La guardiana del faro

di

Francesco Scotto


Personaggi:

Maria Soccorsa, detta Sesella,
guardiana del faro



Un faro, a Sud.
Una stanzetta linda dal perimetro circolare.
Sul fondo una grande vetrata attraverso la quale cielo e mare si confondono.
A destra un letto, al centro un tavolo con una sedia.
A sinistra una porta che, quando aperta, lascia intravedere una balaustra metallica; sullo stesso lato una credenza, un lavandino e un mobile-bar sul quale è poggiato un televisore dal design antiquato, ricoperto da un panno nero. Sulla parete di fondo un telefono a muro a disco, nero.
Sul proscenio alcune piante fiorite ed una voliera coperta da un panno.
In alto, al centro della scena, un riflettore a vista simulerà, ruotando in alcuni momenti dell'azione, la luce del faro.


SCENA I: Giorno che nasce

Le prime luci di un giorno primaverile.
Sesella entra dalla porta che dà sull'esterno. Indossa un ampio scialle su una camicia da notte di foggia antica.
E’ una donna vicina alla pensione, ma non vecchia. I suoi modi sono decisi, diretti. Parla con accento meridionale, alternando un linguaggio di estrazione dialettale a termini alti.
Si frega le mani, un po' infreddolita.


SESELLA Sta cambiando, finalmente sta cambiando. Me lo sento dentro alle ossa.
(quasi imprecando, come se scacciasse il malocchio) Meno male che quest’inverno gelido e fetente sta finendo.
(apre un finestrone) Ecco fatto, così si rinnova l’aria.
(ha un brivido di freddo) Certo, ancora si deve riscaldare.
(va verso la voliera e solleva il telo nero che la ricopre. Saluta il canarino) Buongiorno a voi, Procopio!
Avete dormito bene? E allora fatevi una bella cantata onorando il bel tempo che sta per venire.
(guarda attentamente nella gabbia)
Ma come, il mangime ve lo siete strafocato tutto quanto? Eh no, così non andiamo proprio d'accordo. Voi mi costate un occhio della testa: cantate poco e mangiate assai. Qua ci dobbiamo dare una regolata, ché soldi non ce ne stanno. Moderatevi, altrimenti vi lascio soltanto l’osso di seppia e un poco d’acqua.
(versa un po' di mangime nella gabbia)
Ecco, questo vi deve bastare almeno per tre giorni. E statevi accorto, ché vi tengo segnalato.
(guarda verso il pavimento, alla ricerca di un gatto)
Musci, musci! Principessa, in quale diavolo di pertuso vi siete andata a nascondere? Ah, non volete uscire, fate la preziosa? E vabbé, quando avrete appetito, ci degnerete della vostra presenza.
La qui presente Maria Soccorsa, Sesella per gli affetti, non ha mai pregato nessuno, bestia o cristiano; figuriamoci se si abbassa con voi!
Teneva ragione la buonanima di nonna (si segna): “Sesella, siamo tutti importanti ma nessuno è indispensabile”.
Voglio vedere quando vi brontola lo stomaco per la fame, se mi venite addosso a strusciarvi come una puttanella.
Vostra madre, Regina, e vostra nonna, Regina Madre - pace all’anima loro - quelle sì che erano signore gatte di compagnia. I migliori anni abbiamo passati insieme. Un boccone a me e uno a loro; appiccicate addosso nelle stagioni fredde, spaparacchiate al sole nelle belle giornate.
Ma che parlo a fare? Voi siete di un’altra generazione: non tenete sentimento e neanche rispetto.
Capite solo questo (indica con le mani la pancia, poi si gira verso la voliera) e anche voi siete della stessa razza: cantate per abitudine, perché dovete cantare, ma non ci mettete cuore.
(guarda fuori dalla finestra) Oì, sta schiarando.
Ora che le giornate si aggiustano dobbiamo procedere con i lavori. Innanzitutto una pulitura dei vetri come si deve per togliere tutte le incrostazioni di sale; a seguire, una bella imbiancata dentro e fuori, così il calore asciuga bene i muri e (si tocca la schiena) speriamo pure le ossa.
(accarezza con leggerezza le pareti del faro)
E io ti faccio nuovo nuovo, come appena sgravato.
(come se volesse scacciare un pensiero spiacevole)
Sta bene; però prima di cominciare un’altra santa giornata ci vuole una buona tazza di caffè, che ci sveglia e ci riscalda.
(mette sul fuoco una caffettiera già preparata) Ecco fatto…
Dove stanno quelle quaranta disgraziate? Ah, eccole qua! (estrae un mazzo di carte da un cassetto; si siede, dando di tanto in tanto uno sguardo alla caffettiera sul fuoco)
Vediamo un poco che ci tocca.
(mescola e poi dispone le carte)
Il sette sotto l’otto, la femmina sotto il cavallo; e il cinque dove lo metto? Lo sapevo che mi incartavo subito. Aspetta, Sesella, non andare di prescia, che questo solitario deve riuscire, così le cose possono prendere la giusta piega.
Ecco spostiamo il sei; poi il tre sotto il quattro, il due sotto il tre… E il cornuto dell’asso che non vuole uscire.
(scopre un’altra carta)
Vediamo che viene fuori: il re di coppe.
Madonna, non lo posso guardare: tiene la stessa faccia della buonanima di mio padre.
(ricordandosi del caffè sul fuoco) Gesummio, il caffè!
(toglie la macchinetta dal fornello) Meno male, in tempo in tempo.
(si versa del caffè in una tazza poi, mentre lo beve lentamente, guarda la carta del re di coppe che le è rimasta in mano)
Certo, papà, tenevi proprio la statura di un re, il fisico di un comandante. Bastava uno sguardo e tutti ammutolivano.
(si avvicina alla voliera e mostra la carta al canarino)
Caro Procopio, vi presento il re dei fuochi d’artificio.
Che dico fuochi: stelle, firmamenti. Quando sparava lui la notte si faceva giorno; il cielo diventava rosso geranio, verde basilico, giallo percoco. E poi una pioggia di coriandoli d'oro, un diluvio di stelle filanti d'argento.
Una meraviglia, Procopio, da restare con la bocca spalancata!
Tutti lo volevano. Non c’era gara pirotecnica che non vinceva, festa patronale che non se lo contendeva.
E fu proprio alla vigilia della festa del paese in onore della Madonna del Soccorso (si segna) che si sentì un gran botto, un rumore così forte che la gente pensò allo scoppio di una bomba.
Uscirono tutti dalle case guardando verso la fabbrica dei fuochi: uno spettacolo così nessuno l’aveva mai visto. Sembrava l’eruzione del vulcano.
Il molo era affollato di gente, i grandi piangevano
e imprecavano, i bambini guardavano incantati: la morte tra girandole e cascate.
Le sirene delle ambulanze fischiavano assordanti, come al termine dei fuochi quando la gente, che è ancora un po’ disorientata, capisce che la festa è finita.
Un vecchio del paese, mentre gli passavano davanti i corpi martoriati e bruciati, disse: “Il fuoco è come le femmine: pazzo e isterico, e non lo puoi mai dominare.”
(beve le ultime gocce di caffè rimaste nella tazzina).
Ad un tratto in un corpo nero che ancora si lamentava riconobbi lui, il grande incendiario.
Guardai la fabbrica che non esisteva più, poi il mare, poi il santuario illuminato a festa. E con la voce soffocata, mi venne fuori una promessa: “Mamma Santa fallo morire subito, non me lo fare soffrire più ed io, in onore del Tuo nome che umilmente porto, sarò soccorso per i bisognosi”.

