MATERDEI

di

Angela Villa


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Racconti per il teatro. Ho immaginato questi racconti per il teatro dedicato in particolare alle attrici per i loro provini. I personaggi sono quasi tutte donne o ragazze (2 monologhi con personaggi maschili) Sono brevi testi corti teatrali. Spesso c’è bisogno di piccole performance di breve durata. Spero che queste pagine possano essere di aiuto e di riflessione per chi voglia utilizzarli per il teatro o per chi voglia leggere.

TI PIACE IL CALCIO?

Mi chiamo Kaim, vengo da un piccolo paese a sud dell’Egitto, nella provincia di Minya. Mio padre voleva un maschio perciò mi ha chiamato così. Ho trascorso un anno chiusa in casa, usciva solo papà per comprare il pane e i fagioli, qualche volta la carne, una volta una piccola focaccia che ho diviso con mia sorella più piccola. Sulla nostra casa accanto alla porta qualcuno aveva lasciato un segno: una grande X con la vernice rossa, vuol dire “copti”. Chi passava di lì poteva sputare, gridare, dire parolacce a mio padre e mia madre. Poteva dare calci e pugni alla porta e nessuno diceva niente. Per questo noi bambini non uscivamo mai di casa. Mia madre aveva paura. Mio padre aveva un negozio, vendeva frutta verdura e spezie, ha dovuto chiudere altrimenti il fuoco si sarebbe mangiato tutte le cose come è accaduto a quel suo amico. Quegli uomini, quelli del fuoco, hanno bruciato anche le chiese. Noi adesso viviamo in Italia.  I miei compagni di classe mi vogliono bene io sono più grande di loro, a causa della guerra ho perso un anno, non riuscivo mai ad andare a scuola e così mi hanno bocciata ma sto imparando in fretta. Il mese scorso è venuto il Vicesindaco a scuola: adesso ho la cittadinanza onoraria. In classe abbiamo fatto una piccola festa. La maestra piangeva e rideva, era felice. La mamma ha appeso l’attestato sullo sportello del frigo. Ogni volta che apro il frigo lo vedo, leggo il mio nome e sono contenta; sono contenta anche perché la signora che ci ha preso in casa, nel frigo, ha tante cose buone da mangiare, cose dolci e saporite che posso prendere tutte le volte che voglio ma io lo faccio un po’ per volta, ho paura che il frigo rimane vuoto ...come a casa, in Egitto. Vivere in Italia mi piace. Quando ero in Egitto ero triste: di notte sognavo le fiamme e la gente che urlava, qualche volta, facevo un sogno diverso: sognavo di diventare calciatore. Ma accadeva raramente. Le fiamme si prendevano tutti i sogni. Ora che posso uscire, ora che vado al parco a giocare con gli amici, ora che ho un pallone tutto mio, io sono una ragazza e sogno di giocare a calcio, sogno ancora le fiamme ma un po’ meno ...adesso sogno di più il calcio e un grande stadio ...Le amiche mi guardano come se fossi un po’ strana e mi dicono: “Ti piace il calcio?” E io rispondo con aria un po’ furbetta “Più delle fiamme”. Io sogno di giocare in un grande stadio… In mezzo al campo ci sono io, scarto tutti, dò un calcio forte con il mio piede sinistro, la palla finisce nella rete, proprio al centro...e tutti gridano: goal, sei forte Kaim!

NON È NEVE SERIA

Scivola, non attacca, non fa male, non ti graffia la faccia. Non riempie gli occhi di bianco le orecchie di passi attutiti. Non brilla, non si accumula. Non si fatica, nel camminare, non si affonda fino alle ginocchia, il petto non si gonfia nell’affanno. Si scioglie, non è dura, non è compatta, non ghiaccia in un attimo. Non rende le ore faticose, l’andare indeciso, i giorni interminabili, in attesa che la tempesta si calmi.
(Si gira di spalle grida, come in trance, sussurra lentamente)
Muoviti- datti da fare- tu ci vai - lo stesso.
Non è neve seria.
Al mio paese nevica spesso. Un paese piccolo, un nome difficile da pronunciare. Un posto faticoso per vivere. La neve non aiuta la vita, ma la gente si aiuta spesso. Con tutto quel bianco, senza gli altri non ce la puoi fare. Anche quando sei da solo in mezzo ai fiocchi, pensi a loro a quelli che verranno dietro di te e allora quel sentiero lo scavi anche per gli altri.  Come si cammina nella neve? Andando avanti e di fianco, segnando un solco vicino alle tracce precedenti così … (Si muove come se stesse scavando un sentiero)
Il sentiero diventa più ampio per tutti, per quelli che arriveranno dopo... La neve non è bella da vedere se hai fame e non sai cosa mangiare se tua nonna è uscita la mattina e non è ancora tornata. Se fuori il vento, fischia forte e i lupi ti mordono le orecchie e tu premi forte, fino a sentire il vento di ovatta e la tua voce un’eco, premi forte e sogni un domani migliore. Sperando che i lupi la smettano. Ma non la smettano.
La neve è traditrice, ha tradito mio nonno che si nascondeva dalla polizia del regime, hanno seguito le sue tracce fino al nascondiglio, è finito in un campo di lavoro, non è più tornato. La nonna quando parlava di lui diceva sempre: - Che stupido, che stupido si è fatto catturare come un coniglio! Diceva così perché era arrabbiata, lo amava, lo aveva perso troppo giovane. I suoi figli erano ancora bambini.
La neve seria l’ho conosciuta, nel mio paese, in Moldavia, insieme alla povertà. Sono scappata per cercare fortuna e quando credevo d’averla trovata in un uomo, ho scoperto un traffico d’organi, di bambini. In una clinica dove mi hanno portato per partorire il mio bambino, quello che non ho più visto, in quella clinica ho capito tutto.
I bambini…Ma dove sono finiti i bambini? Erano qui, li ho visti entrare con me, no… sono arrivati il giorno dopo di me…sì, il giorno dopo, li ho visti entrare, ma non li ho più visti uscire.
(Va verso la quinta di destra)
Erano in fila tranquilli e silenziosi, dove sono ora? Non li ho più visti uscire. Ho un masso sul petto, un dolore mi schiaccia. Un dubbio mi assilla, una domanda, sempre la stessa nella mente, ma dove sono i bambini? Li ho visti entrare… e non li ho più visti uscire…
(Cambiando tono, ricorda)
-Quali bambini? Sei pazza
No non sono pazza, li ho visto entrare….(indica la valigia) Lì c’è tutta la verità. Sì, quella che nessuno vuole sentire.
 (Va verso una valigia cerca disperatamente qualcosa, prende alcuni fogli stropicciati, li apre uno ad uno, li dispone in ordine, siede a terra)
Ah, eccoli qua…Giornalisti indagano, seguono piste. Denunciano, scrivono, raccontano storie, storie che nessuno vuole sapere. Le ho cercate con cura, nei giornali, in rete, nelle parole della gente, la gente qualunque. (Legge prima sottovoce, poi in un crescendo di rabbia e dolore)
“…un cuore fruttava dai 25 ai 30 milioni, la metà un rene o una cornea. Centinaia di bambini afgani, di età compresa fra i 4 e i 10 anni, sono stati usati come “pezzi di ricambio” e poi gettati morti per strada o nei fossati…traffico di organi a Kabul… aveva 4 anni. Ne avrebbe compiuti 5 in ottobre. Unica figlia femmina di un commesso in una botteguccia di ferramenta. Poco dopo l'ora di pranzo, esce in strada per giocare con gli altri bambini. Lo fa sempre. Qualche minuto il fratello più grande, sente una brusca frenata, il gippone che se la sta portando via. Due giorni dopo, giovedì, Il rombo di un'auto in corsa e qualcosa che va a sbattere quasi contro il loro uscio fa sobbalzare l’uomo e la donna che si precipitano fuori. Per terra un sacco di terra grezza. E dentro quel che resta della bambina…Albania Un’inchiesta su un presunto traffico di minori, sottoposti anche a trapianti illegali. Si indaga sulla scomparsa di circa 2 mila bambini, trasferiti illegalmente in Grecia e in Italia, per essere sottoposti a trapianti. Ma sarebbero milioni i bambini in vendita, ridotti in schiavitù o usati per il traffico illegale di organi in tutto il mondo…” E questo? Ah sì …Africa, India, Brasile…Quanti oddio, non posso ricordarli tutti…Non posso…Ma devo, ho conservato tutto, non sono solo mie fantasie…I bambini, dove sono finiti, li ho visti entrare e non li ho più visti uscire…
(Legge commossa, sempre più turbata)
 “…su 1.320 minori approdati a Lampedusa l’anno scorso, circa 400 sono spariti...Tracce, di un consistente traffico di organi di minori. Notizie, anzi certezze, di un gran numero di bambini che arriva di nascosto in Italia e che poi sparisce. Segnalazioni e analisi incrociate che portano a lanciare un allarme clamoroso: il mercato clandestino dei trapianti è arrivato anche in Italia. Per questa denuncia si sceglie l’assemblea annuale dell’Unicef.”.
(Al termine, lentamente, leggerà anche il nome delle fonti a cui si riferiscono gli scritti)
La repubblica.it. 25 novembre 2001, Dossier Piccoli schiavi. Save the Children. Agosto 2008 Corriere.it gennaio 2009. Non sono soltanto mie fantasie… (si alza, esce dalla visione, torna alla realtà, con amarezza)
Assemblea annuale dell’Unicef … i potenti, coloro che contano, sono così lontani da quelli che soffrono. Arrivano sempre in ritardo. Quando il peggio è già accaduto. Sempre…in ritardo
(Piega con cura gli articoli, li ripone nella valigia. Si alza)
Stanotte, ho fatto un sogno, non so se era proprio un sogno. Forse solo una visione. Ero sul ciglio di un precipizio. Avevo un’aquila sulla spalla, gli artigli mi trattenevano, mi impedivano di cadere nel vuoto. Aveva occhi piccoli, e lucenti, vedeva più lontano di me, poteva guardare verso il sole senza abbassare lo sguardo, aveva ali grandi e sulle piume tutti i colori degli occhi dei bambini. Tutti sulle piume, per non dimenticare...
(Dopo un lungo silenzio)
Tutti, sulle piume. Aspettando di volare sereni. Ma bisogna prima fare giustizia.
L’uomo che mi ha preso la prima volta, quando ero ancora una ragazzina, si era arricchito vendendo bambini alle coppie che non potevano avere figli, volevano adottarli ma non avevano voglia di aspettare, di seguire le strade delle istituzioni, gente ricca, potente che non sa aspettare, gente che la neve seria, non la conosce. Quando era ubriaco, parlava sempre di una strana clinica. Quella dove ho lasciato il mio bambino. Quei bambini sono tutti qui, (lentamente preme un dito sulla la fronte) I loro volti in fila uno dietro l’altro, sono tutti qui, insieme al volto del mio bambino che non ho mai visto. Credete che io sia pazza? Forse non c’è niente di vero…anche voi, non volete sapere… (accenna un piccolo sorriso)
E’ una storia triste, lo so c’è ne sono tante così, non sono l’unica. Tante, come me, soffrono, nel silenzio. La parola non aiuta.
(Va verso la valigia, prende un abito da sposa)
Io come le altre che prendono la via, avevo un sogno d’amore. Portare un giorno un fiore ai piedi del monastero del principe Stefan Cel Mare. L’eroe della Moldavia, l’eroe che ogni donna sogna per sé…Da noi si dice “Una vita ha senso se hai costruito una casa, allevato un figlio, piantato un albero e scavato un pozzo”. Per questo vedi tanti pozzi nelle campagne. Per me non è stato così. Non ho una casa, il figlio l’ho perso, non ho piantato alberi, non ho scavato un pozzo, la mia vita, quella sì, è finita in un pozzo.
(Alza il vestito, lo mostra con orgoglio)
L’ha cucito mia nonna. Bello vero? Non serve più.
(Lacera la stoffa, ad alta voce.)
-Raccontami di te. Mi ha detto quel prete
-Racconta, ti aiuterà scrivi. Racconta…Il tuo nome viene dal greco vuol dire sapienza, saggezza. Lo sapevi?
-No, non lo sapevo. Se l’avessi saputo, forse chissà, sarei stata un po’ più saggia. Non avrei fatto quel viaggio, non avrei creduto nei sogni impossibili, non avrei dato ascolto ai lupi. Non ho molto da dire…
-Sei stata tu?
-Sì, l’ho detto tante volte a un sacco di gente, me l’hanno chiesto in tanti e io ho detto sempre la stessa cosa. La verità.
-Sei pentita?
-No. Non sono pentita. Non sono pentita, per niente…sono stata io…Qualcuno ha detto che ero sotto choc…ma io sapevo bene quello che volevo fare, ci ho pensato tante volte, tante. Ho progettato il modo e il quando. Poi tutto è accaduto all’improvviso.
Da dove è arrivata tutta quella forza, non lo so.
 (Va verso il tavolino, siede, prende la penna, scrive qualcosa, poi strappa il foglio)
Nevica, la gente si affanna la radio parla, parla, mi tiene compagnia… le previsioni fanno a gara a chi la sa più lunga. Questa neve non sa di dolore, disperazione, assenze, non sa di solitudine, affanni, questa neve non fa male…Ho la penna in mano da ore, la rigiro fra le dita come faceva quel mago con la sua bacchetta magica, passava per le vie del paese, quand’ero bambina, ci regalava, un po’ di follia, giro e rigiro la penna fra le dita con il mago in testa…
(Silenzio, poi lucida, i toni si fanno più bassi)
Quella sera non volevo uscire, avevo freddo e un po’ di febbre.
(Ricorda, con dolore)
-Non ce la faccio. (A bassa voce) Ti prego…Stasera no…
(Con toni duri, violenti)
-Non farmi ridere. Con quel tuo accento …Dopo tanti anni, ancora non sai parlare.   Che cosa ti sei messa in testa? Tu stasera esci e porti di più, capito? Muoviti, datti da fare, tu ci vai lo stesso. Muoviti… Troia.
(Silenzio, poi lentamente)
Ho mormorato qualcosa nella lingua della madre. Parole di ghiaccio. Parole senza via d’uscita.
Il primo pugno mi è arrivato sul viso, il secondo l’ho sentito forte, nelle orecchie…Il terzo è rimasto nell’aria…
(Come in trance, scandisce lentamente)
L’ho colpito, due volte col coltello da cucina, come si uccidono i maiali… affondando la lama nella gola l’ho visto fare, spesso, al mio paese. Ho fatto uguale. Non c’è molto da dire.
(Si alza, va verso la quinta di sinistra)
Fuori il cortile, i sogni le voci, dentro i ricordi, i pugni, gli errori. No, non è neve seria.
(Dopo un lungo silenzio, si volta, lentamente verso il pubblico)
-Sofia non sa parlare, ma il coltello lo sa usare…

