Mitigare il buio

di Francesca Sangalli

© 2008. Tutti i diritti sono riservati

 

 

PERSONAGGI:

BABBA DI MINCHIA, a volte detta Marti. Narratrice
LA BENEDETTA
ALICE

 

Il testo si presenta come un flusso di pensieri a più voci.

 

«Scegliete la vita, scegliete un lavoro, scegliete una carriera, scegliete la famiglia, scegliete un maxitelevisore del cavolo, scegliete lavatrice, macchina, lettore cd e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete mutuo a interessi fissi, scegliete una prima casa, scegliete gli amici. Scegliete una moda casual e le valigie in tinta, scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cavolo, scegliete il fai-da-te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina. Scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz, mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio, ridotti a motivo di imbarazzo di stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi. Scegliete il futuro, scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita. Ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?»
Trainspotting

 

 

Non so se fuori è buio o sono io che ho gli occhi chiusi. Non posso aprirli, ho mal di testa. Non vorrei aprirli perché non vorrei accorgermi che è buio. Oppure non vorrei che qualcuno mi dicesse che c’è luce, ma sono io che non ci vedo più. O che le palpebre mi si sono incollate tra loro. O che non esiste più niente se non buio. E se invece vedessi semplicemente dove sono e chi sono? Ho mal di testa e mal di stomaco. Non riesco a tirarmi su col busto dritto per il dolore che provo vicino al cuore. Infarto? A mia nonna era cominciato così, poi le faceva male un braccio. Ma se non so se è cuore, fegato o stomaco! Non so, mi confondo tra gli organi, spero che almeno loro abbiano una vaga memoria di quello che devono fare. Mi è chiaro che mi scappa la pipì, ma non capisco se mi viene da starnutire o se sono innamorata. Non capisco cosa ci faccio qui, a letto.
— Ti voglio bene, Babba di Minchia! — mi sussurra Alice.
Forse un tempo. Quando non me lo diceva, forse mi voleva bene. Non credo di aver mai sentito Alice così affettuosa. Perlopiù fa la dura. Perlopiù urla sempre incazzata: “Babba di minchia!” E ride di me. Io mi faccio ridere addosso. “Ti voglio bene” non fa parte del suo vocabolario. Dev’essere fatta. Ah, che scema. Sono fatta anch’io.

Tre anni prima. Sono a casa di Alice, stiamo mangiando il Grana a cubetti e bevendo Coca Cola. Lei sorride.
— Come mai hai scelto il liceo socio-psico-pedagogico? — le domando.
— Io? Perché mi piaceva la psicologia. L’idea di studiare la psicologia. E poi odio la matematica. E tu?
— Io? Boh, io non ho mica scelto. Mi ci ha mandato mia madre.
— A me piacerebbe che mi rompessero le balle i famigliari. Mio fratello, non lo vedo mai.
— È partito?
— Oggi è uscito, di solito dorme in camera con me.
— Dai, Alice! Nessuno ha mai visto tuo fratello, a scuola ti prendono in giro.
— Invece c’è, che cavolo vogliono? Guarda? C’è il suo letto. Dorme lì.
— Va bene. Va bene.
Guardo il Grana e ho paura di aver fatto una gaffe.
— Tu sei mia amica, ameno tu credimi!
Decido di crederle. Poi penso a lei che sta sempre a un pelo da farsi bocciare. Io ho la media del 7 e non ho problemi, penso solo che dovrei arrivare a fine anno alla media dell’8. Sogno di avere il 9.
— Dobbiamo studiare: quella merda di Storia domani, a te t’interroga di sicuro.
— Dai Marti, Fammi vedere un po’ di TV. E poi volevo chattare con Gabri.
— Fai pure ma se poi ti bocciano non venire a lamentarti.
— Non finisci il Grana?
— Non so è diverso da quello che mangio io. Non l’ho mai visto a cubi. Ho sempre visto la forma, la fetta.
— È del Lidl questo.
— Noi lo prendiamo da Peck, in centro. È più buono.

