L’indispensabile
Capitolo Uno

di Davide Pachera e Clara Mori

© 2021. Tutti i diritti sono riservati

 

 

Sulla scena buia, un tavolo con quattro sedie rovesciate sistemate sopra. Il tutto coperto da un telo bianco.
Sotto la tavola, seduto e accovacciato, Davide.
Luce.
Davide accarezza lentamente un lembo del telo, esce da sotto e si alza. Toglie il telo con un gesto deciso, scoprendo il tavolo e le sedie.
Al centro della tavola, c’è un mammut di piccole dimensioni.

 


PRIMA TRACCIA AUDIO


Durante la trasmissione di questa traccia, Davide sistema le quattro sedie attorno alla tavola. Usa lo stesso telo come tovaglia e inizia ad apparecchiare aggiungendo coltello, forchetta, piatto, tovagliolo e bicchiere per ciascun posto, mentre il piccolo mammut rimane dov’è.

AUDIO ~ (voce registrata di Davide, come se ripassasse il testo che legge) «Il seguente questionario è anonimo: non verranno fatti nomi e cognomi.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista verrà registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari.
L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere utilizzati all’interno di una restituzione performativa.
Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere… Il seguente questionario è anonimo… Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi…
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista verrà registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari… qualsiasi domanda a cui tu… NO.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista POTRÀ essere registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari. L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere utilizzati all’interno di una restituzione performativa. Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere. Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista POTRÀ essere registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari. L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere registrati… potranno essere utilizzati! … all’interno di una restituzione performativa. Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista»…

A questo punto, Davide ha terminato di apparecchiare la tavola ed è seduto su una delle sedie a destra del tavolo. La traccia registrata prosegue.

«Prima domanda: prima di rispondere a questa domanda ti chiedo di contare 5 secondi, e poi rispondi. Come stai?
Seconda domanda: prima di rispondere a questa domanda ti chiedo di contare 10 secondi, e poi rispondi. Come stai?
Terza domanda: prima di rispondere a questa domanda ti chiedo di contare 20 secondi, e poi rispondi. Come stai?».

