Libero nel Paese della Resistenza

di Andrea Brunello

© 2013. Tutti i diritti sono riservati.

Si ringrazia Christian Di Domenico per il contributo alla preparazione della drammaturgia.

 

 

Questo testo è dedicato a Mario Pasi, Giannantonio Manci, Renato Sinigaglia, Emilio Lussu, Antonio Gramsci, Giacomo Matteotti… e ai molti eroi dell’antifascismo e della Resistenza che hanno testimoniato con la salute e con la vita il loro infinito attaccamento ai più puri valori della convivenza.

Un ringraziamento speciale e sentito va a Luigi Sardi, Sandro Schmid, Vittorio Endrizzi e Giuseppe Ferrandi per il loro aiuto nella comprensione storica degli eventi.

 

“Ho sempre la paura di essere soverchiato dalla routine carceraria. È questa una macchina mostruosa che schiaccia e livella. Quando vedo agire e sento parlare uomini che sono da 5, 8, 10 anni in carcere, e osservo le deformazioni psichiche che essi hanno subito, davvero rabbrividisco, e sono dubbioso nella previsione su me stesso. Penso che anche gli altri hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e molecolare, si trovano oggi cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati. Certo io resisterò…”
Antonio Gramsci, Quaderni dal Carcere

 

 

Tanto tempo fa avevo un’amica che era anziana.
Sembrava una befana.
Antonia.

Aveva 98 anni quando è morta. Era del 1900.

Libero era suo fratello.

Conoscevo Antonia da tempo. Abitava nell’appartamento di fronte a quello dei miei zii, a Trento.
Aveva sempre vissuto lì, dopo la guerra.
L’appartamento era stato dato a lei e a Renato, suo marito, dopo la guerra dalla città di Trento in premio per le sofferenze patite, per l’attività di Resistenza, per avere contribuito alla nascita della Repubblica Italiana.

Poi Renato è morto nel 1968 e lei è rimasta sola. Senza più nessuno.
E così si è affezionata a noi. I miei zii le volevano bene. Praticamente il suo appartamento e quello dei miei zii erano una cosa sola.
Lei dormiva di là, ma mangiava di qua.
Era curva, lentissima, ma lucidissima e totalmente autosufficiente.
Credo che se non fosse stato così lei, con calma, si sarebbe gettata dalla finestra.

Insomma, poi è morta e nessuno reclamava le sue cose. Non che ci fosse molto… a parte l’appartamento.
Qualche vestito. Qualche cimelio. E questo baule.

Un giorno, un anno dopo circa, si presentano due ragazzoni… parlavano inglese. Ma non erano americani. Erano canadesi di Toronto.
Erano i nipoti di Cesare, il fratello maggiore di Antonia, classe 1892.
Cesare era emigrato in Canada nel 1910 quando Antonia aveva 10 anni. Nessuno lo aveva più visto. Solo nel 1972 quando era morto (si dice per incidente stradale), era giunta notizia di lui. Era l’ultimo dei fratelli ancora in vita. Nessuno a parte lui aveva discendenti.

I parenti canadesi di Toronto reclamavano quello che era loro. Volevano l’appartamento. Chi non vorrebbe un appartamento a Trento?
L’appartamento se lo sono preso, ma stavano per buttare via tutto quello che c’era dentro! E io gli ho chiesto se potevo tenermi il baule.

- I Poss Tener Baul?
- What?
- Tu Apartament. I Baul. Poss Tener Il Baul? Il Baul!
- Ah the trunk! Yes, of course!

Ci siamo bevuti una birra assieme ed è andata così.
Ecco come sono finito in possesso dei disegni di Libero.

La famiglia di Libero era dunque composta dai fratelli Cesare, il più vecchio, Ferruccio classe 1895, Ezechiele classe 1898, Antonia classe 1900. E poi mamma Giustina del 1870 e papà Fortunato classe 1869. Lo so, sembra Cent’anni di solitudine! E poi naturalmente il nostro Libero.

Nel 1910 quando un parto non va bene, allora sono guai.
È così che nasce Libero.
Sono guai.

La levatrice lo deve tirare fuori col forcipe. Prima però prova di tutto… a ruotarlo… spingendo dall’alto…
Oggi le mamme cercano l’ebbrezza del parto naturale, fisiologico. In casa.
Nel 1910, se sei povero, in casa lo devi fare il bambino. E così chiami la levatrice che ce la mette tutta per portare a termine il parto con meno danni possibili!
Spesso va bene, ma qualche volta, diciamo il 10% delle volte, qualche cosa non funziona.

Libero è uno di quei 10%.
La sua testa è troppo grossa. Non esce!
Poi si è anche messo di traverso.
Un casino.

Libero è il quinto… è andata bene con gli altri, perché non con lui?
Chissà quante volte se lo sarà chiesto papà Fortunato.

Ma dopo avere ravanato per un bel pezzo, la levatrice tira fuori il bambino.

– È libero! Sono riuscita a liberarlo… e respira. È un buon segno.

Poi c’è l’emorragia e mamma Giustina… diventa Santa mamma Giustina.

Quella che voglio raccontarvi è la storia di Libero in 5 ore e 36 minuti. Non preoccupatevi non staremo qui 5 ore e 36 minuti. Questo è quanto ci ha messo Libero a disegnare le sue tavole il giorno 2 settembre 1943 nel periodo di tempo che va dalle 6.20 alle 11.56 della mattina.

Questo lo so, perché me lo ha detto Antonia che per tutto il tempo è rimasta lì a guardarlo mentre disegnava.

È il 2 settembre 1943. Un giovedì. Libero, Antonia e Renato vivono in centro a Trento, nel quartiere della Portèla. In una specie di torre abbastanza alta che guardava al quartiere. È stata abbattuta dopo la guerra.
La Portèla è un quartiere vecchio, umido, gonfio di umanità.

Non so quante volte zia Antonia, che non era veramente mia zia, me lo ha raccontato.

Questa è la scena.

Libero è lì, alla finestra, che guarda in strada, e disegna e per tutto il tempo continua a emettere un suono…

– Mmmmmmmmmmmmmmmm…

Antonia in realtà non ci presta attenzione, perché Libero è un personaggio un po’ particolare… diciamo che spesso fa cose strane.

Il giorno prima, ad esempio, al mercato contadino, Libero si era messo a correre come fosse un aereo in mezzo ai carretti della verdura, urlando. E poi si era bloccato come se avesse visto qualche cosa di orribile.

Non parla. Lui disegna. Comunica così.
A causa della morte di mamma Giustina, papà Fortunato crolla e scompare per un po’.

Per un mese circa. Nessuno ha mai saputo dove fosse andato. E così a prendersi cura della famiglia rimangono i fratelli Cesare, Ferruccio, Ezechiele e Antonia.
Cesare è già maggiorenne, lavora in falegnameria. È lì che conosce Renato che poi sarà il marito di Antonia.
Poi qualche mese dopo:

– Nel nuovo mondo c’è bisogno di mano d’opera capace, di falegnami specializzati!

Cesare, come tanti, prende il volo. Cioè la nave. Terza classe, da Livorno. Destinazione Canada.
E papà Fortunato ancora una volta scompare.

Ferruccio, l’altro fratello, nel 1917 è sul fronte della Galizia. Combatte con la divisa austriaca, perché Trento è austriaca. Avrebbe tanto voluto disertare, perché a lui i tedeschi stanno “sui maroni” e la guerra è “’na putanada” e comunque lui si sente “’taliano” e ammira Cesare Battisti ma poi nel 1916 Battisti è impiccato proprio a Trento, nel cortile del Castello del Buonconsiglio assieme a Fabio Filzi e insomma Ferruccio perde la fiducia e non ce la fa. E anche di lui non si è saputo più niente. Niente lettere, niente notizie. Niente.

