LA MUSICA DELL’ANIMA
Ritratto di Eleonora Duse tra le note della sua epoca

di

Maria Letizia Compatangelo


Luce sul pianoforte, sul lato sinistro della scena, ancora immersa nel buio.  Sul palco un leggio e, più a destra, una poltroncina e un tavolino basso di foggia antica (non più recente del liberty). Il musicista entra e siede al pianoforte. Comincia a suonare uno dei Péchés de vieillesse di Gioacchino Rossini: assez de memento: dansons. Dopo circa un minuto, entra la protagonista, che recita sulla musica.

ELEONORA DUSE - Ah, quel tocco di piano! Rossini! Mi ha sempre messa di buonumore. (accenna un passo di danza) Dansons… dansons… - Quella mattina del 1858 a Vigevano, sono sicura che in qualche casa lì intorno stessero suonando Rossini!
Immaginate una processione di attori assonnati e imbacuccati, che arrancano sbuffando dietro a mio padre, che mi porta tutto serio a battezzare, in una teca di cristallo… (spiega) Era l’usanza per proteggere i neonati dagli spiriti maligni.
Sono quasi arrivati al sagrato quando, così all’ignoto, da una finestra aperta arriva un tocco di piano… e all’improvviso l’aria si riempie tutta di un crepitio allegro, uno scoppiettio, una cascata di note scintillanti che riscuotono la mia pittoresca scorta e scombussolano la pattuglia austriaca di ronda, che fissa mio padre… e fa il presentat’arm (mima il gesto, divertita) alla teca in cui sono adagiata, pensando che contenga qualche sacra reliquia!  
Che ne potevano sapere, loro, delle superstizioni italiane?
Mio padre è sicuro che sia un segno del cielo: « Ea nostra fia deventerà na stea!», racconta entusiasta, tornando al capezzale di mia madre.
Una stella… – Direi piuttosto uno scherzo del destino: un solo giorno di vita e già condannata a inseguire la grandezza…
E quella musica, quel Rossini, era una carezza di qualche angelo, per alleviare la pena del vivere. (la musica termina)

Ho cercato di spiegarlo a Enrichetta, mia figlia, il peso che mi opprime il petto, ma lei non l’ha mai capito.  Pensava che volessi allontanarla … che non le volessi bene. D’accordo, non è stata la figlia dell’amore… e forse non sono riuscita a nasconderglielo del tutto… ma comunque era mia, mia figlia, e io ho solo cercato di proteggerla!
Nessuno doveva sapere che era figlia di un’attrice.

«Ma che madre è la tua che ti impedisce di andare a vedere la Duse, la più grande attrice del mondo?», le chiese una volta una compagna di collegio, a Vienna. «Che madre è la mia che mi impedisce di vedere la Duse?… Eleonora Duse», ha risposto lei. E la immagino, mentre stringe i denti per impedire alle lacrime di venir fuori. Un gesto tipico di Enrichetta, come se tutto il mondo non la volesse. Io invece il mondo volevo metterglielo ai piedi.  

Quando è nata ho giurato che non le sarebbe mai mancato nulla. Io avrei lavorato, avrei sgobbato arrivando anche ai quattro angoli della terra, ma lei, a scuola, non sarebbe mai dovuta restare, come me, accucciata ai piedi della cattedra come un cagnolino, perché la figlia dei commedianti non poteva sedere con le bambine di buona famiglia! L’ho tenuta lontana, è vero, ma nei collegi più prestigiosi – e costosi d’Europa, accudita e riverita.
Il teatro era il mio destino. Non il suo.  La mia culla era la cesta dei costumi, mia madre mi allattava tra un atto e l’altro e non c’era niente di romantico, eravamo solamente poveri, scavalcamontagne ai quali andava bene una sera sì e tre no.
Il teatro era stato la passione di mio nonno, lui sì, che il teatro l’aveva scelto, ne aveva avuto persino uno tutto suo, a Padova. Un giorno però perse tutto - e mio padre non aveva talento.
Viaggiavamo in terza classe solo perché non esisteva la quarta, e il freddo, il freddo che abbiamo patito… E la fame… (rabbrividisce) Ricordo il buio e l’umido delle pensioni dove i miei genitori mi lasciavano per andare a guadagnarsi il pane, sperando in una buona serata. Certe volte, nelle notti di chiaro di luna, me ne scappavo sui tetti come i gatti, all’aria libera…  e se ero fortunata da qualche casa arrivava il suono di un pianoforte… o la voce di un violino, che mi cullavano e  scacciavano la solitudine e la paura che mi sono sempre rimaste dentro, come una nota sorda sul fondo, togliendomi il fiato.
Restavo lì, al freddo, e spiavo le luci calde dentro le case… Non capivo come mia madre avesse rinunciato a quelle luci, a quel calore per seguire mio padre sulle vie del teatro. Ma lei era una donna piena di tenerezza, ci ha amati più della sua vita.

