LA MARMELLATA
Ricordi di un Brigatista Rosso
Dramma in due atti
di
Salvino Lorefice
(S.I.A.E. – Sezione DOR – Posizione n. 52246)
A Carlo,
Se ancora c’è.
A Renato
Che c’è e ci sarà.
LA MARMELLATA
- Ricordi di un Brigatista Rosso -
Due Tempi
PERSONAGGI:
Studente universitario
Anna
Carlo
Alter Ego
Giovane prostituta
Magazziniere (Visentin)
Autista folle
Voce narrante (voce fuori scena)
NOTA: La Voce narrante può essere, o no, quella dello Studente, preventivamente registrata.
P R I M O T E M P O
Prologo.
In una modesta
soffitta, dimora uno studente universitario fuori corso. L’ambiente è
piccolo, disordinato ma pulito. Vi sono molti libri accatastati,
macchina da scrivere, mensole al posto dei mobili, lampadina pendente,
una branda, un grande specchio, tavolino, due sedie, lavandino.
Dal lucernario,
sul tetto spiovente, si vedono i lampi; si odono i tuoni. Sta piovendo
a dirotto. Lo studente è disteso sulla branda. A tratti è illuminato
dal chiarore dei fulmini. È notte.
VOCE FUORI SCENA Il rumore a mitraglia della pioggia
Sui vetri del lucernario
E i venti pisellini colorati da un volt e mezzo
Che rischiarano la soffitta
E che sembrano voler dare a tutti i costi un tono romantico
E la luna che li aiuta
Ed io, occhi socchiusi
E le mani, dita intrecciate
E i palmi, sulla nuca
E sempre io, disteso sul letto, gambe incrociate
E i pensieri, veloci, nella mente
E l’amara soddisfazione
Di una scelta voluta e temuta
E mio padre
E mia madre
E il tempo che passa
E la mia età
E il mio futuro
E la mia vita
E il tic–tac della sveglia
E il libro aperto
E i miei studi
E ciò che farò
E il denaro che ho
E la pioggia
Che sempre
Martella.
Non smettere, pioggia.
(B U I O.)
Scena Prima
Dal lucernario
entra un fascio di luce solare: è una bella giornata. Lo studente sta
leggendo un libro, ad alta voce; è all’impiedi, di profilo, su un lato
della scena. Dopo aver chiuso il libro si avvicina al centro-scena.
STUDENTE
(Leggendo) “Mi siedo. Infilo un foglio nella macchina da scrivere.
Stappo una birra, m’accendo da fumare.” (Chiude il libro.)
Chiudendo il libro pensai che Charles Bukowski era veramente forte.
Gli ultimi soldi inviatomi dai miei genitori erano già finiti e mi
trovavo a secco. Ed io dovevo pur mangiare.
Prima di mettere in atto il mio folle piano avevo provato di tutto:
cercare un lavoro, saltare un paio di cene rimediando a mangiare pane e
yogurt rubati alla mensa universitaria… E avevo persino chiesto in
prestito dei soldi, che avevo già speso ma che dovevo pur restituire,
prima o poi. Tutto, ma di soldi neanche l’ombra. Ed ho capito cosa
significa essere veramente al verde. Ed ho riflettuto a lungo, prima di
decidermi a fare quello scellerato passo che mai più rifarei.
Era dalle sette del mattino che aspettavo, leggendo questo libro Faceva
freddo. Eppure, se resistevano quei vecchietti - pensavo - perché non
dovevo resistere anch’io? Tanto più che io ero riscaldato da racconti
del vecchio sporcaccione-ubriacone di Los Angeles (accenna al libro).
Quei vecchietti erano alcuni pensionati che aspettavano l’apertura
dell’ufficio postale, un vecchio ufficio postale di periferia di quella
vecchia metropoli è Torino.
Chissà con quale ansia quei vecchietti avevano atteso quel benedetto
giorno, quello della loro pensione. Avevano trascorso la loro vita in
una fabbrica, in un ufficio o in chissà quale altro buco, e avevano
versato contributi, pagato tasse, versato sudore, versato sangue,
versato vita, per poi venire a morire di freddo davanti ad uno
squallido ufficio postale, in un giorno speciale, quello della
riscossione. Alcune settimane addietro un vecchio era morto assiderato,
mentre aspettava che l’ufficio postale aprisse.
Io ero appostato alcune decine di metri più in là, dietro un angolo e,
tra una Storia di Ordinaria Follia e un’altra, riflettevo sul miglior
modo di agire. Poi, finalmente, alle nove meno venti, la saracinesca si
alzò e i vecchietti entrarono. Io non mi mossi e continuai ad
aspettare. Dopo circa mezz’ora vidi uscire un vecchietto. Si dirigeva
verso di me, con aria allegra. Mi è sembrato che fischiettasse, che
sorridesse.
Appena il vecchio mi fu vicino, sbucai dal mio nascondiglio e mi
diressi verso di lui facendo velocemente alcuni passi per sbarrargli il
cammino. Il vecchietto non si rese conto di quel che gli stava per
succedere, “Stia calmo e non faccia l’eroe”, dissi con tono nervoso. Ma
l’anziano signore mi guardò con aria impassibile. Era incredulo,
sembrava non capire. Avrà avuto una settantina d’anni, forse di più, e
indossava un cappotto che aveva già fatto il suo tempo.
“Questa è una rapina”, ritentai (Estrae una pistola). Stavolta il
vecchio reagì perché vide la pistola che gli puntavo contro. In realtà
era una pistola-giocattolo, ma lui non poteva saperlo. E infatti reagì
istintivamente, alzando le braccia.
“Abbassi le braccia”, ordinai trascinandogli giù una manica del
cappotto. E abbassò le braccia. Mi guardai nervosamente intorno. Un
fruttivendolo guardava nella nostra direzione, rintanato nella sua
bottega. Deve aver visto tutta la scena delle braccia alzate e subito
riabbassate. Deve aver capito. Forse avrebbe telefonato alla polizia,
da bravo cittadino. Io sperai di no. “Mi dia tutti i soldi”, intimai al
vecchio, “Svelto! E non cerchi di fare l’eroe.”
Solo allora mi resi conto che la mia educazione faceva sì che gli dessi
del lei. Lo stavo rapinando della sua pensione, ma gli davo del lei, E
quel “non faccia l’eroe”, poi!
“Sbrigati, dammi i soldi,” farfugliai. Il vecchietto esitò e mentre,
lentamente, prendeva i soldi dalla tasca interna del cappotto, avvolti
in un fazzoletto, i suoi occhi luccicarono. E, sempre con gesti lenti,
esitanti, mi porse i soldi.
“È la mia pensione di due mesi”, disse il nonnetto con un fil di voce.
E tirò su per il naso. Io, incurante di quelle parole, presi i soldi e
li contai. Chissà perché, ma li contai. Erano sette banconote da
centomila e qualche biglietto da mille. Tornai a guardare il vecchio,
“Ho la minima,” sussurrò il vecchio. “Io e mia moglie ci campiamo due
mesi.” I suoi occhi si erano arrossati. “Per il freddo”, pensai. Ma una
lacrima gli si stava gonfiando. Ci guardammo a lungo, occhi negli
occhi. “Lasciami almeno i soldi della luce e del gas.”… La luce e il
gas, sì! A questo portava il mio alto Quoziente d’Intelligenza che
tanto spesso vantavo di possedere? Questo voleva dire essere libero?
Avevo arricchito la mia cultura per poi ridurmi a rapinare cadenti
pensionati? Nella mia mente passarono veloci mille pensieri, tra cui
delle tenere parole in favore di quell’essere così indifeso, così
pietoso, più vittima del Sistema di quanto lo fossi io.
“Mi stai davanti, nonnetto. Piangi, ma senza lacrime. Hai un nodo alla
gola, ma ti dai un contegno – cerchi di darti un contegno. Molti altri
della tua stessa età hanno pensioni d’oro. Il loro riposo vale più del
tuo?” “Tieni i tuoi soldi”, gli dissi. Ero di mezzo secolo più giovane
di lui, questo poteva bastare per farmi sentire più ricco senza bisogno
di doverlo rapinare. Venivo da un paesino e avevo già capito che in una
metropoli è più facile perdersi che perdercisi. In quel momento ne
avevo avute le prove. Gli porsi i soldi. Il vecchio mi guardò. Poi
guardò il denaro che gli porgevo. Poi tornò a guardarmi, infine si
decise a prendere i soldi. Ed io misi le mani e la pistola nelle tasche
del giaccone. Pistola e libro, a sfiorarli nella stessa tasca. Aveva
vinto il libro. “Non è con un milione che risolverò i miei problemi.
Non deruberò più i pensionati. Coraggio, nonno.” Dissi queste parole
per rassicurarlo, per fargli vivere serenamente gli ultimi anni, o
mesi, o giorni della sua vita. E fu a quel punto che vidi le lacrime
spuntare dai suoi occhi. Lo vidi sfogarsi. Singhiozzava come un bambino
e barcollò, tanto che dovette appoggiarsi al muro. Le braccia
penzoloni, i soldi in una mano e il fazzoletto nell’altra. Quando fui
sicuro che non cadesse, presi ad allontanarmi e, prima di svoltare
l’angolo, riuscii ad intravedere una macchina della polizia. Era ferma
e un poliziotto stava parlando col fruttivendolo, il quale indicava il
vecchietto piangente. E piangendo ormai a dirotto, il pensionato mi
guardava allontanarmi.
Il giorno dopo, nella “Cronaca Cittadina”, era riportato il “singolare
episodio”. Il vecchietto aveva dichiarato che il mancato rapinatore
aveva il viso coperto e che, quindi, non aveva potuto fornire alla
polizia nessun indizio.
Quel giorno, nonostante il freddo intenso, io avevo il volto scoperto,
e il vecchio mi aveva visto bene in faccia. Quella dichiarazione era
stata la sua maniera di ringraziarmi. Forse. Il fruttivendolo invece si
vantava di averlo salvato, di aver messo in fuga il rapinatore.
Buttai via il giornale, pensai che ero ancora senza soldi, diedi un
calcio ad una lattina vuota e sputai rabbiosamente per terra. Anche
quel giorno avrei mangiato pane e yogurt “prelevati” dalla mensa
universitaria.
(B U I O.)
Scena Seconda
Lo studente
manipola sul tavolo delle carte, eseguendo le tipiche mosse del “gioco
delle tre carte”. Poi si allena a prelevare un portafogli dalla tasca
di una giacca opportunamente sistemata su una gruccia, e infine si
allena a “prelevare” anche da una borsetta da donna appesa a un filo.
VOCE f.
sc. Stavo vivendo ai limiti della legge. Avevo
conosciuto dei balordi che mi avevano insegnato dei giochetti per
fregare il Prossimo sugli autobus affollati. Poi mi resi conto che non
era quella, la mia vera natura. Ero uno scrittore – o almeno mi sentivo
tale.
(Si allena ancora con le tre carte: “dov’è l'asso? La donna perde, l’asso vince…”)
VOCE f.
sc. Ero un artista, non un fuorilegge. Perciò non
rimasi a lungo nel giro nelle truffe consumate nei sottopassaggi
pedonali della stazione ai danni di ignari passanti che venivano
accalappiati a puntare sull’asso. Squallore, nel depredare sbarbati e
spaesati soldatini di leva alla loro prima libera uscita. O ricchi
bottegai calati in città per chissà quale affare.
(Si avvicina ai libri e ne prende uno. Lo osserva, sorride, fa scorrere le pagine tra le dita…)
VOCE f.
sc. L’ultima volta che passai dal sottopassaggio,
feci finta di non conoscere i miei ex compari e mi diressi in libreria
per comprare il terzo libro del mio scrittore preferito, una raccolta
do poesie uscita sull’onda del successo delle Ordinarie Follie. Avevo
in tasca le ultime tremila lire e le spendevo per comprare un libro di
poesie!
(Lo studente lancia con rabbia il libro contro una parete. Lo riprende
e lo strappa, pagina per pagina, con furia, come a sfogarsi. Poi si
placa.)
VOCE f.
sc. Avevo concluso un’altra esperienza, e la ricerca
della mia vera natura, della mia vera personalità, continuò sulla via
della libertà, finché non mi trovai ad un bivio. Un bivio segnato da
Anna, una dolce ragazza conosciuta in una cooperativa teatrale, dove
faceva la costumista. In realtà era un Angelo, un Angelo Caduto, in
cerca di proseliti.
(B U I O.)
Scena Terza
È notte. Lo
studente è a letto. Si ode il trillo del campanello. Lo studente si
sveglia, guarda seccato l’orologio, accende la luce e va ad aprire la
porta. Entrano due giovani: Anna e Carlo, quest’ultimo ha la barba e i
capelli lunghi e ha l’aria di essere un ex hippie.
STUDENTE (Sorpreso) Anna! Sono… Sono le tre del mattino!
ANNA Ah, sì? Comunque, questo è Carlo.
STUDENTE Ma non dovresti essere a Bolzano?
ANNA
Non ci sono più andata: i compagni che dovevo
incontrare sono partiti per una “gita”, a Beirut. (Osserva, curiosa, la
soffitta.)
STUDENTE E che idea avete avuto, per venirmi a rompere le palle a quest’ora?
CARLO
Questa è l’ora in cui le vecchiette dormono e perciò
non possono assistere “casualmente” a fatti che non dovrebbero vedere.
(Si guarda intorno, sfoglia i libri…)
STUDENTE Che vuol dire? (Guarda ora Anna, ora Carlo.) Spiegatevi meglio.
ANNA È un bel posto, questo, per starci. A chi verrebbe in mente di venirci a cercare qui?
CARLO C’è un’altra uscita, oltre al lucernario? (Attraverso i vetri, cerca di guardare fuori.)
STUDENTE
Un momento: che vuol dire questa visita? Che intenzioni avete? (Anna e
Carlo si scambiano uno sguardo. Carlo accende una sigaretta, siede sul
bordo del letto, espelle il fumo e fa una domanda a bruciapelo. Lo
stesso fa poi Anna.)