 IL LAVORO NOBILITA L’UOMO

Dormo in macchina.    
No, non sono separato. Non sono uno di quei mariti finiti sul lastrico a causa di un amante imprudente, una moglie amareggiata, di un divorzio strappato coi denti. Non mi sono mai sposato. Per me l’azienda era tutto. Ho vissuto tutta la mia vita pensando all’azienda a questo piccolo gioiello che avevo creato. Le tasse me l’hanno portata via. Ma non solo le tasse, anche loro, quelli che si nascondono nelle vite degli altri. Le cose andavano male non ce la facevo a pagare, non volevo deludere i miei operai, mica potevo mandare la gente a casa, allora ho cominciato a chiedere soldi in prestito, soldi che non riuscivo a restituire. E così sono finito nelle loro mani si sono presi la mia azienda e adesso pure la vita. Si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e quando arrivavano li consegnavo a pacchi da dieci milioni. Speravo sempre in un miracolo. E invece, se ne arrestavano uno, il giorno dopo si presentava qualcuno che lo sostituiva. Un altro “geometra”, un altro “ragioniere”, un altro “amministratore”, erano sempre pronti sulla porta. Mi chiedevano di pagare sempre di più.
-Ma non posso, non ce la faccio…
-Possibile, non puoi? Puoi, non ti preoccupare puoi…
Lo dicevano sorridendo con quello sguardo che non dimenticherò. Di notte, lo vedo ancora nei miei sogni. Nei miei sogni sul sedile dell’auto, fra i vetri appannati e il volante e la guida stradale che non ho mai usato. Uno sguardo che contagia. Quelle facce…a volte penso, che a furia di vederle, mi hanno inquinato il cuore. Ho sempre avuto paura di svegliarmi un giorno e avere lo stesso sguardo, uno sguardo come quello, fatto di bile, stampato sulla faccia. Col sorriso di plastica.  
Per raggiungere il cantiere che avevo acquistato, attraversavo i territori di due famiglie. Pagavo anche per quello. Compravo del legno per lavorare e non me la facevano usare.
-Il materiale te lo diamo noi, non ti preoccupare.
Così per le macchine: le mie restavano ferme e dovevo noleggiare le loro. Pagavo con la paura addosso.
-Non posso andare avanti così. Mi ridevano in faccia con la morte negli occhi.
-Ma come? Ti stiamo facendo un regalo …perché non ci denunci allora? Avanti deciditi e fallo una buona volta, tu non hai le palle, tu ti cachi sotto.
Li ho denunciati e ho perso tutto, ma avevo già perso tutto da molto tempo.
Adesso devo decidere in questi pochi secondi che mi restano se devo infilare la testa, i miei capelli, gli occhi, le orecchie, il collo, in questa corona fatta di corda. Appesa alla trave di quel soffitto, dove una volta c’era una catena, da cui pendeva un cartello, che qualcuno passando leggeva, sorridendo, ad alta voce “Il lavoro nobilita l’uomo”, l’aveva messo mio padre e prima di lui suo padre e prima ancora un ragazzino, appena uscito da una guerra, che viveva facendo il falegname. Adesso, qui ora, devo decidere
Buio si sente il rumore di una sedia che cade.

L’ALTRA FACCIA

Mio padre faceva il meccanico.
Sul lavoro era benvoluto, molto apprezzato. Se qualcuno gli chiedeva di aggiustare un motore, in poche ore lo faceva. Era comprensivo e generoso, non perdeva mai la calma. Così mi dicevano i suoi colleghi quando qualche volta lo andavo a trovare. Per portargli il mangiare che mia madre preparava per lui, lentamente, facendo attenzione che tutto fosse a posto. Mi sembrava un altro uomo. Gentilissimo, con le signore eleganti che venivano in officina per riparare un guasto. A casa no, non era così. A noi, era toccata l’altra faccia della medaglia. Quella grigia, un po’ spenta, graffiata. Quella che nessuno vuole. A casa dovevamo stare attenti a quello che facevamo, a quello che dicevamo. Se facevamo troppo rumore quando giocavamo, se rispondevamo male, se prendevamo un brutto voto a scuola. Mia madre ne ha presi di schiaffi in faccia, la colpa era sempre la sua. Per tutto quello che accadeva in casa. Una volta però è successo anche a me. Sulla schiena porto un segno. Avevo dimenticato di rientrare prima di lui. Mi ero perso dietro gli occhi azzurri di una ragazzina. Dopo, ho fatto fatica ad avere una storia con una donna, temevo sempre che prima o poi venisse fuori lui e l’altra faccia della medaglia Tutta questa storia è finita proprio quella sera, avevo dodici anni, un piatto è volato via dalle sue mani. Ho sentito una rabbia nuova crescere dentro di me, una marea. Chissà da quanto tempo la portavo dentro. Un colpo forte con una padella. Ho preso bene la mira, in cima alla testa, dove nascono i pensieri. I suoi non erano per noi.