Costantino De Crescenzo, Prima carezza (prime otto battute)

La mia casa era l’abbraccio di mia madre, il suo amore mi teneva al riparo dal freddo, dalla povertà, dalle umiliazioni… Ma non ha protetto lei, lei stessa, dagli stenti di quella vita. – Nascondeva la sua malattia con un sorriso, finché una sera, in scena, cominciò a sputare sangue e svenne.
Dietro le quinte io vedo tutto: sono terrorizzata, paralizzata… ricordo solo che qualcuno mi ha spinto in palcoscenico. Guardo mio padre, la faccia stravolta sotto il cerone sciolto dalle lacrime: «Xè el publico che lo vol, senti? Lo spetacolo ga’ da continuar!». – Così ho dovuto mettere le “gonnelle lunghe” e prendere il posto della mamma.
Da allora il freddo ha cominciato a salirmi dentro: lei non c’era più a difendermi e pensarla sola, lontana, in sanatorio, mi scavava un buco nell’anima, mentre entravo in palcoscenico e combattevo per non farmi “beccare” dal pubblico, per piacergli e guadagnare la giornata, alle prese con sentimenti che non potevo capire. Che ne sapevo io, a dodici anni, di passione, di vendetta, di gelosia?
Io odiavo il teatro.
Ma un giorno, dopo due anni di pianto e di lotta… è arrivata Giulietta.

Sergej Prokof’ev, Montecchi e Capuleti da Romeo e Giulietta, op. 75                                                                              

Una scrittura all’Arena di Verona: avevo quattordici anni, l’età di Giulietta. Quella mattina comprai in Piazza delle Erbe un mazzo di rose bianche per l’acconciatura. Nella scena del balcone, ne lasciai scivolare i petali a uno a uno su Romeo… Carlo Rosaspina… che sulle prime pensò che il mio trasporto fosse per lui! Invece era la poesia di Shakespeare ad avermi rapita. Dopo le ultime battute nella cripta, caddi riversa sul mio amore: non esisteva più niente intorno a me… e fu allora che dall’ombra dell’Arena si levò una forza misteriosa. Un’onda d’urto sconosciuta. Era l’urlo della folla…
Carlo dovette portarmi di peso verso il pubblico, che non smetteva di gridare e applaudire: «Non ti ho mai visto recitare così. – mi disse – Non eri tu. Eri... Giulietta!».
Avevo scoperto il teatro. Per la prima volta. Qualcosa di totalmente sconosciuto. Di assolutamente… nuovo!
Da allora ho sempre recitato per rivivere quello stato di grazia.
Era quello il teatro che io volevo fare!
Ma averlo capito rese tutto più difficile, soprattutto quando iniziò la nostra vita da scritturati. Io avevo bisogno di studiare l’intero copione per penetrare le vite dei personaggi! Con Giulietta era avvenuto naturalmente, ma non è sempre così: se non li ami, i personaggi non ti amano, e anche il pubblico non ti amerà...
Agli altri attori, che prendevano solo i fogli con le loro battute, sembrava una posa. Mi deridevano. E non andava meglio con i capocomici! Il Pezzana sbraitò che il teatro non era pane per i miei denti… Un altro cancellò il mio nome dalla locandina, una sentenza senza appello, dicendo che agli spettatori sembravo strana.
Allora bisognava urlare, declamare, aggrapparsi alle tende… io invece, quanto più una passione è forte, quanto più un’emozione è profonda, più abbasso il tono della voce.
Mio padre cercava di darmi pace: «Fia benedeta. Posibile che ti vol far sempre a modo tuo? No gavemo più ea nostra compagnia, adeso gavemo da dir sì a chi ne comanda, e sa cossa vol sto publico …».
«Il pubblico è abituato a sentire strillare, papà: prima o poi si stancherà dei tromboni, e vorrà la verità. Bisogna solo dargli tempo.».