E così in famiglia rimangono Ezechiele e Antonia e Libero e il papà uccel di bosco.

Nel 1919 Antonia e Renato si sposano!
Antonia ha 19 anni, Renato 23. Ormai sono fidanzati da tanto tempo. Renato lavora come falegname, è bravo. Richiestissimo. E così mette su la sua bottega.
Si sposano in gennaio. C’è freddo ma non c’è la neve, a Trento. C’è solo freddo.
Il freddo non è un problema. Renato ama il freddo.

Ama il grande Nord.
Ha il mito della Russia comunista.
È un fan di Vladimir Il’ič Ul’janov in arte Lenin!
Nel 1920 nasce il piccolo Vladimiro!

Evidentemente Renato e Antonia nutrono grandi speranze per lui!

All’epoca è possibile, non è impensabile, che la rivoluzione comunista si spanda anche in Italia.
Tanti fra i proletari ci credono.
Tanti fra la borghesia e i ricchi si preoccupano.
C’è chi ha paura di vedere socializzata anche la propria moglie! C’è sicuramente anche chi lo spera!

– I comunisti mangiano i bambini!

Ecco, Renato è comunista.
Ma lui i bambini non li mangia.
Magari qualche scapaccione. Ogni tanto. Ma pochi e con fortissimi sensi di colpa. Ma non li mangia!

Comunque, momento sbagliato per essere comunista in Italia in quegli anni.

L’Italia sta virando con vigore verso il fascismo.
Quelli che il giorno prima dicevano di essere antifascisti adesso diventano fascisti.

– Perché si deve pur mangiare!
– Perché si deve pur lavorare!
– Perché ci vuole più disciplina!
– Perché la classe dirigente fa schifo!
– Perché il Duce ci conduce!
– Perché non è che io ci credo, eh? E anzi Mussolini mi sta anche sulle palle. Ma in mancanza di meglio… Ecco!

Ecco, “in mancanza di meglio”.
Questo è l’atteggiamento tutto italiano che relega al fatalismo o agli altri le decisioni sul proprio futuro.

E Libero?
Ahhhh… Libero è una persona speciale.
Non guarda mai negli occhi le persone.
Emette strani suoni invece di parole.
Per questo la gente pensa che lui sia matto.

Poi non gli piace essere toccato. Da nessuno. Solo così…
… “Dito dito”, così toccandosi con l’indice. È così che capisce chi è suo amico.
In realtà questo modo di salutarsi non è male per niente. Si passano meno germi.
Provate anche voi. Diciamo… scambiatevi un segno di pace… dito dito…

Favoloso.
Nel favoloso mondo di Libero ci sono poche persone e sempre le stesse.

È estremamente metodico, e tutti i giorni lui si alza la mattina presto e comincia il suo giro della Portèla.

Il suo mondo!!!

Prima va dal parroco. Don Luigi. Lo saluta “dito dito”.

Libero è di famiglia comunista: non va mai a messa! Ma Don Luigi gli vuole bene lo stesso.
È probabile che dopo Gesù… Don Luigi sia il cattolico più comunista che sia mai esistito!
Comunque è sicuramente un antifascista.
Se l’era presa e non poco quando nel 1923 i fascisti lo avevano aspettato dopo messa e lo avevano obbligato a bersi un bel quartino di olio di ricino perché aveva definito una “pagliacciata” le marcia su Roma.

Don Luigi quella volta, seduto sulla tazza del cesso, ha giurato vendetta. Come può giurare vendetta un parroco obbligato a passare un brutto quarto d’ora con i pantaloni abbassati. Pericolosissimo!

Funziona così… tutti i giorni Libero gli regala un disegno che ha fatto il giorno prima e il parroco in cambio inventa una rima tutta per lui:

“Quando Bandiera rossa se cantava,
Cento lire al mese se ciapava,
Adesso che se canta Giovineza,
Se more tutti dalla deboleza,
Benito, Benito te n’hai ciavà polito”.

Ché tanto si sa che Libero non parla e poi non va in giro a confessare da dove vengono le rime.

“Dito dito”.

Poi Libero va dal Rosario, il panettiere. Gli recita la rima di Don Luigi…

– Mmmmmmmmmm…

e il Rosario in cambio gli dà qualche fetta di pane.

“Dito dito”.

Poi al negozio di frutta e verdura. Lì c’è il suo amico Francesco, che oltre ad essere il proprietario del negozio è anche contadino e capo della cooperativa dei contadini e i prodotti del negozio sono in buona parte della cooperativa. Francesco lo aspetta. In cambio delle fette di pane Francesco gli dà una mela, una carota, una susina, qualcosa di stagione.

“Dito dito”.

Poi Libero corre dal pittore Gino. Gli dà la carota, la mela o la susina e Gino in cambio gli permette di stare con lui a guardarlo mentre dipinge. Libero è maestro dell’arte del baratto.
E lì se ne sta, fermo, immobile, a guardare. Libero passa le ore con Gino.

A volte, se Gino non c’è, Libero va a visitare La Giorgia. Si dice che La Giorgia sia una prostituta. Noi non lo sappiamo per certo, ma sappiamo che La Giorgia è bella, è strepitosamente bella. Alta, elegante, perfetta. Fa la modella per il pittore Gino.

Mi piace immaginare che Libero, quando non si vede con il pittore Gino, vada a casa de La Giorgia per dare a lei la mela o la susina che gli aveva dato il fruttivendolo Francesco.
Cioè Libero dà la susina a La Giorgia e La Giorgia… be’… non so… forse lei gli dà la sua… di susina!
Antonia su questo non si è mai espressa!
Però una cosa è certa, Libero e La Giorgia spesso fanno “dito dito”!

Nel 1921 Renato sta lavorando per organizzare una cellula comunista alla Portèla.
All’inizio è tutto alla luce del sole. Grazie al supporto di un amico che lavora alla cartiera a Rovereto la carta non manca. Si può stampare con il ciclostile e distribuire anche un foglio di propaganda.
Poi, dopo la marcia su Roma nel ’22, Mussolini dichiara fuorilegge il Partito Comunista.

– Guai a chi disubbisce!

Il rischio è grande.
Renato se ne frega.
Lui è il referente per Trento del Partito Comunista.
Le riunioni si tengono in segheria da lui.
Sono segretissime.
Lo sanno tutti che si tengono lì.
Anche i fascisti.

Una sera del giugno 1923, dopo la riunione settimanale, dopo avere bevuto un bicchiere di vino buono, aver fumato e cantato in allegria, Renato se ne torna a casa.

I fascisti sono in missione punitiva.
Si dividono in due gruppi. Uno aspetta Renato da una parte della strada.
L’altro dall’altra.
Renato è quasi arrivato al portone di casa.
Schizzano fuori e lo prendono in mezzo.
Vogliono portarlo via, fuori città, per dargli una bella lezione.
Forse per ucciderlo.

Renato si ribella, tenta di difendersi. Ma sono troppi.
Lo colpiscono con il manganello. Una. Due. Tre volte.

Antonia sente il trambusto.
Apre la finestra e guarda in strada.

– Stanno trascinando via Renato!
– Stanno trascinando via Renato!!!

Un fascista estrae una rivoltella e le spara.
Un colpo. Due colpi.