CARLO Hai mai sentito parlare di Brigate Rosse?
STUDENTE
Ma certo, che domande. Chi non ne ha sentito parlare? Torino è talmente
presidiata… Il sindaco ha fatto distribuire dei questionari per indurre
la gente a denunciare i “vicini sospetti”
CARLO E le vecchiette hanno cominciato a vigilare. Seee!
ANNA Sai cos’è una “colonna”?
STUDENTE
Beh, sì. Più o meno, sì. Ma perché queste domande? (Anna e Carlo
tornano a guardarsi. Carlo le fa un cenno con la testa, come a dire:
“continua pure”.)
ANNA Ecco. Oltre me e Carlo, ci sono cinque persone, cinque giovani compagni che la pensano come noi…
STUDENTE
Aspetta, aspetta. “Noi”, chi? E la pensano “come”? (Carlo si stende sul
letto, ridacchia, fa il menefreghista. Come a dire: “tutto tempo
sprecato!”)
ANNA
Ascolta, prima, ragazzo, eh? Vuoi ascoltarmi? (Pausa.) Da poco abbiamo
costituito una Colonna Bierre, ma non abbiamo ancora compiuto nessuna
azione. Però ne abbiamo già progettata una clamorosa.
STUDENTE Sì, ma io che c’entro?
ANNA
E fammi parlare, cazzo! (Alza la voce e sbatte a terra la sigaretta.
Pausa. Carlo ridacchia. Anna sbuffa.)
ANNA
(Con forzato autocontrollo): I cinque compagni sono ragazzi d’azione,
come me e Carlo, e li abbiamo accettati in Colonna dopo un periodo di
militanza, cioè di riunioni, di collettivi, affissioni di manifesti
abusivi, analisi e discussioni su certi articoli apparsi su giornali di
merda… Per quel che ne so, tu non hai mai militato, neppure un
volantinaggio. Ma so che sei un uomo di penna e che la pensi in un
determinato modo che a noi può anche stare bene. (Pausa.)
STUDENTE
E allora? (A questa battuta, Carlo riprende a ridacchiare
convulsamente, una risata che si trasforma in tosse e spasmi.)
ANNA
Ci occorrerà un comunicato, ben scritto, da far arrivare ai giornali,
dopo l’azione militare che abbiamo in programma. Ti forniremo i
particolari dell’azione, il nome del bersaglio e il tema del comunicato
che dovrai redigere. Se vuoi, lo potrai colorire con un po’ di
Letteratura Rivoluzionaria.
STUDENTE Cooosa?
ANNA
(Sbrigativa): Sei uno scrittore, no? Dovresti saperlo fare. Non ti
chiediamo molto. (Carlo tossisce, si agita.)
STUDENTE E non vi siete chiesti se, oltre a saperlo fare, io abbia intenzione di farlo?
ANNA
Dal colloquio che abbiamo avuto qualche giorno fa – tornando dalle
prove , ricordi? – ho capito che sei anche tu un emarginato,
insoddisfatto, un estromesso dal Sistema.
STUDENTE Ah, sì?
ANNA La pensi, in linea di massima, come noi. Devi accettare.
STUDENTE Accettare cosa?
ANNA Di combattere il Sistema, questo Stato imperialista al servizio delle Multinazionali.
STUDENTE Combattere il Sistema!…
ANNA “Il fascino della clandestinità”, ragazzo: provalo.
STUDENTE Misure d’Emergenza…
CARLO (Urlando) Lotta Rivoluzionaria Armata, Sììììì!
STUDENTE Sembrate il telegiornale. Ogni notizia di terrorismo è accompagnata da simili frasi.
CARLO Lasciali fottere, quei fottuti.
STUDENTE E se mi arrestano? Che ruolo mi attribuiranno?
ANNA Dacci un taglio.
STUDENTE L’ispiratore? No, è una terminologia sfruttata.
CARLO E smettila cco ‘sta menata.
STUDENTE
Ho trovato: “Lo scrittore redattore delle rivendicazioni”. Anzi no:
dopo “il postino” delle Brigate Rosse, ecco catturato “lo scrittore”
delle Bierre.
ANNA Non pensare, ragazzo, o ti perderemo.
STUDENTE
Sono capaci di coniare persino delle definizioni controsenso, tipo “la
rivoluzione intellettuale armata”. O forse, addirittura, “Intellettuale
al servizio dell’eversione”. Oppure…
CARLO E smettila, ho detto. Chi ti credi di essere, quel coglione di Gianni Vattimo?
ANNA Ma nooo. Semmai quel Coeffeur pour l’Homme del DAMS di Bologna, come si chiama?
CARLO Umbert d’Ecò: Altro coglione-culopiatto-raffinato.
STUDENTE (Ironico): Tutti coglioni. Tranne voi.
ANNA
(Quasi ad incoraggiare un ripensamento dello
studente): Carlo è uno che ha fatto il ‘68. (Pausa.) È un “ex” di Lotta
Continua, lo ricordi?, il Partito extraparlamentare. Si può dire che ne
è stato un fondatore.
STUDENTE Non me ne frega niente.
ANNA Ha anche fatto parte dei NAP. Nuclei Armati Proletari. È stato in Oriente, ha viaggiato molto.
STUDENTE (Ironico) Oh, ha viaggiato! (Carlo ridacchia. Sputacchia a destra e a sinistra, convulsamente.)
ANNA
(Con vanto) È stato anche in prigione e l’hanno messo in isolamento con
renato Curcio: ha preso lezioni di guerriglia Urbana direttamente da
lui. Non è vero? Diglielo anche tu, Carlo.
CARLO
Perché non usciamo da questa tana? Ti racconterò tutto mentre
sbolidiamo per le strade di questa Metropoli Imperialista.
STUDENTE Va bene, ecco un’idea buona: usciamo. (Comincia a vestirsi.)
CARLO
(Ferma lo studente) Ma prima senti: hai un cucchiaio? Ho qui con me una
“bustina” e muoio dalla voglia di farmi “una pera”. La siringa ce l’ho
io, l’ho usata solo tre volte (mostra la siringa). È ancora buona.
(B U I O.)
Scena Quarta
I tre sono a
bordo di una FIAT 500 col tettuccio apribile. Scorrazzano per le vie di
una Torino notturna e, poi, albeggiante. Si fermano in collina, a
vedere le luci della città. Scendono, risalgono, ripartono. Per
l’intera scena.
CARLO
(Urlando dal tettuccio, mentre guida, euforico) Metropoli Imperialista
di Agnelli, città di emarginati e sfruttati; centro del Capitalismo
sfruttatore di proletari: TI ODIO E CE LA PAGHERAIIIIiiii! (I tre
scendono dall’auto.)
ANNA
(Con entusiasmo, allo studente) Potremmo anche fondare un Mezzo per la
Comunicazione Sociale e farlo uscire periodicamente. Tu potresti
esserne il coordinatore.
STUDENTE
Un giornale? Un giornale nella clandestinità? Ma non
hai visto che fine ha fatto il primo numero di Metropoli? E non era
clandestino! E lì, sì, che c’erano redattori con le palle quadrate.
Altro che un piccolo sconosciuto scrittore come me. Un Signor Nessuno.
CARLO Ma non è questo, che conta.
STUDENTE E cosa conta?
CARLO Quello che conta è che ci siamo anche noi ad appoggiare la Grande Lotta Armata per il Comunismo.
STUDENTE E chi dirige questa Grande Lotta Armata?
CARLO Ma che ce ne fotte? Dai, saliamo, la Città è Nostra. (I tre risalgono in auto e ripartono.)
VOCE NARR.
Girovagammo per ore nel cuore della città,
attraversando incroci dominati da gialli e lampeggianti fantasmi
silenziosi. In tutto quel tempo, Carlo non mancò di stupirmi e
affascinarmi, ma io resistevo ai tentacoli di quel fascino che sapevo
essere vischioso. Mi disse che aveva frequentato solo la scuola
dell’obbligo e che per il resto era un autodidatta.
Mi disse che durante il suo viaggiare in oriente aveva studiato le
Religioni e che per qualche tempo era stato buddista.
Mi disse che sapeva suonare la chitarra e il sassofono e che aveva
scritto canzoni e inciso un disco, un “Lp”. Da alcuni suoi discorsi
capii che aveva una cultura superiore, che usava a proposito. Citava
Erich Fromm, Bertrand Russell, Carl Jung, autori orientali e no, come
fossero suoi vecchi conoscenti. Quel mattino non vi fu argomento che
tralasciammo di discutere: dalle Scienze Esoteriche alla Psicologia,
dalla politica allo spettacolo… E io mi ritrovai sostanzialmente
d’accordo con lui. Su tutto. E tutto ciò che sapeva sulla Lotta Armata
– mi disse – l’aveva appreso direttamente da Renato Curcio, “un
compagno che passerà alla Storia”. (L’auto si ferma e i tre scendono.)
CARLO Passerà alla Storia, sì, anche se adesso è in carcere, anche se si farà vent’anni di carcere.
STUDENTE E sentiamo, che ti ha insegnato Renato.
CARLO
I brigatisti non devono odiare le loro vittime. E
non le odiano, infatti, ma le considerano per quello che sono e le
valutano per ciò che rappresentano.
Un carabiniere o
un poliziotto non sono dei “poveri giovani di povera e onesta
famiglia”, come scrivono i giornali. E non sono dei proletari, come lo
sono tutti i lavoratori sfruttati, perché – come disse Renato –
“Proletari si è per scelta, non per diritto di nascita”. Capito? E nel
momento in cui si arruolano per servire lo Stato Imperialista delle
Multinazionali, smettono di essere proletari e diventano dei difensori
del Regime Capitalista che le Brigate Rosse abbatteranno.
VOCE NARR.
Al di là dall’essere d’accordo o meno, io lo
ascoltavo. E con interesse. Anna non interrompeva. Indubbiamente, Carlo
stava dando il meglio di sé. Altro che docenti universitari.
CARLO
Vedi, ragazzo, un dirigente Fiat invalidato, non è
“un padre” , non è “un marito” , bensì parte integrante della Piovra
Capitalista. Tutti i dirigenti e certi sindacalisti conniventi con il
Potere Imperialista, sono dei nemici. E se sono dei nemici, che siano
trattati come meritano. E, che venga considerata sbagliata o meno,
questa è l’Idea delle B.R.…Le notizie riportate dai giornali e dalla
televisione sono quelle dell’italietta, da dare in pasto alle
vecchiette. i giornali e i giornalisti sono al servizio del Regime.
Qualsiasi Regime sia in vigore, i giornali devono rispettarlo. Sai cosa
scrisse Bertrand Russell? “Datemi un esercito ben armato e ben nutrito
e, nel giro di una generazione, farò congelare l’acqua a cento gradi
centigradi e la farò bollire a zero gradi”. Sai che vuol dire? Vuol
dire che è il Potere che decide ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
E l’attuale Regime ha deciso che sparare alle gambe è sbagliato e che
tassare i lavoratori o dare ai vecchi pensioni da fame è giusto. Loro
ad ingrassare sugli yacht è giusto. Capisci?… L’ideologia delle B.R. è
sparare, ma non lo facciamo con impulsività. Le nostre azioni sono
studiate a tavolino, poi decidiamo, quindi agiamo. Proprio come un
attore che calatosi dentro una parte non può più uscirne se non porta a
termine il proprio dramma… Noi non gridiamo
‘sporco-capitalista-brutto-bastardo e sfruttatore”. No. Noi spariamo e
basta. La differenza, secondo Renato, è enorme per poter fare
guerriglia urbana. Se prima urli la tua rabbia e poi spari, puoi
sbagliare. Questo era l’errore che commettevano i NAP: urlavano prima
di sparare. (Pensoso:) E sono stati errori che ho pagato personalmente,
con tre anni di campo di concentramento, ossia le carceri italiane,
sorvegliate da aguzzini senza cuore.
VOCE
NARR. Tutto questo mi disse Carlo quella
mattina. E io avevo ascoltato. E mi parlò di gambizzazioni. E delle
uccisioni di uomini, da parte delle B.R. Uomini per cui si erario mossi
in tanti a gridare la loro esecrazione, e uomini per i quali era
bastato un telegramma del “buon Pertini”. Anche i morti erano diversi.
E mi disse il perché. E mi giustificò le uccisioni dandomi notizie che
“logicamente i giornali non hanno riportato” .
Quando, qualche giorno dopo, vidi Carlo esibirsi come cantante su un
palco, ai Giardini Ginzburg, vicino a dove una volta c’era lo zoo,
capii dai testi delle sue canzoni, che aveva sofferto molto. E in
quell’ambiente, tra punk, hippies e indiani metropolitani, era assai
conosciuto e tutti lo salutavano con rispetto: vecchi compagni di
strada, tra il ‘68 e i grandi viaggi in India, generazione migrante, di
sopravvissuti a Grandi Droghe, a grandi retate… E ora Carlo era accanto
a me, nella sua scassatissima FIAT 500 frutto, anche quella, “del
lavoro di decine di operai sfruttati dal Sistema Capitalista”.
STUDENTE
Eppure, su una cosa sono d’accordo: ogni giorno il cittadino subisce
imposizioni e violenza, da parte del Potere, che spingono il giovane a
darsi al terrorismo,
ANNA Non è terrorismo. È Lotta Rivoluzionaria Armata.
STUDENTE
Chiamatela come volete, per me è lo stesso: Non è la definizione che mi
influenzerà e convincerà. Quello che voglio invece dire è che i
terroristi - o rivoluzionari - questi giovani, insomma, agiscono in
modo errato, arbitrario, irresponsabile, distruttivo. Usano violenza
fine a se stessa, non fanno nulla di costruttivo. Che sbocco hanno?
CARLO Costruiscono le basi per l’attacco finale che ci porterà alla Società di domani.