Fryderyk Chopin, Notturno in do diesis minore op. postuma

Ci sono musicisti che si amano, altri che si apprezzano, alcuni che rappresentano un faro nella ricerca dell’assoluto… e poi ci sono le anime gemelle. Quelli la cui musica procede dentro di noi con la stessa naturalezza con cui il sangue scorre attraverso le vene e giunge al cuore per abbeverarsi di vita. Così è Chopin per me. Pura sorgente di vita. - Il mio gemello astrale. Nudo. Semplice solo in apparenza, in realtà ricco di una varietà infinita di vibrazioni e risonanze. Chopin ha cambiato la voce al pianoforte. «Cannoni sotto i fiori», diceva Schumann… Chopin ha preso uno strumento a percussione  - il cannone - e l’ha trasformato in una sorgente di lirica purissima.  In poesia assoluta, senza trucco.
Ecco, Chopin è senza trucco, come cerco di essere io nella mia arte. Senza trucco sul viso - “fiamma tinta, fiamma spenta!”, dico sempre -, senza busti e corsetti che imprigionano il corpo… libera di recitare con l’anima nuda.
Hanno detto tante cose e usato miriadi di metafore musicali per spiegare l’essenza della mia recitazione… ma nessuno l’ha mai accostata a Chopin.
Perché l’hanno etichettato come romantico, mentre la Duse, di converso… (compiaciuta, ma ironica) stava rivoluzionando la scena mondiale e dando inizio alla recitazione moderna!
Questo l’hanno dichiarato tutti i critici… Dopo. (sospira) La recitazione è un’arte che fa più fatica della musica per arrivare alla mente e al cuore del pubblico. Prima di riuscire a farmi ascoltare sono stata scansata, derisa… - MA un giorno a Napoli la prima attrice si ammala… e chi era l’unica che conosceva tutto il copione? Mi hanno sbattuta in palcoscenico, (quasi comica) un’altra volta. Non c’era tempo per le prove… ed erano mesi che le mie orecchie pativano nel sentir massacrare quel personaggio! Io sapevo come andava fatto, come andavano dette quelle battute! (sorride soddisfatta) Così ho  fatto a modo mio. Ed è successo il miracolo: la piccola attrice che nessuno vedeva e nessuno considerava è diventata l’idolo del teatro. E quando ti amano a Napoli, si sa… è un amore senza limiti!

E. A. Mario, Dduje paravise

Napoli è una città piena di musica, come la primavera appena arrivata coi suoi profumi, come la giovinezza che per la prima volta ho capito di possedere, come l’allegria che ho scoperto con un’amica come Matilde Serao - e come il primo amore, che è entrato nella mia vita bello e pericoloso come una fiamma: Martino Cafiero, grande giornalista, intellettuale raffinato…
Matilde ha cercato di mettermi in guardia, ma io avevo così fame di amore e di vivere, finalmente, i sentimenti e le passioni che avevo conosciuto solo sulla scena! Volevo farmi attraversare da loro, come donna, tra le braccia di un uomo meraviglioso, che mi ha fatto scoprire l’arte, la letteratura… che mi ha reso donna… e madre.