Riapro gli occhi. Credevano che dormissi invece non so neanche io perché non me ne frega niente di far vedere se sono sveglia se dormo se sono solo imbambolata. Alice sta dicendo qualcosa. Sento la sua voce da bambina. Sembra che parli con la mamma. Mamma Brown. L’eroina che troviamo a poco prezzo (un quartino costa 10 euro) è diluita. Assomiglia allo zucchero di canna. Non so bene con cosa sia tagliata. È leggera, come farsi una canna. Io all’inizio la fumavo. Era buona. Mi sento più equilibrata e calma. Ecco, per me mette calma. E diluita così non è mica da tossica. Ogni tanto una fumatina… lo fanno tanti a scuola, nei cessi. Non lascia neanche nell’aria quell’odore da canna e non ti stordisce. Dicono che se fosse pura non farebbe male. Io vedo solo che quelli che esagerano si rovinano la faccia. Ti vengono le macchie e assumi un contorno giallino. Per via del fegato, credo. È solo perché è sporca ed è tagliata male, se no non sarebbe tossica, credo. Ma se non fosse tossica non esisterebbe la tossicodipendenza. Sarebbe solo “Eroinomania”? Come quando ti innamori di un uomo e non puoi star senza. La Benedetta si buca già da un pezzo. Alice per la prima volta, lo ha voluto fare davanti a me, perché vedessi bene, fossi testimone. Io ho pippato per la prima volta, è diversa da quando la fumavo. Cosa sta succedendo? Eppure sono così mite oggi.
— Strano… 
Non erano mai state granché amiche prima Alice e la Benedetta. Ora sono sorelle. Di sangue. Sembra come quando fai lo sciroppo di lampone. Prendi il bicchiere con l’acqua fresca e misceli. All’inizio lo sciroppo, che in effetti è più denso, ci si mescola con rivoletti e ondine. Poi diventa rosa. Io sono nel letto. Mi sento felice. Lo dico.
— È incredibile, sapete? Io sono davvero felice! È bellissimo!
Non so se è l’eroina o il fatto di non aver mangiato però sono felice. Non so se è il fatto di aver percepito cosa vuol dire stare bene, non avere tutti i pensieri negativi essere forti. Non so se, invece, è il fatto di aver capito che cosa è la morte. E che cosa sta succedendoci e avere esattamente chiara l’idea che alla fine non me ne frega niente di niente. Entrambe le cose. Ma ora no, rimando è troppo lunga da spiegare. Guardo il soffitto. Il tempo ruota su se stesso. Sono felice. Alla fermata di Crescenzago in una casa, a dormire con le mie due amiche.
— Voi lo percepite il tempo che passa? Io non sento più lo scorrere dei minuti. Poco fa un minuto è passato in un’ora e ho chiuso gli occhi un secondo ed erano passate due ore. — Dico.
Perché faccio questi discorsi? Penso. Il tempo si mangia la coda.
— Sei strafatta! — ride Alice.
— Sì, mi sa. — Rido pure io.
Sto parlando da sola. Anche loro lo fanno. Ecco ho trovato quel benedetto calore. A occhio e croce.
— È come se nelle vene scorresse vin brulè. Con i chiodi di garofano e la cannella.
Non so cosa dico e cosa invece penso. Mentre penso al vin brulè penso anche che la mia fiducia data agli altri sia di totale incoscienza.
— Io mi fido di voi.
— Ti voglio bene Marti di più che a mia madre, a mio padre e a quel figo di mio fratello. — Dice Alice.
— Siete le mie uniche amiche. — Dice la Benedetta. — È per questo che ho diviso con voi. Ma io non voglio tirare in mezzo nessuno, chiaro? Non andate da altri tenterebbero di tirarvi dentro, i tossici sono delle merde…
— Mi fido solo di te.
Rido.
— Sono la più fiduciosa del mondo. Mi fido. Cosa vuol dire?
— Fai dei ragionamenti… da scoppiata.
— La solita che si fa le pippe mentali! — dice Alice.
Mi fa ridere.
— Mi sa che sono più intelligente della norma quando sono fatta. 
— Sei una babba di minchia! 
I miei pensieri scorrono davanti a me come il trailer di un paio di film incrociati: Trainspotting (teniamo il poster nella camera delle assemblee del centro sociale), I ragazzi dello zoo di Berlino (che mi è piaciuto così tanto che poi ho voluto provare la “robba”) e Biancaneve e i sette nani (forse perchè mia mamma assomiglia a Biancaneve).
— Ti voglio bene Ali. Anche se preferisco gli uomini. Se fossi un uomo mi piaceresti. — Dico sorridendo.
— Hai detto che tuo fratello è figo? — Le chiede La Benedetta.
— Mio fratello è un figo pazzesco!
— Presentacelo!
— Figurati! — le gelo cinicamente.
Alice in teoria avrebbe pianto. Invece si gira annebbiata e amara.
— Stronza! Io invece ti voglio bene, Babba di Minchia. —
— Ti voglio bene anch’io. — Rispondo.
Dico queste parole senza provare nulla. Anche io non dico mai certe cose. Era un sacco che glielo volevo dire. Ora che glielo sto dicendo, mi accorgo che non è vero. Di solito ci diciamo, da un lato all’altro del vialetto del Parco Sempione:
— Babba di Minchia…
E io le rispondo — Che cazzo vuoi? — e robe del tipo; e ridiamo o fingiamo di litigare.
— Vaffanculo al sistema di merda! — Calci a bottiglie o lattine coi nostri anfibi chiodati.
— Babba di Minchia…
— Oh, ridillo Ali che ti ammazzo di botte.
Lei corre, io le corro dietro.
— Guarda che se ti prendo… hai paura?
Lei si gira. Ci azzuffiamo nell’erba del parco ma poi ridiamo. Abbiamo voglia di contatto fisico. Abbiamo voglia che i nostri corpi si tocchino, anche se è per picchiarci. È più facile picchiarsi che abbracciarsi. Dei tipi del parco ci guardano, noi facciamo le esibizioniste. Ci conoscono lì al Sempione, siamo le due “Fulminate”. Ci chiamano così.
Mi eccita che siamo considerate dei loro. Delle “Sempionare”.
— Palla! — urlo.
La palla sta già sulla volante. Abbiamo il permesso di giocare a palla tra il gruppo del cerchio. Il cerchio sono quelli che si passano i cilum. Ci avvertono quando c’è la ronda della polizia. La polizia non si arrabbia troppo col cerchio. Di solito spariscono tutti per tempo. Allora si arrabbia con quelli che giocano al pallone, è vietato! Se ti beccano ti confiscano la palla. A me dell’hashish non me ne frega niente, io voglio lanciarmi la palla con l’Alice. Solo a basket si può giocare, nel campo attrezzato. Ma i ragazzi non ti lasciano, se non sei brava. E poi scazzano spesso con quelli del cerchio. Per tutto il Sempione ci sono prati verdi, dove neanche puoi portare il cane, e in tutto un unico campo per giocare a basket. Occupato. Allora nulla non si fa niente. Si vaga. Ci si finge importanti. Quelle meno avvezze a volte ci chiedono dove si compra il fumo. Noi sappiamo dire chi ce l’ha più buono, chi meno, chi te lo fa pagare di meno chi ti tira il pacco.
La Marti e la Ali. Babba di Minchia e Alice. Le due fulminate. Quella coi pantaloni da uomo e quella coi capelli neri.
A me l’hashish non piace, mi rintrona. Non amo essere bollita e in fissa a guardare un punto non identificato del prato, mi piace avere il controllo della situazione. E poi una volta ho aspirato troppo forte era la parte più vicina alla wedra e ho collassato.
No. Ho smesso con quella roba.
Al Sempione da poco si usa fumare l’eroina. Io non l’ho mai provata, ma dicono che non è proprio “eroina”, cioè, è eroina, ma non è eroina. Nel senso che è come una canna. Meno della canna perché è molto diluita. Il fumo non si trova quasi più. Meglio, tanto non mi piacciono quei brasati. Sono curiosa. Tanto se ti beccano ti mandano dall’assistente sociale: che sia l’ero e che sia la maria o l’hashish o il nero è uguale, tanto vale l’eroina, che è più buona!
Io faccio ridere, mi dice sempre Alice.
Invece lei mi fa paura.
Paura di perderla.
Scendo dal soppalco per far colazione, mi hanno lasciato dormire ieri. Ho un vago senso di aver fatto qualcosa di male che non mi ricordo. Ma forse è solo che ieri ho pippato eroina per l’ennesima volta e non ho fatto per niente bene. È un mese che pippo. Devo smettere. Se no divento come quelle due, fanno schifo davvero. Sono invecchiate. Scendo in cucina e si svolge questo dialogo in cui non so più quali sono le frasi che dico io e quali quelle delle altre. Quali i pensieri e quali le frasi realmente dette, quali immaginate soltanto.
— Dovremmo occupare la casa di fianco, è uno scandalo, la gente spreca gli spazi quando ci sono migliaia di immigrati che non hanno una casa.
— E chi la occupa, tu o l’immigrato?
— Guarda che io sono immigrata. Abruzzo mica è Italia. Dove stanno i miei è una repubblica autonoma. La Repubblica Autonoma di Moscufo. Mica è Italia là. Quella è Terronia. Ma almeno c’è il sole. Qui c’è freddo, grigio, freddo, pioggia e arriva l’inverno. La gente non ci pensa.
— Ieri è uscita la storia di un barbone che è crepato di freddo perché manco lo han fatto dormire sotto la metro. La chiudono.
— Sì l’ho sentita, oh, ma quello era italiano.
— Che c’entra?
— Quelli italiani almeno c’hanno la mensa, ci sono i frati.
— Anche gli immigrati vanno alla mensa dai frati.
— Oh ma i preti sono delle merde, lo sai che mettono apposta la carne di maiale così i musulmani non possono mangiare o se hanno fame gli tocca fare una roba contro la loro religione.
— Che merde! Davvero?
— Ma figurati, La Benedetta fa la solita megalomane
— Poi li attirano lì arrivano gli sbirri e li fermano per rimandarli a casa.
— No! Che merde!
— Li aspettano fuori, li riempiono di calci perché dicono che stuprano le donne.
— Ma se gli stupri sono fatti tutti dagli italiani. Dai, quelli di sopra quante volte si riempiono di botte?
— No!
— Quei leghisti di merda.
— Ma tu non dici nulla?
— Io mi faccio i cazzi miei e loro si fanno i cazzi loro. Se no mi danno della terrona.
— Ma se ti sei data tu della terrona!
— Meglio i fascisti dei leghisti.
— Oh, ma che cazzo dici Marti?
— Oh ma sei imbottita di luoghi comuni…
— Mi sembri una canzone di Jovanotti.
— Scusate…
— Tra un po’ fanno i campi di concentramento di nuovo.
— Sì, te ci vai di sicuro, tra i pazzi.
— E te finisci nel camino.
— Tu invece ti salvi, ti fan fare la troia di qualche Berlusconi di merda.
— Il problema è che non ci sono più spazi per i giovani, per la vita, allora la gente si alcolizza, si droga se ne frega e pensa solo ai propri interessi. Le dipendenze nascono per avere qualcosa a cui pensare che non sia il senso di una vita che appassisce, il dolore, gli affetti che vengono a mancare e alla fine la morte che te lo mette in culo.
— Bello chi te lo ha detto?
— Una canzone di Jovanotti.
— Siamo bestie, quelli che pensano ancora con la loro testa sono pochissimi.
— Ah sì, noi siamo rimasti in pochi.
— Quanta ne è rimasta?
— Eh?
— Quanta ne è rimasta?
— Ah, poca.
— Te ne sei tenuta un po’ tu…
— Ieri abbiamo acquistato in tre, doveva bastare per tre. Ce n’è per due.
— Ma sei una merda, ti sei alzata di notte a farti!
— Oh! Sono sempre stata qui.
— Allora ti sei fatta tu, fa vedere?
— Ma no, ma come cazzo ti viene in mente babba di minchia! Allora sei una merda.
— O stronza, guarda che chi la doveva tenere eri tu ce l’avevi tu, non lei, come cazzo poteva farsi. Per me ti sei fatta tu. Cacciala fuori tutta e non cercare di fregare.
— Ora perché vi incazzate?
— È questa te lo ripeto. O magari l’ha fregata quella babba della Marti?
— La Marti è troppo scema!!!
— Bestia, sei una pankabbestia, non litigo per queste stronzate perché sono una signora. A differenza vostra. Muoviti, dai. Si divide per tre.
— Secondo me la stronza stanotte si è fatta un personalino! Sei proprio una tossica.
— O ma allora sei stronza, guarda che se continui non te la do.
— Mollala Ali, me la dai eccome.
— Basta dai non stiamo a fare queste questioni di merda. Dai dividiamo.
— No io rivoglio i miei soldi. Tu se fai quella che ne sta fuori, non te la prendi a ’sto giro.
— Cosa c’entra?
— Guarda che la signorina sta nella merda come me e te, chiedile se ce la regala.
— Dopo. Ne parliamo dopo.
— Lo vedi?
— Perché scusa, se tanto vuoi la pace e fai la signora perché non ce la regali, che ci vuoi tanto bene e rinunci tu?
— Perché… per una questione di principio.
— Io so aspettare. Voglio la mia parte di soldi. La colla l’ho fatta io davanti alla metro.
— Dai, tanto è una roba di merda! Dividiamola e la prossima volta ognuno tiene il suo.
— No, la prossima volta se la compra lei.
— Va bene, Credi che sia un problema?
— Ma no a lei le rifilano il pacco…
— Non è vero, non mi faccio mica fregare da tre magrebbini di merda, io.
— Non sono magrebbini.
— Marocchini, talebani, africani o terroni. Quel cazzo che vuoi.
— Li odio.
— Io me li inculo. A me il pacco non me lo rifila nessuno. Invece è degli amici che non bisogna fidarsi. Che poi i soldi chi è che li tira su, hai mai fatto la colla tu? T’han dato 2 euro.
— Comunque se ne trova in giro parecchia, per 10 euro mica ci possiamo massacrare.
— È vero.
— Oh era pieno di robbosi ieri in Porta Venezia.
— Ho visto il Gatto. Anche lui era lì che si grattava.

Ridono.