Non la colpiscono.

– Ormai è impossibile portare a termine l’impresa. Presto, presto! Arriveranno i suoi compagni e allora saranno guai!

I fascisti assestano qualche calcio a Renato, giusto per rompergli tre costole, e poi scappano via.
Renato è disteso, svenuto e sanguinante.

Vladimiro è nel suo lettino che piange.
Libero, al buio, vede tutto.

– Mmmmmmmmmmm…

Il “santo Manganello”. Così il principe vescovo De Ferrari di Trento lo definisce:

“O tu santo Manganello
tu patrono saggio e austero,
più che bomba e che coltello
coi nemici sei severo.
O tu santo Manganello
Di nodosa quercia figlio
ver miracolo opri ognor,
se nell’ora del periglio
batti i vili e gli impostor.
Manganello, Manganello,
che rischiari ogni cervello,
sempre tu sarai sol quello
che il fascista adorerà”.

Ma poi Don Luigi ha dovuto spiegare a Libero che…

– Non tutti i cattolici la pensano come il vescovo e ci sono dei cattolici che sono brave persone anche se ci sono altri che invece non lo sono… soprattutto quelli che stanno in alto.

“Per battere il blocco fascista è necessario creare un blocco ancora più forte e più grande a sinistra! Ci vuole un giornale che racchiuda le istanze di questo blocco. Un giornale attorno al quale si uniscano tutte le forze politiche della sinistra. Lo chiameremo ‘l’Unità’!”
Antonio Gramsci. Un grande pensatore. Debole di salute, fisicamente distrutto ma ha un cervello che funziona.
Eccome.

Renato ama Gramsci, lo ama più di quanto ami Lenin. Lo ama come si può amare chi dice le cose che vorresti dire tu ma non trovi mai le parole, e con “l’Unità” Renato tiene un rapporto quasi religioso. È la sua Bibbia.
In Trentino è lui che si occupa della sua diffusione.
Le copie clandestine sono stampate su carta velina con caratteri così piccoli che si possono leggere solo con la lente d’ingrandimento. Sono stampate a Parigi, poi portate a Milano e poi, da Milano, Renato le porta in Trentino e le distribuisce alle varie cellule locali.

– Leggi e passa!
– Leggi e passa!
– Leggi e passa!
– Leggi e passa!
– Leggi e passa!

“Leggi e passa” è la parola d’ordine.
Una copia può fare il giro anche di venti o trenta compagni.
Si organizzano incontri di lettura, anche perché non tutti sanno leggere! E non tutti hanno la lente d’ingrandimento!
Renato è l’organizzatore e il corriere interregionale del partito.
È quello che tiene i rapporti con i vertici.

È nel mirino del Tribunale speciale fascista.

Dopo l’aggressione Antonia e Libero avrebbero preferito che lui smettesse, che abbandonasse il partito, ma un uomo esiste per le passioni che prova. E non si può chiedere a un comunista di essere meno comunista.
È come chiedere a una donna incinta di essere meno incinta. O si è o non si è.
Si può chiedere a un fascista di non essere più fascista.
Ma non a un comunista di non essere più comunista.
Non si può.

Renato però non sa che nel suo giro c’è una spia.

E la spia si chiama Ezechiele, l’altro fratello di Antonia, quello timido, quello riservato.
Quello che, morto un fratello in Galizia, l’altro emigrato in Canada, il papà che scompare e non si sa dove… è suo malgrado diventato il fratello maggiore ma non ne ha la stoffa.

Ezechiele ha bisogno di autorità.
Così come Renato ama Lenin e ama Gramsci, Ezechiele ama il Duce. Porta sempre con sé le sue immagini. Ma in segreto, nessuno lo sa. Non è mai uscito allo scoperto.
Un fascista nel cassetto.

“Io credo nel sommo Duce, creatore delle camicie nere, e in Gesù Cristo suo unico protettore. Il nostro salvatore fu concepito da buona maestra e da laborioso fabbro. Fu prode soldato, ebbe dei nemici. Discese a Roma, il terzo giorno ristabilì lo Stato. Salì all’alto ufficio. Siede alla destra del nostro Sovrano. Di là ha da venire a giudicare il comunismo. Credo nelle savie leggi. La comunione dei cittadini. La remissione delle pene. La resurrezione dell’Italia, la forza eterna, così sia.”

Obbedire al Duce!
Odiare sino all’ultimo respiro i nemici del Duce!
Smascherare i traditori!
Non venire mai a compromessi col proprio dovere di fascista!
Preferire la guerra alla pace, la morte alla resa!
Non mollare. Mai!

Ezechiele si sente parte di questa cosa. Lui ama il Duce e l’amore fa fare cose pazze, fa covare strani risentimenti.
Forse Ezechiele è geloso di Renato? Chi lo sa…
Fatto sta che alla prima occasione buona lo denuncia.

Una sera nella primavera del 1927 la Milizia fascista entra nella falegnameria di Renato. Renato è appena tornato da una sua staffetta a Milano. Cercano dappertutto. Non trovano niente. Sono furiosi. Sfondano i mobili con le asce. Nel doppiofondo di un cassettone trovano trenta copie dell’“Unità”.
Renato è nei guai. Cosa gli succederà?
Renato viene portato alla caserma dei carabinieri.
In un momento di disattenzione del carabiniere che lo ha in custodia Renato salta dalla finestra.
Nel salto si rompe una gamba.
Non importa. Corre da Don Luigi, gli racconta quello che è successo e gli dà indicazione di andare da tutti i compagni perché brucino e distruggano tutti i documenti compromettenti. Gli promette anche che non parlerà e che possono stare tranquilli.
Poi, per evitare rappresaglie alla sua famiglia, si ripresenta in caserma.

Li non trova più i carabinieri ad aspettarlo, ma la Milizia fascista. E sono incazzati, oh se sono incazzati.

Non gli va giù che Renato sia scappato così… e chissà dove è andato? E chissà cosa ha fatto?

Renato è portato al carcere di Trento dove viene interrogato. Ma non parla.
Allora viene messo in una cella di isolamento completo.
Ma ancora non parla.
Viene trasferito a Regina Coeli a Roma.
Continuano gli interrogatori, sempre più violenti.
Ma Renato non parla.
Poi arriva il letto di contenzione.

È di ferro smaltato. Freddo. Un telaio di metallo con le sponde alte venti centimetri. Il letto è bullonato sul pavimento.
Quattro fasce di cuoio orizzontali lo tengono immobilizzato. Due per le gambe e due per il petto e le braccia. La testa è libera di sbattere. Renato è completamente nudo sotto una coperta che lo copre. Un buco sul letto per defecare.
Renato non può mai alzarsi. Viene imboccato.
Per defecare e per pisciare deve fare come può.
Una volta al giorno viene lavato con la pompa d’acqua e poi lasciato lì bagnato ad asciugare.
Dopo qualche giorno così, la circolazione del sangue è bloccata. Le gambe e le braccia si gonfiano come se esplodessero. Si formano le piaghe da decubito. Dolorosissime.
Uno, due, tre, quattro giorni… una settimana, due settimane…
Lo interrogano di giorno, di notte.
Renato continua a non parlare.
Gli camminano sul corpo con gli stivali.
Gli fracassano le costole.
Renato non parla.
Quando sviene lo risvegliano con una secchiata d’acqua.
Con gli stivali gli fracassano i genitali.
Renato non parla.
Il sangue che gli esce dalla bocca lo soffoca.

Vuole morire.