Quel mucchio di carbone che era stato mio padre non diede più segni di vita.
Io guardai in alto per ringraziare e vidi una spada di luce. Era il faro, imponente e severo come l’Arcangelo Michele.
Pensai: “Quello è il mio posto; là voglio vivere. Sola, in alto, a dare luce a chi va per mare”.

Non fu facile convincere la mia famiglia; furono discussioni e litigate a non finire. Una femmina che se ne andava a fare l’eremita.
La gente del paese, poi, mi prendeva per pazza.

“Se proprio si vuole chiudere per fare del bene, allora è meglio il convento di clausura”,
Ma io niente, capatosta, non mollavo.

Caro Procopio, quanto è brutto il pregiudizio: è come una scheggia di vetro appuntita che ti trapassa da parte a parte lacerandoti le carni. Se sei fortunato e riesci a sopravvivere ti resta una cicatrice che ti marchia a vita. Ancora adesso se solo ci ripenso mi risale il tossico in gola che mi devo addolcire la bocca.
(si versa ancora un po’ di caffè aggiungendoci un goccio d’anice)
Papà il caffè lo prendeva con l’anice; diceva che gli profumava tutta la giornata.

E quando finalmente partii per il concorso da guardiana il cuore mi batteva così forte che copriva il rumore del treno e poi dopo quello delle macchine, fino a rimbombare nello stanzone dove si svolgeva la prova.
(beve con gusto, poi riprende il discorso interrotto)
Chiamarono il mio nome. Entrai in una saletta grigia, illuminata col neon. C’erano tre pezzi grossi seduti dietro una scrivania. Quello più anziano, che teneva un bel paio di baffi e stava seduto al centro, mi fece: “Si accomodi, signorina!”e poi, con un mezzo sorriso che gli fece arricciare un po’ il baffo destro “Lei non è sposata, vero?”
Pensai subito: “Sesella, questo ti vuole fottere Sese’ attacca!”
Mi sedetti, lo guardai fisso negli occhi e con la faccia seria risposi: “No, sono felicemente zitella”
Scoppiarono a ridere, poi sempre quello con i baffi aggiunse con un tono da padre confessore: “Questo è un lavoro faticoso che non si addice ad una donna. Non si tratta di accendere un fiammifero, bisogna vivere isolati, trasportare pesi. E’ proprio convinta di volerlo fare?”
“Non voglio fare altro nella vita”
Scese un silenzio impressionante. Mi fecero firmare certe carte e mi congedarono. Poco tempo dopo arrivò a casa la lettera della nomina. Io ridevo per la felicità, la mia famiglia piangeva per la disperazione. La vita è così, ognuno reagisce a modo suo.
Procopio, chissà perché oggi vi sto raccontando queste cose?
Insomma, ci sono riuscita: la figlia piccola del mastro fuochista è diventata guardiana del faro.
(va verso il proscenio, guardando l’orizzonte)
Il tempo è andato via in un soffio, lasciandomi come unico ricordo le rughe incise dal sole e dal vento.
Gli anni sono volati e non ho avuto il tempo di contarli.
Gli unici numeri sono stati le ore di luce e le ore di scuro, le navi cisterna e le navi da crociera, i barconi dei pescatori e i motoscafi d’alto bordo. Sono passate generazioni di naviganti: chi buttava il sangue per la fatica e chi lo succhiava a qualche povero disgraziato; chi rischiava la vita e chi se la godeva.
Sul mare ho visto galleggiare tutte le ingiustizie della terra.
Figli non ne ho fatti: non ce n’è stato bisogno.
Ho amato gli animali e sono stata ricambiata, anche se (guarda per terra alla ricerca del gatto) qualcuno ogni tanto mi fa un po’ disperare.
Ma soprattutto ho vissuto fra cielo e mare, nel silenzio, in grazia di Dio. Che privilegio, eh?
E adesso, Procopio? Niente più pace?

(a distanza si sentono voci concitate alternate ad urla disperate)
Gesummio, che sta succedendo?

(si affaccia) Uh, Madonna mia bella! (urlando) Disgraziati, fermatevi! Assassini, figli di puttana, lasciateli! Avete capito, fermatevi!
(si sentono degli spari, poi un motore che si allontana a tutta velocità) Disgraziati!
