Il monologo mi prolifera

di

Giovanni Caputo

Prologo
(l’Attore viene bendato – accecamento)
Vedo, vedo, vedo, vedo –vedo!
Vedo mondi corporei, vedo mondi di luce.
Ah luce dei miei occhi quanto mi rendi splendido il mondo!
La felicità divina è la mia luce.
Atto primo
(l’Attore rimane sempre bendato) Mi è di peso la testa, come un greve gonfiore. Il corpo si gonfia, le mani si gonfiano, la testa si gonfia, enorme. Le dimensioni si allargano e il diaframma della pelle separa il vuoto dell’esterno dal vuoto dell’interno. Il mio corpo è una stanza vuota e la mia mente è vuota. Il dolore alle tempie e agli occhi ancora persiste nella sommità alta del cranio.
Per contrarre il vuoto e riempire il pieno stringo con leggerezza le mani come un vuoto che si restringe su di me dandosi forma. Un pensiero vago di me stesso riempie il vuoto che è in me. Catturo un pezzo di sensazione per volta come la materia sottile e sfuggente che girovaga.

(storia) Ero qualcuno o l’ho sognato? Sentivo strappi come acri pensieri affannarmi la mente e abbuiarmi gli occhi. Mi aprivo una strada per sprofondare dentro a un orifizio dilatato fino allo spasimo. Vedevo il fondo in cui infilarmici e nel fondo un altro orifizio, più carnale e palpitante, attraverso cui entrare nel corpo e oltrepassare il mio pensiero, fino all’ultima membrana che schizzava sangue.

Questo involucro vuoto, questo spazio vuoto intorno e queste pareti da cui mi sento imprigionato nell’anima più che nel corpo, io li riempio di me, e oltre, altri spazi sconfinati e vuoti. Ma poi mi rivedo o mi risveglio e queste pareti d’aria in cui sono chiuso si fanno pesanti, e allora vedo questo che manca, questo che non si vede, questo che non è qui, questo che forse non esiste, questo che sebbene non esista si vede benissimo!
Io vivo sull’assenza, ascoltandomi e afferrandomi, in questo piatto labirinto che mi trattiene, semplice e inafferrabile. Questa stanza è talmente vuota ed essenziale! Sono io che intrico gli spazi e i tempi.

(storia) La mia casa era nuda, il pavimento sfondato e le pareti con crepe cedevano. Poche cose intorno: erano gli oggetti che mi legavano al passato e che avevo lasciato dopo averli trasportati, come in una borsa gli inutili pezzi della vita. Vi avevo abbandonato, vi guardavo, odiati pezzi della mia vita in frantumi e stavo qui schiacciato dall’angoscia che saliva come acqua che infradicia le fondamenta.
Scuotevo questa carne, ma essa si spezzava. E i frammenti sparsi mandavano bagliori. Così riflesso in immagini di carne vedevo il cielo ritornare dai pezzi per riempire di molteplici sguardi il corpo dilatato. La fenditura della luce apriva una frattura e l’occhio indagatore penetrava la lacerazione che lo aveva generato.

Io sto di fronte ad acque sconosciute e vuote. Questa riva sull’abisso dove mi aggrappo al suono dei pensieri delle cose è il solo appiglio; e la piccola sponda è la vita dell’uomo; e ovunque intorno sta il proliferare della rotondità che ribolle e si aggroviglia. Il mio corpo vibra sotto gli sguardi delle acque del vasto oceano vuoto e si va diramando. La parola stessa si fa corpo e penetrazione dello spazio distante. E io godo della sua forza come di un unico corpo, molteplice ed esteso, dentro un utero fecondo di senso.

(storia) Mi avvolgeva la visione della grande unica immensa femmina, e l’odore che fa sbocciare fantasie meravigliose e nuove. I paesaggi lisci e vuoti si piegavano in valli che come labbra accoglievano e proliferavano di vita. Il silenzio apriva le fessure in spiragli di parole. Le mie immagini si infilavano fino a inghiottirsi negli interstizi e nelle intercapedini del sogno pronto a immaginare se stesso.
Guardavo lo specchio che guardava se stesso, e non vedevo niente. Un vuoto si faceva pieno, uno sguardo di nulla, uno specchio opaco era la mia immagine che appariva senza mai vedersi. Sbocciava dalla mia mente ma poi si disfaceva come un fiore fatto di nulla, come la parola in cerca del proprio silenzio.