– Non mollare compagno, non mollare.

Vicino ce n’è un altro come lui, che sta passando la stessa cosa.

Finché un medico del carcere, dopo tre settimane e un giorno di letto di contenzione, lo fa slegare e portare in infermeria.
L’inferno sembra passato.
Ma la condanna è dieci anni e tre mesi da scontare nel carcere di Trento.

Nel 1931 anche Libero viene arrestato.
Ma come succede…

A Trento c’è la Caproni. Una grande fabbrica di aerei con il suo aeroporto.
Libero è affascinato dagli aerei, è affascinato dagli aerei per quello che è successo a Gigio, fratello del suo amico Francesco il fruttivendolo, il capo della cooperativa.

Gigio lavora nei campi di famiglia, a circa due chilometri a nord del nuovo aeroporto Caproni. Aeroporto fascista! Voluto per facilitare i collegamenti con la Germania.
Dall’aeroporto decollano e arrivano tre volte alla settimana i Fokker F.VIII, i trimotori olandesi diretti a Monaco e a Berlino.

Tutti ne sono affascinati. Tutti a naso all’insù a vedere questi aerei rumorosissimi, traballanti, i torpedoni del cielo.

La cabina in realtà è un salottino elegante, i finestrini si possono abbassare e si può anche mettere fuori la mano. L’aereo vola basso, a non più di 1000 metri sopra il profilo delle montagne.

Signori eleganti.
Signore impellicciate.

– Mettetevi comodi, appoggiate le borse e i cappelli sulle apposite retine.

Le vibrazioni sono fortissime. Muovono il corpo.

In fondo all’aereo, dietro una tendina, c’è un foro a forma di imbuto. La toilette aperta direttamente sul vuoto. Si può guardare giù. E anche salutare.

– Ehi voi… laggiùùùùù… lavoratoriiiiii…!!!

Le vibrazioni fanno anche miracoli. Per il cambio di pressione, l’intestino si gonfia…
E così un giorno del luglio 1931 c’è il sole. La visibilità è ottima. La signora Beniamina Guidi, moglie di un noto gerarca fascista, appena imbarcata all’aeroporto di Trento, diretta a Monaco di Baviera sente il tanto sospirato stimolo. Lo aspettava da settimane. Forse da mesi. Forse lo aveva sempre aspettato. L’appuntamento con il destino.

Il fecaloma è un ammasso di feci disidratate che può diventare pesante e duro come un sasso e che non si evacua facilmente.

La signora Beniamina Guidi corre in fondo all’aereo…
Alza la gonna fascista. Abbassa la mutanda fascista. Si aggrappa alla fascista. Spinge alla fascista…

Brummmmwi wi wi wiiii…

Il rumore assordante copre ogni altro rumore.

Wi wi wiiiiii…

Miracolo!

Il fecaloma fascista si libra nell’aria… volteggia leggiadro e poi scende deciso come un dardo lanciato dal destino…

Gigio è a testa in su che guarda ammirato il Fokker.

Bum!
Morto colpito da uno stronzo.
In piena fronte. Qui.
Uno stronzo fascista.

Noi non sappiamo se questa storia è vera, ma così la racconta suo fratello Francesco, il contadino.

– Gigio è morto colpito in fronte da uno stronzo! Maledeti fascisti de merda! Ghe vorìa en rebalton!

E Libero ascolta silenzioso, e disegna. E poi più tardi, quando è solo… lancia il disegno fuori dalla finestra.

– Mmmmmmmmmmmm…

Il disegno cade in mezzo alla strada. Lo trova un carabiniere:

– … Ma è in codice…!

Non capisce.
Lo porta al suo superiore. Che pure non capisce.

Si sa, i codici sono fatti per essere svelati… e così, quattro settimane dopo, un gruppo di saggi appositamente convocati da Roma, dopo tanto lavoro, studi e ipotesi, riesce a decifrarlo.

“Ghe vorìa en rebalton.”

– Aò! Ascanio! Ma che vor’ ddì?
– Boh…?

Convocano un esperto di dialetto trentino.
E così l’arcano viene svelato. Libero arrestato e mandato al confino.

Solo che per lui il confino è il manicomio di Pergine.

Il manicomio di Pergine è come un grande centro benessere… solo un po’ più cupo… solo un po’ più piastrellato… dove nessuno sorride e chi sorride non sa perché lo sta facendo.
Sifilitici, tisici e disabili di tutti i tipi finiscono lì dentro, ma anche i depressi, gli schizofrenici…
C’è quello che urla. Quello che si spoglia. Quello che vomita.
Quello che canta e quello che sputa a tutti.
C’è chi sanguina dal naso, chi ha gli occhi fuori dalle orbite.
E chi, come Libero, sta solo a osservare.

I pazienti dormono in piccole celle, chiusi a chiave come dei carcerati.
I medici cercano di aiutarli ma in realtà non sanno cosa fare e finisce che tentano delle cure sperimentali su di loro.

L’ultima trovata è quella di indurre il coma farmacologico iniettando insulina nel corpo. Una specie di elettroshock chimico.

Il manicomio è una grande prigione, i parenti non possono entrare e nessuno sa come si stia lì dentro. Le visite si fanno nelle sale d’incontro e solo negli orari prestabiliti.

Libero disegna, documenta.

Ida Dalser. La prima moglie di Mussolini, ripudiata. Anche lei è a Pergine e parla a Libero e gli racconta la sua storia.

– Benito mi ha amata e mi ama ancora. Io sono nel suo sangue e lui è nel mio.

Benito è così tanto nel suo sangue che i due hanno anche un bambino, Benito Albino.
Un nome, una profezia, perché Albino vede poca luce, passa la maggior parte del suo tempo chiuso in manicomio.
Fino a che un giorno anche lui, come la sua mamma, muore in un manicomio di Milano, dopo l’ennesimo coma insulinico indotto dai medici.

Anche Libero rischia quella fine. Antonia però non si dà per vinta.

Renato è in carcere a Trento, e questo è già devastante, ma il fatto che Libero sia internato al manicomio di Pergine è un vero strazio.

E così scrive una lettera di grazia a Rachele Mussolini.

“Nobilissima Signora ancor prima di incominciare le chiedo perdono se oso rivolgere a lei Nobilissima Signora questa mia preghiera. Sono sicura del Suo compatimento del Suo perdono perché conosco la Sua clemenza. Il dolore mi fa ardita Nobilissima Signora e vengo a Lei colla stessa umiltà che mi prostro davanti alla Madonna…

Nobilissima Signora Voi siete una vacca e Vostro marito un maiale. Ed essendo una vacca siete anche cornuta. Questo lo so perché me lo ha detto la signora Ida.”

Queste ultime frasi non sono proprio originali. Diciamo che mi sono preso una licenza poetica.

Con Renato in carcere, per Antonia è dura.
Ma c’è la Brigata Filzi a supportarla.

La Brigata Filzi sono i compagni di Renato.

C’è Don Luigi, incazzato coi fascisti per via di quella questione dell’olio di ricino. C’è Rosario, il panettiere incazzato coi fascisti perché tutti i giorni la Milizia gli preleva la “quota pane” come contributo patriottico alla causa fascista, naturalmente senza pagarlo. C’è Francesco, il contadino molto incazzato coi fascisti per via dello stronzo fascista che gli ha ucciso il fratello. C’è il pittore Gino, che non è incazzato come gli altri ma essendo artista non vede di buon occhio la disciplina di regime. C’è anche La Giorgia, che è la più comunista di tutti perché regala compagnia e amore con generosità.