LE VIOLE SULLA PELLE

Quando mamma e papà litigano, noi ci chiudiamo in camera e ci tappiamo le orecchie. Io mi spavento e mio fratello mi abbraccia. Ma non voglio. Mi metto paura quando mi abbraccia. E se lui è come papà? Le braccia del mio papà sono come le tenaglie. Se stanno ferme non succede niente se ti stringono diventano pericolose. Lasciano delle macchie blu sulla pelle. Al centro un po’ di giallo triste. Io le guardo mi sembrano le viole del giardino della scuola mia.
La maestra una volta mi ha chiesto: - Chi ti ha fatto questi segni sulle gambe?
Io sono stata brava, la verità non l’ho detta, mamma non vuole. Si vergogna.
-Sono caduta.
-Stai più attenta la prossima volta. Vieni, un bacio della maestra e tutto passa.
La maestra non lo sa che alcune cose non passano. Le viole restano sulle gambe anche quando piano piano spariscono, entrano dentro la pelle e vanno in ogni parte del corpo fino al cuore. Poi dal cuore passano nella testa e una volta che arrivano fino a là, ci restano per sempre. Nessuno le può cancellare
-Vai via non voglio che mi abbracci, non mi stringere mi fai male, sei come lui, vattene via, non ti voglio vicino.
Quando dico così mio fratello piange. Ha paura di diventare come papà. Tutti miei compagni di scuola vogliono essere come i loro papà, ma mio fratello no. Mi grida dietro.
-Non sono come lui.
-E invece sì. Se gridi così, sei come lui.
Noi litighiamo ma loro non se ne accorgono le urla di papà sono più forti delle nostre. Le nostre sono come un gioco, basta un niente e ci mettiamo a ridere. A volte grida pure mamma, altre volte no. Forse non vuole farci spaventare, oppure si è abituata. Alle botte dico. I pugni di papà contro la porta sembrano i tuoni. Chiudo gli occhi, stiamo in mare aperto, sta arrivando una tempesta. I pugni sono i tuoni, il nostro letto è una nave. Una nave grande, di sicuro non affonderà. Poi, all’improvviso, arriva il silenzio, la porta si apre, mamma entra per rimboccarci le coperte.
Dormite non è successo niente, non è successo niente. Per lei, tutto quello che succede, è sempre niente, a volte penso che pure lei si sente niente. La voce è tranquilla ma il petto sale e scende. Come le onde durante la tempesta. Io accendo la luce, lei non vuole, la spegne subito. Ma nel buio le vedo lo stesso.
-Mamma... a te le viole, ti sono spuntate sulla faccia.
Lei accenna un sorriso, si copre il viso e se ne va. Io rimango sola nel letto.  E chiamo la fata buona quella che aiuta le mamme con le viole sulla faccia. Ma mio fratello mi dice sempre che le fate non esistono. Allora... Stringo forte gli occhi, forte, fortissimo. E spero che il mio papà, muoia. Ma poi penso che gli voglio bene e mi ricordo di lui che mi faceva salire sulle spalle per vedere meglio il mare. Poi è caduto nel buio, i grandi quando cadono non sanno rialzarsi.

NON OGGI, FORSE DOMANI

La mamma me lo diceva sempre: ognuno ha la sua fata e un giorno verrà
per te e anche per me.
Non oggi, però, forse domani. Le fate si nascondono dentro le farfalle, tu vedi una farfalla, stai attento, non farle del male, perché in realtà è una fata. Io e la mamma veniamo da un altro paese, lontano da qua. Un paese dove fa sempre freddo, si mangia poco e c’è tanta neve. Non come quella che sta cadendo fuori, quella non è neve seria. La neve seria ti ghiaccia la faccia. Siamo arrivate su un camion due anni fa, insieme ad altre donne. Abbiamo viaggiato nascoste per un giorno intero e forse anche di più. Il signore che ci ha preso in casa dice che la mamma ha un debito con lui, deve ancora finire di pagare. Non finirà mai, lo so. Qualche volta devi farlo anche tu, mi ha detto, così finite prima, poi vi lascerò libere. E si è messo a ridere con la bocca aperta, si vedevano le lame affilate dei denti. Se finisci dentro quella bocca, non torni più a casa. Non ci lascerà mai libere.
In fondo non è così difficile devo solo rimanere ferma. Fanno tutto loro. A volte qualcuno mi regala del cioccolato, mi piace quello bianco al latte. Io lo prendo e scappo subito via, prima che ci ripensano o mi chiedono di fare qualcos’altro. Ma non lo mangio tutto, ne metto un po’ sulla finestra. Alle fate piace il latte, ma pure la mozzarella, le cose tenere e dolci, insomma. Le fate non hanno i denti, non mordono nessuno. Io la notte, ma anche il giorno, mentre sento il loro fiato sulla faccia, sogno di volare via, sulle ali di una grande farfalla bianca. Ma dentro di me lo so che è impossibile. Non si può volare via, non sulle ali delle farfalle e poi in questo paese non ci sono più farfalle, l’ultima l’ho vista un po’ di tempo fa, in casa, quell’uomo l’ha uccisa con il tacco della scarpa, finita schiacciata contro la parete. Tanto hanno vita breve, ha detto, poi non ne sono più venute. Si capisce il perché, le farfalle queste cose le sanno. Ma un giorno, torneranno per me. Non oggi, però, forse domani.

UNA SEDIA FUORI POSTO

-No, non voleva picchiarmi, no non voleva lanciare quella sedia, no, non me la sento di denunciarlo.
(Con rabbia e dolore)
-No, non voleva picchiarmi, no non voleva lanciare quella sedia, no, non me la sento di denunciarlo.
Mi hanno chiamato per il riconoscimento.
Sì, qualche volta veniva a casa con la faccia gonfia.
Sì, un giorno siamo intervenuti anche noi per cercare di mettere un po’ di pace.
Sì, era una donna infelice.
-Porta pazienza a mamma, vedrai si calmerà, tu non rispondere, perché lo provochi? Stai zitta devi imparare a stare zitta. E io allora, che devo dire? Tanti anni, come ho fatto con tuo padre? Te lo ricordi no?  Tornava a casa nervoso, alzava la voce, perdeva subito la pazienza se vedeva una cosa storta, una sedia fuori posto. Te lo ricordi? Bastava un niente e la serata cambiava colore, ma io ero più brava di te, lasciavo correre, non accettavo le provocazioni, lo sapevo prendere. Gli uomini vanno educati.
(...) A volte però, volavano bottiglie nel vuoto.
Tu non sei mai stata brava, in niente.
A scuola disubbidivi alle maestre, non so quante volte mi hanno mandato a chiamare perché rispondevi male, protestavi, protestavi sempre, tenevi da ridire, su tutto, sei sempre stata un tipo litigioso. Litigiosa e testarda, volevi fare tutto quello che ti saltava in mente, no, non eri una donna docile, per niente, pure da piccola ti intestardivi, portavi il mangiare ai cani randagi quelli che nessuno voleva, pure a quelli aggressivi. Sì, pure a loro. Non ti mettevi paura di niente.
- Stai attenta quello ti morde.
Ti gridavo dietro, ma tu niente correvi avanti con quell’idea nella testa che dovevi cambiare il mondo.
-Ci sono pure loro mamma, se non lo faccio io, chi glielo dà il mangiare? Nessuno.
Poi l’hai trovato veramente il cane randagio nella vita tua.
Perché, perché non mi hai ascoltato perché? Non sei mai stata brava in niente, in niente, più le cose ti facevano soffrire e più ci ficcavi la testa dentro ma che andavi cercando figlia mia, che cosa?
Quella sera che sei tornata. Nessuno ti ha aiutato. Gridavi, e nessuno ti ha aperto.
-E smettetela una buona volta, fate sempre questo.
-Basta vogliamo dormire.
Qualcuno ha gridato più forte di te.
Poi le urla sono finite e tutti sono andati a letto tranquilli, nelle loro belle famiglie felici.
Che cosa hai pensato prima di chiudere gli occhi? Non ci dovevi tornare in quella casa, testarda, sei una donna testarda. Non ci dovevi tornare, non mi hai mai dato ascolto, io ti dicevo fai così e tu facevi tutto il contrario. Mai.
Perdonami non ti ho mai capita e pure adesso, vedi? Non ti riesco a capire.
Tu volevi cambiare il mondo e anche a lui lo volevi cambiare, è vero?
E ci sei ritornata, in quella casa con le pareti di cartapesta.
-Lui mi vuole vedere, mamma, possiamo ricominciare, vedrai adesso andrà meglio. Non è più come prima. E’ cambiato.
Io, a quella cosa, che le persone cambiano nella vita, non ci ho mai creduto.
No. Quella faccia gonfia non è la sua, quegli occhi che non possono più vedere, quegli occhi che mi hanno guardato in faccia tante volte, pieni di fiducia, non sono i suoi.
Sì, chiudete pure, adesso me ne vado. Quanta gente mamma mia. E che ci fanno tutti qua?  No, non lo voglio perdonare e non lo voglio manco più vedere. Hanno protestato in tanti, grazie quanta solidarietà, grazie, quanta attenzione, ma è troppo tardi, adesso, è tardi.
Nessuno l’ha aiutata a questa figlia mia. E io per prima, l’ho lasciata sola.

VERSO IL CREPUSCOLO

A cielo scoperto si rincorrono due figure.
Scivolano a passi leggeri due donne, nella sera appena sbocciata. Vanno verso il crepuscolo.
Una trascina un corpo pesante.
Un po’ di liquore, un potente sonnifero e un colpo forte.
Qualcuno capirà o forse nessuno mai lo saprà.
- Ha avuto la fine che meritava. Anni di botte, violenze e colpi sul mento. Ha avuto la fine che si meritava. Ma forse era lei che lo provocava…
La chiamano legittima difesa. Ma tu scappa lo stesso, non si può mai sapere.
A cielo scoperto si rincorrono due figure, una trascina un corpo pesante. L’altra corre verso il mare.
-Non mi cercherà, non si accorgerà della mia assenza. Dorme sogni tranquilli. Sogni tranquilli e mani pesanti. Lei scappa verso il vuoto degli scogli, Non ha mai voluto imparare a nuotare. Adesso capisce perché. Lascia un piccolo diario sugli scogli, è giusto che qualcuno sappia.
Non tanto per lei, ma per le altre, per quelle che verranno.