Voglio staccarmi da questa immagine vuota allo specchio e osservarmi. (teatro–nel–teatro in “tu”) Ti arrovelli, giri per questo vuoto e lo riempi coi tuoi passi. Fissi negli occhi per scrutarti l’interno dell’anima, tu che vedi bene che il nulla circonda il labirinto di te stesso? Tu presumi di raggiungere con il tuo sguardo acuto le profondità del tuo animo? E tu quindi reciti la parte di chi non vede e fa finta di vedere e si illude che gli altri vedano. Guardati dritto negli occhi: e cosa vedi? Vedi il tuo delirio e la disperazione che ti sommerge. E chi abbracci? Abbracci te stesso. Abbracciati fino a strangolarti, questo dovresti fare di te.
Tu voli per spazi sconfinati, per cieli limpidi dove ogni pensiero dorato si illumina di gioia, le parole ti animano e tu puoi correre libero in questo cupo e nero pozzo di pensieri sciogliendo i grumi che ti bloccavano il balbettio. Tu credevi a un uomo come alla speranza stessa, che squarciava il velo, e ti faceva abbandonare questa vita in cambio di quell’altra stupenda illusione. Tu non esistevi ma ti lasciavi raggiungere nella possibilità della tua presenza che mi dava la tua assenza. La tua lingua era muta, come il mio delirio che io sopportavo perché lo donavo a te, lasciandolo scorrere senza orecchie a cui giunga.
Questo teatro che solo io vedo mi rende un nudo apparire di fronte a me stesso con un gesto che io ti rivolga: un abbracciarti, uno stringerti, uno scagliarti, un insultarti; in questo teatro è un afferrarmi, uno scagliarmi, uno squarciarmi, uno sviscerarmi.

Quale azione compiere con questa mia mano? Mano, mia estensione che vuoi essere altro da me come la mano di un altro. Mano che prende, mano che inorridita della mia nullità scuote e colpisce, mano che accoglie un nulla dentro il palmo vuoto. Mano che tocchi e che guardi il mondo, a tentoni lo guardi, per un più intimo contatto come la mano protesa di un angelo. (cinge la gola) Mano che afferra chiudendosi in un cerchio che da sé ritorna a me, e io stesso sono l’anello a cui la voce della mano che parla ritorna, e perciò ne soffoca.

Ah ritrovare la pace profonda in cui lo spazio si dilata, i suoni si fanno ovattati, le pareti si elidono, il buio che copre il mondo si fa totale. Il mio sguardo è una barca di luce lanciata nel vasto nulla, si dilata a coprire l’intero mondo. Salgo lungo pensieri taciuti nel paesaggio notturno e i profili all’orizzonte sono sagome argentee, scuri i più vicini, neri quelli intermedi, tenui quasi l’emergere dell’inconoscibile, i più lontani. La vita dell’uomo giace addormentata nelle pieghe della terra. Una luce improvvisa appare, si muove, scompare, altre ancora dopo, forse altrove: sono tracciati bui partoriti nell’immensa e tenera notte dei luoghi sconosciuti. Io guardo il mondo e vi sono immerso, anch’io un frammento nel centro del tutto.
Io sono un’illusione che si dissolve come allo squarciarsi di un diaframma soltanto immaginario? Tu sei un altro e io potrei non essere qui e vedermi recitare da un altro.

(teatro–nel–teatro in “lui”) Tu immagina un attore solo su un palcoscenico vuoto, le luci cadono su di lui come una pioggia che apre gli sguardi. L’aria stessa si è fermata e vibra intorno per proteggerlo o annullarlo. E lui appare circonfuso di luce e si aggira sul vuoto e pronuncia la prima parola: (apre con decisione la bocca) – –. Ah è una parola soltanto ma supera l’incolmabile silenzio dello sguardo! Se la prima parola si apre e si ferma sul ciglio del vuoto anche il gesto necessario che spinga l’azione si apre al silenzio dell’immobilità – – (spalanca la bocca). Lui si domanda (apre) – e annulla la domanda. Domandarsi il domandarsi è troppo oltre il frastuono del silenzio – – (apre piano la bocca). Così un’ombra si agita e si consuma, e lui si spegne per scomparire nella vista e nei pensieri (apre appena la bocca). Lui si ripresenta qui, come un qualsiasi spettro che ritorna in questo mondo di luci che non esistono e di fantasmi che urlano davvero, sotto le luci accecanti, più pallido di un fantasma di teatro che parla il silenzio come un pensiero senza-pensieri. Lui è me che guarda! Ma io non vedo il suo sguardo. Sono io che guardo senza vedere. Lui mi parla ma io non ascolto. E lui spalanca la bocca (apre), di più, di più (apre), fa uscire la sua voce (apre), di nuovo (apre), ancora (apre).

Apro la bocca ed esce: il niente.