(corre al telefono a muro e compone concitatamente un numero)
La capitaneria? Sono la guardiana del faro di Punta Secca. Dovete intervenire subito! Qui davanti ci stanno due gommoni. Hanno buttato in mare dei poveri cristi. Saranno quindici, venti. Ci sono anche donne e bambini. Presto, mi raccomando, dovete fare presto!
(abbandona la cornetta penzolante; afferra la coperta dal letto ed esce di corsa. Buio)


SCENA II: Giorno pieno

Una luminosa giornata di piena estate.
Sesella è intenta a dare le ultime pennellate di bianco alle pareti. Indossa un ampio camicione, mentre i capelli sono raccolti in un foulard annodato a mo’ di cuffia.
Sul proscenio sono sparsi alcuni scatoloni contenenti generi alimentari in attesa di essere svuotati. Sul tavolo un pacco di corrispondenza.

SESELLA (canta con trasporto)
Forse sarà la musica del mare
che nell’attesa fa tremare il cuore.
Torna ogni vela e tu non vuoi tornare,
che lacrime amare, versare fai tu.

Le crepe a ragnatela mi ricordano le facce delle vecchie del paese: rigide, scolpite, senza più espressione. Sempre col giudizio dentro a quegli occhi che ti spogliano fino alle ossa.
I muri di casa sono proprio come le facce delle persone: ogni tanto tengono bisogno di un bella rinfrescata.
Certo, magari si potesse dare anche a noi una bella passata di colore e renderci giovani e luminose, pronte a cominciare daccapo.
Come un bel quaderno nuovo che devi incignare e ti metti paura a scrivere, perché sai che se sbagli la prima pagina l’hai rovinato per sempre.
(ammira il lavoro compiuto)
Mo’ sì che tieni un bell’aspetto (tocca le pareti) e sei liscio come il culo di una creatura, che viene voglia di pizzicarti! Abbiamo tolto i calcinacci e tutto il salmastro e sono anche scomparse tutte le macchie di umidità.
Un po’ però mi dispiace, perché qualche macchia, sotto una certa luce mi sembrava una faccia conosciuta, amica.
(indica un punto sul muro) Quella là in alto era precisa precisa la principessa Gracekelli di Monaco, sempre bella e sorridente come sui giornali. Anche se per la verità una piccola crepa, lì in basso nell’angolo, negli ultimi tempi l’aveva un poco appesantita.
Più a sinistra stava il bel faccione tondo di Papa Giovanni - che Dio l’abbia in gloria – che mi è stato di tanto aiuto nei momenti di sconforto.
E poi nell’angolo, in fondo in fondo, c’era il profilo della capa di papà: naso dritto, fiero; una lama capace di passarti da parte a parte.
(sospira) Spiriti benigni ormai cancellati ma che sempre resteranno nel nostro cuore.
(si lava le mani)
E mo’ completiamo l'opera con le provviste.
(rivolta al canarino)
Tu, è inutile che guardi, ché tanto per te non ci sta niente.
(guardando per terra) Quell’altra non si è ritirata ancora. Vuol dire che sparagniamo sul mangiare.
Ecco qua. (toglie dai cartoni delle conserve alimentari, che andrà a sistemare in appositi scomparti)
Qua stanno i barattoli di pomodoro. Certo, non è la salsa di una volta, quella che si faceva in casa.
Chi tiene più la pazienza? Il tempo per esserci, ci starebbe pure; è la voglia che ha sloggiato da questo corpo, lasciando appeso il cartello di “Si loca” che ormai non legge più nessuno.
Una volta – quando tenevo ancora il gusto di stare in cucina - allora sì che le conserve di Sesella passavano per nominate.
I pomodori seccati al sole al punto giusto, fino a quando diventavano una sfoglia morbida che si scioglieva sotto i denti; non come quelli industriali che sono duri come i cardi.
Le melanzane messe sott’olio, che odoravano d’origano e di menta.
E poi le marmellate, di mele cotogne e d’arance.
Per non parlare dei rosoli: di limone, alloro e melograno; che quando li stappavi profumavano tutta la casa.
Quando venivano i superiori in missione tutto gli facevo assaggiare e alla fine se ne andavano via così estasiati che non vedevano l’ora di ritornare.