DAVIDE ~ (rivolgendosi al mammut) Io ho sempre fatto fatica a capire le persone, tanta fatica. Perché credo che le persone non si comportino mai come vorrebbero realmente comportarsi: non sembrano mai riuscire a dire quello che veramente vorrebbero dire, non sembrano mai riuscire a essere pienamente se stesse.
Possibile che mi ritrovi sempre in queste situazioni in cui nessuno capisce quello che voglio dire? Possibile che tutti gli altri abbiano un problema con me? No! Evidentemente sono io che ho un problema con tutti gli altri. (Si alza e comincia a sparecchiare la tavola nell’ordine con cui l’aveva preparata: togliendo bicchieri, tovaglioli, piatti, forchette e coltelli; ma prima di togliere l’ultimo coltello, ricomincerà in senso inverso la stessa sequenza di azioni apparecchiando di nuovo come all’inizio. Sempre così, sino alla fine della scena) Per questo faccio fatica. Perdo interesse. Mi stanca. Le persone ubriache non mi stancano. Le persone ubriache sembrano sempre riuscire a dire tutto quello che vogliono dire. Sembrano sempre riuscire ad essere pienamente se stesse: senza filtri.
Come quando la gente ti chiede «come stai?», che è una di quelle domande che tutti fanno sempre a tutti incondizionatamente, ma nessuno sembra ascoltare mai veramente la risposta. Appena uno inizia a raccontarti veramente come sta, la gente si perde; tante persone. Lo vedi negli occhi. Si stancano.
E quando vedi la nebbia, allora che fai? Che dici?: «Come stai?… Bene grazie, tu come stai? Bene, grazie, bene, grazie… Come stai? Bene tutto bene grazie… Oh quanto tempo come stai? Bene, tu? Tutto bene grazie… Bene grazie. Bene grazie. Grazie. Bene…». Se non voglio sapere come sta una persona non glielo chiedo.
Per questo faccio fatica, per questo ho sempre fatto tanta fatica a capire le persone, anche da piccolo facevo fatica a capire gli altri bambini, facevo fatica a capire mia sorella.
Mia sorella pelava i würstel quando era piccola, quella pellicina che ricopre i würstel, a lei non piaceva e quindi insisteva a toglierla. Noi glielo dicevamo sempre: «I würstel non si pelano». Ma a lei quella parte del würstel non piaceva e quindi la toglieva.
— (Ricorda testimonianze di persone diverse) Io i würstel non li prendo più. I würstel, quelli di carne, non li vendo. Ho visto un documentario in televisione: mettono dentro a un grande macinatore, enorme, la carne, la pelle, le ossa, gli zoccoli, tutto. E poi ci fanno mangiare i würstel. C’era una amica mia e questa veniva sempre in negozio e comprava i würstel. «No non ce li ho i würstel». «Oddio Marco mangia solo i würstel». Marco aveva quattro anni. «Senti» – gli ho detto – «non glieli dare i würstel a Marco, c’ha 4 anni, sta venendo su adesso, compragli un po’ de macinato gli fai gli hamburger e gli dai quelli». A tuo figlio non lo puoi fare crescere con ’sta roba.
Io non li ho più venduti.
Sono una cattiva commerciante? No, penso di essere una che fa anche il loro benessere. Rinuncio a vendere e non me ne può fregar de meno. Però i bambini crescono meglio; poi se gli vuoi dare le schifezze, dagliele, valle a comprare da un’altra parte.
Penso di essere giusta. Sono mamma pure io. Fatta male però sono mamma.
Quando mi diceva sono per Marco me veniva su… mi dava fastidio, mangiali tu! Che hai quarant’anni, che già sei passata… lui è piccolo sta a cresce. È giusto? Che gli diamo a ’sti ragazzini, questi che stanno a crescere adesso, che mangiano?
— (Continua ricordando altre testimonianze) Io da ragazzino ho mangiato una “ciunga”, una di quelle “ciunghe” dure e rafferme che trovi sotto i banchi della scuola che non sai mai chi possa averle masticate e appiccicate lì sotto.
L’ho mangiata per scommessa, per poter giocare con gli altri bambini.
Da bambino ero molto esile, molto molto magro. Ero trasparente, i miei genitori preoccupati dal fatto che non mangiassi a sufficienza avevano lasciato detto alle insegnanti di costringermi a mangiare. Quindi, stiamo parlando degli anni Settanta, le mense scolastiche erano un disastro. C’erano delle cose che mi facevano rabbrividire. Io ho scoperto molti anni dopo che la mozzarella è bianca. Avevo trovato questo sistema di lanciare le fettine di salame come dei frisbee sotto il tavolo. Gli spinaci, si lanciavano con la forchetta sul soffitto, si appiccicavano sul soffitto e rimanevano lì, appiccicati al soffitto. Il fatto che rimanessero appiccicati al soffitto ti dà un’idea di quello che avevi nel piatto. Finito di mangiare tutti gli altri bambini andavano fuori per il momento ricreativo. Succedeva spesso che io rimanevo seduto a tavola a mensa con la maestra davanti a questi piatti che io… mi si chiudeva la glottide. Non riuscivo a masticare.
— (Ancora come sopra) Ho questi ricordi di io che piango e piango e piango e della maestra che mi mette a forza la roba in bocca.
Ho questi ricordi di io, da bambina, seduta a tavola che piango e piango e piango e di mio padre che si sfila la cintura e inizia a picchiarmi, per farmi riuscire a mangiare quella fettina di carne che avevo nel piatto.
Qual era la domanda? … Come stai.

La tavola ora è rimasta vuota, coperta solo dal telo bianco. Il mammut è sempre al centro.

 


SECONDA TRACCIA AUDIO


Davide si siede su una delle sedie e ascolta le voci registrate, che sono quelle di alcune persone incontrate.