STUDENTE
Intanto la Società ti consente di fare quello che stai facendo,
nonostante il tuo passato. In quanto allo sfruttamento, di cui ti sei
riempito la bocca per ore, quello è necessario alla Società italiana,
qualunque essa sia. Lo sfruttamento esiste perché c’è gente che vuole
essere sfruttata. Magari per poi potersene lamentare.
CARLO
Che cazzo stai dicendo? Lo sfruttamento dipende esclusivamente dalla
proprietà privata dei mezzi di produzione, nonostante che questi siano
stati acquistati coi soldi dello Stato. È necessario passare alla
proprietà collettiva attraverso la lotta di Classe.
STUDENTE Lotta di Classe non vuol dire sparare.
CARLO
Tutti vorremmo una lotta di Classe pacifica, ma è la
prepotenza dei padroni-imperialisti che la rendono necessariamente
violenta.
STUDENTE
Carlo, tu dimentichi che questa lotta di Classe è fatta da giovani
esaltati o plagiati o illusi. Dalle Associazioni Studentesche da cui
provieni, si è passati ai Collettivi, poi alle Cellule, poi alle
Cellule clandestine, poi ancora ai Gruppi Armati e, infine, alle
Colonne, molto organizzate, ma formate da giovani che eseguono atti
criminosi su ordine di chissà quale Organizzazione che persegue chissà
quali fini. Giovani affascinati da idee utopistiche che potrebbero
portarli alla via senza ritorno a cui, spesso, conduce la Lotta Armata.
CARLO (Fiero) Una lotta che domani li potrebbe vedere eroi e martiri di una Causa.
STUDENTE (Ironico) Già, come Trockij, vero?
CARLO (Ad Anna) Avevi detto che questa nullità avrebbe potuto fare al caso nostro.
ANNA
(Allo studente) Non avresti dovuto parlare così.
L’altra volta, tornando dalle prove, non davi l’impressione di pensarla
così. Sembravi già maturo.
STUDENTE
L’altra volta non mi avevi proposto di darmi al terrorismo… Pardon:
Lotta Rivoluzionaria… E poi non sono venuto io a cercarvi. (Pausa. Anna
e Carlo si guardano.)
ANNA
Ma se per caso avessimo bisogno di redigere un volantino, per una
giusta rivendicazione, una giusta causa…
STUDENTE Un volantino o una giusta rivendicazione non hanno nulla a che vedere con lo sparare.
CARLO
E pensare che sei uno scrittore, un uomo di cultura.
Dovresti avere le idee abbastanza chiare da prendere una posizione.
STUDENTE
Proprio perché ho le idee abbastanza chiare, non prendo una precisa
posizione. Come uomo di cultura voglio essere libero, perché Cultura è
libertà.
ANNA Ma chi ti dice che servendo la nostra ideologia non saresti un uomo libero?
STUDENTE
Un vero uomo di cultura non serve l’ideologia, bensì l’Idea, che è
sempre libera. La cultura, quando è al servizio dell’ideologia,
intristisce e muore.
CARLO Stronzate.
STUDENTE
Ma volete capirlo, o no, che se mi unisco a voi non
sarò più libero di scrivere quello che voglio? Se cedo al terrorismo è
finita. Se mi do alla lotta armata clandestina, come scrittore morirò.
E quando morirete o vi arresteranno o non vi servirò più mi prenderete
a calci in culo, proprio come l’Unione Sovietica periodicamente si
sbarazza di quegli individui che non convengono al Partito.
CARLO Ma chi credete di essere, cosa credete di fare, voi scrittooooori?
STUDENTE
Cosa facciamo? (Pausa, sorride.) Scriviamo la trama
per il film della realtà, quella in cui viviamo o vorremmo vivere. Ti
basta?
ANNA Stronzate, non potete riuscirci.
STUDENTE Invece, sì: più di quanto tu non creda. Lo scrittore ha una grande influenza. Anche se non sembra.
ANNA E come influite, con la fantasia? (Con ironia.)
CARLO Bello: la fantasia al potere!
STUDENTE
Senza immaginazione la vita non continua. Del resto
voi stessi avete sentito il bisogno di arruolare uno scrittore per
raccontare la vostra causa e le vostre azioni. Perciò lo scrittore ha a
che fare con la realtà, non con i sogni. Non credo allo sparare, alle
gambe o al petto. La vera rivoluzione dovrebbe avvenire ogni dieci
anni, in ogni campo: artistico, culturale, politico, sociale… Via i
governanti dopo un paio di legislature.
ANNA Una rivoluzione con le parole?
STUDENTE
Le parole sono la chiave che schiudono la mente. E una volta che questa
è aperta, toccherà all’individuo decidere cosa fare, di se stesso o
della Società in cui vive. Può anche schiavizzarsi, se vuole.
CARLO L’individuo non ha potere. La Massa ha potere. (Alza il pugno, minacciosamente.)
STUDENTE
La massa? Chi è la massa? Le Brigate Rosse? La Colonna che noi, che tu,
vorresti costituire? O quelli che, dell’alto, occultati chissà dove, ci
danno ordini?
CARLO La massa è…
STUDENTE
Te lo dico io chi è la massa. La massa è arraffa quello che ti pare,
arraffa a due mani. Arraffa la torta e mangiala nello stesso tempo.
Questa è la massa.
CARLO Ecco perché ci vuole un criterio-guida.
STUDENTE C’è già, il criterio guida. È un criterio basato sul consumismo.
CARLO Ma vaffa’nculo. Con la nostra rivoluzione creeremo una nuova società. Tu vuoi starci o no?
STUDENTE
Fate quello che volete. Non vi posso fermare, ma non vi appoggerò. Vi
potrò solo narrare, quando vi arresteranno o vi uccideranno.
ANNA Ucciderci? Arrestarci? Ma che stai dicendo?
STUDENTE Non avete letto i giornali? Polizia e carabinieri si stanno organizzando.
CARLO Mandare quel pinco-pallino d’un generale a Torino, lo chiami organizzarsi?
STUDENTE Magari è un uomo valido, capace di iniziative pericolose; che ne sapete?
CARLO
Ma lui o un altro era la stessa cosa. Quello che
vogliono è la cassa di risonanza: tutta propaganda. Svegliati, ragazzo.
STUDENTE Ma se hanno mandato Lui, un motivo ci sarà.
CARLO
See, see. Non dico di no. Certi titoli mi fanno ridere: IL GENERALE
DALLA CHIESA ASSEGNATO A TORINO PER SCONFIGGERE IL TERRORISMO. Ah! Ah!
Ah! Ah! (Lunga risata.)
VOCE
NARR. Quando ci salutammo, credevo che non li avrei
mai più rivisti, ma mi sbagliavo. E forse era il destino, che mi
metteva alla prova. O forse il Diavolo, che mi tentava. O forse la
Morte, che mi voleva. Chissà.
(B U I O.)
Scena Quinta
È notte, in
soffitta. Lo studente è davanti allo specchio. E poi va a sedersi alla
macchina da scrivere. Dallo specchio sembra materializzarsi la figura
riflessa, che esce dal riquadro e prende a “vivere” per conto suo,
muovendosi nella soffitta: è l’alter ego (o il subcosciente) dello
studente, che è ormai ubriaco.
Lo studente
sorseggia dalla bottiglia e batte a macchina. Ogni tanto strappa via il
foglio e lo appallottola: a terra ce ne sono altri.
La scena è quasi irreale e si svolge come in un sogno.
VOCE
NARR. Stavo rileggendo l’articolo che avevo appena
finito di scrivere e che era pronto per essere spedito a un giornale
culturale. No, non era Il Male. Quei buontemponi della redazione mi
avevano già cestinato certi articoli fortemente satirici, figuriamoci
questo. (Lo studente dà una lunga sorsata di vino e rilegge il foglio,
correggendo ogni tanto qualche errore.)
ALTER
EGO Una cosa è costantemente presente nella vita di
un uomo: il tempo. Che ci corre sempre dietro. Ci corre dietro e ci
frusta. Proprio così, il tempo è una frusta che non ci dà tregua, che
ci impone di proseguire il nostro cammino verso i1 futuro, verso la
morte. Guai se ti fermi. Se ti fermi sei finito, e allora non sai cosa
fare, e ti adagi, e smetti di vivere aspettando, inerte, che la morte
ti ricopra col suo nero mantello. Aspetti come un condannato. Ti
piacerebbe essere un condannato a morte? (Lo studente si alza, si
strofina gli occhi, beve e sembra non fare caso all’alter ego.)
STUDENTE
Cazzo di tempo… “Il lavoro uccide la fantasia”, c’era scritto sul muro
di cinta di una fabbrica.
ALTER EGO
Per poter vivere appieno la propria vota, è
necessario non avere affetti, non avere legami. Essere completamente
liberi. Da tutto e da tutti.
STUDENTE
Ma ciò è impossibile. Come si fa a liberarsi dai familiari dopo che hai
vissuto con loro per un ventennio? E dai soldi? Si può essere
indipendenti dai soldi? Noooo. E allora bisogna procurarseli: o rubando
o lavorando. Ma lavorando…
ALTER EGO …Ma lavorando non si è più liberi, non ci si può più esprimere. Non ci si può realizzare.
(Lo studente accende uno spinello e assapora l’aroma della marijuana.)
STUDENTE (Rilassandosi) Che cazzo! Non voglio realizzarmi.
ALTER EGO E l’esprimere se stessi è il primo passo verso la realizzazione della propria personalità.
STUDENTE (Urlando) Non voglio esprimermi, ho detto.
ALTER EGO (Accattivante) Esprimersi è l’anima, al di fuori del corpo, che vive.
STUDENTE
(Infastidito): Sì, sì; va bene. (Cerca sul tavolo.)
Dove cazzo ho messo le noccioline salate? Ma vaffa’nculo. Chi si
credono di essere? Posso bere anche senza noccioline. (Beve.) AAAAh!
Nettare degli déi: lambrusco, rosso, dolce, frizzante. (All’alter ego:)
Alla salute. (Beve.)
ALTER
EGO Se produci, ma nessuno apprezza le tue opere,
devi necessariamente farti inculare da un datore di lavoro.
STUDENTE
(Guarda l’orologio) Che ore sono?… Sono… Sono le
due: lo so, lo so: ma sono le due di notte o di pomeriggio?… Non me ne
frega niente. Per me è la stessa cosa. (Va a guardarsi allo specchio:
ma non vede il suo riflesso) Ehi, ma dove sono andato a finire?
Dovrebbe esserci la mia immagine riflessa! (Ride.)
ALTER EGO Sono qui.
STUDENTE (Girandosi) Ah, eccoti. (Ride)
ALTER EGO Sai qual è il tuo problema?
STUDENTE I soldi. (Fuma.)
ALTER EGO
Esatto. E se non pubblicano i tuoi romanzi puoi
cominciare a cercarti un posto. Magari alla FIAT. E un giorno potrai
raccontare ad un compagno di lavoro che da giovane facevi lo scrittore,
e che “ormai” scrivi per hobby.
STUDENTE
(Adirato) Ma io non finirò così. Merda, non finirò
così. Dovessi morire di fame. (Urlando:) Io scrivo e scriverò.
ALTER
EGO (Sorridendo calmo) Che belle parole, “io scrivo”.
Ma perché scrivi? Per chi scrivi, se nessuno ti pubblica?
STUDENTE (Con stizza) Io scrivo per me stess…
ALTER EGO
…E non menarmela con la frase “io scrivo per me
stesso”: quelli che lo dicono sono dei vinti in partenza. Non ha senso
scrivere se non si è letti da altri.
STUDENTE
Certo, basterebbe chiamarsi Piero Chiara. il
fumettaro Piero Chiara. Lui sì che va forte! basta che scriva “PRRR”,
ed è subito pubblicato. “PRRR”, l’ultimo successo di Piero Chiara.
Centomila copie venduteeeee!
ALTER EGO Alla faccia dei giovani scrittori come te.
(Lo studente fa il gesto di lanciare la bottiglia all’alter ego, che rimane impassibile.)
STUDENTE
Hai ragione, sai? (Beve.) “Il suo romanzo è ben congegnato, ma troppo
facile e superficiale”. Ah! Ah! Ah!… “Purtroppo dobbiamo restituirle il
dattiloscritto perché non rientra nei nostri limitati programmi
editoriali…” eccetera… eccetera. eccetera.
ALTER
EGO Balle! Tutte balle. Ricordati di tutti gli
scrittori il cui talento è stato riconosciuto solo dopo che sono morti.
Tanti altri dovettero aspettare anni, prima di essere pubblicati. E nel
frattempo divennero alcoolizzati. Tu sei sulla buona strada, per
questo.
STUDENTE
Non ci pensare. Veder pubblicate tante cazzate mi fa
cadere le palle e mi vien voglia di mollare tutto e di non scrivere più
un cazzo. Ma quando non faccio un cazzo mi dico: che cazzo sto a fare?
E allora mi rimetto a scrivere… Hic… ed è puro eroismo, credimi. Hic…
Ma io lotterò… Hic!...
(Beve. Torna a guardarsi allo specchio. Si gira a guardare l’alter ego, che lo guarda a sua volta, muto.)
STUDENTE
Il terrorismo… hic!, ci vuole, in Italia. Le Brigate
Rosse fanno tremare i servi del potere, sai? Hic!… Ah, ah, ah. Non so
perché, hic!, ma quando viene gambizzato un dirigente o un uomo
politico, io sono intimamente felice. Non posso controllare questo mio
sentimento né, tantomeno, reprimerlo… Hic! (Prende dal tavolo le
noccioline, le mangia, beve.) Hai visto? Anche oggi la Terza Pagina è a
pagina cinque. Io sono contento, quando la Terza Pagina è a pagina
cinque, perché mi fa sentire vivo. Un giudice o un giornalista è stato
ucciso dalle Bierre, da qualche parte, ed io sono ancora vivo e posso
leggerlo… Hic! È buono questo vinello, hic. “Bevi una volta”, scriveva
Pavese in Paesi tuoi. (Si muove barcollando, beve.) Lo sai che mi
volevano con loro? Le Bierre. Ma io ho rifiutato. E se mantieni il
segreto, ti dirò che il prurito di accettare è forte. (Pausa.) Hai
visto questo articolo? Questo… Questo qui. (E comincia a raccogliere i
fogli appallottolati, aprendoli e mostrandoli all’alter ego.) Credi che
sarà pubblicato? Mica sono Enzo Biagi, io, o Leonardo Sciascia. Però se
fossi un terrorista… Ma i “compagni”, mi permetterebbero di scrivere e
di diffondere certe cose? (Con tristezza appallottola di nuovo i fogli
e li getta di nuovo a terra. È ubriaco fradicio. Guarda controluce la
bottiglia ormai vuota, la getta.) Lo sai che da qualche giorno
circolano qua intorno gazzelle e pantere di carabinieri e polizia?