A MEZZOGIORNO

A mezzogiorno stendere i panni. Controllare la torta nel forno, il sugo, il contorno. Prepararsi per un’altra lavatrice. Raccogliere i sogni nel cassetto. Sistemare qualche calzino finito fuori posto. Separare i bianchi dai colorati. Spolverare, lucidare le maniglie. Togliere le impronte, le macchie ostinate quelle che rimangono a lungo, cancellarle è difficile. Rovesciare in una pentola pulita il sugo salvato appena in tempo da una bruciatura. Stai attenta, non sia mai, se se ne accorge sono guai. Fai la brava. Se no comincia un’altra discussione e tu lo sai dove finisce. Lui è preciso, ama l’ordine è metodico.
E’ manesco.
No non sei tu. No, non sei tu che lo provochi, non sei tu che lo fai innervosire, non sei tu che rispondi sempre e non sai stare zitta. Non sei tu. Te l’hanno ripetuto tante volte in tanti, ma tu non lo vuoi capire. Non sei tu. Ma tu sei convinta che non meriti niente, che è inutile sognare.
Nel pomeriggio fare un salto dal parrucchiere, per l’ennesima tinta di cui nessuno noterà il colore.
Passare in libreria, per acquistare, la storia che ti fa sognare. Lui lei, possibilmente senza l’altra.
Lui lei, possibilmente senza offese, senza ingiurie senza calci senza pugni,
Poi di colpo, fra gli scaffali, qualcuno che ti parla. Tu ti giri altre donne in giro non ne vede, Possibili sono per te quelle parole senza schiaffi? Possibili quegli occhi sereni?
Si, sono per te c’è un tale che ti dice: ho già letto quel libro è bello assai.
Alzare gli occhi credendo di sognare. Si è proprio con te che c’è l’ha un’insignificante donna ignota. Timorosa, insicura, dubbiosa, sospettosa, casalinga, lettrice, appassionata, perfetta negli orari degli incarichi settimanali: la spesa, i figli a scuola, le cucine ignorate, le polpette assaggiate, le stanze linde appese ai fili dell’immaginario.
E’ con te che ce l’ha. A volte i sogni rincorrono il reale. Uno sguardo, un solitario forse. Stendere i panni il giorno dopo, tranquilla. Il giorno dopo, sotto le successive botte, le ultime.
Tranquilla, fiduciosa, serena, preparare una valigia e poi convinta, andare. I pugni dietro le spalle e i sogni davanti. La vita, a volte, è rosa.