AUDIO ~ «Bene, sono passati 5 secondi?» – «Sì, più o meno» – «Stanca, anche prima dei 5 secondi, un po’ stanca» – «Sempre bene, a parte quello che ci circonda io sto bene» – «Ok» – «No tutto sommato… bene» – «Un po’ stanco» – «E quindi così… come sto? Bene, scossa» – «Decisamente bene» – «È facilissimo dirti come sto, sto malissimo. È banale, mi sono vinta da qualche giorno la seconda recidiva di una pericardite» – «Bene, abbastanza bene fisicamente» – «Bene, mi sento anche un po’ in colpa, del fatto che mi sento bene» – «Un po’ sospesa» – «Direi che ci sono due sensazioni parallele» – «Leggero» – «… Una sorta di espiazione» – «Bene non sto, male non sto» – «Anche storicamente, in questo momento, come ti permetti di stare bene?» – «Abbastanza bene» – «Sempre abbastanza bene» – «Ho avuto tempi migliori» – «Compatibilmente con… bene» – «Sto bene, mi manca moltissimo il contatto con la natura» – «Io sto bene» – «Super operativa» – «Mi hai beccato in un momento in cui, diversamente dopo 20 secondi avrei pianto» – «Tutto sommato, bene» – «Non devo pensare ai miei timori, a quello che sarà» – «Devo stare molto sul qui e ora» – «Bene» – «In questo momento non è proprio un bel periodo» – «Sono passati 5 secondi?» – «Molto stanco» – «Bene» – «Bene» – «Bene».

DAVIDE ~ Una cosa che ho notato è che tanta gente non riesce a sopportare il silenzio, non ce la fa. Quando chiedi alla gente di contare 5, 10, 15, 20 secondi in silenzio. Nonostante siano di fronte ad un’altra persona in carne ed ossa, è come se in quei 20 secondi venissero catapultate in una dimensione altra in cui sono completamente sole con se stesse. Quando chiedo «come stai?» alle persone, mi capita di sentirmi più solo, quando chiedo alla gente «qual è l'ultima cosa che hai mangiato?» o «quante volte mangi al giorno? Quanto tempo dedichi ogni giorno per mangiare?». (Prosegue rivolgendosi alle persone del pubblico; ogni tanto la memoria delle domande pare incerta) Ti piace cucinare? Quante volte cucini in un giorno? Preferisci cucinare per te stesso o per qualcun altro? Chi ti ha insegnato a cucinare? Il piatto che preferisci cucinare? Ti piace mangiare? Cosa ti piace del mangiare? Con chi mangi più spesso? Cosa mangi al mattino? A pranzo? A cena? Come prendi il caffè? Cosa vorresti mangiare il giorno del tuo compleanno? Qual è la prima cosa che ricordi di aver mangiato? Un cibo che descrive o che ti ricorda la tua infanzia? Un cibo che ti ricorda un posto a cui sei legato? Un cibo che ti ricorda una persona a cui sei legato? Pensi che potresti essere in grado di rubare del cibo a qualcuno? Hai mai buttato via del cibo? Hai mai lasciato del cibo nel piatto? Che cos’è la fame? Hai mai sofferto la fame? Conosci qualcuno che ha sofferto la fame? Di che cosa ha fame la gente al giorno d’oggi?

 


TERZA TRACCIA AUDIO


Davide si rifugia sotto la tavola, accovacciato come all’inizio dello spettacolo.

AUDIO ~ (voci registrate di lui in una sorta di botta e risposta con se stesso) «Mi stanno uscendo dalle orecchie ’ste domande» – «Se vuoi ci facciamo una pausa» – «Eeehm di cosa ha fame la gente al giorno d’oggi. Non lo so di che cosa ha fame la gente al giorno d’oggi, non ne ho idea» – «E tu invece? Di cosa hai fame?… che è un po’ dire… Di cosa hai voglia, la tua necessità. (Pausa) Stai pure comodo» – «… No di “responsabilità”… di…?» – (Nel mentre) «Che cos’è l’intelligenza?» – (Fermo sul punto precedente) «… Di?… quando qualcuno ti dà da fare qualcosa, perché si fida di te, come si chiama?» – «Di responsabilità» – «Di…?» – «Di responsabilità» – «… Di “affidabilità”, ho fame di affidabilità» – «Nei tuoi confronti?» – «… L’altra domanda era?» – «Che cos’è l’intelligenza» – «L’intelligenza! Quasi le so a memoria ormai. Perché le ho fatte? Perché ho messo questa domanda nel questionario ancora me lo chiedo. Perché poi tu mi chiederai: “Cos’ha a che fare il cibo con l’intelligenza?”. O forse no, forse l’ho tolta» – «No, c’è» – «Perché quando ho scritto queste domande ero un po’ supponente» – «Cos’ha a che fare il cibo con l’intelligenza?» – «Non l’ho tolta però» – «Quindi vuol dire che alla fine ci stava» – «Se potessi condividere un pasto per rimediare ad uno sbaglio che hai fatto, per chi e cosa sceglieresti?» – «Questa va scritta meglio però perché non è chiara. Cioè non è che stai chie… sto… stai chiedendo…» – «Ok» – «Cioè devi fargliela in modo che ti riportino un ricordo perché così sembra che debbano inventarsi una situazione» – «Hai mai rimediato ad uno sbaglio che hai fatto?» – «Hai mai cucinato qualcosa per rimediare ad un torto che hai fatto?» – «Se sì, chi ti viene in mente e cosa?» – «Se potessi condividere un pasto con qualcuno che non c’è più, chi e cosa sceglieresti?».