Forse mi hanno visto insieme con Anna e Carlo e mi hanno schedato. E
ora mi controllano sperando di scoprire in me chissà quale Grande Capo,
possibilmente Numero Uno dei ricercati. (Barcolla all’indietro e cade a
sedere sulla branda.) Sì, vorrei arruolarmi, ma non potrei più scrivere
poesie, né racconti; dovrei stare continuamente in guardia, vivere
nella paura, sempre. (Dà una boccata allo spinello, cerca di scolare le
gocce di una bottiglia vuota.) Devo scrivere, capisci? Scrivere è per
me di vitale importanza, come il mangiare. (Si distende sul letto,
farfugliando le ultime parole prima di addormentarsi.) Se non scrivo,
allora devo rubare, o darmi al gioco, o drogarmi… Sì… Drogarmi… (Mentre
lo studente pronuncia le ultime parole, l’alter ego rientra nello
specchio e sparisce.)
(B U I O .)
Scena Sesta
È l’alba. Lo studente guarda fuori dal lucernario.
VOCE
NARR. Avevo dormito per ventiquattr’ore. Erano le
cinque del mattino e fuori era già chiaro. I primi lavoratori si
avviavano a produrre. Qualcuno era fermo ad aspettare il tram, qualcun
altro pedalava, stancamente, con la borsa appesa al manubrio, una borsa
con dentro il pranzo di mezzogiorno. Quanti ce n’erano come lui? Si
poteva fare la rivoluzione o farsi ammazzare per gente come quei
lavoratori? Lo so cosa mi avrebbe risposto Carlo: “ma è proprio per
gente come quella che si deve lottare, per farli vivere in modo
migliore.
(Lo studente va alla macchina da scrivere e comincia a battere velocemente.)
VOCE
NARR. Quel ciclista si avviava ad essere il numero di
tessera, il numero di ore, il numero dell’armadio, il numero del suo
bancone, delle sue attrezzature, dei pezzi prodotti. E nessuna
rivoluzione l’avrebbe tolto da quella situazione. Io avevo la
possibilità di tornare a letto, di andare a puttane, di ubriacarmi
ancora, di andare a rubare… Potevo mangiare o non mangiare. E avevo la
possibilità di vedere spuntare il sole e di godermelo. E avevo la
possibilità di cantare, se volevo. O di uccidermi. Ma mi si era
presentata l’occasione di buttare alle ortiche tutto ciò. Mi avevano
offerto la possibilità di agire contro lo Stato per cambiare la
Società. Non avevo soldi e avevo voglia di scrivere. Cosa fare? Andare
a lavorare e perdere la fantasia? O andare a chiedere il primo
stipendio ad Anna e Carlo? Avevo il loro indirizzo, potevo andarci. E
mi ricordai che avevo ventisei anni: avevo il mondo a mia disposizione.
(Lo studente smette di scrivere, si alza, prende il giubbotto e si
avvia ad uscire, pensieroso.) Avevo anche l’indirizzo di una
cooperativa di fattorini. Pensai che era quello, per ora, il mondo a
mia disposizione. La Cooperativa Fattorini, ultimo scoglio di un
disperato naufrago della vita, non ancora totalmente convinto a
togliersi dalla mente la dolce Anna, il risoluto Carlo e l’affascinante
Lotta Armata Clandestina. (Esce.)
(B U I O .)
Scena Settima
Magazzino di una
ditta. Lo studente e Visentin, vecchio magazziniere, spostano alcuni
scatoloni, dai quali tirano fuori altre scatole più piccole che vanno
ad accatastare all’altro lato della scena.
VISENTIN Di dove sei?
STUDENTE Sono siciliano.
VISENTIN Bella, la Sicilia. Ci. ho fatto il militare, in Sicilia, nel ‘47.
STUDENTE Lei, invece, di che parti è?
VISENTIN Io sono di Ferrara.
STUDENTE Questo scatolone, dove lo mettiamo?
VISENTIN Mah, buttalo lì.
STUDENTE Questo lavoro non è poi tanto male.
VISENTIN No, non è male. Io lo faccio da trent’anni.
VISENTIN Precisamente. E tra quindici giorni esatti lo lascio, mi licenzio.
STUDENTE E perché?
VISENTIN Perché me ne vado in pensione.
STUDENTE Auguri, allora. (Pausa.) Quante scatole! Questa ditta deve guadagnarne, di soldi.
VISENTIN
Sicuro, che ne guadagna. Queste scarpe vengono
esportate in tutto il mondo. Vedi quelle? Quelle là vanno a Tokyo. Le
altre, in America. Queste, in Sicilia.
STUDENTE Hai detto che hai fatto il militare in Sicilia?
VISENTIN Sissignore.
STUDENTE E dove, precisamente? In che zona?
VISENTIN
I primi mesi l’ho fatto dappertutto: a Palermo, a
Messina, a Siracusa… Facevo il postino. Figurati che dovunque arrivavo
mi davano vitto e alloggio con le lenzuola pulite. Bastava che facessi
vedere il tesserino di postino e ricevevo, per diritto, un trattamento
riservato. Però poi chiesi il trasferimento.
STUDENTE E perché?
VISENTIN
Perché, nonostante il trattamento riservato, non mi
davano la minestra. Mi davano scatolette e pagnotte a volontà, questo
sì, ma niente minestra. E a me piaceva, la minestra. Le scatolette mi
facevano venir sete. Avevo sempre sete, sui treni con cui viaggiavo,
per servizio. Erano sempre in ritardo e arrivavo sempre dopo l’ora del
rancio.
STUDENTE Prima di venire a lavorare alla Superga, cosa facevi? (Siede a terra, a riposare.)
VISENTIN
Eh, ho cominciato a lavorare a quindici anni:
zappavo la terra con mio padre. Poi ho fatto lo stalliere per l’UNIRE,
che vuol dire Unione Nazionale per l’Incremento della Razza Equina, che
sono i cavalli. E poi sono partito soldato. C’era la guerra.
STUDENTE E fu allora che ti inviarono in Sicilia?
VISENTIN
No. In Sicilia ci sono stato nel ‘46-‘47; quando fui
richiamato. Mi hanno richiamato col primo Contingente della Classe
1924. La nostra è stata la prima chiamata alle armi dopo la guerra.
STUDENTE In Sicilia. E in che zona?
VISENTIN
Nella zona di Palermo, tra Castelvetrano e Monreale. Da quelle parti,
insomma. Ah, la Sicilia è bella. La cosa più bella della Sicilia è…
STUDENTE (Interrompendo) Il sole? Il clima?
VISENTIN
No, quel sole mi dava troppo caldo. La cosa più
bella era il vino. Mi ricordo che a Castelvetrano c’era un vecchietto
che ci disse di avere del vino buono. “Lo volete?”, ci propose un
giorno. “Certo che lo vogliamo”. – “E cosa mi date in cambio?” –
Facemmo arrivare questa proposta alle orecchie del sergente, che non se
lo fece ripetere due volte. Sicuramente si dissero d’accordo anche il
maggiore, il tenente e il colonnello. “Vuoi fare commercio?” gli
domandò il sergente. “Bene. Vieni domani allo spaccio e ti daremo della
roba buona, di prima qualità.” Quel vecchietto era basso, magro, col
viso rosso bruciato dal sole e coi baffi alla Vittorio Emanuele. Me lo
ricordo come fosse ora. Che tipo! (Sorride nostalgicamente.)
STUDENTE E come andò a finire?
VISENTIN
Il giorno dopo, il vecchietto si presentò con un mulo. In groppa al
mulo c’erano quattro grosse ceste vuote – i cufini – li chiamavano i
siciliani, i cufìni. Il capitano e il sergente lo fecero entrare nel
cortile della caserma e gli diedero circa due quintali di ceci, circa
un quintale di fagioli, dieci grosse scatole di carne in scatola,
quattro coperte e una bicicletta un po’ sgangherata. Il vecchio prese
la roba e se ne andò assicurando che sarebbe ritornato poco dopo
portando il vino.
STUDENTE E vi siete fidati? E se non si faceva più rivedere?
VISENTIN
Ma no! Quel vecchio era conosciuto, in paese. Infatti mantenne la
promessa e dopo un po’ di tempo ritornò con il solito mulo che, questa
volta, aveva in groppa quattro grosse damigiane di vino. Duecento
litri. Lo consegnò e ci raccomandò di non rompere le damigiane. Lo
rivedemmo dopo qualche giorno e ripetemmo lo scambio. Quel vinello era
veramente buono. Quella sera facemmo una bevuta di quelle… Ne bastava
un bel bicchiere per “farti partire”. E con un altro ancora eri fritto
ed entro cinque minuti ti stendeva.
STUDENTE E faceste quello scambio solo due volte?
VISENTIN
Sì, perché venimmo a sapere poi che quel vecchietto
era un uomo che riforniva la banda Giuliano. A quel tempo, Salvatore
Giuliano era un pericolo pubblico, era un bandit…
STUDENTE (Interrompendo) Sì, lo so chi era. Oggi verrebbe chiamato terrorista.
VISENTIN Cosa?
STUDENTE Niente, niente. E cosa faceste, appena avete saputo che il vecchio era un uomo di Giuliano?
VISENTIN
Per prima cosa non facemmo più commercio con lui. E poi era giunto
ordine di perquisire case e arrestare i sospetti. Ci ordinarono anche
di scovare e arrestare Salvatore Giuliano. Turi, lo chiamavano i
siciliani. Turiddu. Turiddu Giulianu.
STUDENTE E poi?
VISENTIN
E poi… Il nostro capitano era un tipo militaresco al massimo. Un vero
dittatore. Ci dava ordini precisi affinché infierissimo sulla
popolazione. Però noi soldati non andavamo in giro a perquisire e
arrestare: mica eravamo scemi. Non conoscevano le straduzze di quei
paesini, le case erano tutte con passaggi e cunicoli, con cantine come
trappole. A non finire. Un vero labirinto. Chi vuoi che ci entrasse? E
noi soldati, la sera, ci chiudevamo dentro, nelle camerate, e giocavamo
a carte.
STUDENTE Invece oggi, polizia e carabinieri non giocano.
VISENTIN I carabinieri hanno sempre fatto il loro dovere. Neanche allora si tirarono indietro, purtroppo.
STUDENTE Perché dici “purtroppo”?
VISENTIN
Stai a sentire. Erano trascorsi più di quindici giorni da quando erano
arrivati gli ordini. E poiché non avevamo arrestato nessuno, il
capitano ci passò in rassegna. Imbestialito: “Ca-proni… Vi-gliacchi…
Soldati-da-buco-del-culo! Non siete stati capaci di arrestare, non dico
Turi Giuliano, ma neppure un sospetto qualsiasi, tanto per fare bella
figura. Traditori della Patria! Coglioni! Fegato, dovete avere. Fegato.
Perché voi non siete uomini, siete soldati. Sol-da-ti.” E visto che noi
soldati non eravamo riusciti a dare buoni risultati, il Governo fece
venire i carabinieri a cavallo. Erano tutti ragazzi di
diciotto-vent’anni, e dovevano combattere contro la banda Giuliano!
(Pausa.) Un mattino, uscimmo in perlustrazione, come al solito. Era
l’alba, e mentre marciavamo vedemmo un giovane carabiniere: era a
terra, sgozzato, proprio con la gola tagliata. Aveva un taglio che
partiva da un orecchio e finiva all’altro orecchio. Un colpo secco,
zac! Noi soldati guardammo pietosi quel carabiniere e pensavamo:
“poveraccio! Meno male che non ci siamo immischiati in questa brutta
storia, altrimenti al posto di quel carabiniere poteva esserci uno di
noi.” (Pausa, pensieroso.) Camminammo ancora e, dentro uno stretto
vicolo, scorgemmo un altro carabiniere: anche questo sgozzato come il
primo. Poi ne trovammo un altro, e un altro ancora. Una strage. In
tutto, ritrovammo sedici carabinieri sgozzati. In paese e nelle
borgate, nelle vigne e negli uliveti, nei prati e negli aranceti… un
intero battaglione, attirati in trappola e trafitti uno per uno.
Poveracci!
STUDENTE Ma tutto questo successe prima o dopo la strage di Portella delle Ginestre?
VISENTIN
Dopo, dopo. Quello che mi colpì fu l’omertà delle persone: la gente non
rispondeva alle domande di tenenti e capitani. Nessuno sapeva niente,
visto niente. Che potevamo fare? Farci scannare anche noi così? Come
capretti? La gente ci diceva: “A voi soldati, i picciotti di Turiddu
Giuliano non vi colpiscono perché voi siete obbligati a stare qua, in
Sicilia. Voi non siete volontari come i carabinieri. E se vi fate i
fatti vostri, nessuno vi toccherà”. Ecco cosa ci dicevano le donne e i
vecchi che incontravamo. I carabinieri naturalmente erano furiosi:
arrestavano, perquisivano, sfasciavano, incendiavano casolari per
stanare chi vi si nascondeva. E non risparmiavano nessuno, neppure
innocui pastori. E noi soldati, a maggior ragione, ci chiudevamo nelle
camerate, appena scendeva la sera. Per timore di vendette.
STUDENTE Ma non vi sentivate dei vigliacchi, voi soldati?
