. la gente si avvicina. guarda. prosegue. lo sento urlare “a frischizza du mari!” e mi avvicino. 
- “lo vuoi uno?” - e mi offre quello che ha in mano.
toccando il polpo con la punta delle dita - “è ancora vivo…” - aderendo le ventose dei suoi tentacoli ai miei polpastrelli.
- “sotto agli scogli qua davanti l’ho preso. questo e gli altri lì dentro. ora che è ora.” 
- “con le mani? li hai presi con le mani?” 
- “con le mani. oppure con questo” - e mi mostra, stretto alla vita da un pezzo di corda sopra un pantalone stracciato a metà, inzuppato ancora di mare, un vecchio cacciavite arrugginito. il manico di plastica. arancione. trasparente. scheggiato. e di nuovo grida a tutti “a frischizza du mari” e a me, poi - “e allora? lo vuoi uno?”.
- “non ho soldi.” 
il cacciavite era a stella. da una parte limato. acuminato. quasi una lama. lo vedevo premere con la punta sulla sua coscia nuda.
- “e vuol dire che te li mangi un’altra volta.” 
e si voltò a gridare dall’altra parte. 
sapevo già quello che avrei fatto. in un istante lo avrei fatto. tra un istante lo avrei fatto. ma in quell’istante sentii il cuore battermi. nel petto battermi. ed i muscoli contrarsi. e rilasciarsi. e contrarsi. e più pesante il respiro. e i denti mordermi le labbra. e la bocca asciutta come avessi bevuto tutta la mia stessa saliva. e le dita della mia mano ruotare e stringersi in un pugno prima di afferrare quel cacciavite dalla sua vita e strapparglielo e correre. 
correre via. 
correre via.
correre.
via.
sollevando in un pugno la gonna e nell’altra mano stretto quel cacciavite non mio. e l’aria ferma che venendomi incontro diventava vento. 
ma poi nessuno mi inseguiva. nessuno cercava di fermarmi. nessuno mi urlava dietro. 
ma io dovevo correre. 
dovevo.
io avevo rubato. 
come quando ancora bambina infilai una bacchetta di cioccolata sotto la maglia. e poi lo feci vedere - il mio bottino dolce - a mia madre. e non sorrise con me. e non sorrise di me. e mi condusse indietro. a chiedere scusa. a chiedere scusa perché io ero una ladra. e non si ruba. e poi lo sguardo severo del padrone del negozio dove ogni giorno faceva la spesa mia madre e dove avevo giurato – in quel momento lo avevo giurato - di non mettere piede mai più. e le sue parole. e le sue mani che prendevano quel cioccolato dalle mie e di nuovo lo riponevano sullo scaffale dei dolci e dello zucchero. e mia madre che l’indomani mi obbligò ancora a tornare. che la spesa va fatta ogni giorno. e quell’uomo che cercava i miei occhi. e i miei occhi che cercavano terra. 
e la mia vergogna. 
ora lo so. 
l’unica cosa vera. 
la mia vergogna.

mi fermai. ansimando. e subito mi voltai per cercare di nuovo quel ragazzo e tornare da lui e spiegargli che avevo una promessa da mantenere e che sarei tornata ancora a restituire quel suo cacciavite. 
lui stava ancora lì. mi guardava. il polpo penzolava stanco dalla sua mano. fece solo un gesto. come per salutarmi. poi, sorrise.