È così simile un percorso rispetto all’altro, una vita rispetto all’altra, una parola rispetto all’altra, che crea in me l’illusione di aver vita. Ciò che è potrebbe non essere. Il trasmutare delle cose su questo balcone del nulla, il discorrere puro e occasionale dei miei pensieri su questa scena immaginaria, l’apparire di facce sconosciute per scomparire sulla soglia del mio sguardo, danno bagliori sui fondali vuoti.

La mia faccia, altre facce, una moltitudine di facce, per sfogliarle ad una ad una dagli altri che mi avvolgono, fino a rivelare – –?
(si benda con un’altra benda) Copriti lo sguardo. È meglio non vedere. Vedi bene che non vedevi affatto e ora che vedi lascerai proliferare l’immaginazione.

(storia) C’erano macigni che spingevi lungo la via che la sorte ti aveva dato. Inizialmente ti dicevi che un macigno che accettavi di trascinare – per viltà, per conformismo, per favore a qualcuno o a un’idea – non ti sarebbe stato d’impaccio, ma poi altri macigni cadevano e quelli di prima si facevano più ingombranti per l’accumulo di scorie nel rotolamento. Alla fine tu stavi immobile in una valle che non avrebbe mai condotto a nulla e ti illudevi di andare.

Immagina che tutto fosse il sogno di una storia; immagina che tu scagliassi con ira felice pupazzi di nemici contro pareti di piombo schiantandone il corpo; immagina che tu accogliessi fanciulle prosperose e tenere di cuore dentro pieghe di carne toccandole in mezzo alle cosce e ai lati dei seni comprimendoli dolcemente. Immagina di essere rinchiuso in una caverna e stare, solo, all’imboccatura e nel fondo delle tenebre il mistero insondabile, e lì poter avere l’unico libro che si desidera, il libro bianco dove scrivere i minimi accadimenti che circondano la mia vita. Scrivere una pagina e sfogliarla. Conserverebbe in sé il presente, illuminerebbe la verità della mia esistenza. Ma poi, quando sia coperto di parole, distruggerlo, come un qualsiasi libro già scritto, il libro di tutti, estraneo alla mia vita e illeggibile la sua storia. Così dalla purezza iniziale della luce sono passato alla nera ignoranza delle parole, come il gravare del sonno sull’oscurità degli occhi.
(lentamente buio)
Atto secondo
(l’Attore è sempre bendato) Vedo uomini inesistenti a cui do la parola come ad acqua profonda. Io tanto più singolare quanto più quelle fantasie sono fluide e informi, io tanto più reale quanto più esse appaiono visibili e trasparenti. L’illusione molteplice che ha l’evidenza dello sguardo regredisce in sé, negando la sua presenza di corallo alla parola che ripete e accondiscende il suo silenzio prudente. Ah quell’illusione vuole essere come io che la osservo, nella speranza di poter vivere di riflesso la vita mia con quella sua non-azione!
E io attendo la fine dell’istante, quando nessun giro seguirà all’altro, e si restringerà fino ad annullarsi questo curvo vagare, con tanto fastidio per il riempirsi goccia a goccia del calice di parole.

(storia) Ero solo a riempire di delirio questa casa inclinata da macerie dove sognavo mani imprendibili che mi afferravano, bocche mute che mi divoravano, occhi impazienti che mi scrutavano.
Il mio sguardo come un guscio vuoto era schiacciato dalle immagini da cui provenivano le voci e queste sottili illusioni erano pronte ad accartocciarsi, un solo piccolo urto della voce e in un crollo avrebbero lasciato fuoriuscire me stesso, forato e riempito dai vermi di questi miserabili che mi assediavano derubandomi di tutto, anche di quel piccolo frammento luminoso che a tratti vibrava di passione.
In questa casa c’erano stanze sconosciute con luce opalescente, vi possedevo oggetti ignorati o forse dimenticati quando raramente passarono a incontrarmi. Tra le stanze collegamenti intricati consentivano passaggi razionali. Scale a chiocciola involute come pensieri conducevano ai piani di sopra e a cui io non avevo accesso, dove estranei a me sconosciuti mi conoscevano molto bene. Talvolta mi parve che esistesse un ulteriore piano, ignoto a me, in cui aveva sicuramente abitato il signor Non–So–Chi da perfetto estraneo. La sua presenza mi si imprimeva nella coscienza con tutta la forza che dà un’entità la cui assenza sovrasta d’angoscia tutto ciò che esiste. Non so nemmeno se un passaggio conducesse a lui, nelle stanze semitrasparenti e vuote, tra cui perdersi.

Io stesso potrei essere lui, io l’unico a vedere me stesso e il più distruttivo contro di me. E forse sono talmente disgustato da lui nella misura in cui sento che lui coincide con me, come uno sporco dentro di me. Dentro e fuori di me, pieno e buco sono la stessa sostanza che prolifera. La crepa è una fessura che la merda ti corrode fino a spaccarti e poi ti riempie. Merda della tua stessa merda.