VISENTIN
E perché mai? Avevamo fatto la guerra, no? E non siamo stati
vigliacchi, in guerra. Abbiamo fatto il nostro dovere. E sai cosa
pensavamo? Pensavamo: “Non siamo morti in guerra e dobbiamo proprio
morire qui, così? E poi, in guerra, sapevamo chi era il nemico. In
Sicilia, invece, il nemico era un fantasma, colpiva all’improvviso e
spariva.
STUDENTE Proprio come fanno oggi le Bierre.
VISENTIN Le “Bierre”?
STUDENTE Sì, le Brigate Rosse, sai…?
VISENTIN Ah, i terroristi.
STUDENTE Va beh!... E poi, come finì?
VISENTIN
E poi, dopo qualche giorno, noi soldati fummo trasferiti e ci
portarono, coi camion, a Catania. Prima, però, dovemmo sorbirci per
l’ultima volta il capitano: “Soldati-da-buco-del-culo. Traditori della
Patria. Vi farò fucilare tutti.” (ride).
A Catania, invece, trovammo un colonnello bravissimo: si chiamava
Artale Salvatore. Era piccolo e aveva l’aria calma, tanto che non
sembrava neanche un colonnello. Quando giocavamo a carte, nel cortile,
e lui passava, ci alzavamo sull’attenti. Ma lui, con un gesto della
mano e un sorriso, ci diceva: “Seduti, seduti! Continuate pure.” A
Catania però c’erano le cimici, e le camerate ne erano infestate. Un
bel giorno ci mandarono tutti a casa in licenza e vennero gli americani
a disinfestare tutta la caserma. Con disinfestante americano, non con
quello italiano, che non era vero disinfestante E c’erano pure i topi.
Grossi così (mette il palmo sinistro aperto, di taglio,
sull’avambraccio destro). Ma coi topi ci divertivamo e passavamo il
tempo. Li acchiappavamo vivi e li mettevamo dentro una gabbia.
Dall’alto di questa gabbia facevamo scendere dei fili di rame collegati
con la corrente elettrica. I topi, appena toccavano uno di questi fili,
prendevano la scossa e quindi preferivano restare fermi, per non
toccare nessun filo. Squit, squit, squit, facevano. Poi, quando eravamo
stufi di giocarci, bagnavamo il topo con della benzina e gli davamo
fuoco. E 1o lasciavamo libero. Avessi visto come correva! Correva
seguendo un percorso particolare, sino a quando non moriva. E alla
fine, nell’aria, c’era un orribile puzzo di carne di topo bruciata. Poi
un vecchio venne a riferire che vicino alla caserma ci abitava una
donna incinta, alla quale quel lezzo dava la nausea. E noi non
bruciammo più nessun topo. Però li annegavamo dentro una bacinella. Ah!
Ah! Ah!
STUDENTE A Catania vi divertivate, eh? Mentre a Palermo si moriva.
VISENTIN Che vuoi farci? È la vita.
(Da una borsa estrae un involto: è un panino. Lo scarta e ne dà
un pezzo allo studente. Tira fuori anche una bottiglia di vino.)
Dai, mangiamo. Per oggi ho portato un panino, ma domani… Toh, prendi
(ne offre un pezzo allo studente). Lo sai che venivo chiamato
‘Visentin polpette e patate”? Ero un affamato insaziabile e il rancio
di mezzogiorno non mi bastava mai. Un giorno parlai di questo fatto a
un camerata, uno che tutti chiamavano “Pino colazione a sacco”, perché
quando si partiva per le esercitazioni reclamava sempre la colazione a
sacco, anche se aveva già avuto la sua razione. Pino mi disse che
l’aiuto cuciniere era un suo intimo amico, perché andavano sempre
insieme in libera uscita e al casino si servivano entrambi dalla stessa
puttana. Pino mi disse che, se voleva, mi poteva raccomandare all’aiuto
cuciniere, che mi avrebbe dato tutto il cibo che volevo. In cambio di
un paio di “anfibi” quasi nuovi, Pino mi scrisse un biglietto di
raccomandazione e lo portai all’aiuto cuciniere, che tutti chiamavano
“Franco panino imbottito”, perché mangiava sempre panini imbottiti.
STUDENTE Formavate un bel trio. Ma perché ti chiamavano “polpette e patate?’
VISENTIN
Lo capirai tra poco. L’aiuto cuciniere lesse il biglietto di
raccomandazione e mi disse: “Sai, se voglio, ti posso trattare bene”.
Pensai un po’ e siccome non fumavo gli dissi che gli avrei dato la mia
razione di sigarette. Allora, a noi soldati, ci davano sette sigarette
al giorno. La domenica otto. L’aiuto s cuciniere fu d’accordo e mi
disse di recarmi tutti i pomeriggi in cucina, un’ora dopo il rancio.
Quel pomeriggio andai in cucina e Franco mi fece trovare una gavetta
colma di pasta col sugo, e carne, poi ancora sugo e polpette… e patate…
Formaggio a pezzetti belli grossi infilati tra la pasta e calcati. Poi,
sopra, ancora sugo. MMMmmm! Buonissima. Mi facevo certe scorpacciate!
Specialmente quando c’erano anche le polpette. “Questo è il rancio
degli ufficiali”, mi diceva l’aiuto cuciniere. “Non farti vedere da
nessuno, sennò mi trasferiscono”. Ed io andavo a mangiare dietro le
latrine, dove non c’era mai nessuno. E così ero sempre sazio. (Sospira
nostalgicamente.) Mi trovavo al 45° Fanteria. Nell’aprile del ‘47, dopo
sedici mesi di naja, mi congedai. Poi mi sposai e venni a Torino.
STUDENTE Hai figli?
VISENTIN Sì, due femmine. Tutt’e due sposate.
STUDENTE Quanti anni hai?
VISENTIN Cinquantacinque.
STUDENTE E come mai vai in pensione a quest’età? Sei ancora giovane.
VISENTIN Lo so. Però ho già tutte le marchette che ci vogliono per andare in pensione, ostrega!
STUDENTE Io non ho nemmeno due mesi di marchette. È il mio terzo giorno di lavoro, qui.
VISENTIN Quanti anni hai?
STUDENTE Ventisei.
VISENTIN
Trent’anni di differenza. Ce ne vuole, prima che arrivi alla mia età.
Ne devi tirare ancora, di carrette. Senti: ho sentito dire che devono
fare due nuove assunzioni, una per rimpiazzare me e un’altra perché
occorre del personale. Perché non cerchi di parlare col capo? Se vuoi
ti ci porto io. Ho visto che sei un ragazzo in gamba, e intelligente,
anche. Cerca di parlare col capo: può darsi che ti assumano. Qui ti
sistemeresti, potresti diventare anche capo magazziniere, saresti a
posto per tutta la vita.
STUDENTE
Sistemato per tutta la mia esistenza? No, grazie. Vedi, io non sono il
tipo che resta a lavorare per molto tempo. Ho altri progetti, caro
Visentin. Forse resterò qui un mese o due, o forse due settimane. non
lo so. Poi, coi soldi guadagnati, andrò a divertirmi e tenterò la
fortuna al casinò di Saint-Vincent.
VISENTIN
Bravo. Fai bene. Per ora. Questo te lo puoi permettere perché non sei
sposato e sei giovane: mangiato tu hanno mangiato tutti. Avessi la tua
età! Secondo te, perché io, a cinquantacinque anni, sto smettendo di
lavorare? (Resta in attesa di una risposta.)
STUDENTE Non lo so. Perché stai smettendo?
VISENTIN
Perché domani potrei morire, e allora a che mi servirebbe aver lavorato
tutta la vita? Dobbiamo finire tutti sotto due metri di terra: cha me
lo fa fare lavorare ancora? Abbiamo lottato tanto per ottenere la
pensione dopo trentacinque anni di lavoro! E io ho quasi quarant’anni
di marchette.
STUDENTE Quanto ti daranno, al mese, di pensione?
VISENTIN Mi son fatto fare i conti dal ragioniere del patronato: mi verrà quasi mezzo milione al mese.
STUDENTE Non è molto.
VISENTIN
Lo so, ma mi bastano. Tanto, dobbiamo viverci soltanto io e mia moglie.
E poi c’è la liquidazione. Figli da sposare non ne ho, debiti non ne
ho… Che altro posso volere? Io e mia moglie ci stiamo per trasferire
nella mia casa di campagna, a Ferrara, e 1ì non avremo tante spese. Lì
abbiamo due caprette, molte galline, piccioni… Mi metterò a coltivare
l’orto e potremo vivere felici. Proprio come nelle favole.
STUDENTE Non è una cattiva idea. Hai deciso proprio bene.
VISENTIN
Ostrega, son quasi le cinque. Finiamo questa scatola e andiamo a
lavarci le mani. Stasera polenta e salsiccia. (Continuano a spostare
scatole, in silenzio.)
(Suona la sirena. I due indossano i giubbotti e si avviano ad uscire, camminando con tempi misurati.)
VISENTIN Ed anche per oggi abbiamo finito. Ti piace ‘sto lavoro?
STUDENTE
Sempre meglio che scaricare TIR sotto la frusta di un padroncino.
Andiamo, vah, che devo andare a scrivere. Ho l’ispirazione.
VISENTIN Scrivi? Cosa scrivi?
STUDENTE Sto scrivendo un libro.
VISENTIN Un diario?
STUDENTE Una specie.
VISENTIN
Allora, quando lo pubblicheranno, lo comprerò e lo leggerò all’ombra di
un albero, nel giardino della mia casa di campagna, a Ferrara.
(Improvvisamente si ode uno stridìo metallico, di lamiere che cadono.
Buio e lampi rossi in scena. Visentin esce invisibilmente di scena.
Tutto torna tranquillo.)
VOCE
NARRANTE Io e il mio compagno camminavamo l’uno
accanto all’altro. Ad un tratto non lo sentii più accanto, ma vidi
delle grosse gocce rosse. (Lo studente si inginocchia, rassegnato.
Prende la borsa.) Credevo fosse vernice. Mi girai e vidi il mio
compagno a terra, con la testa fracassata.
(Lo studente va a sedere alla macchina da scrivere e comincia a battere sui tasti.)
VOCE
NARRANTE Compagno di lavoro, compagno di droga,
compagno di cella, compagno di scuola, compagno di lotta, compagno di
giochi, compagno di sbronze, compagno di niente. Ora, forse, compagno
di un ricordo. Ricordo di un giorno. (Lo studente smette di scrivere.
Appallottola dei fogli e li getta. Si alza, passeggia pensieroso.)
Tutto era inutile, ormai. Per Visentin nulla più era importante.
Nemmeno quella borsa che stringeva ancora in mano, che aveva
trasportato tanta buona roba da mangiare preparata dalla moglie e che
non faceva male al fegato. (Torna a sedersi alla macchina da scrivere.)
Cosa fareste voi dopo aver trascorso una giornata a lavorare con una
persona appena conosciuta e dopo otto ore ve la ritrovate lì, a terra,
in un lago di sangue, perché la pinna di un carrello elevatore gli
entrata in testa fracassandogli il cervello? Non so cosa fareste voi.
Io fissai lo sguardo nel vuoto, strinsi i denti, dissi una parolina
stanca e piena di rabbia come: merda, e mi allontanai. Poi mi decisi a
scrivere le insignificanti storie di un ingenuo militare del tempo di
Turi Giuliano. Il modo migliore per commemorarlo. E Visentin se ne
sarebbe accorto, da lassù. E vedrebbe anche che finisco di scrivere,
che strappo via il foglio dal rullo della macchina da scrivere e che ve
lo regalo. (Nel silenzio, lo studente tira rapidamente il foglio dal
rullo e lo getta senza appallottolarlo, facendolo dondolare fino a
terra.)
( B U I O . )
Scena Ottava
Soffitta in
penombra. Suonano alla porta. Lo studente accende la luce e va ad
aprire: è Anna. Lei guarda lo studente e si accorge che è stanco,
sconvolto. Poi si guarda intorno, vede il giubbotto sporco di sangue e
i fogli sparsi per terra.
STUDENTE Non mi aspettavo di rivederti.
ANNA Ti dispiace che sia venuta?
STUDENTE Perché sei venuta? Credevo di essere stato chiaro. Vuoi forse tentare un’ultima volta?
ANNA Che hai? Che ti è successo?
STUDENTE
Sono stanco, non ho voglia di parlare, e se vuoi sapere qualcosa leggi
quei fogli (Indica i fogli appallottolati, a terra. Poi va a stendersi
sul lettino.)
VOCE
NARR. Anna cominciò a raccogliere i fogli, li
riordinò e prese a leggere la storia di Visentin: la guerra, la
Sicilia, Turi Giuliano… Io finii per appisolarmi, in un dolce
dormiveglia, avendo negli occhi la dolce visione del suo seno, che
andava su e giù seguendo il ritmo del suo respiro.
(Anna legge i fogli precedentemente raccolti e ogni tanto sorride o
scuote la testa a commento di quanto va leggendo, mentre passeggia per
la soffitta. Ogni tanto si sofferma ad osservare lo studente.)
VOCE
NARR. Era bella, Anna. E ad un tratto non la vidi
come una terrorista, la vidi come una donna. Sensuale, dolce, capace di
rendere veramente felice un uomo, a letto come in una conversazione. E
forse, con lei, non c’era nessuna differenza.
(Anna va a sedere sul bordo del lettino. Lo studente apre gli occhi, le
accarezza un ginocchio. I due si guardano a lungo, in silenzio. Anna,
che ha finito di leggere, getta in aria i fogli, che si sparpagliano.)
STUDENTE (Indicando i foglietti): Hai capito adesso, chi sono io?
(Anna si china a baciarlo. Senza dire niente, poi, inizia a spogliarsi.)
ANNA Anche le terroriste sanno amare.
(Da ora in avanti la scena è un atto d’amore verbale, simbolico.
Infatti, Anna e lo studente fanno l’amore in maniera ossessiva,
violenta, però simbolicamente, senza toccarsi. Anna si alza dal letto e
si allontana di qualche passo. Comincia a spogliarsi. Lo studente si
alza e comincia a sua volta a spogliarsi. I due sono ai lati opposti
della soffitta.)