— Il Gatto! Ti ricordi che non reggeva l’alcol? Al diciottesimo della Rachele ha vomitato tutto il vino sul tappeto e poi piangeva.
— Che sfigato!
— Adesso è un robboso di merda.
— E tu, invece?
— No io no.
— Allora ce la regali?
— Piantala.
— Babba!
— A me i robbosi di merda mi stanno sul cazzo.
— Minchia che c’hanno la scimmia e ti vengono a piangere addosso.
— Te stai attenta che un po’ sei robbosa.
— Chi io? Ma figurati. A me i robbosi mi fanno schifo. Sei tu che ti volevi rubare tutto. Tu sei robbosa.
— Ma se mi stai per scannare per un grammo in meno…
— Allora te lo sei fatto tu! Lo vedi che sei una robbosa?
— No, ho detto di no, m’avete rotto i coglioni, secondo me sei stata tu, che tanto tanto fai l’avvocatina di quella sfatta fulminata. Guarda che è stata lei ad acquistare, secondo me se l’era intascata da prima.
— Prima quando?
— Oh, ma allora sei una merda!
— Non mi dirai che è stato tuo fratello?
— Stronza.
— Stronza.
— Cretine.
— Stai ferma che se no mi casca tutto, che sei scema?
— Accendi la radio
— Accendila tu.
— Non mi far alzare.
— La musica mi dà i nervi
— So io perché. Sei in scimmia.
— Che cazzo dici? Io la pippo e basta.
— Robbosa.
— Prenditi un Valium, ciccia…
— L’ho finito.
— Eh, vattelo a ricomprare.
— Ma dai adesso si calma, non litigate. Dai accendi la radio.
— Oh, oh! Lascia qui, mi piace ’sta canzone!
— No! dai. I Punkreas no!
— Perché siete dei prevenuti del cazzo, ’sta canzone è bellissima.
— Ma quella è merda!
— Tò, dai, stai zitta, prima le signore. Tieni signorina. Finalmente sniffo.
Se perdessi Alice non saprei che fare. Lei si è bucata e io non provo niente. Anche se so dove andrà a finire. Avevamo solo fumato ero… insieme. Lo fanno tutti. Quella notte so precisamente cosa succederà e non la fermo, non solo, non provo niente. Quella notte vedo tutto, le siringhe, la faccia gialla della Benedetta magrissima, Alice coi capelli sciolti le palpebre che le si chiudono, aggrovigliata su se stessa che al rallentatore come una moviola estrae con fatica una sigaretta dal pacchetto. Vedo tutto ma non vedo me. Mi dico che devo stare attenta a non diventare dipendente. Magari domani non la prendo. Anzi assolutamente no.
— Forse domani torno a casa.
Faccio schifo. Mi faccio schifo.
— Entro in casa, mi butto sotto la doccia e torno dalla mia mammina. — Penso.
Puzzo, lo so ma se faccio una doccia al volo mi levo via tutti questi ricordi e torniamo indietro. Lei mi preparerà la colazione che piace a me: i pancakes con lo sciroppo d’acero. Lo sciroppo d’acero mi manca tantissimo: sa di caramello e ha lo stesso colore della diluita! Che coincidenza. Ho sempre amato il caramello, mi piacciono le mou e anche la Brown Sugar. Tutto torna. Dev’essere un segno.
— Beata te che puoi tornare a casa, a me mia madre mi ha sbattuta fuori. — Dice Alice.
Ora basta. Me ne frego dei loro problemi. Io ho una famiglia. Domani torno dalla mamma. E faccio pure l’università che vuole lei. Chi se ne frega? Biologia. Mi specializzo in insetti. Oppure Biologia marina. Conto le cacche dei granchi. Magari mi piace. Tanto non mi importa niente. Basta che mi tenga con sé. Perché dovrei ostinarmi a non fare l’università? Per tre anni che vuoi che sia, poi magari faccio il cazzo che voglio. Se sono così forte, allora posso anche fare ciò che vogliono senza provare a ribellarmi, ingoiando merda. Così no, così su questo letto con loro… mi sa che muoio. Io sono più debole. Con la mamma non morirò mai.

Non torno la mattina dopo. Passa un mese. Senza che me ne accorga. E poi torno. Busso alla porta di casa. Mia mamma guarda dallo spioncino. È almeno un paio di mesi che non mi vede. Sono troppo contenta, mi verrebbe da piangere, sta cucinando la minestra. Il profumino della sua cucina, così delicato e pulito! Vorrei che mi riprendesse a casa… Vorrei il pigiama lindo di bucato e stirato. Mia mamma fa una faccia incazzatissima. Mi bisbiglia di andarmene. Sulla soglia della porta.
— Come?
È terrorizzata perché puzzo.
Lei dice — Non farti vedere dal papà che s’incazza.
— Perché? Posso entrare?
Non me ne ero neanche accorta che non mi stavo lavando e che a non lavarsi si puzza.
— Hai bisogno di soldi?
— No. Vorrei farmi una doccia. O il bagno.
— Amore? — è la voce di mio padre da una stanza. Sta guardando la tivù.
E mia madre senza trattenersi mi richiude la porta prima che arrivi. Giro i tacchi sul pianerottolo.
Ed eccomi di nuovo qua. Ancora un giorno nella mia nuova famiglia. La Benedetta non mi chiude la porta in faccia. Non vedevo mia madre da mesi.
“Il papà s’incazza!”
Stendo un grammo acquistato a 10 euro.
“Che loro hanno già tanti problemi.”
Prendo la Fidaty Card.
“Col papà che sta male.”
Schiaccio.
“E tanti dispiaceri.”
Frantumo.
“Se mi vedono che puzzo.”
Divido in tre.
“Tutta stracciona.”
Passo lo specchietto.
“La porta in faccia.”
Mi ritorna lo specchietto.
“Forse faccio spavento?”
Infilo le mie 5 euro nella narice destra chiudo la sinistra e sniffo.
“Pippo. Tiro. Mi faccio una pista. Mi drogo. Assumo eroina. Mi ribalto. Non sento più, ottundo i sensi. Trovo Dio. Che vada tutto al diavolo. Mi faccio cattolica, musulmana, comunista, ebrea, commercialista.”
Ora davvero che mi scopino, mi camminino sopra, mi spintonino, mi sbattano via. Il tempo si arrotola su se stesso. Ondate di calore sul mio corpo infreddolito. Ondate di calore sulla cavalletta tatuata sulla schiena. Quando ho la pelle d’oca è buffo.
— Avete visto la mia cavalletta con la pelle d’oca?
— Preciso! — mi fa Alice.
— Sembra un gatto arruffato. — Mi fa La Benedetta.
Che bello non ho fame. Vorrei non aver più bisogno di niente. Diventare pura, vergine, senza bisogni senza fame non voglio più alcol non più pisciare, cagare, scopare. Non voglio che nessuno possa più toccarmi. Dimagrire, sparire.
— Mi hanno lasciato una lettera i miei genitori. Dicono che non approvano le mie scelte. Festa finita. — Che storia! I genitori per posta.
— Scrivilo anche tu, vedrai che starai meglio. — Mi fa la Benedetta.
— Dove?
— Sul tavolo, toh piglia il coltello e scrivilo bene, noi sottoscriviamo, signorina!
Ci scrivo: “Non approvo me stessa”. Mi sento meglio anche io. Non mi approvo neanche io. La Benedetta firma. Alice no.
— Perché tu non firmi?
Scuote la testa.
— Tu ti approvi?
— No. Babba di Minchia. Però non voglio.
— Perché?
— (S’arrabbia immotivatamente diventando aggressiva) Oh, ho detto no perché no!
— Dai lasciala stare. — La Benedetta cambia discorso. — Quando ero in Stazione Centrale volevano perquisirmi, lo sai che gli ho detto? Guarda che se non c’è una donna io non mi levo niente. Cosa volete vedere?
Si gira verso il tavolo, piegandosi a novanta. — Dai, infilami il dito dentro, sbirro di merda, guarda che a me piace!
— Perché avrebbero dovuto infilarti un dito in culo? — chiedo inconsapevole.
— Ah lo fanno, sai? Perché ci si nasconde la roba dentro il culo. Per passare la frontiera. Sì ma è una stronzata, io preferisco far la navetta ingoiando gli ovuli.
— E come funziona?
— Eh, li fai con la pellicola resistente. Se usi una plastica buona passano attraverso l’intestino, ti possono fare la perquisa che vogliono, ma tanto tu sei pulita. Arrivi in Italia e li caghi.
— Che schifo…
— Ma va, come credi che la portino la roba anche questa? La fanno mangiare anche ai bambini. E poi gli danno i lassativi per cagarli. Ai bambini afgani. Arrivano alla base di Aviano.
— Chi te lo ha detto?
— Quelli del Sert!
— Che cazzo ci fai al Sert?
— Piglio il metadone.
— Ti disintossichi?
Lei sta zitta.
— Be’, non ci stai riuscendo, continui a farti.
— Vaffanculo.
— Ma piantala, ci va perchè il metadone è buono.
— Anche questa?
— Cosa?
— Anche questa la cagano gli afgani?
— Ti fa schifo? Lasciala lì.
— Ne assaggio un po’.
Non mi importa nulla. Neanche se fossi coperta di merda pure io, non mi importerebbe. Il citofono. Io non mi muovo, loro fanno sparire la robba. Entra il fidanzato di Alice e fa una scenata.
— Marti anche tu? Ma che cazzo fate? Siete fatte? Siete sceme?
— Ma no — risponde Alice nascondendolo — abbiamo fumato una canna e abbiamo bevuto. Ma siamo precise.
— Sì, la riaccompagna suo fratello. — Dice La Benedetta.
— Buonanotte! Figurati… – dico io.
Non so cosa ha detto Luca, se ne deve essere andato via. Incazzato o disperato.