MA VENGA PURE IL MATTINO

 (E’ seduta. Accanto alla sedia c’è una valigia, davanti alla sedia quadri, libri, boccettine di profumo)
Mio figlio piccolo, non capisce, non gli abbiamo ancora raccontato tutta la verità, non vuole cambiare continuamente casa, non vuole fare amicizia…
-E se poi ce ne andiamo, a che serve?
Mi risponde sempre così quando gli chiedo di invitare qualche suo compagno di scuola.
(…)
Certe volte mi sembra di stare dentro un recinto, siamo scappati ma i problemi ce li siamo portati dietro, è difficile sfuggire. Ci vorrebbe un’altra vita. Tu t’illudi che sei lontana, invece ovunque vai, ti porti tutto dietro, è come la gabbietta degli uccellini, solo che dentro non c’è un uccellino… Dentro c’è un piccolo mucchietto di polvere, grigia.  
Io ho sentito il dovere di parlare, di denunciare.
Siamo stati trasferiti in una località segreta, riceviamo un piccolo stipendio dallo Stato, un sussidio mensile, siamo sorvegliati dal servizio centrale di protezione. Rispetto a prima è un’altra vita, io la preferisco a quella che facevo in paese, quando ho saputo… quando ho capito quello che era successo… quando mi è crollato il mondo addosso… ma i miei figli, non lo so, loro sognano una vita tranquilla…
Mia figlia me l’ha detto chiaramente
CORO (azione coreografata le altre madri lentamente imbavagliano la I madre, coprono volto e corpo con alcuni veli) Era meglio se ti stavi zitta.
La gente, quella normale, ci guarda con sospetto, mi vedono senza marito, vedono che non vado a lavorare e pensano che ho qualche traffico losco, magari pensano che sono una donna del clan.
Ci sentono parlare, sentono il nostro accento… Da dove venite?  Da là e nasce subito il sospetto. Ma questi fatti, queste storie non appartengono solo al Sud. Dentro ci siete anche voi, voi che vivete nelle città dove le strade sono pulite, nei paesi ordinati, con i fiori sui balconi… Aprite gli occhi per piacere, fatelo per noi, ma pure per voi… Io non sono una pentita, non sono una collaboratrice di giustizia. No, non è così. Vorrei gridare ad alta voce che sono una (gridano) TESTIMONE DI GIUSTIZIA.
(Liberandosi lentamente) C’è una bella differenza. Le differenze sono importanti, le differenze lasciano segni che non si possono cancellare. Io non sono un collaboratore, io non c’entro niente con i pentiti.
L’unica cosa di cui mi pento a volte e che forse avrei dovuto stare zitta, come dice mia figlia. Io non provengo dal crimine, non facevo parte di nessuna organizzazione criminale non ero parte integrante di quel sistema. Io ho scelto una strada, in salita, una strada piena di sassi.
Cammino e inciampo continuamente fra desiderio di tornare indietro e volontà di andare avanti. Ogni volta che inciampo ho in mente sempre le stesse domande.
(Disponendosi in cerchio, con le spalle al pubblico, la I Madre al centro)
Hai fatto bene? Lo rifaresti? Perché l’hai fatto? Chi te l’ha fatto fare… Che cosa volevi?
Niente, solo un paese migliore…(grida, esce dal cerchio, le altre donne tornano a sedere)
L’avvocato mi ha detto che non mi devo scoraggiare, che quello che ho fatto è un buon esempio per tutti gli altri… ma io non mi sento un buon esempio, per esempio, avrei dovuto essere una madre più attenta…
Ci sono altre persone come me. Non siamo molti, forse una settantina Spesso mi capita di pensare a loro, chi sono cosa fanno, se hanno paura come me, se si sentono soli, siamo una piccola folla di ombre. Siamo ombre che sanno vivere solo al buio, abbiamo paura del mattino, della luce del sole, la notte è scesa sulle nostre vite e non se n’è più andata.
Siamo quelli che, “senza aver fatto parte di organizzazioni criminali- anzi essendone a volte vittime, hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza”. La legge così ci dipinge… tutto vero, però bisogna aggiungere un aspetto importante. Noi siamo quelli senza volto, o meglio quelli che hanno un volto che cambia sempre, tante facce, nessuna faccia. (Siede)
(Silenzio)
CORO Il luogo d’origine te lo devi scordare. Ma quella è la cosa più facile da fare. I luoghi d’origine dei testimoni di giustizia, sono luoghi in cui non si vive, dove si è persa la serenità, cammini per strada e hai paura di essere seguito, spiato, fermato, minacciato. Conosci qualcuno e pensi, fa parte del giro? E’ legato a qualche famiglia? E sospetti, sospetti sempre, il sospetto è il tuo modo di ragionare…Quel luogo non ti è più caro è diventato estraneo pericoloso è un luogo senz’anima. E’ un luogo contaminato…Un virus improvvisamente è entrato nella tua famiglia, la famiglia che tu credevi perfetta. La camorra ha messo gli occhi su di te.
(Silenzio)
La camorra è come un tir. Si porta dietro un carico pesante, pieno di vittime, quelle morte, ma pure quelle vive. Tu vai per strada in bicicletta, la camorra ti passa accanto con il suo tir, tu sbandi, riprendi a pedalare, oppure cadi. Quel tir corre veloce e trascina tutto quello che trova intorno. Passa sfrecciando e fa volare le foglie a terra, quelle che sono appena cadute dagli alberi e hanno voglia di starsene ancora un po’ tranquille a godersi qualche raggio di sole. Ma il tir passa e le fa volare via…Le manda una di qua, l’altra di là, loro che se ne stavano tranquille, in gruppetti, allegre e colorate, improvvisamente sono separate, divise, trasformate. Le foglie non sono più foglie, solo un po’ di polvere sull’asfalto…
(Silenzio. Si alza)
E’ cominciato tutto una notte, mio figlio mi sveglia e dice
-Ho fatto la pipì nel letto, mi alzo cambio le lenzuola.
-Non preoccuparti piccolo mio, può succedere. Cerco di tranquillizzarlo.
La cosa si ripete per molto tempo. E’ diventato silenzioso…
(Silenzio)
 Va in bagno solo se accompagnato da qualcuno.
-Sei grande devi andare da solo.
Ha cominciato a portarsi in bagno tutti i suoi giocattoli e persino la tazza del latte.
Dopo, molto dopo, ho capito il perché.
Uno zio di mio marito e un suo amico. (…)
Nella palestra dove giocava (…)
Per mesi interi (…)
E non avevo capito niente (…)
Si è portato questo dolore dentro per tanto tempo. (…)
E lo sgridavo, se diceva tante volte “buonanotte” prima di addormentarsi (…)
E lui diceva, ho paura, mamma, non voglio andare in palestra.
Devi imparare ad affrontare le tue paure, nella vita bisogna avere coraggio. Rispondevo, senza capire niente.
Sarò coraggioso come gli antichi cavalieri e andava
E io dicevo bravo, ma non gli ho mai chiesto la cosa più importante.
- Di cosa hai paura amore? Ti è successo qualcosa?
Ho fatto la solita vita per tanto tempo (…)
La solita vita mentre lui soffriva, mentre il suo mondo cambiava (…)
E non avevo capito niente (…)
Ma quando finalmente ho aperto gli occhi, potevo stare zitta? Potevo fare finta di niente?
 “Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi…” Di pensare…
Allora ho telefonato alla polizia. Mio marito non era molto convinto, ma poi ha detto sì. E così è cominciato tutto…
La gente del paese era quasi infastidita dalla mia denuncia.
-Ci avete buttato la vergogna in faccia!
-Andate via, fuori, via da questo paese.
-Vergogna.
Vergogna? (Torna a sedere. A bassa voce) Ci gridavano dietro, ci lanciavano sputi, ci hanno rotto i finestrini della macchina, mia figlia non usciva più di casa le amiche non la cercavano più. Il citofono, il telefono, squilli continui c’era chi chiedeva un’intervista esclusiva, qualcuno mi riprendeva di nascosto. Volevano sapere tutto, perfino i particolari…
Per giorni e giorni sei al centro di un ciclone. Il tir è passato e ti ha travolto.
(Silenzio)
Ci sono due case quella esterna, quella che vedono gli altri e quella interna, quella che sognavi, non ha finestre, le porte non ci sono, tu vorresti che la casa esterna si avvicinasse un po’ a quella interna, vorresti che le somigliasse almeno in parte, in qualche piccolo particolare e ti sforzi per migliorare, per piantare un piccolo seme, per te, ma anche per gli altri. Poi capisci che sei sola che solo tu lo vedi quel seme e allora cominci a dubitare, quello che hai fatto, era veramente ciò che andava fatto? CORO (In piedi, camminando in cerchio) Hai pensato agli altri o solo a te stessa?
Potevi vivere quel dolore in silenzio.
Potevi piangere in cucina mentre preparavi la cena.
Potevi sorridere fuori e tirare avanti lo stesso.
Potevi aspettare l’oblio, esiste il diritto all’oblio. Il silenzio prima o poi, arriva.
Ma tu volevi giustizia. (In piedi immobili)
Quegli uomini sono stati condannati. Ma i loro parenti, quelli, hanno continuato a seguirci.
(Silenzio)
In un altro paese tu denunci la cosa e tutto finisce, certo la tua vita comunque è rovinata ma si può andare avanti. Invece per noi non è stato così, è come se fossimo sempre fermi in quel punto, il tempo si è fermato nel momento in cui abbiamo saputo, giriamo nel recinto come animali in gabbia e non c’è un’uscita per noi.
Dopo la condanna è iniziata la vendetta della camorra. Mio marito l’hanno sparato.
(Silenzio)
Mia figlia ha visto quegli uomini in faccia.  Da quel giorno viviamo sotto protezione.
Prima siamo stati trasferiti in un residence, era una soluzione temporanea, a noi sembrava di essere in vacanza, era un luogo di mare. Ci sembrava di essere usciti da un incubo. A settembre abbiamo cambiato città, poi abbiamo cambiato ancora e ancora, siamo passati di paese in paese, di casa in casa. A Gennaio sono iniziati i problemi. Un giorno mia figlia esce da scuola e vede due uomini, li conoscevo bene, erano parenti dei pedofili. Allora ho capito che non ci avrebbero mai lasciai in pace. Qualcuno, sempre, ci avrebbe inseguito. Quelli non dimenticano.
In una notte abbiamo fatto i bagagli e ci hanno portato in un altro posto.
(Si alza comincia lentamente a riempire la valigia con gli oggetti sparsi ovunque, le altre donne in un’azione coreografata, l’aiutano)
Tutto in poche ore. Nel buio mentre i vicini dormivano.
Camminare in punta di piedi e svelti nella casa che dorme.
Preparare le valigie velocemente, convincere i ragazzi ad andare.
-Prendete il necessario, andiamo, andiamo, svelti, lasciate stare il superfluo. Presto, fate presto, solo il necessario, solo il necessario.
Ecco, la cosa più difficile è proprio questa: prendere il necessario e lasciare il superfluo. Decidere cosa è superfluo. Le cose che sembrano inutili custodiscono ricordi. I libri che ti hanno regalato…
- Non puoi portarli tutti. Sono tanti …
- Lascia stare quelle boccettine di profumo ne prenderemo altre.
-Ma erano di papà…
-Allora portale, ma fai presto, presto…
-No, quel quadro proprio non ci sta…
-Non preoccuparti per i fumetti, arriveranno dopo…
-Si, ma dopo quando? L’ultima volta è passato tanto tempo.
E’ difficile decidere che cosa è superfluo. A volte avresti voglia di fare il contrario prendere il superfluo lasciare andare il necessario.
Alla fine i luoghi sono diventati tutti uguali.
Mi capita di fare amicizia, qualcuno s’incuriosisce.
-Piacere io mi chiamo Valerio e lei?
-Piacere Maria, no Virginia, sì mi chiamo Virginia, è il mio secondo nome, mi piace di più.
-Qual è il suo hobby?
-Hobby?
-Sì, il suo passatempo preferito, che cosa le piace fare…
-Oh…il mio hobby è tanto tempo che non ho un hobby …non so una volta mi piaceva nuotare…ma è passato tanto tempo. No, non credo di non avere un hobby…
Poi cambi luogo e tutto finisce, passano gli anni e non ti cerca più nessuno.
(Chiude la valigia e la posa accanto alla sedia)
Quelli del servizio di protezione sono gentili, comprensivi, sono gli unici nostri amici.
Ma non sono amici è diverso, loro devono sorvegliare, garantire la nostra sicurezza, non possono concedersi distrazioni. In casa abbiamo cominciato a litigare per delle sciocchezze. Mio figlio vuole solo dimenticare non parla mai, del fatto, anzi non parla proprio, il minimo indispensabile…una volta ho provato ad accennare qualcosa mi ha risposto in modo aggressivo:
CORO (avanzando decise, in riga lentamente) Ho parlato ai carabinieri, all’avvocato, al giudice, ai medici, agli psicologi? Ho parlato quando si doveva parlare? Adesso basta, adesso non si parla più. Hai capito? Adesso basta.
E’ proprio vero, adesso basta, ma basta veramente, nessuno più ci deve inseguire. E noi non dobbiamo più scappare. E’ così, è proprio così…
CORO (sedute) Sulla panchina le ore passano lente. Una farfalla si ferma accanto a te, insegui il suo volo per un po’, sparisce fra i rami, diventi per un attimo leggera come lei, pensi, è possibile un’altra vita, poi torna la polvere. Io mi sento come se avessi la polvere sempre in faccia, quella del tir. Mi lavo la faccia anche dieci volte al giorno, ma la polvere sta sempre là.
(Silenzio)
Sono scappata di notte, come una ladra. Sono riuscita ad evitare il servizio di sorveglianza. Non ho detto niente a nessuno, neanche ai figli miei. Ho preso il treno e sono andata, dove sapevo di trovarli.
Sono qui da stamattina, intanto ha cominciato a piovere, non ha ancora smesso, è arrivato il vento. Al mio paese spesso piove col vento, allora la pioggia non si sente.
Questa volta sono io che aspetto, questa volta sono io, che spio. Prima o poi, da quel palazzo, usciranno, con le loro facce di morte. Mi bastano tre colpi, tre colpi, due per loro e uno per me
 (Silenzio, siede)
Ho visto le ore sfilare, fra la pioggia e il vento.
Ma venga pure il mattino. Io non ho fretta…ASPETTO.