diventa rosso il cielo al tramonto. seduta su una bitta distinguo la palla del sole che sagoma carrette del mare ormeggiate alla fonda. ho gli occhi stanchi. voglia di dormire. ma non posso. 
non devo. 
stringo tra le mani il cacciavite rubato e mi lascio alle spalle il porticciolo. cammino senza guardarmi intorno. mi raggiungono a volte rare voci confuse di parole di cui non intuisco il senso. non riconosco il significato. indifferente le abbandono dietro me a segnare l’aria. finché altre ombre non le dissolvano. o le colgano. 
più stretto degli altri si apre su un lato della strada un ennesimo vicolo. cerco in una targa il nome della via, ma da una parte e dall’altra solo muri scrostati. 
nessuna targa. 
davanti a me lunghi lenzuoli bianchi stesi ad asciugare che fanno cortina ai miei occhi. sollevo lo sguardo. il cielo ancora striato dell’ultima luce che pare non voglia insinuarsi fino a quaggiù. 
ed è già sera intorno a me. 
sera di un sole troppo lontano e di una rima spezzata di lenzuola bianche.

senza pensare comincio a percorrere quel vicolo, camminando radente al muro.
e non mi chiedo dove conduca. 
poi… è da un uscio socchiuso che distinguo aritmico il bagliore di una fiamma. 
mi fermo lì. 
istintivamente davanti alla porta. 
e quel riflesso di fuoco lo sento che subito comincia a giocare capricciosamente con il mio volto. lo sento addosso sfuggire dall’uscio socchiuso e distendersi su di me. posarsi sulla mia pelle… labile bacio… e poi di nuovo raccogliersi. oltre la soglia.
oltre ciò che non vedo. 
oltre ciò che non so. 
voglio inseguirlo. 
allungo la mano e scosto la porta. 
una serra di fiori di vetro mi accoglie. fiori di vetro. infinite foglie. e petali. e spine. di vetro. e quella luce di fiamma che in essi si spezza e di nuovo risorge di mille fiamme diversa. 
- “vieni dentro.” - ed è come se la fiamma in fondo alla stanza mi invitasse ad entrare.
- “non vedo nulla.”
poi la fiamma si spenge ed oltre essa appare minuta la figura di un uomo che ride e di nuovo mi invita.
- “qua. sono qua. vieni.”
avanzo piano. ed ho quasi timore. quei fiori non brillano più come prima. né profumano. mi paiono urlare, invece. urlare da una gabbia di vetro che non li lascia sbocciare. o infine appassire. 
“qua. qua. vieni.” 
ha una tuta da operaio. occhiali da saldatore tirati su. sulla fronte. in una mano tiene un tubo di ferro che si allarga in sommità in un becco dal quale impazienti fremono lingue di fuoco.
- “sono tuoi questi fiori?” 
- “ti piacciono?” 
- “non lo so.” 
- “li faccio io.”
- “vetro…”
- “vetro. ci soffio, nel vetro.” - da una parte scorgo un secchio di latta. dentro è un cumulo di altri fiori di vetro. spezzati incrinati ravvolti. violati. frantumi di ghiaccio. 
guardo lui. 
nelle sue mani il fuoco.
- “sono vuoti i tuoi fiori.” 
- “sono pieni del mio respiro. il mio respiro ce l’hanno dentro. e mai uguale. mai una volta uguale. solo il mio respiro nel vetro. prova a soffiare nelle tue mani. e dammelo, poi, il tuo respiro. nulla sarebbe. nient’altro che aria.” - e si avviò tra i suoi fiori - “li vedi? guarda come sono diversi. come il respiro. che gli rubano la forma al respiro… e che è un respiro? nemmeno un attimo. un attimo. passato… non scorrerà più. mai più. è immobile quell’attimo. e lo scolpisce il vetro. di più. lo penetra. e lo pregna. un attimo. vedi questa rosa?” - era la più bella nella sua officina. un lungo gambo ed i petali dischiusi, come sopravvissuti all’arsura e rinati alla luce - “tu vedi un fiore. io ci vedo il tempo. il mio tempo.”
“e gli altri? quelli?” - e indicai i fiori morti nati già morti. in un cimitero di latta.
“è tempo non mio.” – e lasciò scivolare la mano lungo le spine di opalescente vetro della sua lunga rosa.
“regalamene uno.” - glielo chiesi senza pensarci. senza motivo. senza vergogna. forse perché anche quei fiori, non diversamente da me, non avevano più tempo. perché anche quelli, come me, avevano forse iniziato un viaggio. o più semplicemente aspettavano di raggiungere una meta.
- “sono destinati al fuoco, quelli” - e rise come mai avrei immaginato - “sono sbagli. sono cose che non è”
- “ma sono i più belli, quei fiori” 
- “non sono belli. non sono brutti. non sono fiori di vetro” - e tornò al suo banco. svitò la bombola di gas alle sue spalle e, da una scintilla, come tra le sue mani, come tra le sue dita, sorse nuovamente la fiamma del suo attrezzo. - “scegline uno. se lo vuoi scegline uno. portatelo via da qui” 
ed io… le mie mani in quel secchio di latta colmo di vetri ribelli. non so che fiore fosse quello che presi. aveva il gambo spezzato ed ampi petali. di tutti uno solo era diverso. come avesse voluto germogliare un fiore ancora, il vetro si era aperto catturando lui adesso il respiro di quel soffiatore di vetri. il respiro di un attimo. 