Io non è da nessuna parte. È sparpagliato come i granelli di zucchero da scaldare. Mi piace di brutto vedere l’esalazione che viene su e fumarmela. Aspirare i fumi. Suffumigi. Mi piacerebbe divenire immortale. Io e Alice lo diciamo sempre. Siamo nella casa occupata, un anno prima. È morta Anita a maggio. È ricominciata la scuola e Alice non si vede mai. A scuola ci viene poco. La voglio aiutare a studiare. Siamo al Torricelli, la casa occupata dove vive Luca, il fidanzato di Ali. Sta in via Torricelli. Lui non c’è. Ha lasciato il fornelletto con la bombola a gas.
— Mangiamo qui?
— Dai, cosa?
— La pasta al pomodoro.
— Con cosa?
— Con la pasta e il pomodoro, Babba di Minchia!
— Non chiamarmi così, basta!
— Ma guarda che lo dico con affetto!
La stanza occupata ha un armadio con uno specchio rotto una stufa a gas che fa un gran casino e una gran puzza e un pancale su cui c’è un materasso. Mi vedo nello specchio rotto. Ho i capelli neri con ciuffi rossi viola e verdi. Lunghissimi. Ricci. Mi piacciono tutti i colori. Alle orecchie ho sei anelli a destra e uno a sinistra. Alice guarda nell’armadietto.
— Ho anche la cipolla rossa, ma come la tagliamo?
— Col coltello nel piattino di plastica! La taglio io. — Faccio.
— Bolliamo l’acqua? Poi la leviamo, scaldiamo il sugo, lo teniamo coperto, rimetto l’acqua facciamo la pasta e poi la scoliamo. Mischiamo il sugo ed è fatta.
— Preciso! — mi esalto.
— Babba di Minchia, vaffanculo!
Ridiamo. Sto affettando cipolla e piango.
— Nessuno mi vuole bene, mio padre è uno stronzo… mi picchia col grana del Peck! mi urla sempre dietro che non sono elegante quando rutto alla cresima della cugina Laura…
E poi rido, con le lacrime della cipolla.
— Babba! Apro il vino?
— Dai, basta. “Babba”, non mi piace.
— A me sì. Dai, ti prego. Ti posso chiamar così?
— È perché sono stupida?
— No, sei come me.
— No, sei tu che sei come me.
— Be’ comunque un po’ meno “babba”, io.
— Di chi?
— Meno babba di te, Babba di Minchia! — Ride.
Mentre guardo giù fingendomi offesa, arriva con un pacchettino regalo in una carta di giornale. Si siede sul letto e mi guarda. Mollo lì la cipolla.
— Aprilo… è un regalo!
— Per me?
— E no, per chi? Poi ti offendi se ti chiamo “Babba”.
— C’è anche il bigliettino!
— Leggilo!
— “A Babba di Minchia dalla sua amica Alice.” Allora è un tormentone?
— Preciso!
— Preciso!
C’è una collana girocollo di filo di ferro con una ametista arrotolata nel ferro.
— L’hai fatta tu?
— Sì. Era l’ametista che ti piaceva che ho comprato alla fiera di Senigallia, il mio portafortuna.
Si chiude con un gancio che mi riga un po’ la pelle, ma non la tolgo mai. È bellissima
— È bellissima.
Me la metto e mi guardo allo specchio di nuovo.
— Grazie Ali!
Vorrei abbracciarla e baciarla ma sono una ragazza poco affettuosa e molto rigida. Sbatto la cipolla nell’olio. È a pezzi grossi. Alice la frigge, poi ci versa il sugo e lo cuoce con dell’origano. Poi mettiamo su l’acqua di nuovo. Bolle. Sbattiamo i rigatoni. Entusiasta urlo quasi!
— La prima pasta nella casa di via Torricelli! Sarà La pasta Torricelli! Nostra ricetta! Preciso!
— Cipolla a tocchi pomodoro e pasta!
— Che buona! Mia mamma non mette mai la cipolla nella salsa, dice che fa schifo! Invece è buonissima.
— Come non mette la cipolla? Ma che babba di minchia è tua mamma, si mette sempre la cipolla! Scoliamo il lambrusco da 1 euro e 5 centesimi del supermercato Lidl.
Manca solo la cannetta di fumo.
— La rolli tu? Dai, a me viene male. — Chiedo ad Alice perché io odio le canne.
— Marti, impara a far su le canne. Ti vengono certi tromboni. Tutti caccolosi. Che poi uno si becca la caccola e va in fissa.
— No, falla tu non ho voglia!
— Non esiste, devi imparare non puoi sembrare sempre una sfigata secchiona. Devo insegnarti un po’ di roba.
Aspiro. Devo stare attenta e fumare poco, che di solito mi fa stare male. Mi vengono i pensieri depressivi. Le ossessioni. Infatti.
— Dimmi che tu non morirai. — Le dico.
— Io? Io non posso morire. Io sono già morta.
Mi guarda sorridendo, ma senza vedermi. Parlo in automatico, in fissa. Io il fumo non lo prenderò mai più.
— Noi siamo immortali perché siamo già morte.
— A 18 anni? — Fa lei.
— Io ancora ne ho 17.
— Oh, è vero, sto istigando una minorenne alla droga! Che hai fatto sabato? Non ti ho vista al rave.
— Sono stata a casa, i miei rompevano. Tu ti sei strafatta?
— Ho preso solo qualche striscia. Per lo più speed e amfe.
— I tuoi?
— Solo mio fratello mi cerca ancora.
A volte ci dicono che sembriamo trentenni e a noi questa cosa ci piace. Io ho le occhiaie nere. Lei è magra. Ha i capelli nerissimi lunghi fino al sedere, tanti folti. Porta una salopette blu e una maglia nera. Ha gli occhi nocciola grandi affusolati e segnati da una riga di matita nera. Le labbra carnose. Io le sirene me le immagino proprio fatte come l’Alice. Anche io ho i pantaloni e maglie larghe, magari gonne da zingara, ma niente colori addosso. Mi vedo nello specchio. Alice parla.
— Spero mi venga presto qualche ruga. Spero mi restino molte cicatrici sul corpo.

Non avevo ancora il mio anello al sopracciglio. Non ho ancora il mio anello al sopracciglio. Neanche adesso. Intanto che sono qui nella sonnolenza artificiale di questo letto con loro due che forse si abbracciano, guardo il soffitto. Mi pare così. Percepisco così. Pare che si abbraccino. Vorrei che Alice mi baciasse. Ma se lo facesse mi sentirei male. La prima volta me lo ha messo La Benedetta. Il piercing, dico. Mi fa sedere a un tavolo dove tiene in ordine una serie di arnesi per fare i tatuaggi. Io ho le borse sotto gli occhi. O è la luce? Mentre sfoglio tra i suoi disegni di un liceo artistico mai finito, disinfetta l’ago per me.
— Facevo l’artistico, ero la migliore giù in Terronia.
Guardo i suoi tribali copiati dalle riviste punk.
— Voglio un tribale con una cavalletta sulla schiena.
— Così grande?
— Sì. Tutta la schiena.
— Io te lo faccio se vuoi.
— Sì.
— Perché una cavalletta?
— Così. Mi va.
— Non ne ho mai viste, ma me lo invento. Me lo paghi, però.
— Come mai hai litigato con la Jelly? — le chiedo.
— Tieni il ghiaccio premuto.
— Non eravate amiche?
— Quella zoccola si è fatta nel cesso mentre tatuavo un cliente.
— Ah, è ti sei arrabbiata?
— Eh, l’ho dovuta cacciar via, è venuta qui completamente lessa ’sta robbosa di merda! Vai, vai a far moneta davanti al supermercato, le ho detto. Se no qui pensano che c’è l’Aids e non ci vengono più. La gente si impressiona per ’ste cazzate!
Aveva i capelli rasati La Benedetta. Disinfetta l’ago per me. Per bucarmi il sopracciglio. Mi ha dato del ghiaccio da tenere premuto. Mi ha tenuta tra due pinze e mi ha perforata con una ago grosso di una siringa. Dall’altra parte ha messo un tappo di sughero.
— Aspetta così. Ti ho fatto male?
Scuoto la testa. Mi esce una lacrima di sangue mentre lei non mi vede. Acqua e sangue dall’angolo dell’occhio, come una madonna. Sono bellissima. Ho un tappo di sughero con infilzato l‘ago di una siringa all’occhio. Mi fa stare una decina di minuti in quel modo e se ne va in cucina. lascio scendere le mie lacrime miracolose e il sangue lungo la guancia fino alla bocca. Mi guardo rapita. Lacrime e sangue gocciolano sul tavolo. Guardo la goccia gli arnesi e il disinfettante così poco disinfettante. Sento la voce dalla cucina.
— Credono che qui ci sia l’Aids. S’impressionano per delle cazzate. L’Aids non esiste più!
Guardo la goccia di sangue sul tavolo.Torna con un fazzoletto.
— Toh, pulisciti.
Mi pulisco.
— Questo fa un po’ male.
Mi leva l’ago e inizia a forzare l’anello nella ferita. Non ho sentito così male. La prima volta. Tocco il mio anello. Mi piace un casino. Me lo giro e rigiro per sentire la ferita. Mi piace un ferro che mi attraversa la carne. Se mi prendessi l’Aids non mi stupirei. Non proverei niente. Avrei solo una scusa in più per compatirmi. Ho dovuto riaprire il buco più volte. Quando lo toglievo capitava che si richiudesse e allora mi toccava infilzami con l’ago e il tappo di sughero da sola.