Fenesta vascia (trascrizione di Guglielmo Cottrau)

Ero così felice! - Quando lo dissi a Martino non mi fece neanche finire di parlare... (termina la musica – Eleonora cambia tono, disperata) E mi cacciò dalla sua vita.
Ero sola con il mio bambino. Lo sentivo crescere dentro di me e lo amavo già disperatamente, ma a una nubile non era permesso tenere un figlio, sarebbe stato un insulto alla pubblica decenza.
In Francia avevano tollerato che la famosa Sarah Bernhardt crescesse suo figlio, anche se illegittimo, ma in Italia le alternative erano due: o la ruota o l’orfanotrofio. Abbandonare un figlio altrove significava - solo per le donne, naturalmente - essere frustate in piazza e il carcere.
Matilde mi spronava a lavorare, ad accettare la scrittura di Cesare Rossi a Torino, per dare una dote al bambino, altrimenti l’orfanotrofio mi avrebbe obbligata a lavorare due anni, come si usava, allattando altri neonati… (prova orrore) ma non mio figlio!… -  Ho recitato, sino all’ultimo.
Quando Mario nacque lo battezzai, lo affidai a una balia a Marina di Pisa, dove avevo partorito in segreto, e tornai al lavoro per costruirgli la dote… Ma forse il piccolo aveva patito troppo, nutrendosi delle mie pene, forse il latte non era nutriente, forse la balia non gliene dava abbastanza… Morì dopo poche settimane. Senza che potessi stringerlo a me per un ultimo bacio, l’ultima carezza…

Costantino De Crescenzo, Prima carezza

Avevo ventun’anni e la mia giovinezza era durata una sola estate. - Matilde Serao si occupò di me come una mamma, io non ragionavo più, tutto era buio, buio, ero per terra, tramortita,  malata, e agonizzavo…
Solo una cosa mi restava, ancora una volta: il mio lavoro.
Il lavoro rende liberi e questo vale soprattutto per noi donne. L’ho sempre sostenuto, e ho agito di conseguenza. Le emancipazioniste mi adoravano, ma quelle signore istruite e generose non sapevano a quale prezzo avessi dovuto scoprire questa verità. Posso aver tentennato, posso aver concesso spazi ad altri amori della mia vita, ma non ho mai permesso a nessuno di frapporsi tra me e il mio lavoro. Non c’è riuscito Tebaldo, il padre di Enrichetta, sposato per difendermi dalle insidie della società e dei capocomici… non c’è riuscito  Boito, con tutta la sua “supremazia” culturale, e non c’è riuscito nemmeno D’Annunzio, che da me aveva avuto semplicemente tutto.

Io sapevo quello che facevo. Dovevo solo fare in modo che lo scoprissero gli altri, magari scrivendo decine e decine di lettere ogni giorno, alla Ristori, che chiamavo Madre, a Dumas, ai letterati, ai critici…
(divertita) Nessun critico resiste ai… ragionamenti di una giovane attrice di talento in cerca della propria strada… bisognosa di un parere augusto che la illumini… come ha perfettamente intuito quella volpe di Bernard Shaw, anche se a lui scrissi solo un biglietto di ringraziamento, dopo la famosa critica londinese in cui metteva a paragone la recitazione di Sarah Bernhardt e la mia… assegnando a me la palma della vittoria.

Eleonora si avvicina al pianoforte e comincia a duettare divertita con il pianista; canta la prima strofa della scoppiettante La diva de l’Empire, di Erik Satie, rievocando l’atmosfera della più scintillante Belle Epoque parigina, di cui Sarah Bernhardt era la regina.

Sous le grand chapeau Greenaway,
Mettant l’éclat d’un sourire,
D’un rire charmant et frais
De baby étonné qui soupire,
Little girl aux yeux veloutés,
C’est la diva de l’Empire.
C’est la rein' dont s’éprennent
Les gentlemen
Et tous les dandys
De Piccadilly.

Ah, Sarah Sarah, Sarah! Quello che mi ha dato Sarah è stato più di quanto nessuno, a parte mia madre, mi abbia mai dato al mondo. Lo so, sembro ingiusta verso Matilde, che è sempre stata al mio fianco nei momenti più importanti e difficili… ma lei aveva la sua vita, il giornale, il marito, i figli… mentre Sarah e io condividevamo il teatro! C’è una bella differenza! Siamo diventate rivali sulla scena, è vero…  Da parte sua, più che altro...   Ma tra noi c’era un rapporto reale! (ride) 42 anni di contrasti e di amicizia! A conti fatti, il più lungo rapporto che ciascuna di noi abbia mai avuto.