Ma non solo loro, ci sono anche: Giannantonio, il conte che soffre per il popolo che soffre. Mario, il dottore che lavora all’ospedale di Trento, il Santa Chiara, ma che di nascosto organizza cellule comuniste. E Gigino, l’uomo con due dita, le altre le ha perse per portare un messaggio segreto al grande scalatore Tita Piaz al Pordoi nell’inverno del ’27. Gli sci hanno ceduto nel mezzo di una bufera. Lo hanno trovato vivo ma congelato. Gigino è il figlio di Cesare Battisti.

La Filzi qualche volta ospita anche dei personaggi importanti che passano per il Trentino una o due volte ma lasciano il segno! Come Giuseppe Di Vittorio! Un pezzo grosso del comunismo italiano. Quella volta la Brigata Filzi ha organizzato un incontro in una cascina in mezzo ai campi assieme ad altri compagni della zona. Di Vittorio gli ha spiegato che: “Sono stato nell’URSS all’Internazionale contadina, a Parigi dove ho diretto la CGIL clandestina”.
E tutti si sono sentiti ispirati.

E poi naturalmente c’è il nostro Libero, che a quella brigata un po’ scassata ma molto ben motivata ha dato anche il nome.

La brigata si sarebbe dovuta chiamare Battisti, ma poi Libero si è opposto fieramente.

– Mmmmmmmm…

E tutti hanno capito al volo… è ovvio!
Ve lo traduco…

– Fabio Filzi è morto con Cesare Battisti, erano assieme, forse lui è morto di meno? Eppure nessuno se lo ricorda! Tutti celebrano Cesare! Gli fanno anche i monumenti! Questa ingiustizia va ripianata! Abbasso le ingiustizie!

Libero era un essere sensibile.

E così… la gloriosa Brigata viene battezzata Filzi.
Segno distintivo è il saluto segreto: “Dito dito”.

E adesso la Filzi deve trovare il modo di fare uscire Libero da quel manicomio.
La lettera di supplica che Antonia scrive a Rachele non serve a niente.
Ci pensa il dottor Mario.
Scrive una lettera ai referenti del manicomio e in copia al prefetto di Trento.

“Illustrissimi colleghi… se vorranno accordarmi l’impegno di avere in cura io il signor Libero… mio paziente da anni e profondamente bisognoso di cure specialistiche…”

Insomma, datemelo in gestione ché ci penso io.
I medici di Pergine sono ben felici di consegnare Libero al dottor Mario.
Gli risponde però il prefetto.

– Ma ha scritto “ghe vorìa en rebalton” addirittura in codice! Che la commissione per la decifrazione ci ha messo un mese!
– Ma prefetto, è solo un ragazzo un po’ speciale. Perdonatelo.
– Conosciamo la sua famiglia, sono tutti comunisti!

Interviene Gigino Battisti.

– Non vorrete prendervela con un ragazzo così dolce? Non parla con nessuno. Sta sempre solo. Non fa rumore. Non disturba. Non è violento… Disegna sempre. Che male vi può fare?

Nessuno se la sente di contraddirlo. E così, dopo quattro mesi di detenzione nel manicomio e neanche un coma insulinico, Libero torna a casa.

Grazie a Gigino ma soprattutto a Mario, che da quella volta diventa il suo migliore amico.

Antonia è sollevata. Uno è fuori.
Adesso bisogna resistere, aspettando che Renato torni a casa.

Per Antonia è dura.
È la moglie di un internato, non è facile trovare lavoro.

La madre di Gigino, Ernesta vedova Battisti, intercede e nel gennaio 1932 Antonia entra alla Michelin, la fabbrica che dal 1927 produce a Trento le carcasse dei pneumatici.
Il lavoro è semplice: si intrecciano le fibre di cotone creando una tela fitta che dà la struttura ai copertoni. L’armatura.
500 donne.
Solo donne perché gli uomini costano di più.
Lavorano a turno nell’umido. Nel calore. Nella polvere di cotone. Finissima. Devastante.
C’è chi tossisce.
C’è chi si ammala.
E c’è anche chi muore.
Molte hanno la tubercolosi. Tossiscono sangue.

– Ma non è il caso di lamentarsi. La paga è bassa ma arriva regolare e c’è anche chi sta peggio. E poi, con un po’ di attenzione… basta respirare molto lentamente, attraverso il naso, magari mettendosi un fazzoletto davanti alla bocca.

Otto ore al giorno con il fazzoletto davanti alla bocca. Al caldo.

Antonia non cede, non si deprime. Reagisce.
E tutti i giorni Vladimiro, Libero, Fortunato e lei hanno un piatto caldo di zuppa, una patata, un uovo, del pane, qualche cosa da mangiare.

E Renato?
Sono cinque anni che Renato è in carcere, torturato ma silenzioso. I fascisti non sanno più che fare con lui. Antonia ha il terrore che lo uccidano e che vengano a dirle…

– Eh… ci dispiace… ha avuto un infarto.
– Poverino, era di costituzione debole…

Ancora una volta Ernesta vedova Battisti interviene, prende carta e penna e scrive direttamente al Duce.

– Caro Benito, Renato è un bravo ragazzo. Non merita quello che gli state facendo. Chiedo che venga subitaneamente liberato.

– Questa Ernesta è una rompicoglioni! Come avrà fatto il Cesare a sposarla proprio non lo so… Gli avevo anche consigliato di non sposarla!

Eh già, il Benito la conosce di persona Ernesta vedova Battisti. Da molti anni. Da prima che Cesare fosse assassinato, quando i due uomini si frequentavano.
Insomma, il Benito non può negare un favore alla vedova dell’eroe nazionale sul quale la retorica fascista ha marciato e…

Ma viene mandato al confino.
A Lipari. Nell’inverno 1932. Lì trova altri 450 internati.

Lipari è un’isola strepitosa, una perla incastonata nel mare azzurro.
Un luogo di vacanza, di svago…
Adesso.
Ma non ai tempi del fascismo. Andare a Lipari è come essere mandati sulla luna.
Case vecchie, disastrate, igiene inesistente, locali umidi, affollamento, manca l’acqua da bere e l’acqua per lavarsi e le regole impongono che gli internati non possano mai fare il bagno in mare. Disciplina durissima.
Un villaggio turistico di quart’ordine.

Renato arriva nel bel mezzo di uno sciopero.

– In ogni istante il saluto fascista è obbligatorio. Non solo con i superiori, ma anche quando due internati si incrociano, anche quando nessun altro li vede!

La nuova regola voluta dal zelante capo di questo speciale villaggio turistico…

Ermenegildo Basso, ex tenente degli Arditi, fanatico della disciplina “credere, obbedire e combattere”.

Agli internati questa cosa del saluto proprio non va.

– Piuttosto la morte.

E così tutti quanti tutti assieme cominciano lo sciopero della fame.

– Se volete morire… tanto meglio!

Così, tutti quanti tutti assieme fermano lo sciopero della fame e iniziano quello dello scrivere.
Non scrivono più a casa. Non scrivono più agli amici. Non si fanno più sentire. Nessuno ha più notizie di loro. Sono scomparsi. Sono come morti.
450 morti a Lipari.

Le famiglie sono spaventate, vogliono notizie, mandano telegrammi direttamente al ministero degli interni.

“Da giorni non ho più notizie di mio marito. Stop. Chiedo notizie. Stop.”
“Ho spedito due telegrammi settimana scorsa ma non ho notizie. Stop. Chiedo notizie. Stop.”
“Chiedo notizie su mio marito. Stop. Da giorni non ho notizie. Stop. Questo è il terzo telegramma in tre giorni. Stop”.