tornai sulla strada, nel vicolo. sollevai lo sguardo verso il tetto di cielo. era buio senza stelle. come se anche le stelle evitassero di affacciarsi in quella via senza nome. qualcuno aveva ritirato i lenzuoli. 
ripresi i miei passi. 
e sorrisi. 
di me sorrisi. di me che andavo con in tasca un cacciavite arrugginito. tra le mie dita un fiore di vetro spezzato. in me una promessa ancora non mantenuta. ed un viaggio. 
in quel momento, proprio sull’uscio del vicolo, seduto su un gradino di pietra era un uomo. mi avvicinai. lui si volse lento dalla mia parte come aspettasse che consumassi gli ultimi passi che ci separavano. era anziano. canuto. le mani di pelle rappresa. aveva un bastone nodoso accanto a sé. sedetti accanto a lui. in silenzio.
- “è tardi?” - gli chiesi dopo. dopo un po’. senza guardarlo.
non mi rispose. si alzò piano. stancamente. si avviò oltre il vicolo. 
lo seguii. senza chiedere nulla.

il buio cominciò senza fretta a serrare le sue maglie intorno a noi. di nuovo non sapevo dove andavo. dove ero diretta. dove io stessa fossi. ma lo avevo mai saputo da quando avevo iniziato il viaggio? mai una volta nulla avevo intuito. né volevo intuire. ne ero certa. adesso ne ero certa. per paura o per vigliaccheria non avevo fatto nient’altro che abbandonarmi. avevo lasciato che a guidarmi fossero… nulla mi aveva guidato. nulla mai. adesso seguivo un vecchio. adattavo la mia andatura al suo deambulare incerto. 
avvertivo solo che intorno a me non c’erano più muri. 
era questa l’unica sensazione concreta. e sentivo il vento soffiare senza rumore. ed i passi, i miei e i suoi, echeggiare in quella nuova notte, ritmati soltanto dai sordi brevi colpi di un bastone nodoso. 
poi il vecchio si fermò. io dietro lui. restammo così qualche istante. senza parlare. poi lui fece un cenno col capo perché mi avvicinassi. e quando gli fui accanto sollevò il bastone ad indicare un punto davanti a noi. 
nel buio davanti a noi. 
lo guardai per capire cosa voleva dirmi ma ancora senza parlare si voltò e tornò indietro. 
sentii i suoi passi ed i colpi del suo bastone allontanarsi nel buio. 
dissolversi poi. 