Davide ora è sdraiato, allunga la mano e stacca da sotto la tavola una “ciunga” che mette in bocca e mastica per qualche secondo, riappiccicandola poi dove l’aveva trovata.

«Mia nonna, le chiederei di insegnarmi a fare gli gnocchi che faceva e li cucinerei con lei» – «È morta?» – «Sì, è morta. Li mangerei con lei» – «Dai, ultima domanda. Ci sei?» – «Una zuppa con mio nonno paterno, che ogni volta che mangiava la zuppa faceva (il rumore di quando si succhia la minestra dal cucchiaio)» – «Qual è l’ultima cosa che vorresti mangiare l’ultimo giorno della tua vita, prima di morire, dove? E con chi?» – «Il pranzo del condannato» – «No, non ho sentito» – «Il pasto del condannato» – «Ah, il pasto del condannato» – «Puoi scegliere qualsiasi cosa» – «Niente» – «Niente? Vai via senza mangiare niente prima di morire? Puoi scegliere qualsiasi cosa» – «Non mangerei niente» – «Perché?» – «È l’ultimo giorno, l’ultimo momento, cioè, qualsiasi cosa mangi ti rimarrà nello stomaco. È come portarsi dietro un amuleto qualcosa che ha un significato, no? Ci sono stati dei mammut che sono rimasti congelati ancora con l’ultima cosa che avevano mangiato. Cioè, se pensi, mi ritrovano tra duemila anni, con cosa nello stomaco? Niente. Quello che è andato, è andato».