Il ministro degli Interni è il Duce in persona! Che riceve giornalmente centinaia e centinaia di telegrammi preoccupati e non sa cosa rispondere! Ha altre cose a cui pensare, lui!

“Caro Benito. Stop. Sono molto preoccupata sullo stato di salute di Renato. Stop. Se non avrò notizie a brevissimo mi vedrò obbligata a recarmi a Lipari di persona per verificare. Stop.”

Il Benito non ha scelta. Prende il telefono.

– Per l’amor di Dio tenente Basso, faccia smettere questo tormento prima che le si presenti la rompicoglioni di persona!
– Chi?
– Lasci perdere…
– Li faccio fucilare?
– No. Semplicemente dismetta l’obbligo del saluto… questa sua imbecille idea che questi debbano sempre salutarsi alla fascista anche quando vanno al cesso!

Il Duce è il Duce perché è un po’ più intelligente dei suoi seguaci. Non che ci voglia molto…

– Ma sua eccellenza… mio Duce… e se lo facessimo più piccolo?
– No.
– Un salutino fascistino?
– Tenente Basso!
– Obbedisco!

E il gerarca deve cedere: gli internati non hanno più l’obbligo del saluto fascista. Una vittoria insperata.

Nel 1935 Mussolini è…
A Trento!
Piazza Duomo è addobbata come un set cinematografico.
Cartapesta dappertutto. Il colpo d’occhio è tutto. Si sa.
Mussolini era il maestro della finzione.

– Italiani! È giunta anche per noi l’ora fatale. Il regno adesso diventerà un impero coloniale! Da oggi l’Italia dichiara guerra all’Etiopia, perché anche l’Italia ha diritto al suo posto al sole.

E io mi immagino i trentini, accorsi in piazza Duomo a vedere il grande show di Mussolini, che si guardano confusi…

– Un posto al sole? Mi el go za ’n baita!

C’è un’altra vicenda che mi ha colpito molto dal racconto che mi fece Antonia.
Mussolini, si sa, era un grande viveur e dovunque lui andasse non perdeva l’occasione per organizzare qualche festino divertente. D’altronde il potere inebria, e l’inebriamento va scaricato in qualche modo.
Così quella volta a Trento chiede che gli si portino dieci ragazze tutte per lui.
Per molti uomini dieci ragazze sono tante, ma Mussolini è un tipo esuberante. Ne vuole dieci.
Non nove, non undici.
Dieci ragazze per lui posson bastare, per dire.
I fascisti locali non perdono tempo pur di soddisfare le voglie del loro Duce supremo.

– Ogni desiderio del Duce è un ordine!
– Trovate le dieci ragazze più belle della città!

Tutti nelle file fasciste si danno da fare. Il Duce va accontentato ad ogni costo!
Anche Ezechiele, il fratello di Antonia, si precipita a soddisfare i desideri del suo amato, è attivo, è zelante. Lui ci tiene al Duce… e segnala ai suoi capi che alla Portèla c’è una ragazza bellissima.

La più bella.
La Giorgia.
La Giorgia diventa una delle dieci.

Le dieci prescelte vengono portate al cospetto di Mussolini.

– Oggi avrete l’opportunità di servire l’Impero!
– Avanti ragazze, salutate degnamente sua eccellenza il nostro amatissimo Duce.

La Giorgia si rifiuta di fare il saluto fascista.
La Giorgia si rifiuta di fare molte altre cose.

Il giorno dopo il suo corpo viene trovato nell’Adigetto, il fiumiciattolo che scorre a fianco dell’Adige.

– Eh, ha avuto un infarto mentre se ne tornava a casa. Si vede che era di costituzione debole.

La morte della Giorgia non va giù alla Brigata Filzi.
Si incontrano, ne parlano. Discutono. Cosa fare?

Il giorno dopo il corpo di Ezechiele, il fratello traditore, viene trovato nell’Adigetto.
Anche lui ha avuto un infarto mentre tornava a casa.

Don Luigi durante la messa domenicale denuncia l’assassinio della Giorgia:

“La morte di questa nostra sorella e in qualche modo anche di Ezechiele è da attribuirsi direttamente a Mussolini e a quei maiali dei suoi seguaci. Il regime fascista è un regime assassino!”

La mattina dopo Don Luigi è in prefettura a staccare il suo biglietto per un altro villaggio turistico, lui va a Ustica.

Nel 1937 Renato termina la sua detenzione a Lipari e dopo esattamente dieci anni e tre mesi finalmente torna a casa da Antonia, da suo figlio Vladimiro che ormai è un giovanotto, da Libero e dai suoi compagni della Filzi.

Vladimiro non sta bene.
È sempre ammalato. Febbriciattole che vanno e vengono. Senso di stanchezza.
Forse è il cibo che scarseggia e quel poco che c’è è pessimo. Polenta, patate, qualche verdura. Qualche uovo. Quasi mai carne. Tutto costa. Non ci sono i soldi per niente.

Antonia ha sempre fatto del suo meglio per portare a casa la pagnotta ma quello che può non è molto.

– Renato… basta!… basta comunismo. Hai un figlio. Prenditi le tue responsabilità. Devi lavorare. Portare a casa un po’ di soldi. Consunzione, la chiama il dottor Mario. Un giovanotto come Vladimiro, nel pieno dell’esuberanza fisica, deve mangiare di più e mangiare meglio.

Mario si attiva e dall’ospedale tutti i giorni gli porta qualche cosa, nascosto dentro la sua gavetta di latta.
Un pezzo di carne, pane, formaggio, latte fresco. Non molto, ma almeno si può cercare di sopravvivere così.

A volte Mario si porta dietro la Tina.

La Tina è una infermierina tutta piccolina, dai capelli neri. Non è bellissima. Ha un grosso naso, le sopracciglia nerissime che si congiungono… un po’ di strabismo di Venere, una leggera scoliosi, le orecchie a sventola, i dentoni che vengono fuori… è proprio brutta. Ma ha gli occhi buoni e si sa che al cuor non si comanda e a Libero piace… ohhhh se gli piace!

La copre di disegni.

Se si pensa che i fascisti siano cattivi…
Allora non si conoscono i nazisti.

In Germania già dal 1933 si è cominciato sistematicamente a sterilizzare i disabili.
Adesso con il progetto Aktion T4 si procede direttamente alla soppressione dei più deboli.
Sono le prove generali di quello che poi succederà agli ebrei.

In Italia Mussolini è passato dall’essere l’ispirazione di Hitler all’ispirato.
Nel ’38 Mussolini emana le leggi razziali e Antonia trema al pensiero che il prossimo passo di questa bestialità possa essere una Operazione T4 a modo nos…

– …Libero è già schedato, è stato al manicomio di Pergine. Lo possono venire a prendere in ogni istante.

Il dottor Mario e Tina si danno da fare per contattare i medici di Pergine, che facciano sparire i referti e i documenti relativi a Libero.
E forse è per questo che Libero sopravvive.

Ma poi succede l’altra catastrofe.
Quella grande.
Quella mondiale.

Quella che fa sembrare Mussolini un dilettante in confronto a Hitler.

La Germania annette l’Austria, invade la Cecoslovacchia, aggredisce la Polonia, occupa la Danimarca e la Norvegia, fa irruzione nei Paesi Bassi e nel Belgio. Si mangia l’esercito francese.