Io i buchi nelle orecchie me li sono fatta da sola. Un anno prima, l’anno dei tre ciuffi colorati. Sono in bagno. Prendo gli orecchini, quelli d’oro col brillantino, quelli che te li sparano con la pistola. Quelli sono affilati come spilli in punta. Ho di nuovo i capelli neri con i ciuffi di tre colori. Prendo il primo orecchino. Lo schiaccio contro il pollice finché non mi perforo il lobo. E il pollice. C’è del sangue. La pelle quando si spezza fa cric. Sembra una cosa incredibile: semplicemente cric, come un oggetto qualsiasi. E invece è pelle. Cric. Ho messo del cortisone perché non si infettasse. Saluto mia mamma. Ho i capelli che coprono bene l’orecchio pulsante, spero non mi guardi bene da vicino. La scampo. Corro fuori. L’orecchio è rosso e gonfio. Sono riuscita a metterne quattro. Altri due li avevo già. Passo al supermercato a comprare il lambrusco e vado correndo al Torricelli. Busso. Ho il permesso di cenare fuori. Una pizza, dico. La Alice non vogliono che io la veda, devo sempre inventar balle o farmi coprire da qualcuno. Arrivo alla casa occupata di via Torricelli, dove lei è andata ad abitare con Luca, il suo fidanzato. Finalmente fuori! Sono eccitata. Un cane abbaia. Mi apre Alice e mi mostra il fornelletto a gas con cui prepareremo La pasta Torricelli. Io ho 17 anni, lei 18. Ora sono qui che guardo il mio nuovo sfregio.
— Comunque il piercing è un po’ più doloroso degli orecchini. — Dico alla Benedetta, mentre mi guardo nello specchio della sua stanza-ufficio punk.
— Fa male?
— No. — Rispondo.
In effetti fa male guardare nello specchio me stessa che si fa perforare. Però, io non sento molto.
— Certo che non si sente male, (ride) se ti sei presa la robba non senti male.
Non ricordo se c’era qualcuno. Tra qualche giorno partiremo per Amsterdam con La Benedetta. Abbiamo una tenda. Abbiamo fatto i biglietti, falsificati. Si compra il biglietto internazionale da Interrail meno costoso: Milano - Lugano a 15 euro. Poi si cancella Lugano e si scrive Amsterdam con un programma che ha inventato il Gatto. Il Gatto si fa di Robba. Anche lui va ad Amsterdam, anche lui stava al liceo con me e l’Alice. Secondo me Alice gli piaceva. Si è cominciato a fare per farsi vedere da lei, secondo me. Ahi! L’occhio. Quando si gonfia sento dolore. Un po’. Dolore uguale vita. Allora vive ancora qualcosa! Vorrei essere più pallida. Ma più pallida di così c’è solo la camicia candeggiata. Sono di un pallore sporco. Vorrei sembrare una tossica ma non essere una tossica come le altre che poi è un casino per davvero.
— Chissà come mai non riescono a smettere i tossici. Io se dico basta non ne prendo più, no? — Domando per sentirmi rassicurare.
— Ma noi mica prendiamo la robba quella vera! Mica ci facciamo di eroina! Io sono stata senza tante volte.
— Quando?
— Tante volte. Non sanno smettere perché non vogliono i veri robbosi sono delle merde!
— Noi cosa siamo? Consumatrici occasionali di eroina?
— Te non sei proprio niente. Te pippi solo ogni tanto. Io faccio un uso cosciente della sostanza. L’eroina pura non fa male, sono le schifezze con cui la tagliano! Ma non sono una tossica. Odio quei tossici di merda. Tipo la Jelly. Tutti in una bara dovrebbero metterli, ancora vivi chiusi dentro.
— Stiamo parlando di chi?
— Eroinomani.
Comunque mi guardo allo specchio. Ora sembro davvero… Sono o sembro? Tornano gli occhi chiusi o il buio fuori? Chi è che comanda? Me la sono sempre cavata io. È che adesso mi sono distratta, ma … quando tornerà Me, quella brava, quella più diligente, l’orgoglio di papà, quando le permetterò di riprendere il comando mi rimetterò a fare una vita normale per un po’. Mi guardo nello specchio e mi sorrido, ma ho un piercing e il sangue mi ha colorato di rosso una guancia. Non mi pulisco, ho le occhiaie nere e guardo bene i miei occhi. Il nero dei miei occhi. Mi sembro più bella. Sono più verdi. Il nero è sparito. È una punta di spillo. Mi giro. La Benedetta è sparita in cucina mi sa che si fa. Stringo nella mano il mio ciondolo di ferro e ametista. Mi buco la mano con del ferro sporgente, guardo ancora il sangue.
— Secondo te si vede?
— Il piercing? L’hai fatto apposta perché ti vuoi far vedere, no? — ride dall’altra stanza.
— No.
— Che cosa, scusa si dovrebbe vedere…
— Che sono un po’… Un po’…
— Vuoi che ti dica se si vede che ti droghi?
— Ma dai! — rido io. — Non mi drogo mica.
Lei è cattiva.
— Invece sì che ti droghi, come me. E tra un po’ si vedrà. Come a me e alla Jelly. E a quella fulminata della tua amica che non si sa dove cazzo è sparita. E mi deve dei soldi. Se la senti passamela, dille che appena la vedo l’ammazzo di botte.
Poi si spegne. Credo che abbia fatto. Mi guardo allo specchio: si vede. Ora ho rotto con la famiglia. Ma sono così confusa, mi assalgono sentimenti contrastanti. Mi manca la nonna e la casa con l’orologio a pendolo. Robe da bambina. Ricordo la colazione. Che si facevano i compiti delle vacanze, le tazze di tè. Ma poi Anita è morta. Alla mia età… Mi vedo allo specchio, sto ben mascherata, davvero sono diventata abile: indosso tutto quanto, sono attenta ai particolari, mi piaccio un casino. Pantaloni di lana grigi da uomo usati che mio padre odia. Quando mi vede con quei pantaloni, che io adoro, mi urla dietro: “Ti sei cagata addosso, che c’hai il cavallo dei pantaloni largo?” Quei pantaloni assomigliano a quelli che porta lui. D’inverno mi metto anche il suo cappotto grigio. Mi sta largo di spalle e io ho la testa piccola, però… è un cappotto liso, lo metteva quando lavorava in banca. Magliettona larga nera possibilmente un po’ consunta. Quando vivevo coi miei genitori facevo fatica ad avere i vestiti consumati, erano sempre maledettamente stirati e a posto. Ora che sono lontana da loro da tre mesi i vestiti fanno schifo che è una meraviglia. Lo stropicciato non è più “lo stirato che poi stropiccio io”.
— Borghese di merda! — dico senza voce verso lo specchio. Guardo in fissa il piercing che movimenti fa. Quella si è stesa con la testa sul tavolo. Lo so. Allora io fisso l’anello all’occhio e vedo che effetto mi fa dire certe cose con la mia nuova faccia.
— Ti amo.
— Ti odio.
— Fai schifo.
— Baciami amore.
— Mamma.
— Mamma.
Non so, mi pare che la goccia di sangue che scorreva dal piercing si sia diluita con l’acqua degli occhi. I miei vestiti sono stropicciati e puzzano per davvero! Ho preso un chiodo nella gamba salendo per il soppalco un giorno e si sono stracciati per davvero. I miei compagni di liceo se li strappavano col taglierino, io con un vero chiodo arrugginito. Sono fichissimi.
C’è un concerto al centro sociale, io ho spinato birre per due ore e sono stanca, sono corsa su, sul soppalco dove dorme il mio fidanzato, Ruben. Lui è un po’ il capo del centro sociale, anche se sono dei comunisti o insomma anarchici e non c’è uno che comanda. Comunque vado nella stanza delle assemblee. Ho preso un trip e mi sembra che tanta gente mi derida. Voglio che la smettano. Non ne piglierò mai più. Sto salendo con le gambe storte sulla scala di ferro. Non becco i pioli o gradini o quello che è. Sono ore che cerco di salire. Non so se mi sono tagliata. Spero di sì. Spero che mi esca il sangue, ogni giorno. Forse perché almeno qualcosa mi dice che sono viva.
Torno a casa accompagnata dal camion delle birre col mio fidanzato, Ruben, che guida. Mio padre è in piedi, sveglio. Io ho le pupille allargate come quelle dei gatti. Spero che non si veda. Mio padre mi parla dietro. Forse ride anche lui. C’è comunque un’orchestra di gente che mi deride. Mi chiudo in bagno. Posso scegliere tra vomitare o tagliarmi le braccia con le forbicette delle unghie. L’orchestra di gente mi indica la lama. Un lungo taglio verticale per vedere la pelle che si sgretola. La pelle non fa rumore quella volta e neanche il sangue. Il sangue è silenzioso. Mette pace. E poi posso sdraiarmi a dormire. Ma non chiudo occhio parlo, sento qualcuno che ride di me, penso che sia mio padre. Mai più basta, basta. Metto la testa nel cuscino. La mattina non arriva mai. Vedo l’alba. Sono distrutta. Devo andare a scuola.
Ho cominciato a portare le maniche lunghe. Mi siedo sui gradini nelle ore di educazione fisica e mi faccio i cazzi miei. Li odio tutti. Accanto ad Alice mi sento forte. Porto un maglione militare nero. Non me ne separo mai. E gli anfibi. Sono scomodi però ne vale la pena. Hanno la punta di ferro e mi fanno sentire aggressiva. Se qualcuno mi si avvicina tiro calci. Li guardo con odio. Nessun mi considera. Mi sento inosservata. Vorrei tirare calci nei coglioni e negli stinchi e ginocchiate fino a sfracellare quegli orrendi penzolanti coglioni. Ha inizio la rabbia, dopo il dolore dell’abbandono, la rabbia. In classe c’è il manifesto con la foto di Anita. Lo guardo solo se nessuno mi vede. Mi pare che da lontano arrivino delle lacrime, mordo il labbro e mi reprimo. Se qualcuno entra, scosto lo sguardo e fisso con odio professori compagni e fantasmi. In faccia di solito mi trucco col nero e il viola. Vorrei mettermi il rossetto nero ma non ne ho il coraggio. Sto aggrappata al suo banco. Sto aggrappata al banco dove c’è ancora scritto Anita.
E la scuola passa. Gli anni passano e finiscono e le mie ferite diventano sempre più visibili. All’inizio dell’estate, dopo la maturità ho le treccine. Fatte male, fatte da me con tutti i capelli che escono fuori increspati. I ciuffi di tre colori di due anni fa sono solo sulle punte.
Sono seduta sul mio banco, vedo solo me. Sto scrivendo per bene gli appunti di storia. Una mano mi ruba il quaderno, non posso protestare, il prof mi vedrebbe. Lo guardo e sorrido. Non sono abituata a farmi beccare che non seguo. Mi ritorna il quaderno dopo un po’. C’è disegnato un cavalletta, sotto c’è la firma “Anita”. Ritorno a scrivere gli appunti. Non mi lavo molto, ma non penso di puzzare. Invece si puzza. La stalla puzza e gli animali che vivono nella loro merda puzzano.

Sto dormendo con le mie due amiche. La notte della prima pera. Nel sonno sogno di urlare aiuto ma non mi esce la voce. Di chiedere aiuto non se ne parla. Sono troppo debole. Penso che sia difficile. Mi voglio uccidere da sola. Se chiedessi aiuto mi direbbero di fare delle cose semplicissime. E io non le so fare, non ci ritorno a casa conciata così. A sentirmi urlare dietro da quella merda di mio padre non ci torno. A vedere mia mamma che è preoccupata perché io non sono in grado di decidere per il mio avvenire e vorrebbe decidere lei. Ma lasciatemi in pace.
Pensavo che la morte di Anita non l’ho capita. Anzi nessuno. È morta come un paziente. Fingevo di non aver provato niente neanche io. Ho provato vergogna. Il telefono mi ha svegliato presto quel sabato.
— Ma non era semplice togliere l’appendice?
Non è possibile. Infatti non è possibile. Dunque decido semplicemente che non ci credo.
Stanno parlando ancora le mie amiche accanto a me nel letto. La Benedetta domanda ispirata — Allora qual è il limite tra la vita e la morte?
Alice sbiascica — Boh io non ci capisco un cazzo.
— Se dovessi spegnermi quando sono fatta non sentirei nulla.
— Perchè negli ospedali non usano l’eroina invece che la morfina?!
Mi alzo un po’ mi giro verso Alice. Mi avvicino le prendo le mani forse e le sussurro — Alice, giurami che quando starò per morire verrai in ospedale e mi farai l’ultima pera e ciao. Voglio morire di eroina. Morire di eroina è piacevole. Non voglio vedere mia madre che piange.
Mi vergogno quando mia madre piange.