Oramai mangiare è diventato solo un atto per il sostentamento.
(estrae da un cartone delle scatolette che guarda con disgusto)
Il gusto si è ammosciato, come del resto gli altri sensi…. gli occhi, le orecchie….
Però almeno le puzze, grazie a Dio, quelle non le sento più come prima. Vedo e ascolto il necessario, tocco il minimo indispensabile.
A questa maniera anche un bel piatto invitante diventa più un dovere che un piacere.
Eh… il piacere, il piacere. E chi l’ha mai provato il piacere, Procopio? Il piacere……
Certo, qualche brivido ha attraversato anche le mie carni. Ma è stata poca cosa. Quello squassamento che sta scritto nei libri a questa strada non è mai arrivato.
Ma quella è la bravura degli scrittori che ti fanno immaginare che nella vita ci stanno queste passioni che ti ubriacano, che ti tolgono il respiro. Ma dove stanno? Io non mi sono mai ubriacata e ho sempre respirato non bene, benissimo. Figuriamoci, con tutti quei gradini da fare ogni giorno ci mancava pure lo squassamento, che mi avrebbe fatta schiattare.
(guarda fuori)
Però, un grande amore - anzi una passione vera e propria – ce l'ho avuto pure io: il mare. Il mare, sissignore.
Da ragazza, nelle belle giornate d’estate come questa, riuscivo a stare ore ed ore in acqua, che a casa certe volte si preoccupavano pensando che forse mi era capitata una disgrazia. Ma quale disgrazia! Io nuotavo fino al largo, poi mi giravo di scatto e vedevo tutto il mondo che galleggiava.
Che bellezza guardare il paese riflesso che perdeva consistenza, le case capovolte che si scioglievano nell’acqua! Ed io là, intera, forte, sospesa. Pronta ad affrontare il mondo intero.
Poi - voi lo sapete Gracekelli - successe la disgrazia di papà e ritornai con i piedi per terra. La vita va come deve andare: sta tutto scritto.
(rivolta al canarino) E poi noi non ci saremmo conosciuti; è vero, Procopio? Io non sarei arrivata qua sopra e non avrei mai potuto godere di questa pace.
(ride di gusto) Quando mi chiedevano: “Ma non ti senti sola?”, rispondevo pronta: “La solitudine è un sentimento che non mi appartiene: io sono uno spirito libero.”
Ammutolivano e mi guardavano strano.
Nella vita se hai la fortuna e la forza di realizzare quello che desideri, allora la tua anima vola sempre leggera. Proprio come voi, Procopio.
Le uniche volte che mi sono sentita veramente sola è stato proprio in mezzo agli altri. Quando non tieni che dire o sei costretta a parlare di fatti inutili ti viene quel groppo alla gola che dà lo sgomento.
Già, lo sgomento…
Addio paradiso, si spalancano le porte dell’inferno: sento già le urla nelle orecchie le urla dei dannati.
Mamma Santa, mi manca il respiro se solo ci penso.
(accarezza delicatamente il muro, si porta una mano alla bocca la bacia e la poggia sulla parete imbiancata. Buio)

SCENA III: Giorno che muore

Un caldo tramonto autunnale.
Sesella rientra portando con sé una grande cesta contenente i rifiuti che le mareggiate hanno depositato sugli scogli. Indossa dei guanti in latice.