All’inizio Sarah fu una vera ispirazione.
Avevo 24 anni - moolti meno di lei - quando sbarcò per la prima volta da Parigi per recitare in Italia, con tutte le sue cappelliere, la scimmia, il pappagallo e il segretario al seguito! -  A Torino, nel teatro dove io ero scritturata, la stagione stava andando male e i colleghi ovviamente davano a me la colpa. Perché ero la primadonna, e perché per loro ero strana. - Rossi allora ebbe l’idea di invitare la Bernhardt e fece tombola: tutte le sere teatro esaurito! La gente era come impazzita, pronta a pagare una fortuna pur di vederla.
Era bellissima, con una voce melodiosa, capace di ogni arditezza. E ogni sera, mentre il pubblico strizzava le lacrime dai fazzoletti, lei, imperterrita e sublime, replicava la propria esibizione con la precisione di un cronometro. – Non potevamo essere più diverse… eppure, in qualche modo, sorelle.
Anche lei è stata un’innovatrice, ribellandosi ai canoni della Comédie-Française.
Sera dopo sera la guardavo affascinata e facevo “acquisti di idee”: studiavo ogni sua movenza, ogni sfumatura di intonazione… pensando dentro di me: se una donna, se un’attrice è stata capace di fare tutto questo, allora posso, devo tentare anch’io!
L’avrei fatto a modo mio, sarei stata diversa… lei un meccanismo magistrale sempre identico e perfetto, io entrando ogni sera nel personaggio e vivendo le sue emozioni attraverso la mia anima e i miei sensi, in un corpo a corpo dove nulla è mai fissato, perché la verità non ha mai una sola faccia.
Ma il coraggio di tentare mi è venuto da lei. Ogni pomeriggio entravo di nascosto nel suo camerino, sfioravo le sue parrucche, accarezzavo i suoi copioni… e le lasciavo sul tavolino del trucco una rosa bianca.
Sarah mi ha regalato il coraggio di essere!

Appena partì, andai da Rossi: o mi fate fare Dumas, o io me ne vado. Rouge o noir, o sì o no! E Rossi accettò. Teatro pieno, critici in assetto di tiro, la principessa di Susa che non muoveva il ventaglio…  Non volava una mosca…  (sorride, cambia tono) E alla fine, come dicono a Napoli… se n’è caruto ‘o tiatro!
Ancora una volta è avvenuto il miracolo. O forse no… - Era arrivato il mio momento, quello che avevo aspettato per tanti anni: il pubblico si era stancato dei tromboni, e cercava la verità.

Richard Wagner, Il sogno di Elsa da Lohengrin (trascrizione di Franz Liszt , battute 1 - 28)

Più io crescevo, più il mio matrimonio naufragava. Tebaldo non capiva. Non capiva il mio bisogno di isolarmi ogni sera, di silenzio e di tempo per avvicinarmi ai miei personaggi. «Le battute sono come foderate – cercavo di spiegare a lui e agli altri attori, quando li dirigevo – Bisogna scovarne il senso nascosto!». Fiato sprecato. Gli sembravo una vestale fissata. -  Eh sì… anche   per lui ero diventata strana.
Per fortuna a Roma ritrovai Matilde e conobbi il Conte Primoli: finalmente qualcuno con cui parlare, capace di comprendere il mio desiderio di salire, salire, salire, e di imporre il mio stile!
Primoli raccontò al suo amico Dumas la storia di mio figlio Mario, morto in fasce lontano dalla sua mamma, e lui, che era stato un figlio illegittimo, ne fu così colpito che volle scrivere per me Denise… Quando lessi il copione, mi sembrò di morire un’altra volta.
Per mio marito, invece, il fatto che lo leggessi in francese era un capriccio, non l’esigenza di cogliere ogni sfumatura del pensiero di Dumas!
Tebaldo era un uomo comune e alla fine fallì nel modo più misero, facendosi trovare a letto con un’attrice tredicenne, Irma Gramatica, la sorellina di Emma. Sì. Proprio le sorelline Gramatica, e sapeva quanto fossi loro affezionata! Eravamo alla fine della prima tournée in America del sud. Trionfale. Gli intimai di restarci, esiliandolo per sempre dalla mia vita, dalle mie tournée e dal teatro.
Ho riattraversato l’oceano da sola… e quante altre volte lo avrei rifatto!
In realtà al mio fianco c’era Flavio Andò… l’attore con cui formai la mia prima compagnia. Era bello, aveva talento, mi lasciava libera di essere e anzi mi spronava ad essere, e ad osare sulla scena.
Un vero compagno d’arte. (sorride sensuale al ricordo) Un Armando meraviglioso…