Dopo la maturità si è affinata la mia immagine, dicevo, una trasformazione totale. Sono nella stanza del centro sociale, quella con appeso il poster di Trainspotting. Hanno cacciato la Benedetta. Guardo il suo letto vuoto. Tra poco cacceranno anche me. Sto rimettendo in fila le mie cose segrete. Ho un segreto che al centro sociale è vietato. Ho una scatolina con un gattino. Ora io sono una che consuma eroina. I centri sociali non sono una fucina di droga, in realtà la droga non è permessa! Anche se io la sniffo, non mi buco. Penso che se la sniffo posso smettere quando voglio. È banale. Lo so. Ma lo penso davvero. Lo so, dicono che i tossici all’inizio la pensino così. Ma io non sono tossica. Io la penso così e basta. Apro la scatolina, è piena, c’è una bustina trasparente contenente una buona dose della mia diluita. Forse un quartino. Per me è abbastanza. Non mi faccio molto. Davvero, non sono una tossica. Mica quelle da leggenda degli anni Settanta. È completamente un’altra sostanza. Questa qui è leggera.
Siamo attorno al tavolo di via Crescenzago. Quello con inciso “Non approvo me stessa”. Ho il piercing. Pago la mia parte per la diluita. Prendo il quartino e lo metto nella scatoletta. Brown Sugar. Non si trova di meglio in Porta Venezia a fine ottobre. I giardini di Porta Venezia sono un luogo leggendario. Fa freddo ma c’è il sole. La Benedetta ha in testa un cappello io una lunga sciarpa viola e il mio cappotto grigio. Se non conosci un pusher quello che incontri così ti tira il pacco. Oppure no, le prime volte sono gentili, te la danno buona e abbondante. Poi chissà perché diventano sempre più difficili. Ce ne sono molti che si fanno sui gradini del parco. Forse per stare in compagnia, forse perché non sanno dove andare. Di solito chi vende non usa. Di solito sono stranieri. Sì. È banale ma è così. Non è vero che i magrebini hanno la droga. Però la compriamo dai magrebini. Non bisogna essere razzisti. Però davvero sono diversi. Comunque i contatti li tiene La Benedetta, ha anche il numero di telefono. Addirittura qualche volta lui gliela porta a casa. Un magrebbino che lei chiama al telefono. Lo chiama il “magrebbino”. E magari è marocchino. Anche lui si lascia chiamare magrebbino, anche se magari è marocchino. E comunque parla italiano meglio di me. Meglio della Benedetta di sicuro.
— Non c’è nessuno. Chiamo il mio magrebbino.
Non ha mai i soldi. La Benedetta. Le hanno dato 500 euro di multa perché fumava robba nel parco.
— Ora devo andare a rubare per pagare la multa.
— Dove?
— Ma da Coin, Signorina! Ovvio, no? Se no come la pago la multa di merda, non son mica borghesina come te!
— Ma se ti beccano a rubare che dici?
— Dico che le leggi mica le faccio io.
— Dai, non rubare, te li presto.
— Dove li trovi?
— Li rubo ai miei.
— Insomma è uguale!
— Almeno loro non mi mettono in galera!
— Me li presti davvero? Dai! Ti faccio il tatuaggio gratis. Domani. Ti faccio la cavalletta.
Aspettiamo al freddo a Porta Venezia. È mitica Porta Venezia, è un cliché così grosso che quando vedi che è reale sembra una favola. Dopo un po’ arriva uno che, senza parlare, ci dà due bustine, prende i soldi e tira dritto. Una di quelle due bustine la metto nella mia scatoletta con dipinto un gattino e me la porto nella stanza del centro sociale. Non ho ancora il piercing. Sono attorno a un tavolo. Ho messo già la mia parte. I soldi sono sul tavolo.
— Ieri La Benedetta è stata violentata da un magrebino. — Mi fa Alice.
— Non si vede.
— Non sembra aver pianto. — Mi sussurra Alice mentre la Benedetta gira una minestra in una pentola incrostata.
— Ieri quando?
Non mi vengono domande brillanti da fare. Ieri di non si sa quale giorno. Non mi rispondono.
— Hai capito cosa ti ha detto?
— Sì, ho capito, che ci posso fare?
Mi fa senso la Benedetta. Ha un livido sulla guancia.
— Mi ha sbattuta sul pavimento minacciandomi col coltello. Mi diceva che gli dovevo i soldi.
Me lo racconta rabbiosa e io devo fingere di provare qualcosa mentre guardo il tavolo e penso: “La Benedetta cucina da schifo, dopo vorrà che mangi quell’orribile zuppetta d’orzo? È tutto ‘bio’, lei è vegetariana. Forse anche anoressica e verso se stessa non prova niente ma siccome è mostruoso, almeno fa finta e finge di essere disperata.” Lo penso così ad alta voce che sono sicura di averlo detto.
— Mi è entrato in casa, diceva che gli dovevo dei soldi e mi ha violentata.
Penso o parlo? Tanto poi le passa, penso. Tanto è una balla, penso. Tanto sotto sotto ne è felice, penso ancora.
— Ma tu gli dovevi dei soldi?
Era fidanzata con un tipo della Bocconi che passava tutto il tempo a fumare l’eroina e gliela passava.
— La fumo soltanto. — Diceva.
L’assemblea del centro sociale l’ha sbattuta fuori. Non ci si può fare nel centro sociale. I tossici fuori, attirano la polizia e i guai. Hanno sbattuto fuori lei e lui. Meglio. Alla fine l’hanno sbattuta fuori e comunque una casa lei ce l’ha. A Crescenzago. È che si sente sola. Non si vuole fare da sola. Ma poi già sapevo che si facevano anche altri lì dentro, proprio quelli che l’hanno sbattuta fuori. Dario prendeva la coca o l’amfe per tirarsi su e la robba per darsi una calmata. Stava finendo di dare l’ultimo esame di Giurisprudenza. Aveva la tesina della Triennale. Era sempre incazzato. Faceva paura, ma era bellissimo. Era cattivo con tutti, tranne che con me, con me era gentile.
— Se rovesci la pizza a Dario sono cazzi acidi. — Diceva Elvis.
Dario una volta ha aperto la scatola di cartone della pizza e ha urlato a Elvis:
— Mantenere orizzontali le pizze, no, non sei capace? Devi far scivolare giù tutto? Ma cos’è ’sta merda?
Era capace di lanciarla a terra. A me no. Una volta gliel’ho portata io in camera. Non si era rovesciata. Giuro. Mi ha sorriso. Mi ha offerto un po’ di bamba. Bamba è la coca. Le droghe non si chiamano eroina, cocaina, amfetamina, Lsd. No. Robba, bamba, amfe, trip. Dei nomi da pupazzetti.
Sono catturata quando vedo il cucchiaio da minestra che si annerisce sotto la fiammella dell’accendino. È incantevole. Come nei film. Guardo bene la casa. I fornelli sono sporchi. Il tavolo è bello però. Dietro c’è un divano. Sembra un film, uno di quei film che parlano della vita. Quale vita? La vedo. Vedo una roba che fa delle bollicine marroni: Brown Sugar, zucchero di canna. Si sta sciogliendo. C’è una canzone dei Rolling Stones, adesso collego. Solo ora capisco che cavolo diceva! Bella. Cioè tanto si tratta di una roba diversa anche se ha lo stesso colore di una volta. Già ho appiccicato in camera mia il testo di Heroin dei Velvet Underground. Nessuno l’ha capito. Pazienza. Non vedono, oppure è tutto buio davvero? Ma io vedo quel cucchiaio, mi viene voglia di mangiare con gli occhi quella scena. Io sono una di loro? Mi risuona nella testa una domanda. Chi sono io? Allora mi colloco: se sono una di loro dovrei avere le cose che hanno loro.

Siamo in un parco ad Amsterdam. Io e La Benedetta. Ruben, il mio ex fidanzato ha in mano dieci ovuli di pastiglie e un profilattico pieno di funghi allucinogeni. Lui non li vuole mangiare. Di colpo tutto finisce nella mia mano. Mi infilo nel solito cesso della stazione di Amsterdam. Ho imparato a conoscerlo quel cesso in questa vacanza. Abbiamo una bottiglia d’acqua: siamo io e La Benedetta. Cinque ovuli me li mangio io.
— Speriamo non mi si aprano, ci rimarremmo sotto.
— Chi se ne frega. — Non ci penso nemmeno che possa succedere.
— Si muore…
— Chi se ne frega.
Ne ingoia cinque anche lei. Sono grossi, deglutire è difficile, alla fine facciamo fuori tutta la bottiglia d’acqua. Poi lei si infila il profilattico lasciandomi stupita.
— Così mi ripago il viaggio. — Mi fa. — A me non fa schifo. Non guardarmi così, signorina! Quello stronzo del tuo fidanzato, Ruben, si lamenta che gli devo i soldi…
— Non siamo più insieme.
— Ieri te lo sei scopato nella tenda… Gli dovevi dei soldi?
Guardo per terra. E non penso a niente.
— Che figlio di una mignotta. Mi dispiace… Vedrai, ora ce ne torniamo a Milano io e te…
Guardo la mia ombra sull’asfalto.
— Be’ comunque non se li mangia gli ovuli io lo so perché.
— Perché?
— Guarda che lo sanno tutti che ci è rimasto sotto: il giorno che ha portato i trip di Lsd gli si sono aperti nell’intestino ed è stato male in aereo. Non voleva che tu lo sapessi, ma è fuori di testa da allora. Comunque ora noi partiamo e lui resta qui. Ho una settimana di tempo per farmi i soldi con ’sta roba che ci portiamo a Milano. Bisogna buttare la bottiglia d’acqua. È vuota. Non si può lasciar nel cesso. Cerchiamo la raccolta differenziata della plastica.
— Ah! — rido — la raccolta differenziata.
Non me ne continua a fregare niente.