DAVIDE ~ (accarezza lentamente un lembo del telo. Esce da sotto il tavolo, si alza e continua a toccare il telo per poi ricordare) Mia nonna aveva una tovaglia esattamente come questa, tutta ricamata, rotonda, tutta colorata.
La si tirava fuori solo una, forse due volte all’anno, quando mia nonna preparava il baccalà. Tre giorni per preparare il baccalà.
Erano quelle poche volte in cui tutta la famiglia si riuniva attorno ad un tavolo. Due tavoli. Sì, si preparavano sempre due tavole: una tavola qui per i bambini e un’altra tavola per gli adulti dall’altra parte della stanza. Al tavolo degli adulti si beveva il vino, il caffè e la grappa e si giocava a carte. Al tavolo dei più piccoli invece si beveva la Fanta, la Coca-Cola, la cedrata, il tè freddo. Qui sedeva mia sorella e qui mio cugino più piccolo. Qui stava seduto mio cugino più grande Luca e qui io, avevamo la stessa età io e Luca.
Mia nonna un giorno si girò dall’altro tavolo e disse: «Luca! Tu ormai sei grande, vieni a berti un bicchiere di vino». Ma io e Luca avevamo la stessa età.
«Ormai sei grande, beviti un bicchiere di vino» diceva sempre mia nonna.
Mia nonna diceva sempre: «Sei magro! Hai mangiato?» chiedeva sempre.
Mia nonna diceva sempre: «Le bucce delle patate» – quando quel soldato era entrato in casa e si era messo a rovistare nella spazzatura per trovare qualcosa da mangiare – «le bucce delle patate».
Mia nonna diceva sempre: «Cuociti!». Stava seduta sulla sedia davanti ai fornelli e guardava la pentola, parlava con la pentola, diceva: «E adesso cuociti!».
«Vado a dormire» quando in casa restavano solo due uova. «Sono stanca, vado a dormire» lei le preparava per le sue due figlie e per non dividerle in tre diceva: «Sono stanca, vado a dormire».
— (Continuando ad aggiungere ricordi di altre persone) Mia nonna diceva sempre: «State attente, bambine», quando infilava me e mia sorella nel forno spento per prendere il pane caldo appena tostato, «state attente».
«Salta!» diceva sempre mia nonna. Spostava tutti mobili del salotto per fare più spazio possibile, metteva su un vinile dei Ricchi e Poveri e poi mi faceva ballare, mi faceva saltare. «Salta!» – diceva sempre – «Salta!».
«Queste sono cose che succedono alle persone vive» diceva sempre mia nonna, quando uno si arrabbia, quando due persone litigano, quando uno piange lei diceva: «Queste sono cose che succedono alle persone vive».
«Ormai sei grande, beviti un bicchiere di vino» – «Le bucce delle patate» – «State attente» – «Sono stanca, vado a dormire» – «Quando uno si arrabbia quando uno piange» – «E adesso cuociti» – «Ormai sei grande» – «Salta!» – «Qui c’era il tavolo!».
Mia nonna diceva sempre: «Qui c’era il tavolo».
«Sì» dico io. «Qui c’era il tavolo verde, un tavolo semplice rettangolare di legno scuro, un tavolo troppo grande per una casa così piccola».
«La casa è piccola» dice lei.
«Sì» dico io. «La casa è piccola ed è vecchia, è vecchia quanto te, i tuoi genitori, i tuoi figli e i tuoi nipoti tutti messi insieme» dico io.
«Qui c’era il tavolo» dice lei.
«Sì, qui c’era il tavolo verde» – dico io – «e qui c’era la cucina. Poche cose e ogni cosa al suo posto. Qui il salotto. Qui il bagno, sempre freddo e qui la camera da letto, le imposte sempre chiuse, il lettone grande e i cuscini pesanti».
«Qui c’era il tavolo» dice lei.
«Sì, qui c’era il tavolo verde» dico io. «Qui il camino e qui le finestre, i vetri opachi e il pavimento che scricchiolava, qui la scala per la soffitta dove non si doveva andare mai, qui l’armadietto chiuso a chiave e la credenza con le tazzine mai usate, l’orologio indietro di tre minuti, qui la cassapanca, qui le poltrone, qui la sedia rotta, lasciata rotta accanto al muro. E qui il tavolo verde, un tavolo semplice, rettangolare, di legno scuro senza sedie attorno, nella stanza grande» dico io.
Lei non dice più niente. Lei cammina, cammina e guarda la casa dove ormai non c’è più niente. Intanto il pavimento scricchiola e i vetri restano opachi. Lei si ferma, si guarda intorno nella stanza grande. Lei si ferma lì dove una volta c’era il tavolo verde. Si accarezza le mani. Si frega le mani quasi avesse prurito alle mani. Mani piene di nodi.
Lei ormai non dice più niente.
Nella stanza grande, sul tavolo verde, si mettevano le olive quando si raccoglievano le olive, si mettevano le mele quando si raccoglievano le mele, si mettevano le patate quando non si sapeva più dove mettere le patate. Sul tavolo verde, nella stanza grande, mia nonna faceva la focaccia.