SESELLA Schi-fo, schi-fo, schi-fo!
La gente tratta il mare peggio di un cesso. E’ capace di gettarci dentro i propri escrementi e poi magari di andare a farsi una bella nuotata.
Se penso che su queste rocce ho seminato le rose e ora mi tocca raccogliere mazzi di rifiuti!
(depone la cesta dei rifiuti)
Anche oggi abbiamo fatto una bella vendemmia.
Io gliela farei mangiare tutta questa spazzatura.
(prende una busta nera in cui metterà i rifiuti tolti dalla cesta, analizzandoli di volta in volta)
Ecco qua. (estrae un paio di mutande da uomo)
Questo deve essere uscito di corsa e si è scordato d’infilarsi qualcosa.
(estrae una scarpa da uomo) Eh sì, andava proprio di fretta.
(estrae un copertone d’auto)
Ma un contrattempo lo ha fatto arrivare in ritardo all’appuntamento.
(estrae una spazzola per capelli da donna)
Lei intanto, nell’attesa, si faceva bella per lui.
(estrae due bottiglie vuote di birra; le innalza in segno di brindisi, facendole appena tintinnare)
Infine l’incontro è avvenuto ed è stato suggellato da un romantico brindisi, (estrae un preservativo srotolato) prologo di un’apoteosi amorosa.
Un’edificante storia di questi tempi, scritta nella mondezza e scaricata su questi scogli a memoria futura. Amen!
(chiude la busta nera della spazzatura)
E’ proprio vero – non mi ricordo dove l’ho letto -: negli avanzi dei popoli puoi ricostruire la storia del genere umano.
Rifiuti che inseguono altri rifiuti: una discarica immensa che assedia quel po’ di natura incontaminata che a fatica cerca di resistere.
(prende dei detergenti e incomincia a pulire in maniera ossessiva i ripiani, per poi passare alla pulizia dei vetri)
Il fatto è che la gente è sporca dentro; puzza di rancido e si spruzza di profumo per cercare di coprire il tanfo che manda.
(si accanisce nella pulizia)
Un’umanità lurida, unta e fetente, che ritrova la via di casa seguendo la scia di grasso che ha lasciato.
(sfinita si lascia cadere su una sedia)
Papa Giovanni, adesso non mi rimproverate: non sto bestemmiando contro il prossimo! Sì, lo so: Ama il prossimo tuo come te stesso. Ma se il prossimo mio è uno sporcaccione, con me non tiene niente a che spartire. E io lo schifo!
Abbiate pazienza, non si può porgere sempre l’altra guancia: altrimenti finisce che mi resta paralizzata.
… E va bene, vuol dire che una volta morta finirò all’inferno.