UNA SERA COME TANTE

L’omofobia, in questo corto teatrale fa da sfondo a un altro sentimento, comune alla maggior parte di noi: la paura, che ci rende vili, nel momento del bisogno.
Una madre sola al centro della scena. Ha una sciarpa rosa intorno alle spalle. Immaginiamo sia in un obitorio, è stata chiamata per riconoscere il cadavere del figlio omosessuale, ucciso da un gruppo di teppisti.
Mi hanno chiamato per il riconoscimento.
Lui non c’è, non è in questa stanza. Non è qua.
Silenzio
Vi dico non è lui, non è lui. I suoi capelli sono diversi. Più lisci e poi le mani, no, quelle non sono le sue. Lasciatemi passare, voglio uscire fuori, me ne voglio andare, lasciatemi andare. Lui non c’è, non è qui, vi ho detto.
Si gira di spalle, fa per andare. Guarda a sinistra, poi torna indietro
Perché gli hanno fatto questo perché? Non si è difeso è vero? Sono sicura che è così.
Era così fragile...Da bambino lo chiamavo, nuvola, per la leggerezza con cui correva. Saltava la staccionata del giardino, era agile, veloce. A volte tornava a casa con dei lividi, sulle braccia, sulle gambe. Una volta un occhio nero. Si era tirato il cappello sulla fronte per non farmi vedere. Quando lo prendevano in giro, se ne stava in un angolo in silenzio. Sei caduto, dimmi la verità, sei caduto? Lo sapevo che non era così. Ti devi difendere pure tu, tira qualche schiaffo, non puoi stare sempre zitto. Grida, alza la voce, protesta. Fatti sentire.
-Non lo so fare mamma.
E’ vero, non lo sapeva fare. Allora me lo stringevo al petto, era così buono, così indifeso. Il giorno dopo, però andavo a parlare con i professori.
-Dovete fare qualcosa, fate un discorso, dovete parlare in classe. Che ci state a fare se no? Se possono spingere un ragazzo contro il muro e riempirlo di pugni per una sciarpa rosa, che ci state a fare voi. Eh? Qualcuno capiva, qualcun altro scuoteva la testa. Oppure dicevano, va bene, ma poi non cambiava niente lo stesso. Ho cercato di capirlo questo figlio mio, mi sono messa d’impegno e non è stato facile per me, mi facevo tanti ragionamenti dentro a questa testa, piena di dubbi, ma poi l’amore vinceva sempre, stagli vicino ha bisogno di te, stagli vicino, se vede pure negli occhi tuoi lo stesso disprezzo, le stesse meschinità degli sguardi degli altri, l’hai perso. E mò che l’ho perso veramente, che me ne faccio di questa vita mia? le mamme non devono atterrare i figli. Che me ne faccio di tutta quella luce che mi aspetta là fuori? Di questa primavera? Gli piacevano i fiori.
Silenzio
Aveva sempre quello sguardo indifeso, e il suo sorriso, era speciale, era un ragazzo comprensivo, sapeva capire gli altri. Quando la sera tornavo a casa stanca mi faceva trovare tutto pronto, amava cucinare, preparava dei piatti speciali, oppure io cucinavo e lui mi faceva compagnia, mi leggeva qualcosa. Qualche bella poesia. “Una sera come tante, e nuovamente noi qui, chissà per quanto ancora...”  E poi l’altro pezzo non me lo ricordo...Non so nemmeno di chi è questa poesia. Voi lo sapete di chi è? Lo sapete? Non lo sapete manco voi...Leggeva bene ad alta voce, teneva una bella voce, anche le maestre a scuola lo dicevano.
Silenzio
 Non si è difeso e non si è messo nemmeno a gridare a chiedere aiuto...Lo so me lo immagino, nella mia mente sta ancora là, steso a terra con i pantaloni abbassati, la camicia strappata, macchiata di sangue, in mezzo al fango e nessuno lo aiuta. Lo so, so tutto. Sono stata informata. Erano in cinque hanno cominciato a bere a gridare
- Vai via di là, frocio, vattene via questa è la nostra panchina.
Possibile nessuno li ha sentiti gridare? Possibile? Nessuno ha detto, lasciatelo stare. Nessuno. Lui sicuro si è alzato, per spostarsi, forse avrà avuto paura, ma no, alla morte non ci ha pensato. Poi loro gli sono andati dietro lo hanno spinto lo hanno preso a calci a pugni. Alza la voce a mamma, difenditi grida, grida più forte. Nella mia mente sta ancora là, steso a terra, non si alza, alzati, ci prova ma non ce la fa, resta là...Che ti è successo? Chi, chi è stato? Chi ti ha fatto questo? Chi? Non ha chiesto aiuto. Nessuno ha sentito niente. Nemmeno un lamento. Possibile? Non ci credo...Sono sicura che qualcuno ha visto qualcosa e magari se n’è pure scappato, per la paura. Sì...per la paura...La paura fa perdere la testa alla gente. Anche quelli che l’hanno ucciso in fondo è gente che ha paura, tengono paura della loro stessa diversità. Non dovevamo venire in questa città. Ce ne dovevamo stare giù, al paese nostro. Lì in paese tutti lo conoscevano, sì è vero...quando passavamo qualcuno indicava col dito, qualcuno sorrideva, altri si davano le gomitate. Io poi li guardavo in faccia bene tutti quanti e continuavamo a camminare, così, a testa alta, in mezzo a loro. Nessuno fiatava, nessuno diceva niente. Si vergognavano della loro vergogna. C’è l’indifferenza di chi sa e l’indifferenza di non vuol sapere e in mezzo ci stanno quelli come il figlio mio.
Silenzio
Sì... è lui...E’ lui e non è lui. Io non lo posso vedere così, lo dovete capire, nella mia mente il tempo si è fermato ...Scappa corri a mamma, corri...non ce la fa... sta ancora steso terra con le braccia avanti la faccia verso la strada, non ce la fa ad alzarsi, non ce la fa... ha provato a scappare sono sicura... Gli occhi chi sa, erano aperti? Glieli avete chiusi voi? Aveva gli occhi azzurri, ve ne siete accorti? Come il cielo del paese mio quando è limpido e il vento caccia via le nuvole. Aveva un braccialetto al polso, glielo avevo regalato io, l’avete trovato? Non l’avete trovato? Si sono presi pure quello, insieme alla vita sua. Chiudete, chiudete pure. E’ lui. No, non lo voglio sapere chi è stato, se li state cercando, se li avete presi. Non mi interessa. Non lo voglio sapere. E’ successo e basta. E’ successo che era sera, in mezzo a gente sconosciuta. Se n’e andato da solo. Una sera come tante.
Porta la sciarpa al viso. Chiude gli occhi, ne annusa il profumo, la stringe sul seno. Si gira di spalle. Buio

A VOLTE IL SILENZIO

A volte sento il silenzio, un vuoto nella testa. Altre volte una folla di gente che mi parla ma mica capisco sempre quello che dicono. Uomini donne bambini, che si lamentano, per lo più di cose inutili. Le voci si sovrappongono. Parlano tutte assieme. Mi capita di sentire pezzi di conversazioni. Non so se ce l’hanno con me, con qualcun altro o se approfittano della mia testa per incontrarsi e parlarsi fra loro come quando uno va al bar o al circolo culturale. Comunque a me piace credere che parlano con me e mi faccio coinvolgere. Spesso rispondo, dialogo come se fossero lì davanti a me, ci manca solo che gli offro un caffè
- Perché quel giorno hai preso il tram? Potevi andare in metropolitana.
- Se non ricordo male, c’era lo sciopero. No, la metropolitana era bloccata, momentaneamente chiusa, una donna si era buttata sotto. Quante parolacce si è presa dalla gente. Io pregavo e altri a insultarla.
- Poveretta... Ho detto ad alta voce.
Una signora in tacchi rossi mi ha squadrato con aria schifata: quel giorno non ero al massimo del mio splendore...Le voci si erano affollate più del solito, avevo una faccia a punto interrogativo che faceva pietà.
- Lo sa quanto mi costa questo? Lo sa quanto mi costa il suo suicidio del cazzo? Ho perso un cliente, milioni di affari.
- Mi dispiace ho sussurrato ai tacchi rossi.
- Ma va a quel paese. Ha gridato girando i tacchi, rossi.
L’ho vista mentre si allontanava con i polpacci che traballavano su quelle scarpe lucide e sottili, zampe di fenicotteri al ballo mascherato. L’hanno arrestata qualche giorno dopo, ho visto la sua faccia alla televisione sbraitava ancora, non aveva appuntamento con un cliente normale ma con una mazzetta. Urlava e gesticolava con le mani che sembravano pale di un mulino a vento e gli occhi fuori dalle orbite, palline da ping-pong gialle di bile, faccia di plastica, zigomi da botulino, labbra gonfiate a palloncino, rosso pagliaccio, denti bianchissimi affilati, con la lingua doppia, una lunga lunghissima ipsilon; pronunciava parole di vento, sono innocente, è un complotto, magistrati corrotti, lei non sa chi sono io... Io tra la folla la vedevo, sputare tacchi rossi, unghie smaltate e labbra corallo, lo sapevo bene chi era: una che non ha pietà nemmeno per i morti.
C’è una voce che proprio sopporto... continua a dire che l’olio extravergine d’oliva si deve usare a crudo, combatte il colesterolo questa non l’ascolto per niente...Mi fa perdere solo tempo e basta, io manco ce l’ho il colesterolo.
Per non parlare di quella che mi sussurra: stai meglio con la frangia, tagliati i capelli quando lo faccio sembro uno spaventapasseri. Faccio schifo più di prima.
Mia madre era malata come me, pure lei sentiva le voci. E’ finita in manicomio, non so quante volte, entrava e usciva dai manicomi, l’ultima volta, le hanno fatto pure l’elettroshock, dopo non è tornata più come prima. Non ho mai capito perché due, tre volte all’anno, finisse in quel posto orribile dove i medici parlavano a bassa voce e le infermiere mi guardavano cariche di pietà, la nostra vita scorreva sulle loro labbra, poi giravano le spalle sussurrando poveretta, con una madre così... a me, sembrava normalissima. Era mio padre che continuava a portarla in quel posto, voleva così. Fuori dalle scatole. Stava più tranquillo e si faceva i fatti suoi. Poteva vedersi con quelle sue amiche e a volte le portava pure a casa. Mamma non era malata era un tipo originale, non doveva sposarsi con papà. Lui era un uomo metodico faceva sempre tutto alla stessa maniera, non cambiava mai niente. La mattina si alzava e apparecchiava per la colazione con una precisione che mi faceva paura, per me era lui il malato. Mamma amava dipingere e poi le piaceva nuotare lo faceva anche d’inverno, abitavamo vicino al fiume. Mio padre diceva, quella è matta da legare, dai retta a me, stai lontano da lei o finirai pure tu così Quando tornava da quel posto era apatica, dormiva sempre e dimenticava le cose. Allora papà si arrabbiava andava via e per un po’ di giorni non lo vedevamo, andava a stare da qualche sua amica, vivevamo bene senza di lui Peccato, tornava sempre, le amiche lo cacciavano via a calci nel culo, l’ho detto, era un uomo metodico, difficile da sopportare. Mamma quando lui ritornava, si spegneva, non sorrideva più.
Un giorno si è spenta per sempre. Le ha spaccato il cranio in due, come si fa con un melone, il cervello è uscito fuori, in tutta la sua bellezza, era luminoso e brillante, proprio come lei, è scivolato fuori con tutti i suoi pensieri, avevano uno strano odore però, l’odore di una vita passata senza amore. Se parli ti ammazzo. Avevo sette anni. Non ho detto niente. Nessuno mi avrebbe creduto. I numerosi resti sono finiti nel fiume. La corrente li ha trascinati fino al mare. Era un uomo forte. L’ho visto, solo una volta dopo quel giorno, è venuto lui a cercarmi.
Sono cresciuta in uno di quei posti dove vanno quelli che non hanno nessuno. Ma io qualcuno ce l’avevo eccome, una folla di voci che mi chiamava dentro la testa. Fra la corteccia e le sinapsi. Ognuna al suo posto. Ognuna occupava uno spazio preciso e per me ne restava ben poco. Era una guerra continua. Un conflitto aperto fra mente che parla e silenzio che ascolta. Tutte volevano avere ragione, pretendevano di essere ascoltate e il fatto che era realmente accaduto, quello, era rimasto nell’ombra, come se non fosse mai avvenuto, rimasto lì, in quell’angolo della mente, dove finiscono le cose inutili. Ero sempre in guerra, con le voci e con me stessa. Dopo, molto tempo dopo ho capito che non bisogna aver paura dei silenzi. Ed è stato come se avessi vinto una guerra. A casa mia non parlava mai nessuno, io avevo paura di quei silenzi che all’improvviso esplodevano in rabbie incontrollate. Gridava solo mio padre però, mia madre lo guardava e lo faceva ancora più arrabbiare, poi arrivavano i medici e se la portavano via. Non ho mai capito perché portavano via lei e non lui. Questo non l’ho mai capito. Io perciò sentivo le voci, avevo paura dei silenzi.
- Basta smettetela, andate via, via, non voglio più ascoltarvi.
Una volta per un giorno intero non hanno più parlato, ho avuto paura. A quel tempo il silenzio mi faceva ancora paura. Poi ho imparato ad amarlo. Ho imparato cercare il silenzio svuotando la mente. Faccio andare la mente sott’acqua e tutto si attutisce. Quando non voglio ascoltarle faccio così, immagino di stare in fondo al mare.
Una volta sono finita veramente sott’acqua. Mi ero fissata che potevo respirare.
- Hai le branchie, credimi, ce la puoi fare.
A furia di sentire quella voce mi sono convinta e mi sono tuffata. Mi hanno tirata fuori due pescatori credevano che mi volessi suicidare per amore. Mi hanno fatto pure la respirazione bocca a bocca, avevano l’alito che puzzava di grappa ma mi hanno salvata. Quel giorno sono nata di nuovo:
-Nata due volte.  Ha detto il pescatore
-Non lo faccia più signorina non ne vale la pena, per un uomo... è così bella ne troverà un altro.
Ma io non ci pensavo proprio all’amore. Io scappavo dalle voci volanti.
(...)
E’ arrivato una sera all’improvviso. Come se gli anni non fossero passati, come se non avesse fatto nulla, come se fosse un uomo come tanti, un padre affettuoso.
(...)
-Ho bisogno di aiuto
-Dimmi
-Hanno trovato il cadavere
-Il mare, prima o poi, restituisce tutto
-Devi testimoniare. Quella notte non ero lì, non ero in casa.
- C’eri, lo ricordo benissimo.
- Per dio, lo so che c’ero ma tu devi dire il contrario, hai capito?
- Ho capito
-Bene, allora verrai?
- Non lo so
- Sei una troia, peggio di tua madre
- Dimmi una cosa
- Cosa?
- Pensi che la mia testa sia un melone?
- Che cazzo dici? Verrai?
-Non so se posso
-Devi, sono tuo padre
- Sono malata.
-Come lei?
-Forse sì
-Verrai? ... Verrai?
(...)
Non ho risposto. Anche la sua, era una voce come tutte le altre. Una voce volante.
Non andai. Non potevo. L’ho detto, ero malata. Vennero due uomini a chiedermi di lui. Mi interrogarono, diedi risposte senza senso, parlai di un melone che sembrava una testa, di un coltello da cucina conservato con cura in un cassetto, c’erano ancora le impronte, dei pensieri scivolati sul pavimento. Ma capirono lo stesso. Erano intelligenti quei poliziotti. Nonostante le voci riuscii a dare un’idea, di quello che era accaduto, se ne andarono così come erano arrivati: titubanti e in punta di piedi... Gli hanno dato l’ergastolo. Mi ha chiesto di vederlo, non ci sono andata. Mi ha lasciato dei soldi, non li ho voluti. Si è ucciso qualche giorno fa, al tramonto. Il sole declina ogni giorno. Si può vivere due volte ma si muore una volta soltanto.