ANNA Ogni giorno l’uomo subisce imposizioni e violenze che portano al terrorismo.
STUDENTE Ma solo le menti deboli ci cascano.
ANNA Baciami… Accarezzami… Amami.
STUDENTE
Il lavoro di uno scrittore deve essere quello di tentare, con i suoi
scritti, di far sprigionare dalla nostra umanità oscura e impaurita gli
elementi di una migliore umanità.
ANNA Il mio corpo ti basterà. Io sono il tuo futuro.
STUDENTE Sudo. Mi stai sotto e sudo. Forse non ce la faccio.
ANNA Godi, pensa a godere.
STUDENTE Per farlo accadere occorre avere la mente sgombra da certi pensieri.
ANNA
I nostri corpi si toccano. Ti prendo la testa tra le mani, ti bacio
appassionatamente. Allargo le gambe… Sììì. Penetrami.
STUDENTE Penetro in te come non ho mai fatto. Mai fatto, con nessun’altra donna. Meravigliosamente. Aaah!
ANNA I nostri corpi sono infuocati.
STUDENTE Come i nostri desideri…
ANNA …Come le nostre bocche…
STUDENTE …Come i nostri sensi.
Studente e Anna
(In coro): E il cuore mi batte forte, forte come non
mai, mentre mi muovo lentamente e languidamente insieme a te.
STUDENTE Il mio seme germoglierà.
ANNA No, non germoglierà. Per questo vienimi dentro. Vienimi quando vuoi… Aaah!…
STUDENTE Vengo dentro. Sììì!… (I due restano ad ansimare, stanchi.)
VOCE
NARR. E allora venni. E mandai a morire il mondo
intero. E “dopo” non mi rigirai al suo fianco, no. Le rimasi sopra,
disteso, tra le sue cosce allargate, coi nostri respiri ansimanti che
si confondevano.
STUDENTE (Con calma) La rivoluzione dal basso è impossibile, in una società industrializzata.
(Anna sorride, sembra non fare caso alle parole dello studente; si
stiracchia, vogliosa d’amore, si avvicina allo studente, lo accarezza)
STUDENTE
Perché un qualsiasi movimento di guerriglia possa esistere, sono
necessarie almeno due condizioni: occorre che trovi una fonte
d’approvvigionamento in un Paese simpatizzante e che ci sia una parte
notevole della popolazione a sostenerlo nel suo stesso Paese. Cosa che
in Italia non avviene.
ANNA
Ho ancora desiderio di te. Baciami come prima. Meglio di prima. (L’atto
d’amore avviene come il precedente, però ogni volta i due giovani si
toccano sfiorandosi, come una danza.)
STUDENTE Il mio pene si risveglia dentro te. Rispondo al tuo bacio e alle tue carezze. Mi muovo su di te.
ANNA Dentro di me. Baciami sul collo, sul seno…
STUDENTE Oh, i tuoi capezzoli: ora l’uno, ora l’altro. Il tuo ventre, il tuo sesso…
ANNA Il mio sesso… Te lo offro con tutta me stessa.
STUDENTE
I terroristi sparano, in Italia, è vero. Ricalcano le orme dell’I.R.A.
Però, in Irlanda, i soldati dell’I.R.A. hanno il sostegno dei cattolici
del Nord. Ma in Italia, da chi sono sostenute le Brigate Rosse?
ANNA
Mi dai sensazioni che mi fanno vibrare. Senti questi miei spasmi
violenti. La tua testa, prigioniera delle mie cosce.
STUDENTE Morbide cosce…
ANNA La tua lingua…
STUDENTE …Prigioniera delle tue labbra…
ANNA Oh, fammi godere, non ti fermare.
STUDENTE I gruppi armati, di qualunque colore, possono portare alla creazione di uno Stato Totalitario.
ANNA Oh… Ecco… Ecco… Così, sììì… Sììì, Ooooh!
VOCE
NARR. I suoi movimenti si fecero violenti. Accelerai
i miei colpi di lingua sul suo clitoride, accompagnandoli con i
movimenti della testa. E finalmente esplose, gridando e ansimando. E
quando si fu calmata, risalii piano piano il suo corpo e tornai a
penetrarla, finché esplosi anch’io. E restammo così, allacciati e
stanchi. Poi ci distaccammo e ci alzammo. (Anna comincia a rivestirsi,
senza parlare.).
STUDENTE
Io sono uno scrittore. (Gridando:) Sono un folle. Un folle di una
specie particolare, visto che non ho pubblicato neppure un rigo. Ma non
posso, non posso darmi al terrorismo.
(Pausa. Anna continua a vestirsi, muta.)
STUDENTE Lo capisci o no?
(Anna guarda lo studente con derisione, compassione.)
STUDENTE
Noi scrittori dobbiamo ingannare, inventando una storia. Il nostro
compito è quello di sferrare un pugno alla Società, con canta abilità
che nessuno possa aspettarsene il colpo. L’Arte lo dissimula, ma il
colpo è necessario. E forse è più offensivo dei vostri proiettili.
(Anna si avvicina allo studente. Lo guarda, sorridendo, teneramente e
con compassione. Sta per accarezzarlo.)
ANNA Però ci vuole, il colpo eh?… PAM! (Distende pollice e indice.)
STUDENTE
È necessario, sì. Ma se è di pistola provocherà esecrazione; se è
sferrato con le parole, allora la gente si fermerà a guardare,
ascoltare e a dire: com’è orrendo! Oppure: dice il vero, ha
ragione. E provocherà un dialogo che porterà al progresso.
(Anna prende la sua borsa a sacco, la mette a tracolla; per qualche
secondo guarda ancora in silenzio l’ambiente, i fogli a terra, lo
studente… e sorride.)
ANNA Resta a sognare, ragazzo. (Apre la porta ed esce.)
VOCE
NARR. E, scendendo le scale, si allontanò per sempre,
con le sue idee di cambiare le cose, in Italia, con un mitra in mano.
“Resta a sognare, ragazzo”, mi aveva detto. E non si rendeva conto che chi sognava, tra noi due, era lei.
(B U I O .)
SECONDO TEMPO
Scena Prima
È notte. Lo
studente è sul bordo di una strada e fa l’autostop. Rumore di un’auto
che si avvicina e poi si ferma. Rumore di sportello che si chiude:
qualcuno gli ha dato un passaggio.
L’autista è un
tipo un po’ folle, un po’ irresponsabile: è allegro, di un’allegria
forzata, ansiosa. L’autista folle entra spingendo due poltroncine da
ufficio, con le rotelle: In una siede lui, a cavalcioni, l’altra la
offre allo studente. Sono sull’autostrada e, durante il dialogo, si ode
il rumore del motore di un’auto in corsa, con accelerate, frenate,
sorpassi… Fino a quando succederà l’incidente.
AUTISTA
Ho perso quasi tutto, in quel casinò di merda. (Ride istericamente.) Mi
sono rimaste poche lire: autostrada o benzina, scegli.
STUDENTE Anch’io ho perso. M’è rimasto qualcosa. Stavolta Saint-Vincent mi ha graziato qualche lira.
AUTISTA Tu metti la benzina e io pago l’autostrada, d’accordo?
STUDENTE D’ accordo.
AUTISTA
Yu–hù. Cinquemila a testa dovrebbero bastare. (Gridando euforico:)
Saint Vincent, addio. Addio, bianche montagne innevate!
STUDENTE Addio? Credo che torneremo presto a rivederle.
AUTISTA
Ho perso tutto, questo pomeriggio. Tutto lo stipendio del mese. (Ride
forzatamente, ma vorrebbe piangere.)
STUDENTE Capita. A me è capitato spesso.
AUTISTA
(Cambia repentinamente espressione, è adirato) Ma io ho moglie e due
figli piccoli, cazzo. Cazzo! Stamani ho incassato lo stipendio e son
filato al casinò sperando di raddoppiarlo. Invece… E mia moglie non lo
immagina nemmeno. Cazzo, chi me l’ha fatto fare? Io non volevo venire,
non volevo. Ma devo smetterla, col gioco. Sì, prima o poi devo
smetterla.
STUDENTE Hai ragione, anch’io devo smetterla, col gioco.
AUTISTA Maledetto vizio.
STUDENTE Ma perché acceleri? il limite di velocità imposto per il risparmio energetico è di cento all’ora.
AUTISTA E allora?
STUDENTE Beh, sei già a centoventi.
AUTISTA Quest’auto mi fa anche centocinquanta: Ora ti faccio vedere. (E accelera.)
STUDENTE Sai guidare bene. È da molto che hai la patente?
AUTISTA Non ce l’ho, la patente.
STUDENTE Come?
AUTISTA (Alzando la voce) Non ce l’ho, la patente. Sono col foglio rosa.
STUDENTE E se ci ferma la polizia?
AUTISTA Basta che ci sia al mio fianco uno con la patente.
STUDENTE Ma nemmeno io ho la patente.
AUTISTA Oh, lasciami stare. Sono tutte minchiate. (Si agita, si liscia i capelli nervosamente.)
STUDENTE Non devi fare così. Fòttetene.
AUTISTA
Fottermene? Ho perso tutto, oggi, capisci? Tutto lo stipendio, un mese
di lavoro, settecentomila lire, e tu mi dici di non fare così? Di
fottermene?
STUDENTE Senti, perché non rallenti?
AUTISTA
Rallentare? (E accelera.) Che gli racconto, ora a mia moglie, eh? Che
gli dico? (Batte i palmi delle mani sul “volante”, si rode dalla
rabbia, l’angoscia lo attanaglia)
STUDENTE Cos’è quest’auto? Una Fiat 131, vero?
AUTISTA Sìì!
STUDENTE (Con timidezza) Guarda che siamo sui centosessanta.
AUTISTA (Con sguardo sadico) Ah,sì?
STUDENTE Hai figli?
AUTISTA Sì.
STUDENTE Quanti?
AUTISTA Due.
STUDENTE E perché non rallenti?… Pensa a loro.
(Guarda lo studente, sorride serafico, accelera ancora e, prendendo un pacchetto, si accende una sigaretta.)
STUDENTE Vuoi che te l’accenda?
AUTISTA Ma che hai? Ti stai cagando addosso?
STUDENTE Chi, io? Ma figurati. Però, se rallentassi…
AUTISTA Tu non fumi?
STUDENTE
Fumo la pipa. (Pausa.) Gli psicologi dicono che i sensi di colpa
possono inconsciamente portare un individuo ad autodistruggersi.
AUTISTA Ah, sì? E io che c’entro?
STUDENTE
Cazzo! Sei andato a giocare senza aver detto nulla a tua moglie, e in
più hai perso tutto. Peggior senso di colpa non potresti avere.
AUTISTA Hai ragione, sai? Hai proprio ragione.
STUDENTE Senti: se vuoi suicidarti sei libero di farlo.
AUTISTA Davvero?
STUDENTE Davvero. Però, prima, fammi scendere.
AUTISTA (Sorridendo) Stai tranquillo, amico.
(Improvvisamente, si ode una lunga frenata e il rumore di un’auto che
va fuori strada. Poi, silenzio per qualche secondo.)
VOCE
NARR. Ci salvò la frenata. La frenata e un miracolo.
Ricordo solo che eravamo finiti nel silenzio delle campagne piemontesi,
nel buio. Io mi ritrovai con una gamba fuori dal finestrino e uscii
dall’abitacolo. Stranamente, ero rimasto illeso. Il mio compagno di
viaggio si ruppe un paio di costole. Altri automobilisti di passaggio
ci soccorsero e trasportarono all’ospedale.
AUTISTA
(In penombra, dal fondo della scena) Almeno, appena mi vedrà in queste
condizioni, mia moglie non farà scenate per i soldi che ho perso.
STUDENTE (Dal boccascena) Poteva finire peggio, no?
AUTISTA Già.
STUDENTE Vuoi un prestito? Domani posso racimolare qualcosa.
AUTISTA No. Come le altre volte, stringeremo la cinghia. E poi, mio suocero è ricco.
STUDENTE Ah!
AUTISTA Ricco e avaro.
STUDENTE Vuoi che telefono a tua moglie?
AUTISTA
No, l’hanno già avvertita: gl’infermieri. Sarà già partita da casa.
Chissà come sarà spaventata, poverina.
STUDENTE Vi volete bene?
AUTISTA
Tanto. Se non fosse per questo maledetto vizio del gioco, tutto
funzionerebbe. Per fortuna l’auto è distrutta, così a Saint Vincent non
mi vedranno più. Sul serio. Lo giuro. Mai più.
VOCE
NARR. Un infermiere trascinò via la barella e sparì
nell’ascensore. (L’autista folle esce portandosi via le due sedie.)
(B U I O.)
Scena Seconda
In soffitta. È
notte. Lo studente si gira e rigira nel letto. Si alza, beve del vino
dalla bottiglia, si accende uno spinello. È agitato. Poi comincia a
vestirsi. Monologo.
STUDENTE Le notti insonni e i giorni a letto. E il pensiero che sia la mia vita. (Pausa.)
Mi capita spesso di restare a letto tutto il giorno. In questi casi
esco alle otto di sera per recarmi alla mensa universitaria, dove si
trovano le solite facce di merda che fanno la fila, “ragazzi debosciati
e senza nerbo che non valgono nemmeno un centesimo di quelli del ‘68”.
Così li definiva Carlo e, purtroppo, non si sbagliava.
La mensa! Lunghe code, lente nell’avanzare, tra innocue imprecazioni di
rassegnati studenti. Fino ad arrivare alla distribuzione, in vassoi di
plastica. Anche i bicchieri e le posate sono in plastica. E anche il
cibo. Per l’olio e l’aceto ci sono già arrivati: in bustine sigillate.