Intanto all’inferno mi stavano mandando loro da viva quando qui è scoppiato quel famoso incendio, che certo non si è acceso da solo.
Caro Procopio, per vostra fortuna voi all’epoca non facevate ancora parte della famiglia, La gatta Principessa sì; e lei, dovunque sta in questo momento, è certo che se lo ricorda ancora, vero Principessa?.
Era il 13 luglio di cinque anni fa: chi se la scorda quella data? La tengo marchiata nella testa.
Potevano essere le dieci, le dieci e mezza al massimo – avevo già registrato la posta e riempito il registro delle presenze – quando Principessa incominciò a girare intorno al tavolo come un’indemoniata: il pelo dritto; veloce, sempre più veloce. Saltava sui mobili e poi si buttava giù a capofitto; non c’era verso di tenerla. Sembrava che l’avesse morsa la tarantola.
Pensai: “Questa è uscita pazza oppure se n’è andata in calore”, che poi tanto è la stessa cosa.
Mentre facevo queste considerazioni, cominciai a sentire una puzza di bruciato così pungente che prendeva alla gola.
Guardai fuori: il grigio si era mangiato tutto l’azzurro. Sparito il cielo, sparito il mare, sparito tutto.
Non so come riuscii a prendere Principessa per una zampa e me la strinsi contro il petto. Prima di uscire all’aperto bagnai d’acqua uno strofinaccio e lo premetti contro la mia faccia e contro il suo muso.
Fuori non si vedeva niente: un muro spesso di fumo denso che faceva bruciare forte gli occhi.
Come un’accecata che conosce la strada a memoria scesi correndo verso il mare, scansando rami infuocati e pietre roventi.
Come Dio volle raggiunsi gli scogli e, senza pensarci su due volte, mi gettai a mare con Principessa al collo.
L’acqua fresca fu come una manna per il mio corpo: mi fece rinascere e trovare la forza per spingermi un po’ più al largo.
Fu fortuna – o un miracolo, non lo so – fatto sta che passò un barcone di salvataggio e ci prese a bordo.
Io e Principessa, bagnate fradice e arruffate come due signorine di buona famiglia cadute in disgrazia, non riuscivamo a togliere gli occhi dal fuoco.
Me ne stavo in piedi, a prua, impietrita: sembravo quella di Via col vento – come si chiamava? Me lo scordo sempre… - che guarda la sua casa bruciare; ma nel mio caso purtroppo non si trattava di una pellicola del cinematografo.
E allora ditemi, caro papa Giovanni, come si può perdonare un essere umano che con un gesto malvagio ha fatto bruciare piante secolari, case, animali, le mie rose, la speranza, l’anima mia e - poco ci mancava - anche cristiani.
No, non si può; non si deve. E’ la sua azione la vera bestemmia contro Dio e quello che ha creato, no che io devo andare all’inferno
Per fortuna qualcuno da lassù si è accorto di noi – forse gli era arrivata la puzza di bruciato – e ha fatto girare il vento. Così, almeno tu (tocca delicatamente una parete) ce l’hai fatta.
Insomma, Procopio mio, Sesella è sopravvissuta pure a questo dolore ed è rimasta qui a brontolare con te e con Principessa e a parlare con le macchie sul muro.
(il tramonto è diventato di un rosso intenso. Sesella si affaccia e guarda il panorama )
L’autunno tiene i colori più belli e te li devi sapere godere per tempo perché così intensi durano poco.
Quando sono arrivata qua, tanti anni fa, questo era un posto magnifico ma inospitale, quasi impossibile da raggiungere per i tronchi portati dalle mareggiate e per le pietre fatte rotolare giù dagli animali e dai temporali.
E’ stato proprio mentre ripulivo il sentiero che portava al faro, sfatta e sudata per la stanchezza, che ho provato per la prima volta la sensazione di essere finalmente arrivata a casa mia. Non quella dove ero nata e cresciuta per volontà degli altri, ma quella che avevo scelto per me stessa. E’ stato un momento: mi è sceso dentro come un balsamo dolce, una specie di unguento, che piano piano ha cominciato a sciogliere la fatica.
Proprio allora rientrava un barcone dalla pesca. Qualcuno ha gridato: “Ben arrivata, ci hai portato fortuna!”
Mi è venuto da ridere e piangere insieme, come una scema, e sono corsa via senza riuscire a rispondere.
(si sente la sirena di una nave in transito)
Una volta da qui si avvistavano i predoni che volevano sbarcare, ora si vedono solamente i turisti che scendono all’assalto dalle navi da crociera. Resta sempre un territorio da conquistare.
Guarda qua, sta passando un altro condominio a sei piani.
(risponde, agitando il braccio, ad un saluto)
Salutano. Ma chi vi conosce? (saluta di nuovo)
Tanto, un saluto non si nega a nessuno, anche per educazione.
(rivolge lo sguardo al muro, in alto)
Principessa Grace – dove stavate? Ah, là! -, solo voi che siete stata una donna di mondo e avete sempre vissuto a corte, mi potete illuminare: ma uno non si scoccia a vivere sempre circondato da tanta gente?
Sì, capisco, a voi vi toccava: era il vostro mestiere.
(indica la nave) Ma questi, che vivono sempre appiccicati uno addosso all’altro e anche quando possono non riescono a staccarsi, tanto giusti non sono, Principessa mia.
Aria, un poco d’aria! Fa tanto bene ai polmoni e anche al cervello. Niente, tutti aggrovigliati come fili ingarbugliati che non si capisce dove finisce uno e dove comincia l’altro.
La sbagliata sei tu, cara Sesella, questa è la verità.
Troppo intransigente, tutta tuo padre.
(il suo sguardo viene attratto dalla corrispondenza posta sul tavolo. Estrae una lettera. Legge l’intestazione della busta)
Ministero della Marina.
(soppesa la busta)
Vedete, Procopio, questa sembra leggera, ma invece è pesante assai.
(apre la busta e ne estrae il contenuto)
E’ arrivata la sentenza.
(legge prima a bassa voce biascicando parole incomprensibili, poi declama come se pronunciasse una sentenza)
Marina Militare – Comando Zona Fari.
In esecuzione del Programma di Rinnovamento Fari, per cui è stata effettuata la trasformazione del Segnalamento mediante l’installazione di lampeggiatore elettronico, a partire dal primo gennaio prossimo venturo il faro di cui in oggetto non necessiterà più di accensione assistita.
S’informa, pertanto, la Signoria Vostra che entro tale data Ella dovrà abbandonare, definitivamente e improrogabilmente, i locali che attualmente occupa, liberandoli da tutti i suoi effetti personali.
Firmato: il Comandante eccetera, eccetera, eccetera.
Avete capito, Procopio? Chi s'è visto, s'è visto. Tante grazie per la vostra collaborazione, adesso non teniamo più bisogno di voi, fatevi da parte e sbarazzate i locali.
(rivolta al canarino) E siccome pure voi siete un effetto personale, anzi molto personale, (apre la gabbia) siete pregato di abbandonare i locali.
Ah, non uscite? Che devo fare, capovolgere la gabbia?
Avete capito - sì o no - che abbiamo avuto l’ingiunzione di sfratto? (richiude la gabbia)
Sapete che vi dico: io di qua non me ne vado. Mi devono cacciare con la forza. Non si strappa una madre al proprio figlio. (accarezza delicatamente il muro) Perché come un figlio ti ho tenuto.
Ogni notte, quando apro gli occhi e vedo la tua luce mi scende dentro una dolcezza che mi fa addormentare contenta.
Ma questi sono sentimenti che non interessano a nessuno. C’è tanto di regolamento da rispettare e il resto non conta.
Non ti hanno voluto capire, Sesella, ti hanno utilizzato come un fazzolettino di carta su cui hanno asciugato le loro schifezze e adesso che non servi più, via!
(vagamente esaltata) Ma tu non ci devi stare, perché tu sei come il faro: splendi, emani luce.

(strappa con rabbia la lettera, gettando i frammenti dalla finestra; poi, rivolta verso l’esterno, estende le braccia a mo’ di croce.