lentamente avanzai nella direzione che lui mi aveva indicato. ma non avevo più paura del buio. come ormai appartenessi a quella notte. a quel luogo. a quel respirare della terra sotto i miei passi. ricordavo ogni cosa. ed ogni cosa riaffiorava nella mia mente. una chiesa senza crocifisso. una donna vestita di bianco. un pane offerto senza chiedere nulla in cambio. un ragazzo che cacciava polpi sotto gli scogli. un soffiatore di vetri. un bambino… era lì. adesso era lì di nuovo. davanti a me. era lui. un bambino e una bicicletta senza catena. seduto lì dove lo avevo lasciato. come se il tempo non fosse passato. come se nulla… mai nulla…
appena mi vide si alzò. avrei desiderato che mi corresse incontro. mi abbracciasse. stringendomi forte. qui. al grembo. qui.
- “sei tornata…” 
- “te lo avevo promesso. ricordi?” 
- “riparerai la mia bicicletta…” 
- “ho solo un cacciavite… ed un fiore di vetro” 
- “lo farai…” 
- “non vuoi restare con me?” - e mi piegai sulle gambe. 
- “tu sei qui. tu ripalala…” – i suoi occhi… di nuovo… 
- “la ripariamo. insieme…” - e sorrisi. e di nuovo tornai a guardare i suoi occhi. 
“non insieme. tu. solo tu. non io. solo tu.” - aspro crudo scabro. i suoi occhi… e mai in quel momento avrei voluto aver proferito promessa.
mi piegai sulla bicicletta e facendo leva come meglio potevo con quel cacciavite rubato posai i denti della corona tra le fessure della catena.
e mi ferii facendolo… proprio nell’attimo in cui gli ingranaggi senza clamore tornavano ad essere… senza dolore un graffio… non più grande di un’unica goccia di sangue… che era sfuggita… e che di più ora imbrattava un copertone bianco… mai sporco di terra… mai sporco di fango… proprio lì… tra due piccole macchie di unto…

lo guardai. il bambino sorrise.
ma perché sorridendo i suoi occhi si bagnavano adesso di una lacrima?...
mi aspettavo che dicesse qualcosa.
invece nulla. 
e di nuovo mi persi in quei suoi occhi. e non erano più occhi di bimbo.
salì sulla sua bicicletta.
ma io conoscevo quegli occhi.
cominciò a pedalare. 
ma io sapevo di chi erano quegli occhi.
e mi girava intorno… pedalando… 
adesso io lo sapevo.
lui pedalava… 
erano i miei. i suoi occhi. i miei occhi…
cominciò a girarmi più lontano. 
io non volevo che quel bambino andasse via.
sempre un po’ più lontano.
aveva i miei occhi… nessuno poteva averglieli dati i miei occhi…
ancora un po’ più lontano.
solo io potevo. solo io…
ancora più lontano… un po’…
non andare…
fece ancora un giro. 
non andare…
ancora un giro prima di svanire. 
non andare…
nella notte, svanire. nella notte…
non andare…
corse via veloce. veloce come solo i bambini…
non andare…
veloce. 


nella mia mano un cacciavite come una lama ed un fiore di vetro.

adesso non chiedermi più perché ho lasciato quel bambino andare via da me.
adesso non chiedermi più perché la vergogna.
adesso non chiedermi più perché mia madre mi disse puttana.
adesso non chiedermi più perché mio padre distolse il suo sguardo da me.

adesso non chiedermi. più. 

perché?

io lo avrei avuto il coraggio d’essere me. per me e per quel bimbo, lo avrei avuto. il coraggio d’essere madre, per continuare ad essere me.
il coraggio.
per continuare.

i fiori di vetro si spezzano. comunque si spezzano. un giorno.

non finiscono mai le piastrelle della mia stanza. 
ceramica. 
bianca. 
due. ogni passo due. 
di tutte una sola è scheggiata. in alto a destra. o in basso. a sinistra. 
dipende solo dal fatto che la mia ombra la copra. 
oppure vi distingua, appena specchiati, i miei tratti, che vi si affacciano - spersi - quasi affogati nel riflesso delle mie mani serrate in fondo alle tasche. 
ed ho l’esatta percezione che un attimo della mia vita si chiuda così. intorno ai trenta centimetri d’una lucida piastrella. 
bianca. 
scheggiata. 
in alto a sinistra. 
o in basso. 
a destra.