I CIGNI NON SANNO VOLARE

 A scuola vado bene. Ho dodici anni, però frequento la quinta elementare, mi hanno bocciato due volte, perché non conoscevo la lingua, mi spostavo da una casa all’altra, non c’era mai tempo per imparare. Poi ho cambiato città, ho cambiato scuola, ho cambiato compagni. La maestra dice che sono brava e devo studiare. Sono intelligente, dice proprio così, anche se non parlo mai, come farà a capirlo, non lo so. Io dentro di me le parole le ho tutte, quelle cinesi, ma anche quelle italiane. Eppure non riesco a dire nulla ad alta voce. Non mi piace il suono della mia voce italiana.
Io sto fra due mondi: a casa parlano tutti il cinese a scuola ascolto l’italiano. I miei parenti non vogliono sentirmi parlare in italiano, hanno paura che dimentico il cinese. So scrivere bene in italiano. Però a volte dimentico qualche doppia, qualche erre, qualche congiuntivo... La maestra dice che è normale e mi accarezza i capelli. E’ una brava maestra, la scuola è la sua vita, ha gli occhi del mare della Cina, blu scuro, e parole che volano come il vento, magari l’avessi incontra prima: nessuno mi avrebbe bocciato. La sera lavoro in un laboratorio per aiutare i miei cugini. Cucio borse, sciarpe, cappelli, sono le cose più facili da fare e poi metto i bottoni, oppure sistemo gli attrezzi. A scuola gioco in italiano. (Si alza, corre su e giù per la scalinata) Con i miei cugini cinesi, quando non dobbiamo lavorare, giochiamo in cinese i nostri giochi sono simili a quelli dei bambini italiani, si corre, si salta, si ride, è quasi tutto uguale. Tranne che con la carta, noi con la carta siamo più bravi, una volta ho costruito un cigno per la mia maestra, tutto bianco, con il becco e le ali rosa. (Torna a sedere) La maestra lo ha messo sulla cattedra. Era un cigno felice, da lassù ci guardava e aspettava il momento giusto per spiccare il volo. I cigni non sono bravi a volare, volano con fatica: prima scivolano sull’acqua, poi aprono le ali e se tutto va bene, se ne vanno in cielo, altrimenti restano dove sono e aspettano, aspettano...  forse aspettano il momento giusto. Proprio come me.
Qualche bambino non vuole sedere vicino a me, dice che puzzo di tinture, allora la maestra dice che non bisogna comportarsi così; la classe diventa più buia, perché non c’è amore, quando non c’è amore si spegne il sole. Ma io lo capisco, non è lui a dire quelle cose, lui ripete solo le parole del suo papà. Il suo papà ha perso il lavoro: ce l’ha con i cinesi perché dice che stiamo dappertutto. Ma non capisce che siamo arrivati qui per non morire, i miei genitori sono morti in Cina, per colpa della diga, la diga si è mangiata tutte le case, per questo siamo venuti in Italia. Il nostro paese si affacciava sulla grande diga, adesso non c’è più. Io vivo con mia zia, è gentile, lavora molto, non si stanca mai, cerco di aiutarla come posso.
La maestra parla spesso di integrazione. Dice che dobbiamo imparare a stare insieme, tutti quanti, ognuno con le sue differenze. «Le differenze sono una ricchezza», allora io sono la più ricca, conosco tante cose del mio paese ma anche degli altri paesi che ho girato. Ne ho viste di differenze. La maestra dice che non dobbiamo fare imbrogli, prenderci in giro fra di noi...dobbiamo volerci bene...Allora perché Maria quella volta mi ha regalato un braccialetto e poi se l’è ripreso? Ha detto che non avevo capito bene, che era solo un prestito ma io avevo capito benissimo: me l’aveva proprio regalato. Al mio paese il regalo è sacro, un dono non torna mai indietro.
La mia migliore amica si chiama Giulia, lei dice che sono fortunata ad avere i capelli lisci così non devo stirarli con la piastra come fa sua sorella che passa tante ore nel bagno a lisciarsi i capelli e ha parlare con il suo ragazzo...L’unica mia sfortuna, secondo lei, è che sarò sempre straniera.
- Perché? Le ho chiesto con i miei soliti gesti.
- Perché sei “strana”, non parli mai!
Allora ho cambiato idea, io penso che mi conviene parlare, non voglio essere: “strana”.
(Silenzio. Si alza, raccoglie gli abiti sparsi sulla scena e li mette nello zaino)
Ma forse è tardi, dovevo pensarci prima. Il padrone del laboratorio dove lavoriamo, è stato arrestato. Dobbiamo andare via. La zia ha un fratello in Bangladesh, troveremo lavoro lì. Dovrò cambiare di nuovo casa.
La maestra aveva il viso triste quando gliel’ho detto: «Vado via».
Solo due parole e non suonavano neanche tanto male nella mia voce italiana... Lei ha provato ad aiutarmi, a farmi rimanere, voleva adottarmi ma la legge italiana non lo permette. Non è sposata.  
(Silenzio. Posa lo zaino, al centro della scena, prende il cigno di carta, scende in platea, consegna il cigno ad uno spettatore, ritorna sulla scena resta in piedi al centro, immobile. Lentamente, si porta le mani alle orecchie, chiude gli occhi, li riapre, va verso la cornice e si dispone al centro)
Io non volevo venire in Bangladesh, io stavo bene in Italia e adesso che sono qui, fra le macerie e il fumo, la mia voce chi la sente? Questi tessuti puzzano e ci pagano poco, inutile fatica, che basta appena per mangiare, una sola volta al giorno. Quel giorno ero stanca volevo dormire, non volevo andare a lavorare. Mi ricordo che ho pianto e poi mi sono vergognata, vedendo le mani affaticate e screpolate della zia.  Così mi sono vestita in silenzio e sono andata in fabbrica. Io piango raramente. Quel giorno, mentre piangevo, cucivo vestiti. Poi non c’è stato più tempo neanche per piangere, all’improvviso un’esplosione si è portata via tutte le lacrime.
Quando le fiamme si sono alzate io ho provato a scappare. Ma la zia era rimasta intrappolata. Allora sono tornata indietro. Volevo aiutarla. Il fumo è stato più veloce di noi: in un lampo, si è preso le nostre vite. Se non riuscite a parlare, se non amate il suono della vostra voce, non vi preoccupate, un motivo c’è: a volte il silenzio è necessario. E’ troppo doloroso ricordare. La parola, è nel ricordo. Voi che potete parlare, voi che potete, ancora, sognare... ricordatevi di me. (Sale lentamente a uno a uno i gradini della piccola scalinata, poi si gira verso il pubblico) E adesso che il sole m’illumina vedo bene gli errori dei grandi. Di tutti quelli che potevano fare qualcosa e non hanno fatto niente. Di tutti quelli che potevano dire qualcosa e non hanno detto niente. (Resta immobile in cima alla scala, con le braccia aperte e lo sguardo in alto, una piccola pioggia di ali di carta inonderà la scena)
I cigni non sanno volare ma il loro canto, ha le ali...
A volte il silenzio