Io sono la guida. Naviganti, io vi indico la via.
Madre Santa del Soccorso, luce sul mare, porto accogliente per i naufraghi, stendi la Tua mano benigna su di noi.
Ora pro nobis, Mater, succurre miseris. Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Io non so niente. Nessuno mi ha comunicato niente. Procopio, voi non avete visto né sentito niente.
Aspettiamo; io posso aspettare.

(innesca l’accensione del faro. Il riflettore, che simula la proiezione del fascio luminoso comincia a roteare, mentre la scena sprofonda nel buio)



SCENA IV: Notte fonda

La notte di fine anno.
Lucette intermittenti sono disposte qua e là per la stanza; alcune anche sulla gabbia del canarino. La luce del faro ruota implacabile.
Sesella è in piedi, al proscenio e guarda lontano, verso l’orizzonte.
Indossa lo scialle della prima scena su un abito da sera fuori moda; regge in mano una vecchia valigia.
Nel corso della scena il telefono squillerà più volte, restando ignorato.


SESELLA Luce-buio, luce-buio, luce-buio; tum-ta, tum-ta, tum-ta.
Sono tanti anni che il mio cuore di notte batte seguendo il movimento del tuo fascio luminoso.
Sono stata brava a non farlo mai spegnere e tu mi hai ripagato concedendomi un ritmo regolare.
Da domani dovrò inventarmi una nuova luce e tu farai a meno di un vecchio cuore.

(poggia a terra la valigia e si stringe nello scialle in un brivido di freddo. Il telefono squilla a lungo; Sesella lo ignora)

Le notti d’inverno sono le più belle, con le onde che sbattono contro gli scogli e il vento gelido che ti taglia la faccia.
La natura si prende la rivincita sull’uomo mentre io, qui in alto, tengo stretto in mano il destino di chi sta in mare; custode di vite sconosciute, di cui posso solo immaginare affanni e gioie.
Il mare in tempesta non mi ha fatto mai paura, anzi qualche volta in quel rumore violento mi è sembrato di sentire una musica lontana, uno di quei tanghi struggenti in cui la fisarmonica si trascina dietro tutti gli altri strumenti. Un ballo danzato dal vento e dalle onde.
(accenna un movimento di danza, che viene interrotto dagli squilli insistenti del telefono. Sesella guarda con fastidio l’apparecchio senza rispondere)
Che fantasia che tieni in capa, Sesella! Vedi di sbrigarti che tieni ancora tanto da fare.
(riprende la valigia, la poggia sul tavolo e la apre)
Gesù, guardate qua le cose che stanno conservate! E chi se le ricordava più.
(estrae una veste bianca da prima comunione)
Il vestito della prima comunione, col velo e la sottogonna a cerchio, che mi stringeva forte in vita e non mi faceva respirare. Però mi piaceva assai. Mi sentivo una sposa bambina che andava all’altare, vergine nell’animo e nei sentimenti.
Tenevo in una mano i guanti di raso e il libretto delle preghiere e nell’altra un giglio bianco, che non doveva essere fresco perché si è ammosciato prima della fine della funzione. (ripone il vestito nella valigia)
E queste? E’ tanto che non le guardo.
(estrae alcune vecchie fotografie tenute insieme da un nastro e ne esamina alcune)
Mamma e papà il giorno del matrimonio.
Mammà era proprio bella: sembrava un’artista del cinematografo, anche con il vestito della cugina riaggiustato sulla sua figura.
(sorride) A papà gli avevano gonfiato tanto i capelli sulla testa che sembrava portare un turbante.
(cambia foto) Questa sono io da piccola al mare, vicino alla riva, che non voglio uscire dall’acqua e di lato si vede la mano di mamma che con l’indice mi grida: “Vieni subito fuori!”
(guarda un’altra foto) E qua sta papà che solleva verso il cielo un trofeo appena vinto coi fuochi.
(la sua attenzione è colpita da un oggetto posto in valigia. Estrae una lingua di Menelik, che porterà alle labbra e che, soffiandoci dentro, srotolerà, emettendo più volte un fischio simile ad un sibilo)
Questo me l’aveva comprato per la festa papà, poco prima dell’incidente. Adesso lo posso usare come fischio di chiusura a testimonianza di una promessa mantenuta.
(rimette tutto in valigia, che poi richiude e spinge sotto il letto
E’ tutto quello che devo portarmi, il resto non mi serve.
(il telefono squilla di nuovo insistente. Sesella s’irrigidisce; al cessare del trillo riprende)
Caro Procopio, Principessa ci ha lasciati da soli a festeggiare. No, non ci ha traditi. Quella è uno spirito libero come me: ha capito che questa non è più casa nostra e ha preferito andarsene prima. E noi dobbiamo augurarle ogni bene per l’anno nuovo.
Vedete come mi sono messa elegante? E’ un vecchio abito di mammà, che metteva quando accompagnava papà a qualche cerimonia. E’ un po’ fuori moda, ma a me piace lo stesso perché mi sembra di sentire addosso l’odore di tutti e due.
Io continuo a parlare, manca poco a mezzanotte e non ho ancora scritto i biglietti d’auguri. Va a finire che mi dimentico qualcuno.