L’Italia parte per l’Africa… Albania, Grecia… la Russia…
Fuoco, fuoco dappertutto.

E le scarpe di cartone.
E i moschetti della Prima Guerra Mondiale.
E i comandanti inetti.
E la fame.
E la paura.
E la rabbia.

Ma la vita procede.
La guerra è dappertutto ma Trento sembra essere immune.

Libero passa le sue giornate facendo il giro della Portèla, disegnando con il pittore Gino.
Aspettando le visite di Tina, l’infermierina.
Finché Fortunato, il padre di Antonia e di Libero, muore nel 1941. Se ne va come aveva vissuto.
Scomparendo così, nel nulla.
Non si parla più di antifascismo.
Si comincia a parlare di Resistenza.
Tutti sono impegnati a sopravvivere. Tutto manca. Anche i generi fondamentali.
Il sapone per lavare gli indumenti è razionato. Arriva da Milano una volta ogni quindici giorni. Quando va bene.
Il sale, lo zucchero, l’olio, il caffè sono ormai beni di lusso.

Ma la Brigata Filzi non molla. Continua a incontrarsi ogni settimana, per parlare di quello che sta succedendo, si criticano le direttive della guerra, si analizzano gli errori commessi e si beve un bicchiere di vino assieme, per tenere vivo lo spirito di essere compagni.
Il dottor Mario e il conte Giannantonio sono i più attivi.

Mario viene così spesso a casa di Antonia e Renato che ha una stanza tutta per sé. Ha un letto e le chiavi per entrare e uscire quando vuole. E ogni tanto Mario si apparta, pensa di non essere notato.
Ma Libero vede tutto…

Mario si brucia il braccio con una candela.
Si buca la coscia con un ago.

“Mi alleno per quando mi prenderanno. Sarà dura”.

Antonia ormai non lavora più alla Michelin. L’hanno licenziata per esubero di dipendenti.
Vladimiro è un giovanotto ma continua a essere molto debole, ad avere bisogno dell’aiuto del dottor Mario che di tanto in tanto gli porta qualche ricostituente dall’ospedale, del cibo.
Viene anche chiamato alle armi ma Mario lo fa ricoverare in ospedale e poi esonerare.

E Libero disegna. Disegna per Tina. È proprio innamorato. Un amore fortissimo.
Tina la buona. Tina che aiuta i malati.
Tina che è bruttina… e mai nessuno la vorrà… ma che invece a Libero piace.
E Tina lo sa, e viene tutti i giorni a trovarlo. Quando ha il tempo. Lavora alla Cassa Malati, una specie di guardia medica che è proprio sotto la casa di Libero.
I due non si parlano.

Fanno “dito dito”.

Tina prende i disegni che Libero le ha fatto.
Saluta e poi esce.

Così. Fino al 25 luglio 1943 quando il Gran consiglio fascista, su volere del re, depone Mussolini, lo fa incarcerare al Gran Sasso e consegna il governo nelle mani del generale Badoglio che dichiara: “La guerra continua a fianco dei tedeschi”.

Giovedì 2 settembre 1943.
Una giornata limpidissima.
Da stamattina che Libero fa “mmmmmmmm”…

Alle 11.56 suona l’allarme. La sirena emette tre suoni e poi pausa. Poi altri tre suoni.
È quasi l’ora di pranzo.
Nel quartiere della Portèla, nell’edificio della Cassa Malati gli ambulatori sono aperti.
C’è tanta gente. Lì c’è anche Tina.
Il dottor Mario invece è al Santa Chiara.

Le sirene sono fortissime, lacerano i timpani.

Altre volte si erano sentite… ma non era mai successo niente.

Non ci sono obiettivi strategici a Trento, se non lo scalo ferroviario.
Ogni notte passano i convogli tedeschi carichi di soldati e di mezzi militari, cannoni, ben sistemati sotto teli maculati di verde e giallo e marrone che li nascondono.
Mimetizzati.

– I tedeschi sono maestri nell’arte del camuffaggio.
– Evidentemente non tanto. Tutti lo sanno che lì sotto ci sono i cannoni! Figurati se non lo sanno anche gli americani.
– Ma Trento è protetta dalle montagne, le fortezze volanti certamente non possono piombare sulla città!
– Ci sono i vuoti d’aria…

Almeno così si dice, anche se nessuno sa bene cosa siano.

Alle 11.56 suonano le sirene.
Libero, dopo 5 ore e 36 minuti smette di disegnare.

– Mmmmmmmmm….

Arrivano gli aerei.
Si vedono benissimo.
Sono bassi.
Sono americani.
Sono i B17, le fortezze volanti.
Novantuno B17.
Partiti dalla Tunisia.
Hanno volato tutto il tempo a 10.000 piedi, a tre chilometri giusti giusti.
Sono passati sopra Livorno.
Si sono scontrati con dieci caccia tedeschi ma i B17 non si chiamano Fortezze volanti per niente: ogni aereo ha 13 cannoncini di grosso calibro.
I caccia tedeschi vengono abbattuti tutti.
I B17 arrivano sopra la valle dell’Adige.

Eccoli.
Adesso sono sopra Trento.
364 motori spinti al massimo.

– Mmmmmmmm…..

Adesso Antonia capisce cosa stava facendo Libero dalla mattina. Da ieri al mercato. Lui aveva già visto tutto.

Lunghe scie di fumo.
Adrenalina.
Impressionante.
Terrificante.
La grande stella a cinque punte bianca è sulle carlinghe, sulle fusoliere.
218 tonnellate di bombe di demolizione lanciate dalle 91 Fortezze volanti.
L’obiettivo è la ferrovia.
Ma sbagliano mira.
Colpiscono la Portèla.
Il quartiere povero, antico, umido e muffoso.
I poveracci sono sempre quelli che ci rimettono.
In tre minuti è tutto finito.
Prima c’è l’onda d’urto.
Lo spostamento dell’aria così forte che ti strappa i vestiti.
Uomini e donne sono spogliati in un istante.
Poi il caldo. Sempre più forte. Insopportabile. Che scioglie il vetro.
Poi le esplosioni. Le schegge come pugni di acciaio, di ferro, di roccia.
Strappano mani, braccia, gambe, occhi, denti, teste.
Poi i crolli. Putrelle, tronchi di legno come stuzzicadenti, pareti che si schiantano.
Pavimenti che cedono.

Il pittore Gino è in strada.
Qualcuno gli urla:

– Gino, buttati giù! Nasconditi per Dio!

Ma Gino è un artista, è affascinato da quegli aerei e li sta a guardare.
Curioso come un bambino.

Un pugno d’acciaio lo colpisce alla schiena e per lui non c’è speranza.

Un bambino corre per la strada. Terrorizzato.
Nel buio del fumo, nel calore delle bombe non si accorge che c’è un cratere di fronte a lui.
Ci cade dentro.
La parete di una casa lo ricopre.

È vivo, urla.

Nessuno lo sente.
Lo ritroveranno cinque mesi dopo, morto.

Altri sono nel rifugio sotto la Cassa Malati. Sono decine.
Donne e bambini. E qualche uomo.

Sono al sicuro.

Ma l’edificio che sta sopra crolla e blocca l’uscita.
Un tubo dell’acqua si rompe.
Nessuno all’acquedotto ha pensato di fermare il flusso.
L’acqua nel rifugio comincia a salire.
Gli uomini si lanciano verso l’uscita. Con le mani cercano di togliere i detriti.
Ma c’è un edificio di cinque piani crollato sopra di loro.
L’acqua continua a crescere.
Lentamente.
Muoiono tutti annegati.