«Farina, acqua, uova, latte e l’olio. Poi lo zucchero, due mani, e la scorza di limone. Impasta tutto e stendi» diceva sempre. «Poche cose» diceva lei.
«Poche cose» dice mia madre: «Ho imparato a cucinare da sola. Da lei ho imparato poche cose perché io volevo sempre fare da sola» dice mia madre. «Lei non era una grande cuoca. Lei cucinava poche cose e sempre le stesse cose. Ho imparato a cucinare quando mi sono sposata» dice mia madre. «Non credo che le piacesse cucinare, ma cucinava, cucinava la focaccia ma quella era un’altra cosa». Mia madre si ferma, si accarezza le mani quasi avesse prurito alle mani: «Io la focaccia non l’ho mai imparata a fare».
«Lei non era una grande cuoca» dico io. «Lei accendeva il camino» dico io. Puliva il tavolo verde e iniziava a preparare la focaccia e intanto il pavimento scricchiolava e i vetri restavano opachi. Lei impastava e io guardavo. Io la guardavo e le chiedevo: «Quanto zucchero? Quante uova? Perché il nonno? Perché i fascisti? Perché due uova e non tre uova?». Perché lei cucinava, perché lei cucinava e parlava, parlava sempre, in continuazione. «Sei magro» diceva sempre. «Hai mangiato?» – chiedeva sempre – «cosa? E basta?! Tieni, mangiala!». La prendeva (riferendosi alla focaccia), la tagliava a spicchi e poi metteva gli spicchi sul tavolo verde davanti ai tuoi occhi, e poi stava seduta e aspettava, aspettava che tu mangiassi tutti gli spicchi, uno alla volta, masticando bene.
Finito tutto diceva: «Dopo ne mangi un’altra».
Sembrava sempre che stessi per morire di fame da un momento all’altro e intanto io chiedevo: «Quanto zucchero? Quante uova?».
«Lei non era una grande cuoca» dice mia madre. «Ma le piaceva mangiare. Le piacevano i dolci. Come me. Due mangione» diceva mia madre.
«Tu hai il sangue dolce» diceva lei (la nonna). «Come me, il dolce chiama dolce» diceva sempre lei. «Pulire il tavolo» – diceva lei – «prima di tutto devi pulire bene il tavolo: devi versare la farina e fare una grande montagna che sembra fatta di neve». Poi lei faceva un grande buco nella montagna che sembrava fatta di neve, acqua, uova, latte, e l’olio poi lo zucchero e la scorza di limone. Faceva crollare le pareti della montagna che sembrava fatta di neve e iniziava a impastare. Impastava e impastava fino a quando la montagna che sembrava fatta di neve non diventava un grande sasso molle. Poi prendeva il mattarello, quello grande, e iniziava a stendere. Stendeva fino a quando quel grande sasso molle non diventava una grande isola su un grande mare verde. Poi lei prendeva l’isola e la metteva sulla griglia. Poi prendeva la griglia e la metteva sul fuoco e poi… «E poi si aspetta. Devi aspettare» diceva sempre. «Ci vuole pazienza, come in tante cose anche qui ci vuole pazienza».
— (Altri ricordi) «Non credo che abbia sofferto la fame come molti» dice mia madre. «Non credo che abbia sofferto se non alla fine» dice mia madre. «Non penso che potesse saziarla. Non penso che quel tubo che le finiva nelle vene potesse levarle quella voglia di dolci che aveva sempre».
«“Sei come me”» dice mia madre. «“Il dolce chiama dolce” diceva sempre lei.
“Dove siamo? Come ti chiami? Quanti figli hai?
Dove siamo? Come ti chiami? Quanti figli hai?”. Ha cominciato a non mettere più le cose al suo posto» dice mia madre.
«E poi poche cose: quanti anni aveva, il suo compleanno, non sapeva dove andare. Non c’è stato un giorno preciso, poche cose.
“Farina, acqua, latte, zucchero e la scorza di limone”.
È diventata mia figlia» dice mia madre.
«La trattavi come una bambina, le insegnavi poche cose, come ai bambini. La tenevo con me, le facevo piegare gli asciugamani, poi li disfacevo e glieli facevo piegare di nuovo. Le chiedevo: “Di che colore sono le mollette mamma? Chi abita in quella casa mamma? Come mi chiamo io mamma?”.
Con noi a casa camminava, piano piano ma camminava, là invece no, là sembrava sempre che dovesse cadere da un momento all’altro. Là a letto tutto il giorno, tutto il tempo.
Dopo qualche anno non riusciva più a tenere in mano niente. La forchetta, il cucchiaio. “Impasta tutto e stendi”. L’abbiamo dovuta imboccare per tanti anni» dice mia madre.
«Dopo qualche anno ha smesso di parlare.
“Farina. Acqua, due uova. No, tre uova… Zucchero. Latte… forse”. Io non l’ho mai imparata a fare. Farina, acqua… zucchero… Ho paura. Ho paura di finire come lei» dice mia madre. «Per questo ripeto. Per questo. Ripeto ogni notte, ripeto finché non mi addormento, sempre in continuazione…
Dove siamo? Come ti chiami? Quanti figli hai?
Dove siamo? Come ti chiami? Quanti figli hai?
Dove siamo? Come ti chiami? Quanti figli hai?».