(si siede e comincia a scrivere dei biglietti d’auguri che legge ad alta voce)

Cara Principessa Grace di Monaco,
mi permetto di disturbarvi per il piacere di porgervi gli auguri per il nuovo anno.
E’ un po’ che Vostra Maestà - no, quello è il titolo per le regine - che Vostra Altezza ci ha lasciati, ma la Vostra presenza è talmente viva che io Vi sento vicina proprio come una persona amica.
Quante confidenze Vi ho fatto in questi anni e voi, sempre con quel sorriso suadente - è bello “suadente” - da grande attrice, siete stata ad ascoltarmi con la pazienza delle persone di animo nobile.
Grazie, grazie di cuore per le giornate trascorse insieme. Certo, mi avrebbe fatto piacere ascoltare da Voi qualche riflessione sulla vita, ma va bene anche così. Sento che presto saremo ancora più vicine.
Un augurio di tutto cuore dalla Vostra dama di compagnia Maria Soccorsa, ma se volete potete chiamarmi Sesella, come una di famiglia.
(chiude la prima lettera e comincia a scriverne un’altra)

Caro Papa Giovanni,
umilmente Vi scrivo in quest’ultima notte dell’anno per chiedere la Vostra santa protezione in questo momento di confusione. Tutto sta per finire, ma un altro capitolo più importante si va ad aprire. Ho bisogno di Voi per non smarrire la retta via. Quel Vostro bel volto rassicurante mi deve indicare la strada.
Vi ringrazio per il conforto che mi avete dato fino ad ora e per quello che mi darete in futuro.
La Vostra umile e fedele serva Sesella.
(chiude la seconda lettera e comincia a scriverne una terza)

Caro papà,
quanto mi siete mancato e quanto mi mancate ancora. Ma io so che col nuovo anno vi sentirò ancora più vicino.
Tanto tempo è passato, ma qui si ricordano ancora dei vostri fuochi. E chi se li può scordare!
Vi ricordate, quando mi spiegavate: Sesella, l’arte pirotecnica è matematica e fantasia, ed io vi guardavo incantata.
Numero 1: bomba di richiamo.
(percuote il tavolo imitando il rumore dei fuochi. Esegue anche fischi e gesti per rendere visibile l’effetto dei fuochi d’artificio)
Numero 2: bomba di apertura.
Numero 3: bombe di tiro.
Numero 4: gran finale con cascate, farfalle, serpentelli e mosaici.
Numero 5: bomba di chiusura.

Che serate e che nottate! Ma poi la stessa arte vostra vi ha ammazzato e mi avete lasciato sola con queste luci che mi hanno ubriacato la capa.
Però, che bella cosa che è la luce, papà, cambia la faccia del mondo. Anche le luci cattive, quelle della guerra, se le guardi senza pensare il male che fanno, sembrano i festeggiamenti dei santi patroni della terra.
Ora vi devo lasciare, abbracciandovi forte forte.
Vi saluto in questa che è la vostra notte, con l’augurio di riunirmi a voi quanto prima.
La vostra unica e adorata Sesella.
(chiude la terza lettera. Si alza e va verso la voliera, ne apre lo sportello e inserisce le lettere)

Vedete, Procopio, una volta andava in giro per i paesi un uomo che portava addosso una gabbia con dentro un canarino, tale e quale a voi. Per pochi soldi tirava fuori da un cassettino un biglietto colorato su cui era scritta la fortuna. Per me, invece, la vera fortuna siete stato voi: mi avete tenuto compagnia con discrezione e sentimento.
(prende il canarino in una mano e se lo porta al cuore coprendolo col panno nero che rivestiva la voliera.
Tenendo l’uccellino stretto al cuore, comincia a muoversi ondeggiando come se cantando una ninna nanna lo stesse facendo addormentare. Stringe sempre di più il fagotto nero fino a soffocare il canarino mentre il telefono riprende a squillare con insistenza.
Al cessare del trillo Sesella solleva la cornetta dall’apparecchio e l’abbandona lasciandola penzolare nel vuoto. Va verso il televisore e rimuove il panno nero che lo ricopre. Lo accende. Sullo schermo si susseguono immagini in bianco e nero di festeggiamenti da notte dell’ultimo dell’anno, con sottofondo di musiche fragorose culminanti nel conto alla rovescia che annuncia l’arrivo della mezzanotte)

Shh! Un poco di silenzio!

(toglie l’audio lasciando che scorrano solo le immagini.
Va a stendersi sul letto, sempre col canarino stretto al cuore.
Si ricopre interamente col panno nero che rivestiva il televisore, cantando con voce rotta e straniata le poche strofe di una canzone)

Mare sei tu,
che una sera portasti il mio cuor,
in un sogno di nuvole d’or,
che mai non scorderò.

Corri laggiù,
la sua sponda ritorna a baciar,
se un istante la fai ritornar,
la vita mia darò.

(il faro manda ancora per un po’ i suoi bagliori prima che la scena sprofondi nel buio, mentre da lontano giunge il fragore dei fuochi d’artificio)