Tina è fra di loro.

I soccorsi sono subito disperati.
Molti scavano con le mani perché non ci sono neanche i badili.
Grida di chi sta sotto le macerie.
Sepolti vivi.
Forte odore di sangue e di terra.
Di zolfo come se bruciassero milioni di fiammiferi.
Di calcinacci.
Di carne bruciata.
Un uomo senza braccia.
Il corpo di un uomo decapitato.
Bambini senza mamma. Mamme senza bambini.
I morti sono centinaia.

I feriti vengono subito portati all’ospedale Santa Chiara.
Mario coordina il pronto soccorso.
Ma Tina non c’è.
E Libero lo sa e piange. Silenziosamente.

Antonia è lì. Gli è rimasta vicino per tutto il tempo. Finito il bombardamento Libero appoggia i fogli per terra, si gira e la abbraccia. Per la prima volta Libero riesce ad abbracciare qualcuno senza scappare. Senza urlare. E quel qualcuno è sua sorella, Antonia.

Antonia mi raccontò che Libero a questo punto è come paralizzato.
Immobile.
Non si muove.
Mangia sì.
Si addormenta.

Ma poi appena si sveglia sta alla finestra.
A guardare.
Guarda fuori verso la Cassa Malati che ormai è distrutta.
E non disegna.
Non disegna più.

Un giorno.

Viene anche il dottor Mario a visitarlo.

Due giorni.

Vengono Rosario il panettiere e Francesco il verduraio.

Tre giorni.

Renato è molto preoccupato. Il conte Giannantonio viene a salutarlo.

Quattro giorni.

Antonia non sa cosa fare.

Cinque giorni.

Libero non si muove.

Sei giorni.

Libero è sempre lì. Anche Vladimiro cerca di convincerlo a uscire da quello strano stato paralizzato.
Libero ha una crisi nervosa.
Si batte i pugni in testa. Rotola sul pavimento.

Arriva l’8 settembre.

L’Italia firma l’armistizio.
I tedeschi diventano ufficialmente i nemici.
Occupano la città uccidendo chiunque intralci il loro cammino.

Quella notte Antonia sente la porta di casa che si apre e si chiude.
È Libero che è uscito lasciando un foglio, un nuovo disegno sul tavolo della cucina.

Antonia si alza.
Guarda dalla finestra.
Nell’oscurità.

Un’ombra.
Un fantasma che sembra danzare.
È Libero?
Cosa ha in braccio?
Un cane?
Un bambino?

Alle due e cinque minuti del mattino del 9 settembre 1943 Libero, all’età di 33 anni, viene colpito a sangue dalle mitraglie delle SS.

Qui la nostra storia in realtà sarebbe finita.
Ormai Libero non c’è più.
Ma rimane il suo ultimo disegno.
È un disegno, per molti versi, misterioso.

Dopo l’8 settembre, Vladimiro si unisce alle Fiamme Verdi, una formazione di giovani partigiani con a capo il conte Giannantonio.
Le Fiamme Verdi sono molto attive e creano non pochi problemi ai tedeschi, con opere di sabotaggio, con attacchi a gruppi di soldati.
Ma non durano tanto. Sono annientate quando uno di loro, un bastardo, un figlio di puttana, un cane, un maiale di nome Fiore li denuncia alle SS.

Vladimiro e il conte Giannantonio sono arrestati il 28 giugno 1944. Sono portati alla sede della Gestapo di Bolzano.
Vladimiro si rifiuta di fare i nomi dei compagni, si scaglia contro le due SS che lo stanno interrogando e queste gli sparano a bruciapelo. Lui non era una pedina importante.

Il conte, invece, lui va tenuto in vita. Conosce tutto. Conosce i nomi di tutti. E le SS lo interrogano dolcemente. Non parla. Lo torturano. Non parla. Alle otto della mattina del 6 luglio il conte si trova da solo per qualche minuto con l’interprete. Si guardano così, senza dire una parola. Poi la porta si apre ma nessuno entra. L’interprete esce a vedere che cosa sia.

Quando rientra vede il conte fuori dalla finestra, aggrappato al davanzale…

– Guarda cosa ti sto facendo.

L’interprete si precipita per afferrarlo… ma Giannantonio lascia la presa, cade nel vuoto. La morte è istantanea. Il conte non ha parlato.

Antonia e Renato non si sono più ripresi da tutti questi lutti.
Il ventennio fascista e la guerra sono stati per loro una sofferenza infinita. Una tortura indicibile.

E il dottor Mario?

Per lui è impossibile stare ancora all’ospedale. Troppi sanno che lui ha curato così tanti partigiani e soldati italiani dopo l’8 settembre, ha operato clandestinamente.
Scappa. Si rifugia sulle montagne di Belluno. Partecipa ad azioni di sabotaggio. Diventa un capo partigiano. Si fa chiamare Montagna.

Ma anche lui è vittima di una spia, Carlo, nome di battaglia Kingo…

– Dove sono i vostri compagni, dottore?

Calci.
Pugni.
Nerbate.

– Dove sono i vostri compagni, dottore?

Cavi elettrici alle tempie, alle orecchie, alle dita collegati a un elettrogeneratore.
Scosse elettriche fortissime.
Altre nerbate.

Montagna è preparato, si era bruciato le braccia con il fuoco delle candele, si era spento le sigarette sul dorso delle mani, si era piantato gli aghi nelle cosce… ma quello che gli fanno va oltre, è molto di più.

Fili elettrici applicati ai genitali.

– Dove sono i vostro compagni, dottore?

Scosse elettriche.
Sputi.
Colpi alla nuca con il calcio del fucile.
Altre scosse, più potenti, ai genitali.

– Dove sono i vostro compagni, dottore?

Con una pinza gli sollevano le unghie delle dita. Una alla volta gliele strappano.
E poi passano a quelle dei piedi.
Montagna sviene. Un secchio di acqua ghiacciata lo risveglia.

– Dove sono i vostro compagni, dottore?

Con un ferro rovente gli bruciano la pianta dei piedi.
Con un trapano gli bucano il ginocchio.
Altre secchiate di acqua gelida e poi avanti a spingere la punta del trapano dentro il ginocchio.

– Dove sono i vostri compagni, dottore?

Il sangue lo soffoca. Gli danno dell’aceto.

– Parla e ti liberiamo.

Il 10 marzo 1945 Montagna viene impiccato con altri nove compagni nel Bosco dei castagni, sopra Belluno.
Li impiccano con il filo spinato.
Li lasciano morire così e i cadaveri rimangono appesi per due giorni.
Li trovano i compagni partigiani quando i tedeschi ormai si sono già ritirati.

I contadini dalle case vicine portano i loro abiti più belli per vestire i corpi.

Onore ai morti.

Sul muro nascosto dal pagliericcio dove aspettava l’esecuzione, Mario ha scritto col sangue: “Io muoio, ma voi ricordate di non tradire i vostri compagni. Montagna”.

È difficile da credere ma questa scena è esattamente l’ultimo disegno di Libero.

Oggi nell’ospedale Santa Chiara di Trento c’è una lapide che dice:

“In questo asilo di scienza e di vita
Apostolo e soccorritore
Nella lotta per la libertà
Organizzatore e combattente
Mario Pasi
Con la fede con le opere con la morte
Testimoniò dal capestro nazista
In Belluno addì 10 marzo 1945
La indomabile forza e la certa vittoria
Del popolo lavoratore”.

 

Fine.