E loro mangiano. Mangiano e stanno zitti. Mangiano come galline, seduti
in fila, uno accanto all’altro. Ed io li guardo. Io, che ho mangiato al
Tiffany e a volte, dopo una vincita, nei migliori ristoranti di
SaintVincent o di Montecarlo. Io, che di soldi facili ne ho avuto un
fottìo. Io, che voglio essere libero. Io! Io… dovrei assoggettarmi a
quello spregio?… No. (Si avvia ad uscire.) Ho mandato tutti a fare in
culo. Meglio un panino con salamino e crauti, e birra. Però fuori,
all’aria pura. (Esce.)
(B U I O .)
Scena Terza
Lo studente sta
passeggiando, panino e lattina in mano. Dopo qualche secondo, gli viene
incontro Carlo. Quest’ultimo sembra non riconoscere lo studente, ma si
ferma ugualmente. Carlo è visibilmente ubriaco - o drogato sfatto.
Ambiente esterno, di sera.
STUDENTE Carlo!
CARLO (Osservandolo) Dici a me?
STUDENTE Sei Carlo, no? Non mi riconosci?
CARLO
Per quel che me ne fotte. Riconoscerti! Komheini sta distruggendo il
popolo iraniano e tu vuoi che ti riconosca? E chi cazzo sei?
STUDENTE Non ti ricordi? Ci ha presentati Anna.
CARLO
(Non facendo caso alle parole dello studente:)
Quella rivoluzione ha fatto cadere l’Iran in un medioevo oscurantista.
STUDENTE Ogni popolo è artefice del proprio destino.
CARLO
(Scrutando lo studente) Hei, parli come… Ora ti riconosco... Sei lo
scrittore cagasotto. Ci hai ripensato? C’è sempre un posto per te nella
nostra Colonna.
STUDENTE
Dopo quello che avete fatto? Un commando ha ucciso l’agente carcerario
Cotogno. Ve la prendete coi secondini, adesso?
CARLO
(Adirato) Secondini?… Secondini? Ma lo sai chi era
quello? Era il capo di picchiatori che operavano nelle carceri. Sì. (Si
calma. Poi, con entusiasmo:) Che azione! Cazzo, dapprima volevamo solo
gambizzarlo, però lui ha reagito, ci ha sparato mentre ci ritiravamo, e
abbiamo dovuto giustiziarlo. Ah! Ah! Ah! Così imparano a fare gli eroi.
STUDENTE E che aveva fatto, per attirare la vostra collera?
CARLO
Comandava un gruppo di tre o quattro guardie carcerarie. Tutti insieme
entravano in una cella, di notte, mentre i detenuti dormivano, e
cominciavano a picchiarli. E rincaravano la dose con quelli che
reagivano o che si mostravano più duri degli altri.
STUDENTE Oh, no. Questa è grossa. Questa non la bevo. Mi stai dicendo che senza nessun motivo picchiavano…
CARLO
(interrompendo:) I motivi, secondo loro, c’erano.
Quei bastardi se la prendevano coi compagni che protestavano per la
cattiva qualità del cibo, che denunciavano la corruzione, le tangenti
date da fornitori per vincere taluni appalti. E massacravano coloro che
protestavano perché volevano più tempo per l’ora d’aria o cose del
genere. Proteste civili, che venivano represse con barbare azioni.
STUDENTE Non riesco a crederci, no.
CARLO E tu non crederci, bamboccio.
STUDENTE Sembrano storie dell’ottocento. Potevano ribellarsi, difendersi.
CARLO
E alcuni compagni reagirono. E sai che fecero i picchiatori agli ordini
dell’agente Cotogno? Escogitarono una trappola sconcertante per poterli
picchiare singolarmente.
STUDENTE In che modo?
CARLO
Chiamavano il detenuto e gli dicevano che c’era l’avvocato in
parlatorio. Oppure la moglie, che l’aspettava. Un sistema ignobile,
degno del più feroce aguzzino nazista.
STUDENTE E poi che succedeva?
CARLO
Anziché in parlatorio, i1 detenuto veniva condotto in trappola, cioè in
una cella imbottita, così nel corridoio non si udivano le urla. E in
quella segreta gli facevano il Sant’Antonio.
STUDENTE Il Sant’Antonio?
CARLO
Il Sant’Antonio. Cioè, gli mettevano addosso una coperta e… giù
manganellate. E Cotogno era il capo di quei picchiatori. Meritava
essere gambizzato, no?
STUDENTE Ma nessuno ha pensato a denunciarli?
CARLO
Sei proprio ingenuo. Certo che l’hanno fatto. Ma, con un trucco o
altro, le fanno passare per storie inventate. Le coperte servono ad
evitare i lividi. E quando qualche volta ci sono i lividi, potrebbero
essere una prova. Potrebbero. Ma prima che ti portino il modello per la
denuncia, passano tre giorni. E prima che il direttore lo inoltri al
procuratore ne passano altri tre. E prima che il magistrato venga ad
interrogarti ne passano altri quattro o cinque. In tutto, quasi due
settimane. E in due settimane, i lividi spariscono. A volte, quei boia
arrivano a dire che i lividi se li procurano apposta, in cella, da soli
o durante una rissa. O menzogne del genere. E Cotogno era a capo di
tutto ciò.
STUDENTE Brutta storia.
CARLO E tu che non vuoi unirti a noi!
STUDENTE
Non ricominciamo. Sai come la penso. Spiegami un’altra cosa, piuttosto.
Che mi dici di quella vigilatrice dei reparto femminile? Ho letto che è
stata ferita da un commando di sole donne. Anche lei picchiava?
CARLO
A volte sì. Ma è stata invalidata per un altro motivo. Quella troia
usava un metodo peggiore delle bastonate. Sequestrava i giornali e le
riviste alle detenute da punire e le lasciava senza nulla da leggere.
Neppure i libri della biblioteca La lettura tiene la mente occupata. In
carcere, leggere, è quasi vitale, altrimenti s’impazzisce. E quella
bagascia aboliva i giornali e i libri dalle celle. E un commando
guidato da Carla gliel’ha fatta pagare. Dicono che ora si sia calmata,
quella troia.
STUDENTE Dov’è Anna?
CARLO
Che cazzo ne so. (Pausa.) Vedi? Un giorno, questa piazza potrebbe
chiamarsi piazza Renato Curcio. E ci saranno anche Corso Daniele Pifano
e Viale Mara Cagol. (Si ferma. Fissa il vuoto e poi comincia a
singhiozzare e piangere.) Mara… Maretta… dove sei, piccola Mara.
Piccola Margherita. E tu, Walter, così giovane, anche tu… Vi
ricorderemo sempre. SEMPRE.
(Carlo cade in ginocchio. Lo studente gli batte una mano sulla spalla, poi si allontana.)
CARLO
Tieni duro, compagno. Tieni duro: il giorno della liberazione è vicina.
Vicina, sììì. Vinceremo. (Lo studente gli sorride con compassione,
senza rispondere, e annuisce. Carlo alza il pugno e lo studente lo
imita. I due si allontanano fino ad uscire da parti opposte.)
(B U I O. )
Scena Quarta
Dallo stesso
lato dal quale è uscito Carlo, entra, fumando, una giovane prostituta,
che va ad appostarsi. Poco dopo rientra lo studente, che sta
continuando la sua passeggiata notturna.
VOCE
NARR. Continuai a camminare, sorvegliato dalla luna
che mi guardava muta. La salutai col pensiero e sorrisi. Decisi di
proseguire nella sua direzione e arrivai in una grande piazza. C’è
sempre una chiesa, nelle grandi piazze. Sui gradini del sagrato stava
seduta una ragazza. Me ne accorsi quando le passai vicino e mi rivolse
la parola.
GIOVANE PROSTITUTA Vuoi compagnia?
STUDENTE Sei sola?
GIOVANE Vedi qualcuno?
STUDENTE Voglio dire… Non sembri una… una…
GIOVANE
Vuoi dire che non sembro una puttana? E invece lo sono, gioia. Prendo
ventimila, ti faccio quindici, ti va?
STUDENTE (Sorride e scuote la testa).
GIOVANE Prendo venti, ti faccio dieci, va bene?
STUDENTE (Idem) No.
GIOVANE Ti faccio cinque. Cinquemila.
STUDENTE Un’altra volta.
GIOVANE Hai della “roba”?
STUDENTE No, fumo solo tabacco. Io non mi drogo.
GIOVANE Bravo! Che vuoi, il premio “Notte di Natale”?
STUDENTE Perché parli così?
GIOVANE
È il modo come l’hai detto. Tu non ti droghi e con
quel tono sembravi condannare chi si droga. Non è così?
STUDENTE
No. È stata una tua impressione. Per me, ognuno è libero di fare quello
che vuole. Può drogarsi o suicidarsi. Quello che vuole. Fino a quando
non danneggia gli altri, ogni azione è lecita.
GIOVANE Belle parole. Fossero tutti come te…
STUDENTE Ma trovi ancora dei clienti a quest’ora?
GIOVANE No. Forse. Chissà.
STUDENTE E allora perché stai ancora qui? Non hai dove andare?
GIOVANE Ce l’ho, dove andare, cazzo. Però cosa dico a Tonino?
STUDENTE E chi è Tonino?
GIOVANE Ma chi sei? Un assistente sociale?
STUDENTE Chi è questo Tonino?
GIOVANE Il ragazzo che amo. Sei della polizia? … No, tu non sei della polizia.
STUDENTE Amore! Amore! Lui chissà dov’è e tu qui a battere per lui. È così che ricambia?
GIOVANE
(Aggressiva) Ma vaffa’nculo, borghese di mente
merdosa. Non capisci un cazzo della vita. Batto per lui, sì. E batterei
“per lui” non una, ma dieci, venti, cento, mille volte in un secondo,
se fosse possibile. Perché saprei di battere per lui. PER LUI. (Pausa.)
La figa è mia e ne faccio quello che voglio. Sono forse migliori le
madri di famiglia che lo fanno tra le mura di una casa, o in un
ufficio, di nascosto dai mariti? (Pausa. Si calma.) Coglioni. Esistono
soltanto dei coglioni.
STUDENTE Perché non mi parli del tuo ragazzo?
GIOVANE
(Lo guarda e accende una sigaretta) Ma chi sei, un
angelo salvatore? (Fuma in silenzio e guarda il fumo della sigaretta
che si dissolve.) A volte, vorrei essere un anello di fumo.
STUDENTE Ma no, dai. Quanti anni ha ‘sto Tonino?
GIOVANE Tonino ha ventun anni. Si è diplomato l’anno scorso. Viviamo insieme da un anno.
STUDENTE Ma lui ti ama?
GIOVANE Certo, che mi ama, Che domande.
STUDENTE E ti manda a… fare la vita?
GIOVANE Non è lui che mi manda a battere. Sono io che lo voglio fare.
STUDENTE Ma perché!?
GIOVANE (Grida) Ma che cazzo te ne fotte? (Pausa.)
(Quando riprende a narrare, nel suo sguardo e nel suo tono si captano delle scuse.)
A Tonino, per vivere, gli servono circa duecentomila lire. Al giorno.
Sono i soldi che gli chiedono per il “buco” quotidiano. (Osserva lo
studente, per capire il suo giudizio.) Già, duecentomila lire. E vuoi
sapere come si può avere una cifra simile ogni giorno? Solo in due
modi, gioia. E a me non piace rubare. E non perché sono buona, ma
perché se mi beccano è finita. Non ho paura della prigione, ma non
voglio finirci perché mi terrebbe lontana da lui. (Pausa.) Gli voglio
bene, a Tonino, E, per fargli piacere, anch’io qualche volta “mi
faccio”. (Guarda lo studente e sorride.)
STUDENTE Perché sorridi? Sei più bella, quando sorridi.
GIOVANE Sento che mi posso confidare, con te.
STUDENTE È sempre più facile confidarsi con gli sconosciuti.
GIOVANE Sai una cosa? Poco fa ti ho mentito.
STUDENTE Quando?
GIOVANE Quando ti ho detto che Tonino mi ama. Tonino non mi ama. So che di me se ne frega. E mi sembra giusto.
STUDENTE Ma perché Tonino si droga?
GIOVANE
E chi lo sa? L’ho conosciuto che era già fatto e
strafatto. Drogarsi è proibito? Ed ecco che mi drogo. O forse, come
tanti, ha iniziato “per provare” e c’è rimasto. Oppure, per essere
accettato in un gruppo, nel quale solo chi si droga è OK mentre gli
altri sono merda. I motivi sono tanti. Chi lo sa?
STUDENTE Lo sai che forse legalizzano la droga? I radicali…
GIOVANE
(Interrompendo) Che l’eroina si legalizzi, a lui non
importa. Quando lui “sballa” va bene. Solo questo conta.
STUDENTE Ma Tonino è ancora giovane: si potrebbe “recuperare”. Se lui volesse… Ci sono dei centri…
GIOVANE
Ma cosa recuperano, quelli. Tonino vuole che nessuno si interessi a
lui. Gli sta bene così. Lui ruba un’auto e si sente contento. Ma cosa
ne sanno, loro, di recupero? Hanno mai recuperato un detenuto? No. E
allora? Pretendono di recuperare uno che si fa? Perché non provano a
fare qualcosa per quelli che sono nati, e nascono, già drogati dalla
miseria e dalla fame che avevano i loro nonni e i loro padri?
STUDENTE Ti capisco. Anch’io ero un arrabbiato, sino a poco tempo fa. Però non ho preso a drogarmi.
GIOVANE Ma Tonino non è un arrabbiato. E poi, che vuol dire essere arrabbiato?
STUDENTE
Che per punire la Società, per qualcosa ii cui la incolpa, Tonino, non
potendola distruggere, si autodistrugge drogandosi.
GIOVANE
Ma no. Tonino non è come dici tu. Vuole solo essere un po’ contento
quando parla in quella mezz’ora, di notte, dopo l’ultimo “buco”, magari
dopo aver fatto all’amore. E allora pensa di mettere su un bar o di
fare il colpo grosso. Ma non è un pensiero per i1 futuro, no. Per
Tonino il futuro non c’è. A lui basta parare una mezz’ora perché gli va
bene così. E in quei momenti non è in paranoia. Certamente, se
legalizzano l’eroina, forse è meglio. Però adesso deve comprarla. E ci
vogliono soldi. Tanti. E io lo aiuto. Vendendo la figa. E a me va bene
così perché sono con lui e non voglio chiedermi nulla. E così sia.