Non sono ancora stata ad Amsterdam. Ho delle cose nella borsa. L’armamentario prevede la Fidaty Card, altre schede plasticate raccolte in giro e lo specchietto. Io ho con me le mie 5 euro. Le tengo arrotolate con la parte arancione della sigaretta. L’ho visto fare e ho imparato subito, spiego: si prende la sigaretta, la si spezza. Te la fumi senza filtro. Mordi il filtro interno coi denti e lo tiri, la parte bianca tipo bambagia viene via e resta solo l’involucro arancione di carta. A quel punto arrotoli le 5 e le infili. Il filtro di carta tiene così le 5 euro sempre pronte e personalizzate per lo sniffo. Ho una collezione di tessere di ogni genere.
Sono amare le tessere avanzate. Lascio sempre qualche piccola incrostazione dimenticata. La lecco. Senza sapere cosa mi sto mettendo sulla saliva insieme alla polvere che è rimasta appiccicata. Una volta credo di averle leccate tutte. Non avevo nulla e leccavo schede. Credevo di impazzire. Sono una trentina in una scatola di carta blu.
Poi ho lo specchietto. Poi ho la scatolina dove tengo la roba.
Siamo attorno a un tavolo e la Benedetta sta caramellando la roba. Io aspetto che loro facciano, dopo tiro. Non avevo mai visto le siringhette da insulina dal vivo. Non credevo che le avrei mai viste. Cioè mi sembrava una roba da film! Poi mi sono ricordata anche di quel videogioco che mandavano a scuola, quello che ti dice come fanno male certe robe e c’era un livello in cui il mio avatar prendeva la siringa e si trasformava in scheletro. Mi eccita come un gioco. Mi domando se non è come nel gioco. Poi spengo il computer e torno a casa a mangiare. Come farà la Benedetta ad andare in farmacia a comprarle? Io cerco di non far sapere nulla a nessuno, vorrei che nessuno mi vedesse. Se mi vedono magari mi sgridano. Io non ho nulla a che fare con le siringhe. Quando sono andata con la Benedetta in farmacia sorridevo alla farmacista e pensavo che avrei detto: “Poverina, la mia amica è diabetica”. Così giovane. Povera. Quando siamo uscite avevo mentito così bene che ero diabetica pure io. Pensavo alla farmacista che mi guardava. Avevo 18 anni. O 19 ma tanto me ne davano 25 o 30 quindi mi avrebbero trattata come una: “Tossica di merda vai a lavorare” anche a me. Era inutile fare la santa. Nessuno avrebbe pensato “povera ragazza!” Allora sì che li odi tutti, li detesti, li disprezzi perchè loro ti odiano. Rabbia rabbia.
La robba è sciolta con un po’ di limone. Poi il limone lo spreme e se lo beve.
— È vitamina C. — Dice la Benedetta. — Ne volete?
Invece la vitamina E viene aspirata con cura nell’aghetto. Come la prima volta che l’avevo vista farsi. Ci insegnava.
— Poi bisogna vedere se c’è l’aria e poi infili nella vena l’ago, di traverso.
— Ma non fa male?
Mi guardano come una scema e ridono di me.
— Non tira su sangue.
— Bisogna tirar su il sangue se no non becchi la vena e butti via la roba.
— Perché, non fa effetto?
— Ti lascia una bolla gigante di ematoma e poi non dà la stessa botta.
— Marti, credimi è un orgasmo. Ne basta molta meno e va bene lo stesso. Io ne piglio pochissima e però mi faccio il flash.
— Meglio anzi!
— Dritto al cervello.

Nel cesso di Amsterdam neanche un mese dopo la aspirava tenendo la siringa tra i denti perché non aveva piani d’appoggio per il cucchiaio. O era stagnola?
Eravamo abitudinarie, in una settimana lì frequentavamo sempre lo stesso cesso. Buttiamo la bottiglia d’acqua ormai vuota.
— Senti, andiamo ad acquistare?
In un tunnel pieno di puttane troviamo l’eroina bianca. Buonissima. Diversa dalla nostra. Sembrava più profumata. Io ne ho presa molto meno del solito. Non è come la nostra. Costa anche di più. Un tunnel pieno di puttane. Non dovevamo farci beccare dagli altri due. Loro restavano lì ancora, noi partivamo. Volevamo dare il nostro saluto all’Olanda. Avevo una gran voglia e la Benedetta stava proprio in scimmia. Dove ci sono le puttane c’è la robba. L’abbiamo trovata anche lì. Si trova ovunque. Corriamo nel cesso della stazione. Sono curiosa di sentire la bianca che sapore ha. Ma la Benedetta a quel punto già non aveva più la sua bella vena.

Estate 1998. Sono al mare con la Alice. Bevo una bottiglia di vino rosso in pieno pomeriggio. Sappiamo che sta venendo a trovarci Luca. Luca mi affascina. È molto più grande di noi. Io ho 17 anni. Sto bevendo a canna da una bottiglia di Bonarda. Continuo a bestemmiare e Alice mi guarda e ride, Bestemmio con rabbia ma poi rido e bevo. Arriva Luca. Ride anche lui. Beve anche lui.
— Lui è il mio amante, il mio Dio.
Non ho mai amato così, non ho nessuno che mi ama così, sono invidiosa di Alice, vorrei anche io il mio amante oscuro.
La notte scoliamo una bottiglia intera di vodka alla pesca fresca e sulla spiaggia ci rotoliamo nella sabbia. Fumiamo una canna. Loro iniziano a baciarsi, fanno il bagno, è buio. Li vedo che salgono sulla boa, mi salutano. Alice si distende, lui si mette sopra. Intravedo che lui le apre le gambe. Si muovono. Stanno facendo l’amore. Non avevo mai visto fare l’amore. Guardo il mare nero, la luna che è minuscolo spicchio e i loro movimenti. Mi butto a terra nella sabbia. Chissà come dev’essere fare l’amore? Dopo un po’ tornano a riva.
— Marti ci sei rimasta male?
— No, no. — Faccio io. — Io non l’ho mai fatto.
— Ah! — dice Luca — e come mai?
— Aspetto di innamorarmi.
— Ma vedrai che prima o poi anche tu…
— Dobbiamo trovare un fidanzato alla Marti. C’è il mio amico Ruben!
— Com’è?
— Te lo presento, lavora al centro sociale, è fico, ha i capelli lunghissimi neri e la barba.
— Ruben… va bene.

Un mese prima aveva meno problemi con le vene. Di solito lo aspira e si spara dentro la miscela. Poi aspira di nuovo e se la rispara. La spada. Non si dice “mi buco”. È fuori moda. Si dice “mi faccio le spade”. La robba. Lo schizzo. Robboso. Il robboso si gratta sempre. Non io.

Sono qui nel letto a occhi chiusi non so che tapparelle vedrò quando aprirò gli occhi. Che giorno è? Quando finisce il liceo finisce tutto? Eroina vuol dire qualcosa di eroico? Mi ricordo le parole di un mio professore. Diceva che facendo l’insegnante il tempo diventava circolare. Ogni volta ricominciava un nuovo anno. Sembrava di non andare mai avanti. La scuola è finita. Sono caduta. È come scoprire, dopo anni di convinzioni contrarie, che la terra non è tonda, che a un certo punto finisce e tu precipiti nel vuoto senza aver nulla a cui appoggiare i piedi. Il mio modo di aggrapparmi è: non infilare quell’ago nel braccio. Mi fa schifo. È diverso. Io con la mia robba non sento la scimmia. L’astinenza, dico. Sniffo. E vomito. Quando ancora vomitavo. La prima fino alla decima volta che mi sono fatta… Una sorta di avvertimento. Vomitare non è preoccupante. È non vomitare più che dovrebbe allarmarti. Invece quella prima volta correvo al cesso e mi girava tutto e mi si chiudevano gli occhi. Mi raccoglievo da sola. Comunque in due anni avevo già provato ogni genere di sostanza. Speed, coca, amfe, fumo nero, hashish, marijuana, crack, ketamina, pastiglie di extasis, Lsd, superpolline, popper… non me le ricordo neanche tutte. Ma non ero tossica. Io a scuola ho la media dell’8. Quasi.
— Te mi sa che se ti fai una pera ci rimani sotto. — Mi dice La Benedetta.
— No Marti, tu meglio se non ti fai. — Mi protegge Alice.
— Anche tu sarebbe meglio di no… — Dico ad Alice.
— No, lei può, lei si vede che è più forte. — Dice La Benedetta. E ancora…
— Dopo ho preparato una zuppata d’orzo, è la mia specialità. La faccio con l’orzo biologico. Io non mangio carne. Fa male, e poi se vedeste come ammazzano gli animali da macello…
— Io mangio la carne.
— Ma non ti fa impressione veder le bestie al macello?
— Non più di questo. — Guardo le siringhe sul tavolo.
— Ma che cazzo dici? Oh, Alice, la tua amica è una sfigata, ma chi mi hai portato?
— Guarda che io non sono sfigata!
— Sì vabbè, era una roba amichevole, era per prenderti in giro. Tu vieni dalla Milano bene, quanto si vede! La Martina per bene!
— Io sono quella che sono. Che c’entra?
— Marti, tu non farti in vena. Finché sniffi te la gestisci. Tu non sai farti. Io mi sono fatta solo una pera ieri. Oggi rifaccio, ma poi basta.
Sapevo.