(storia) Lui mi distruggeva la parola che mi faceva esistere e vanificava ogni mia affermazione. Si deliziava nel guardare il mio tormento. Era meglio scomparire e smettere di far resistere questa casa di menzogne. Lui si avvinghiava al male del mondo, come un simulacro corrotto che affondava la ferita nel passato.
È lui che mi strappava i sogni alla radice della carne per farmela ingoiare dopo avermi generato da madre. Era la santa puttana che voleva redimermi col suo amore da coscia e che mi odiava perché chiedevo amore.

(a terra) Forte ambiente di merda, ti giri intorno e vedi merda, guardi chi emerge e vedi merda, ti muovi un attimo tra gli altri e vieni coperto dalla merda, guardi il futuro e vedi una massa di merda. Ormai tu che sei servo ti adegui all’idea di merda del potere per ricevere la tua fetta di spazio in mezzo alla merda, e più ti metti a leccare la merda dei potenti condita della tua ignoranza più sei incoraggiato a proseguire nella tua premurosa opera di cospargimento. Chi è libero è ridotto a lustrare il suolo dalla merda. E allora lustra e sporca e struscia e sbatti e lecca.

(si tappa la bocca per morire soffocato –“lui” è madre!– parole quasi incomprensibili) Il monologo mi prolifera, dentro. Cosa mi serve più fare vivere questo cranio pieno di parole che nemmeno il silenzio ascolta?! La madre stritola il nascituro. Come se questo mio cazzo fosse padre a me stesso. Disgraziata la fece che è parto infecondo. Un giorno scoprirò di essere mio stesso padre. Chi meglio di me può comprendere le mie parole? Bocca–fica ingoia cazzo–me. Perché in questo vuoto, io sono l’orecchio che produce i suoni, la lingua che ascolta le parole. Porca troia di un dio fottuto! (soffoca)

Tappa i buchi alla vita! Questa casa si è ristretta in un cunicolo. Soffoca, soffoca, fallo uscire! Inizialmente ampia e vasta che sembrava emergere altrove, invece è chiuso in queste anguste fessure tra le pareti. Non hai più nulla, anche questo fantasma si sottrae da questa polvere impiastro di parto che non esce, questa argilla biancastra a cui sei destinato. Il petto è dimezzato, la testa è gonfia per questo utero sbarrato di frane in cui tutto cade e ritorna. L’imbuto di questa cloaca divora ogni urlo di parola e la testa che scoppia tappa lo sgorgo del fiume putrido.

(ride) Ah, ah, ah, ah, ah! Una bellissima gabbia dorata questa in cui sto! Apro la bocca ed esce merda. Dipende forse da un altro orecchio: quello che per me è un blaterare senza scopo un miscuglio di parole rifiutate, per un altro che ascolta, come un naufrago dell’esistenza infilato in questo buco tra le mura oscene, la mia merda sarebbe gloriosamente accolta ed elogiata. Io stesso, dal passato contorto da finire in questo cesso angusto in cui il tanfo è solo minore al mio disgusto, mi elevo alla rappresentazione di me, e la merda diviene oro, che puzza. Merda di parole non sporca le mani ma solo lo spirito – elevandolo!

Questa vita è una strada curva, ti ci trovi in mezzo, e non sai se quella via è vuota per te, oppure sta per travolgerti e annullarti. E poi la strada è curva, ne puoi vedere un pezzo, nemmeno tutta.
Apro gli occhi e che vedo? Ho sognato che al di là di questo sogno un imbuto mi trascinava fuori dal sogno chiuso riversandosi dentro me stesso. Non è per egoismo: non sono solo in confronto ad altri che non lo sono, invece sono essi immagini di uomini soli che la mia fantasia mi pone davanti illusori, lì fuori, come un’assenza di voci.

(strappa la benda) Strappo il velo alla vita! Non vedo, non vedo nulla, e credo di vedere. Attendevo e credevo che avrei visto, ma ora so che non vedo nulla.
Basta con questa menzogna di questo posto, di me, di questo spettacolo che do di me stesso. Prima vedevo ora non vedo. Solo per scherzo non sono morto davvero, per amore a voi, a voi che non esistete!
Non esiste nient’altro, senza uscite e entrate, e nessuno entra o esce, mentre io sto sospeso sul nulla di un sogno irreale: questo luogo non esiste, questa luce non esiste, questo tempo non esiste, questo momento non esiste. Io non esisto, io non sono mai esistito. La mia luce è un buio.
(precipita nella fossa. Buio)