(In lontananza, si sente avvicinarsi un’auto.)
GIOVANE
Arriva un’auto. Nasconditi. Potrebbe essere un cliente. (L’auto si
ferma. Poi riparte. La ragazza, lentamente, esce di scena.)
(B U I O .)
Scena Quinta
VOCE
NARR. La nebbia, così come era calata, all’improvviso
era sparita, portata via da quel leggero venticello che si era levato.
La notte era calma, continuai a camminare verso casa. Non c’era anima
viva. Mi sentivo Il padrone assoluto ma non sapevo di cosa. Poi
cominciarono a passare alcune auto e dei camion: erano le quattro. Poi
vidi i primi tram e autobus e capii che erano le cinque. E le prime
sveglie suonavano. E io le sentivo.
E le finestre si illuminavano, ad una ad una, risaltando nel cielo
ancora scuro. I primi bar cominciavano ad aprire. Le auto in corsa si
fecero più numerose. Era la città che si svegliava. E, come sempre mi
succede quando assisto al destarsi della città, mi prese una gran
tristezza. Ecco perché vorrei che le notti non finissero mai.
E invece, un’altra notte era trascorsa. Giunsi a casa. Bambini che
andavano a scuola e coinquilini che si affrettavano per il lavoro:
erano in ritardo. Al terzo piano, odore di caffè: l’unica cosa buona di
quel mattino.
Arrivai in
soffitta, mi spogliai, accesi la stufa e, mentre davo la carica alla
sveglia, guardai fuori dal lucernario. Vidi un pezzo di città e pensai
che tutta la città era uguale a quel pezzo. Forse solo io ero diverso,
io che mi ficcavo nel letto, mi accovacciavo in posizione fetale e
chiudevo gli occhi per dormire, augurandovi il buon giorno, anziché la
buona notte.
(B U I O .)
Scena Sesta
È giorno. Lo
studente cammina in un parco pubblico, attraversando la scena. Al lato
opposto vi è Carlo, accovacciato ai piedi di un albero.
VOCE
NARR. Camminavo per i viali del Valentino, il più bel
parco di Torino. In un pomeriggio primaverile i bambini correvano, le
mamme sedute sulle panchine, i papà che scattavano fotografie per
immortalare i momenti felici. Grida, sorrisi, giovani studenti,
coppiette. E più in là, l’altra realtà.
(Lo studente è giunto accanto a Carlo e appena lo vede gli si accosta
premuroso. Carlo è sudato, con la camicia sporca di sangue e una manica
rigirata sul braccio. La giacca dietro la nuca, appoggiata sull’albero.
A terra, su un foglio di giornale, vi sono: un accendino, un cucchiaio
e una siringa ancora “carica”. Al braccio ha legato un laccio
emostatico. Carlo non sembra riconoscere lo studente.)
CARLO A… Aiutami, ti prego.
STUDENTE
(Sorpreso, si guarda intorno confuso, si abbassa su Carlo, prende la
siringa, la ripone) Carlo, ma che cazzo stai facendo?
CARLO Soffoco. Non lo vedi? Soffoco… Ma che cazzo guardi. Aiutami.
STUDENTE Ma… E come? Chiamo un’ambulanza?
CARLO
Nooo! No, porcoddio, no. (Lo ferma tenendolo per i pantaloni. Poi
prende la siringa e comincia a punzecchiarsi il braccio, alla ricerca
di una vena.)
CARLO
Non la trovo. Non la trovo, aaah! (Scioglie il laccio emostatico e se
lo lega di nuovo. Riprende a pungersi.)
STUDENTE Ma perché… Perché? (Si guarda intorno.)
CARLO
Aaaah! Porcoddio. Mi sono stracciato una vena. MI SONO STRACCIATO
UN’ALTRA VENA. (Si dibatte. Posa la siringa. Scioglie il laccio, lo
rilega. Si apre la camicia sul petto, lacerandola e strappando i
bottoni. Il sangue che sgorga dal braccio.)
CARLO Provo sul collo? eh?… Provo sul collo? (Se lo tocca.) E merda, aiutami…
STUDENTE E che cazzo devo fare?
CARLO
(Sforzandosi di essere calmo) Vieni qui, avvicinati… Avvicinati e
aiutami a trovare questa merda di vena. Aaah! Vieni… Vieni qui. Dai.
(Lo studente poggia un ginocchio per terra; gli mette una mano dietro
la nuca, per tenergli la testa ormai ciondolante, e gli sistema la
giacca a mo’ di cuscino.)
CARLO
Tieni (Gli porge il laccio emostatico). Legami al braccio questo
maledetto tubo. Forte… Legalo forte. (Lo studente esegue.) Adesso,
appena vedi gonfiarsi una merda di vena – se ne vedi – tienila ferma
tra due dita.… Ecco, vedi?… Vedi?… Questa. Questa qui è buona. Sì. Sì…
È buona. Così. Ferma, eh? (Prende la siringa lentamente e, dopo un paio
di tentativi riesce a bucare. Lo studente si alza, fa due passi
indietro. Carlo slega il tubo di gomma, lo getta via. Sta per togliersi
la siringa dal braccio ma non vi riesce: perde le forze e reclina il
capo. La siringa è ancora infilata nel braccio e vi rimane. Lo
studente, visibilmente spaventato, si allontana rapidamente. Esce.)
VOCE
NARR. L’ambulanza impiegò almeno mezz’ora ad
arrivare. Poi lo vidi portare via coperto da un lenzuolo. Un lenzuolo
bianco, come le nostre coscienze. Di Carlo mi resterà per sempre il
ricordo di quella gita in “500” in un’alba torinese, con la sua rabbia
di allora, e la sua voce implorante ai piedi di un albero triste. E mi
piacque pensare che forse, un giorno, accanto a viale Mara Cagol,
sarebbe nata anche via Carlo il Brigatista. Chissà.
(B U I O.)
Scena Settima
È giorno. In
soffitta. Una sedia è posta con la spalliera verso il pubblico. Sulla
spalliera è disposto un giubbotto, che copre alla vista del pubblico
alcuni oggetti che il giovane prenderà durante il monologo.
STUDENTE
Pazzo, pazzo, pazzo. È perché sono pazzo che mi viene in mente mia
madre? È perché sono pazzo che rivedo il suo viso piangente? È perché
sono pazzo che la rivedo soffrire?
La ricordo tempo fa, quando le dissi: “non interessarti a me. Se muoio,
qualcuno ti avvertirà. Non ti darò più notizie di me. Solo ogni tanto,
telefonerò.” Poveretta! deve aver creduto di aver già perso il figlio.
“Non so quando mi laureerò. Non so SE mi laureerò. E non mi sposerò.”
Sono stato cattivo a parlarle così? Sono stato brutale? Sono stato
animale? E lei ascoltava. Ascoltava e non sapeva che dire. Ma sapeva
che quel che avrebbe detto sarebbe stato come non detto. E gli occhi le
si arrossarono. E la voce le tremò. E il respiro le mancò. E cominciò a
singhiozzare. Non credeva di avere un figlio del genere, un figlio
degenere.
Tutte le sue illusioni crollarono.
Lei si aspettava che suo figlio si laureasse, lavorasse, si sposasse e
le desse dei bei nipotini. Sarebbe stato giusto, secondo il suo
concetto, un concetto di antica donna del Sud. E invece i suoi sogni
svanirono.
Deve aver visto un mondo crollarle addosso.
E singhiozzava – piangeva. E invocava sua madre; “Mamma-Mamma!’ Ed io a
sorreggerla. Ed io a incoraggiarla. Ed io a parlarle, sussurrarle un
freddo conforto. E farle bere un sorso d’acqua. E lei a lacrimare, a
sentir freddo, ad avere brividi pungenti…
La condussi a letto. Ancora un po’ e si calmò. Si addormentò. E stette
male per tre giorni interi. Con le mie parole forse l’ho ferita, le ho
fatto del male. Ma l’ho fatto per non farle avere dell’affetto per me:
dimenticavo che una madre non perde l’affetto per un proprio figlio,
pazzo o animale che sia.
Ma sono stato pazzo ad agire così? Sono stato brutale? Sono stato animale?
Ed io l’ho colpita, quel giorno. L’ho colpita nel cuore, nell’anima. E
lei, invece, non lo meritava. È buona, mia madre. È gentile. Perché
farle del male? Nella sua dolce ignoranza pretende ciò che le sembra
sia giusto pretendere: quei valori morali che ha sempre ritenuto
normali. Che colpa ne ha? Spero soltanto che abbia capito che solo la
sua vita è sua. E che la mia è mia. E spero abbia capito che non può
bramare di essere felice a spese della mia felicità.
Forse sono pazzo a pensarla così?
Poi volevo fare lo stesso discorso a mio padre, ma mia madre si batté
perché non lo facessi. “Non dar dispiaceri anche a lui”, mi disse. Ed
io non parlai, E quando mio padre tornò, ci salutammo e ci parammo
dicendo soltanto parole già dette, frasi già fatte – di convenienza. E
seguirono, poi, dei lunghi silenzi.
Poi dovevo ripartire a Torino, a studiare. Ingegneria. Sì, ingegneria!
Pensavo che non l’avrei rivista per almeno sei mesi, mia madre. E lo
pensavo mentre preparavo le valige. Lei, minuta, mi aiutava come mi
aveva aiutato tante altre volte, tutte le volte che sono dovuto
partire, dopo ogni estate, ogni Natale… Mi aiutava a modo suo: “Pensa a
ciò che dimentichi”, mi diceva. Ed io replicavo: “Va bene”. Seccato:
“Va bene”. “Il pigiama, l’hai preso? Questo, l’hai messo? Quello, te lo
porti?” – S’informava con timidezza, quasi soggezione, inibita al
massimo da un figlio senza cuore ma, per lei, il suo bambino. Quello di
sempre. “Allora, l’hai preso?”, insisteva prendendo il coraggio a due
mani. Ed io a sbuffare: “Sì! Sì! Sì!”… “Sì.”
(Il giovane prende dalla sedia una boccia di vetro, l’osserva, sorride amaramente inseguendo i ricordi.)
STUDENTE
Poi mi diede qualcosa da mangiare sul treno. Aprì la boccia di vetro
dove conserva la marmellata, quella a pezzi duri, a forma di animali,
fatta con mele cotogne, quella che a lei piace tanto, quella che mangia
col pane, ogni tanto: dieci pezzi li mangia nel giro di un anno.
(Sorride) …Aprì la boccia – dicevo - e ne prese due pezzi. Di
marmellata. “Questi li mangi sul treno”, anelò. Poi ne prese un altro
pezzo e mi guardò. E poi guardò quei tre pezzi come fosse oro, come
fosse tesoro. Stava per avvolgerli nella carta stagnola, ma ne aggiunse
un pezzo ancora. “Ti bastano?”, supplicò. “Sì, sì!”, le risposi
sgarbato. Ma lei ne aggiunse ancora uno. Poi, finalmente, li avvolse. E
sembrava avvolgesse cinque pezzi d’amore. E credette d’imporsi: “Questi
pezzi li mangi col pane, son buoni”, ordinò. “Sono buoni davvero, ne
hai per almeno tre mesi”.
(Lo studente fa cadere la boccia ai suoi piedi.)
STUDENTE
Era per questo che ogni volta che mangiavo un pezzo di marmellata
pensavo a mia madre. E fu per non pensarci più che una sera – anzi una
notte – decisi di mangiarla tutta quanta in una botta: così avrei
pensato a mia madre solo una volta. E m’ingozzai, con quei cinque
pezzi. M’affogai, per sbrigarmi. Per sbrigarmi e farla finita. Io non
volevo pensare a mia madre. Io non voglio pensare a mia madre.
Poi, ai solito, mi misi a scrivere: un comunicato, il numero sette, mi
pare, e mentre scrivevo mi venne un nodo alla gola. Poi il nodo si
sciolse e spuntarono le lacrime. Volevo oppormi al pianto, ma poi mi ci
abbandonai. Piansi per dieci minuti buoni. Ero solo, qui dentro,
proprio in questa soffitta: erano le tre del mattino e piangere non
poteva farmi che bene.
(Il giovane prende una borsa, simile a un tascapane, e la mette a tracolla.)
STUDENTE
“Capiranno col tempo”, mi aveva detto un amico, “ed ai tuoi genitori
sembrerà tutto normale. E si arrenderanno all’evidenza. E si
rassegneranno. E tu non avrai fatto loto alcun male.”
Sì, questo, un amico mi disse. E mi convinse. E mi educò. Mi parlò di
soldi: Capitalismo, Imperialismo, Servi Del Potere. Poi volantini e
comunicati: ai Lavoratori, ai Proletari, a Chi Non Ha. Mi insegnò Nuovi
Valori: uccidere, gambizzare, rapire. Azioni Militari. Entrare in
clandestinità, Guerriglia Metropolitana. Al Cuore Dello Stato: Colpire.
Colpire. (Pausa)
(Il giovane prende uno striscione rosso e mentre, con calma, lo
avvolge, fa casualmente vedere al pubblico ciò che vi è stampato: la
scritta “Brigate Rosse” e una stella a cinque punte inscritta in un
cerchio. Avvolto lo striscione, lo mette nel tascapane. Poi prende una
pistola-mitraglietta e la guarda.)
STUDENTE
Ora non ho più marmellata. Niente più mi ricorda lei. Solo ogni tanto
le telefonerò e le dirò che sto bene. (Mette la pistola nella borsa.)
E intanto il tempo scorrerà.
(Prende il giubbotto ed esce velocemente.)
(BUIO FINALE.)
XX Premio
Pirandello: Salvino Lorefice
– LA MARMELLATA (ricordi di un Brigatista Rosso
mancato)