A volte sento il silenzio, un vuoto nella testa. Altre volte una folla di gente che mi parla ma mica capisco sempre quello che dicono. Uomini donne bambini, che si lamentano, per lo più di cose inutili. Le voci si sovrappongono. Parlano tutte assieme. Mi capita di sentire pezzi di conversazioni. Non so se ce l’hanno con me, con qualcun altro o se approfittano della mia testa per incontrarsi e parlarsi fra loro come quando uno va al bar o al circolo culturale. Comunque a me piace credere che parlano con me e mi faccio coinvolgere. Spesso rispondo, dialogo come se fossero lì davanti a me, ci manca solo che gli offro un caffè
- Perché quel giorno hai preso il tram? Potevi andare in metropolitana.
- Se non ricordo male, c’era lo sciopero. No, la metropolitana era bloccata, momentaneamente chiusa, una donna si era buttata sotto. Quante parolacce si è presa dalla gente. Io pregavo e altri a insultarla.
- Poveretta... Ho detto ad alta voce.
Una signora in tacchi rossi mi ha squadrato con aria schifata: quel giorno non ero al massimo del mio splendore...Le voci si erano affollate più del solito, avevo una faccia a punto interrogativo che faceva pietà.
- Lo sa quanto mi costa questo? Lo sa quanto mi costa il suo suicidio del cazzo? Ho perso un cliente, milioni di affari.
- Mi dispiace ho sussurrato ai tacchi rossi.
- Ma va a quel paese. Ha gridato girando i tacchi, rossi.
L’ho vista mentre si allontanava con i polpacci che traballavano su quelle scarpe lucide e sottili, zampe di fenicotteri al ballo mascherato. L’hanno arrestata qualche giorno dopo, ho visto la sua faccia alla televisione sbraitava ancora, non aveva appuntamento con un cliente normale ma con una mazzetta. Urlava e gesticolava con le mani che sembravano pale di un mulino a vento e gli occhi fuori dalle orbite, palline da ping-pong gialle di bile, faccia di plastica, zigomi da botulino, labbra gonfiate a palloncino, rosso pagliaccio, denti bianchissimi affilati, con la lingua doppia, una lunga lunghissima ipsilon; pronunciava parole di vento, sono innocente, è un complotto, magistrati corrotti, lei non sa chi sono io... Io tra la folla la vedevo, sputare tacchi rossi, unghie smaltate e labbra corallo, lo sapevo bene chi era: una che non ha pietà, nemmeno per i morti.
C’è una voce che proprio non sopporto... continua a dire che l’olio extravergine d’oliva si deve usare a crudo, combatte il colesterolo questa non l’ascolto per niente...Mi fa perdere solo tempo e basta, io manco ce l’ho il colesterolo.
Per non parlare di quella che mi sussurra: stai meglio con la frangia, tagliati i capelli quando lo faccio sembro uno spaventapasseri. Faccio schifo più di prima.
Mia madre era malata come me, pure lei sentiva le voci. E’ finita in manicomio, prima della 180, non so quante volte, entrava e usciva dai manicomi, l’ultima volta, le hanno fatto pure l’elettroshock, dopo non è tornata più come prima. Non ho mai capito perché due, tre volte all’anno, finisse in quel posto orribile dove i medici parlavano a bassa voce e le infermiere mi guardavano cariche di pietà, la nostra vita scorreva sulle loro labbra, poi giravano le spalle sussurrando poveretta, con una madre così... a me, sembrava normalissima. Era mio padre che continuava a portarla in quel posto, voleva così. Fuori dalle scatole. Stava più tranquillo e si faceva i fatti suoi. Poteva vedersi con quelle sue amiche e a volte le portava pure a casa. Mamma non era malata era un tipo originale, non doveva sposarsi con papà. Lui era un uomo metodico faceva sempre tutto alla stessa maniera, non cambiava mai niente. La mattina si alzava e apparecchiava per la colazione con una precisione che mi faceva paura, per me era lui il malato. Mamma amava dipingere e poi le piaceva nuotare lo faceva anche d’inverno, abitavamo vicino al fiume. Mio padre diceva, quella è matta da legare, dai retta a me, stai lontano da lei o finirai pure tu così Quando tornava da quel posto era apatica, dormiva sempre e dimenticava le cose. Allora papà si arrabbiava andava via e per un po’ di giorni non lo vedevamo, andava a stare da qualche sua amica, vivevamo bene senza di lui Peccato, tornava sempre, le amiche lo cacciavano via a calci nel culo, l’ho detto, era un uomo metodico, difficile da sopportare. Mamma quando lui ritornava, si spegneva, non sorrideva più.
Un giorno si è spenta per sempre. Le ha spaccato il cranio in due, come si fa con un melone, il cervello è uscito fuori, in tutta la sua bellezza, era luminoso e brillante, proprio come lei, è scivolato fuori con tutti i suoi pensieri, avevano uno strano odore però, l’odore di una vita passata senza amore. Se parli ti ammazzo. Avevo sette anni. Non ho detto niente. Nessuno mi avrebbe creduto. I numerosi resti sono finiti nel fiume. La corrente li ha trascinati fino al mare. Era un uomo forte. L’ho visto, solo una volta dopo quel giorno, è venuto lui a cercarmi.
Sono cresciuta in uno di quei posti dove vanno quelli che non hanno nessuno. Ma io qualcuno ce l’avevo eccome, una folla di voci che mi chiamava dentro la testa. Fra la corteccia e le sinapsi. Ognuna al suo posto. Ognuna occupava uno spazio preciso e per me ne restava ben poco. Era una guerra continua. Un conflitto aperto fra mente che parla e silenzio che ascolta. Tutte volevano avere ragione, pretendevano di essere ascoltate e il fatto che era realmente accaduto, quello, era rimasto nell’ombra, come se non fosse mai avvenuto, rimasto lì, in quell’angolo della mente, dove finiscono le cose inutili. Ero sempre in guerra, con le voci e con me stessa. Dopo, molto tempo dopo ho capito che non bisogna aver paura dei silenzi. Ed è stato come se avessi vinto una guerra. A casa mia non parlava mai nessuno, io avevo paura di quei silenzi che all’improvviso esplodevano in rabbie incontrollate. Gridava solo mio padre però, mia madre lo guardava e lo faceva ancora più arrabbiare, poi arrivavano i medici e se la portavano via. Non ho mai capito perché portavano via lei e non lui. Questo non l’ho mai capito. Io perciò sentivo le voci, avevo paura dei silenzi.
- Basta smettetela, andate via, via, non voglio più ascoltarvi.
Una volta per un giorno intero non hanno più parlato, ho avuto paura. A quel tempo il silenzio mi faceva ancora paura. Poi ho imparato ad amarlo. Ho imparato cercare il silenzio svuotando la mente. Faccio andare la mente sott’acqua e tutto si attutisce. Quando non voglio ascoltarle faccio così, immagino di stare in fondo al mare.
Una volta sono finita veramente sott’acqua. Mi ero fissata che potevo respirare.
- Hai le branchie, credimi, ce la puoi fare.
A furia di sentire quella voce mi sono convinta e mi sono tuffata. Mi hanno tirata fuori due pescatori credevano che mi volessi suicidare per amore. Mi hanno fatto pure la respirazione bocca a bocca, avevano l’alito che puzzava di grappa ma mi hanno salvata. Quel giorno sono nata di nuovo:
-Nata due volte.  Ha detto il pescatore
-Non lo faccia più signorina non ne vale la pena, per un uomo... è così bella ne troverà un altro.
Ma io non ci pensavo proprio all’amore. Io scappavo dalle voci volanti.
(...)
E’ arrivato una sera all’improvviso. Come se gli anni non fossero passati, come se non avesse fatto nulla, come se fosse un uomo come tanti, un padre affettuoso.
(...)
-Ho bisogno di aiuto
-Dimmi
-L’hanno trovata
-Dove?
-A largo, finita nella rete di un pescatore.
-Il mare, prima o poi, restituisce tutto
-Devi testimoniare.
-Perché?
-Devi.
-Quella notte non ero lì, non ero in casa.
- C’eri, lo ricordo benissimo.
- Per dio, lo so che c’ero ma tu devi dire il contrario, hai capito?
- Ho capito
-Bene, allora verrai?
- Non lo so
- Sei una troia, peggio di tua madre
- Dimmi una cosa
- Cosa?
- Pensi che la mia testa sia un melone?
- Che cazzo dici? ... Verrai?
-Non so se posso
-Devi, sono tuo padre
- Non so se posso. Sono malata.
-Come lei?
-Forse sì
-Verrai? ... Verrai?
(...)
Non ho risposto. Anche la sua, era una voce come tutte le altre. Una voce volante.
Non andai. Non potevo. L’ho detto, ero malata. Vennero due uomini a chiedermi di lui. Mi interrogarono, diedi risposte senza senso, parlai di un melone che sembrava una testa, di un coltello da cucina conservato con cura in un cassetto, c’erano ancora le impronte, dei pensieri scivolati sul pavimento. Ma capirono lo stesso. Erano intelligenti quei poliziotti. Nonostante le voci riuscii a dare un’idea, di quello che era accaduto, se ne andarono così come erano arrivati: titubanti e in punta di piedi... Gli hanno dato l’ergastolo. Mi ha chiesto di vederlo, non ci sono andata. Mi ha lasciato dei soldi, non li ho voluti. Si è ucciso qualche giorno fa, al tramonto. Il sole declina ogni giorno. Si può vivere due volte, ma si muore, una volta soltanto.