 


QUARTA TRACCIA AUDIO


Davide torna alla sinistra del tavolo, si siede e accarezza la tovaglia. L’audio inizia con un rumore che diventa prima ripetitivo e poi sempre più sfumato. Il movimento di Davide si fa progressivamente sincopato e reiterato come un ingranaggio inceppato. L’audio continua, Davide si alza e inizia a preparare di nuovo la tavola: piatti, forchette, coltelli, tovaglioli e bicchieri ma in maniera confusionaria. Ogni oggetto è fuori posto.

AUDIO ~ (voci registrate di una donna e di Davide) «Però non esistono esami precisi per definire l’Alzheimer, l’unica cosa la vedi dai test psicologici. Quando gli fanno delle domande, gli fanno fare dei disegni e da lì capisci da come risponde» – «Che domande le hanno fatto?» – «Semplici domande: “Dove siamo? Quanti figli ha? Come si chiama? Come si chiama suo marito? Da quanti anni è sposata?”. Semplici domande che lei, non riesce a dirle, non riesce a ricordarle» – «Ma li hanno fatti più volte questi test?» – «No, li hanno fatti una volta sola e da lì si capisce. Non c’è un esame specifico, non c’è una TAC, non c’è un’analisi del sangue ancora e tuttora che precisi che ha l’Alzheimer. Anche perché ci sono tanti tipi di Alzheimer, ci sono di quelli senili, ci sono di quelli… tanti tipi: ognuno reagisce a modo suo. Ci sono quelli violenti, ci sono quelli che scappano, quelli che fanno discorsi strani. La nonna per esempio invece non ha mai fatto discorsi strani, mai. Non riusciva a esprimersi, non riusciva a trovare la parola giusta ma non ha mai fatto discorsi strani» – «E come è cambiato il rapporto con te e la mamma?» – «Che è diventata mia figlia in pratica, io sono diventata la mamma e lei è diventata mia figlia, la tratti come una bambina, le insegni le più piccole cose, le fai fare delle cose come ai bambini: quando stendevo i panni le chiedevo di che colore erano le mollette, le facevo piegare gli asciugamani, poi li disfavo e glieli facevo piegare un’altra volta, come una bambina dell’asilo» – «E quando è andata in ospedale?» – «In casa di riposo?» – «Sì, in casa di riposo» – «L’hanno stravolta» – «Perché?» – «Perché con noi a casa camminava, piano piano, intorno ai suoi spazi camminava, là invece non potevano farla camminare da sola…» – (Voce di un uomo che interviene in dialetto veneto) «La caminava che dall’orto no l’è mia sta’ bona de ’ndar a casa l’ultima ’olta» – «Avevano paura che cadesse, perciò andavamo su noi tutti i giorni a farla camminare, a casa andava in bagno da sola accompagnata da una badante, invece là le hanno messo il catetere e gli facevano una peretta quando doveva scaricare…» – (L’uomo prova a intervenire ancora ma Davide lo interrompe) «Tasi Papà!! L’è la sô intervista n’o mia capìo!!».

E, nel frattempo, Davide è appena tornato alla sinistra del tavolo per sedersi.
Si accorge che la tavola è apparecchiata in maniera confusionaria. Si alza e inizia a rimettere ogni cosa al suo posto. I suoi movimenti, di nuovo, si fanno progressivamente sincopati e ripetitivi come un ingranaggio inceppato; mentre la voce registrata della donna riprende.

«L’hanno stravolta, però d’altronde non ce la facevamo più, perché lei aveva questo continuo lamento – ahaaaawaaahhwaaaahhh! – e giorno e notte e giorno e notte, non dormiva di notte e continuava con ’sto lamento e ’sto lamento era diventata una cosa insopportabile. Poi è stato male anche il nonno, perciò non potevamo mantenere due…».