Mercato di viale Papiniano, ancora non ho i capelli colorati. Non ho i sei orecchini. Ho i Jeans e un maglione carino. È l’inizio di primavera. Sono piuttosto carina. Alice è con me. L’ho aspettata come al solito un’ora davanti al metrò. Alice è sempre in ritardo. Quando esce di casa va in confusione totale e non si capisce perché si cambia vestiti cinque volte, ricontrolla se è tutto a posto ha attacchi di ansia. A scuola la tengono in disparte. Dicono che è matta. Finge di avere un fratello che non ha. Se insistono finge che lui sia in un bar ad aspettarla e magari la segui fino al bar e la vedi che si fa un caffè da sola. Non le chiedo mai di suo fratello, ho capito che non c’è e mi faccio i cazzi miei. Non bisogna costringere le persone a mentire. Guardiamo gli orecchini.
— Marti! Che figata questo anellino.
— Bello! A me piacerebbe mettermi l’anellino al sopracciglio.
— Che schifo!
— Be’, a me piace
— Fattelo.
— Figurati, mia mamma mi sbatte fuori di casa.
— Sì, figurati. La tua famiglia è invidiabile. Figurati se ti sbatterebbe la porta in faccia!
— Non li conosci.
Guardiamo tra le pietre portafortuna. Alice ha preso in mano l’ametista.
— È la più bella. — Faccio.
— L’ho vista prima io! — La compra.
Andiamo verso la bancarella dei vestiti militari. Iniziamo a parlare col tizio. Vogliamo comprare gli anfibi. Alice è indecisa. Li prova li rimette giù.
— Tu li compri? — mi fa.
— Mia mamma m’ammazza se me li compro, però sono troppo belli. Se li prendi tu li prendo anche io. — Dico ad Alice.
— Sono indecisa. — Ansia.
— Dai, è solo un paio di anfibi, Ali!
— Non lo so… Lasciami pensare!
— Dai!
— Vado in crisi. Marti… aiutami!
— Deciditi Ali!
— Devo chiedere a mia mamma, devo chiamarla.
Alice sente la mamma ma continua a essere indecisa, va in crisi. Si confonde. Ansima. Ha un attacco di panico.
— Non lo so! Non lo so se mi piacciono!
Urla al telefono con la madre, mi guarda mette giù.
— Non mi so decidere, non lo so… dimmelo tu. Li prendo?
— Prendili.
— Allora sì. Ma non lo so…
— Ali, non importa, tanto sta chiudendo, andiamo via. — Le accarezzo una spalla e ci voltiamo.
— Vai a trovare Anita stasera?
— Credo di sì.
— Come sta?
— Meglio, aveva un cagotto! Ora le tolgono l’appendice. Lei fa la scema, dice che sopra la cicatrice si fa tatuare una cavalletta.
— Che schifo i tatuaggi! Come cazzo ti viene in mente di farti una cavalletta?
— Boh, a me sembra carino. A me piace la biologia. Anche marina. Mi piacerebbe studiare le sirene, se esistono! Con quei capelli lunghi…
— Che babba!
— Babba?
— È un modo di dire. Come fai a credere alle sirene? Coi capelli lunghi!
— Come te!
— Io non ho mai tagliato i miei capelli da quando avevo tre anni.
— Davvero?
— Giuro!
— Sciogliteli! — Li scioglie.
— Ti arrivano fino al culo! Perché non li sciogli mai? Sono bellissimi! Ce li avessi io così.
— Fatteli crescere, Marti. I tuoi sono ancora più belli dei miei se li tieni lunghi!
— OK.
Siamo all’autobus.
— Salutami l’Anita! Dille che spero che guarisce presto così usciamo insieme!
— Te la saluto.

Sono incastrata nel cesso, le mie gambe non rispondono più ai comandi qualcuno bussa, un corpo ai miei piedi non si muove, cerco di schiacciarle una gamba, le do calci, ma non fa cenno di respirare, vedo la mia mano che spinge la porta in legno bianco per uscire, vedo occhi che urlano, mani davanti alla bocca straniera di passanti per la stazione in cerca di pisciatoi. Vedo un pavimento che devo cercare di non avvicinare troppo alla mia faccia, vedo scale a un palmo dal mio naso che scorrono trascinate da un tapis roulant. Sento una mano che cerca di afferrarmi al braccio, non mi giro neanche a vedere chi mi voleva fermare, ho fiato in gola anche se non dovrei. Supero la galleria delle puttane, stringo il biglietto falso anche per il ritorno. È tra poco. Guardo l’indicazioni ai binari. Non so se mi inseguono ancora.
— Please, this train go to Italy? Please, this train…
— Sì. — Mi fa una voce. — Tra un’ora parte per Lugano poi va a Milano.
Corro verso gli armadietti, ho la combinazione, non la ricordo, la ricordo, ritiro lo zaino, butto nel cestino, ho la moneta per un caffè. Vedo trambusto attorno al cesso, la gente intorno al cesso da cui sono uscita solo io. Non voglio guardare, mi allontano vado in un bar fuori. Il treno lo devo prendere. Cerco di non sentire gli echi delle sirene. Le sirene sono crudeli.

È Natale, stiamo festeggiando il Natale col mio nuovo fidanzato che ha fatto l’università con me. Biologia. Tre anni più due di specializzazione. So tutto sugli insetti. Anche le cavallette. Come quella enorme che ho tatuato sulla schiena, racconto, per via della mia passione per le cavallette. C’è una varietà immensa di animali e anche di insetti da studiare. Mi piace vedere nelle teche quelli infilzati con gli spilloni. E penso al mio piercing. A me infilzata come una cavalletta in una teca. Ci penso come un ricordo lontano accaduto a un’altra persona. Io? Io sono pulita, ho tolto il piercing. Ho smesso. Non ho neanche più i capelli colorati. Li ho tagliati. Squilla il telefono. Sono con un ragazzo per bene con camicetta e tutto il resto…
— Pronto? — Ascolto in silenzio. — Alice. Come stai? (Silenzio) Anche io. No. È rimasta ad Amsterdam. Succede a tutti prima o poi di dover andare… al cesso… sentiamoci in un altro momento, con calma eh? Buon Natale anche a te.
Dopo che ho messo giù Giovanni si avvicina. È il mio ragazzo adesso.
— Ma cosa dici? Che cesso?
— Niente, una roba mia. Mia e della tipa con cui parlavo. Una roba da ridere. Era scritta in un cesso.
— Chi vive sperando muore cagando? Come da noi all’uni?
— Sì più o meno.
— Ma chi era? Che è successo?
— Era Alice, una mia compagna del liceo. Non la sentivo da tempo. Era andata a Roma a un concerto… Non stava bene. Era una che esagerava con della robba.
— Con cosa?
— Col vino.
— Ah. Be’, sì anche a me a Natale succede… Beveva troppo, eh?
— Sì.
— Che fulminata!
— Come hai detto?
— No, dico è una fulminata? Di quelle ragazze un po’ sceme che esagerano sempre?
— È da dopo che sono stata ad Amsterdam che non la sento più.
— Sei stata ad Amsterdam? Hai visto il Van Gogh Museum? È bellissimo!
— Comunque non sta bene. La mia amica. Chiedeva di parlare ma non so di cosa. Ho sempre avuto dei problemi lei.
— Allora non risponderle e festa finita.
— Giusto. È vero.
— Dai non ti rabbuiare, andiamo di là. Buon Natale!
— Buon Natale, amore!
Poi mi dimentico di tutto, salgo sulla sua macchina fumo una sigaretta pensando a tutte le immagini che mi scorrono nella testa e le cancello. Non è vero nulla.
La cancello, mi dimentico, nego. Di lei, di me, di quell’altra che per me è ancora con la testa reclinata in quel cesso, non me ne frega più niente.
Vedo la strada che mi porta verso la campagna, abbandono la città, vedo lui che mi sorride. Sorrido e mi sento nuova.
Biologia marina va benissimo. Penso. Poi più nulla.

Estate. Solo tre anni prima.
Un cesso di Amsterdam. Ho l’anello al sopracciglio, con me c’è la Benedetta. In stazione chiudiamo la tazza del cesso. Laccio emostatico specchietto. Prima me la sniffo, no, la vedo incasinata. Mi tocca aspettare per aiutarla. Le tengo il laccio stretto mentre nell’altra mano ho lo specchietto con la mia parte da pippare.
— Cazzo muoviti. — Faccio. Sono molto brutta. L’ago s’infila dentro.
— Non esce sangue. La vena mi si è sclerotizzata. Si dice? Trombosi. Non so.
— Muoviti merda c’è la polizia. C’è gente fuori dal cesso noi siamo in due.
Eppure sono calma. Sento di nuovo quel cric cric di pelle che si spezza. La Benedetta sta scavandosi nel braccio. Un incubo infinito.
— Fammela tu.
— Non la so fare.
— Sei fatta?
— Non ho ancora tirato.
— Cazzo non la trovo!
— Muoviti
— Aspetta. Non ho più vene.
— Come non hai più vene?
— Eh s’è chiusa non tira su niente, merda.
— Dai, tirala anche tu.
— No, mi fa schifo tirarla e poi fa peggio ti rovini la gola.
— A me piace pippare. — Ne tiro un pochino. Appena, appena per assaggiare.
— Zitta che mi deconcentro. Fai schifo, ti sei brasata così di colpo? O? Marti? Apri gli occhi!
— Ce li ho chiusi? — penso ma non riesco a dirlo, una strana forza mi succhia fuori da me, fuori dal buio di quel cesso, sotto, sotto di me. Mi gira la testa, mi fa impressione, quella ravana come se il braccio fosse un pezzo di un altra persona. Sento da lontano cric cric. Ne ho presa poca e invece mi accascio. Sono sprofondata due metri sottoterra.
— Ecco ecco cazzo! L’ho beccata. — Strilla La Benedetta ma è così lontana. Se ne frega di me, accasciata come un ammonimento di precauzione inascoltato.
Sdraiata col culo nel piscio del cesso della stazione. I mie pensieri sotterranei e soffusi.
Lei non mi guarda. Tira su sangue, spinge lo stantuffo e chiude gli occhi. Non sfila più l’ago dal braccio di gomma. Ho davvero l’impressione che avrebbe potuto trapassarsi da parte a parte senza far uscire sangue. Resta così. Chiude gli occhi e si accascia. Sono accasciata anch’io. Mi sa che questa robba non è come quella nostra.
Mi gira la testa, ho un immagine fissa: quella siringa che ravana come nel braccio di gomma di una bambola.
Non è importante il dolore, non se n’è accorta che provava dolore. Non credo ne abbia provato. Le avevo schiacciato un piede. L’unico movimento che riuscivo a fare prima di cedere all’abbandono tra le braccia della mamma. Nulla. Resta lì. Eppure quando le schiacciavo il piede mi bestemmiava a casa sua… Sono immobile anche io dormo, sogno come sempre, incastrata in quel cesso. Non mi preoccupo della sua immobilità innaturale, non sente nulla di solito quando è fatta, prova dolore solo un attimo, quando è nella parentesi prima dell’astinenza.
Cerchiamo solo di mitigare il buio fuori.
La vita diventa fatta di parentesi.
Dose… astinenza.
Tra dose apertaparentesi e astinenza chiusaparentesi si svolge la tra parentesi vita.