L’audio continua con il rumore di una macchina che passa per strada coprendo la voce della donna. Il rumore diventa più forte e ripetitivo, dopo qualche secondo il suono sfuma e lascia il posto ad altre voci mescolate e sovrapposte di altre persone intervistate. In questo lasso di tempo, i movimenti di Davide si fanno sempre più inceppati e ripetitivi.

(Voce registrata di lui e di alcune persone intervistate) «Vediamo se poi si sente però» – «È il primo esperimento che faccio» – «Ti do del tu» – «Sì, sì, altrimenti mi fai sentire troppo vecchia» – «Non è scontato che tutti dicano di sì» – «Ti aveva già detto qualcosa Elena del questionario?» – «Dell’intervista?» – (risata) – «Ehhmmm» – «Mi ha detto che parla del ricordo» – «È una cosa bella o brutta?» – «Ecco, ti sei già bloccato» – «Simpatici» – «Ri-connessione» – «Ci si accontenta» – «No, no, per te dico» – (risate) – «Ecco, ecco» – «Eccoti, perfetto» – «Invece, allora» – «Non c’è un modo giusto di rispondere» – «Che non ti viene in mente, non che non ha nessuno a cui sei legata» – «Ormai non mi fa più niente, ho mezzo sangue e mezzo caffè in corpo» – (risate) – «Scusa sto sbadigliando» – «Ti sto annoiando a morte» – «No no no scusa» – «L’ho intuito» – (risata) – «L’ultima cosa che hai mangiato» – «Che è già una gran cosa» – «Non è scontato» – «Bloccami subito perché io vado» – «Di quelle banalità» – «Come hai capito l’oggetto non è solo un’intervista sul cibo» – «Non che non ti viene in mente» – (risate) – «Ma di cibo si parla e basta» – «Rimane tutto qua».

Terminato l’audio, Davide si ferma. Si accorge che la tavola e tutti gli oggetti sono tornati al loro ordine iniziale. Si siede, guarda il mammut e lo gira verso di sé.

DAVIDE ~ Ricominciamo?

 


QUINTA TRACCIA AUDIO


Davide si rialza e sparecchia la tavola, partendo dai bicchieri fino ai piatti e toglie tutto, compresa la tovaglia. Riposiziona le sedie sulla tavola, capovolgendole e ricoprendole col telo come all’inizio.

AUDIO ~ (voce registrata di Davide che ripassa l’introduzione del questionario) «Il seguente questionario è anonimo: non verranno fatti nomi e cognomi.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista verrà registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari.
L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere utilizzati all’interno di una restituzione performativa.
Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere… Il seguente questionario è anonimo… Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi…
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista verrà registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari… qualsiasi domanda a cui tu… NO.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista POTRÀ essere registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari. L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere utilizzati all’interno di una restituzione performativa. Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere. Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista POTRÀ essere registrata al fine di costruire un archivio di biografie alimentari. L’audio e la trascrizione dell’intervista potranno essere registrati… potranno essere utilizzati! … all’interno di una restituzione performativa. Qualsiasi domanda a cui tu non voglia rispondere, non rispondere.
Il seguente questionario è anonimo, non verranno fatti nomi e cognomi. Con il tuo consenso l’intervista…
Prima domanda: prima di rispondere a questa domanda ti chiedo di contare 5 secondi, e poi rispondi. Come stai?».

Davide guarda la tavola ricoperta di nuovo dal telo, si accovaccia e prende da sotto la “ciunga”. La mette in bocca, poi esce. In scena, rimane solo il tavolo coperto.

 


SESTA TRACCIA AUDIO


AUDIO ~ (voce di un’altra donna) «Sono un po’ triste, triste, triste nel senso che… eh forse parlare di cibo alla fine mi intristisce un po’. Eh, perché evoca dei vuoti. Delle assenze. E quindi… e quindi, sai, insomma, più si va avanti negli anni, più purtroppo… Ho questa immagine, no?, di una tavola apparecchiata dove col tempo, man mano, non ci son delle sedie che restano vuote. Eh… poi c’è, va be’, il fatto che sono sedie che diventano vuote, ci sono sedie che sono rimaste vuote. Sì, la tavola mi fa pensare comunque a una comunione, a una cosa che sento di non avere più con gli altri e con la vita, così intima».


Buio.