Sulle prime note di Amami Alfredo, da La Traviata di Giuseppe Verdi, Eleonora diventa Violetta Valery, che legge la LETTERA DI GERMONT  

“Teneste la promessa...
la disfida ebbe luogo!
Il barone fu ferito, però migliora...
Alfredo è in stranio suolo;
il vostro sacrifizio io stesso
gli ho svelato; egli a voi tornerà
pel suo perdono; io pur verrò...
curatevi... mertate un avvenir
migliore. Giorgio Germont.”
(desolata) È tardi!

L’attrice-Violetta getta in terra la lettera. Quindi ritorna Eleonora, repentinamente, con effetto quasi comico.

Sapete cosa significa recitare La Dame aux camélias davanti a Giuseppe Verdi? Avevo già conquistato l’Italia e il sud America, convinto i critici più autorevoli e grandi scrittori… ma un mostro sacro è un mostro sacro. Verdi, la Strepponi e Boito lì nel palco! L’artista simbolo dell’Unità d’Italia!
Per fortuna il mio rapporto con i personaggi è quello che è, e lo sforzo per immedesimarmi in loro talmente totalizzante, che sono riuscita a non pensarci troppo!
Poi sono venuti a salutarmi in camerino e lui, Verdi, ha detto che se mi avesse vista recitare prima di comporre Traviata, avrebbe ripreso  per la sua Violetta la triplice invocazione ad Armando della mia Margherita!

Ormai gli autori mi portavano i loro copioni e non potevo dire di sì a tutti… ma accettai di rappresentare Cavalleria rusticana, anche perché Verga, comprendendo il rischio della compagnia, rinunciò al guadagno della prima e pagò i costumi, anzi (sorride divertita), mi accompagnò a sceglierli e volle prendermi personalmente le misure!

Misi in scena anche Tristi amori di Giacosa, più che altro per far piacere ad Arrigo, perché io cominciavo a sentire il bisogno di qualcosa di diverso, di più nuovo… - Arrigo… Sì, Arrigo Boito! Dopo Otello, che andai a sentire con Giacosa, e lo “scambio di visite” con Verdi e la Strepponi, era iniziata la nostra storia d’amore.
Di nuovo un uomo capace di risvegliare in me la voglia ardente di elevazione! Un artista che avrebbe potuto comprendermi - col quale avrei voluto dividere la vita.
Ma qualcosa si frappose sempre tra noi e il sogno di trasferirci a Venezia con Enrichetta…
Ora so perché: il teatro era il mio destino e lui lo disprezzava. Lo considerava finzione, “corruzione della realtà”. Voleva che lo lasciassi.
Perché? Cos’ha il teatro di diverso, di meno nobile del melodramma? O della poesia? Non è poesia, il vero teatro? E perché, se lo disprezzava tanto, ha scritto l’adattamento da Shakespeare di Cleopatra? Perché lo portassi al successo, come infatti avvenne?  Dunque per vanità? Mentre io avrei dovuto lasciare – e l’avrei fatto! – il teatro per lui?
Credo che il destino, o forse il teatro stesso, lo abbiano impedito. Anche negandomi il figlio che avrei tanto desiderato dargli, nonostante tutte le cure dolorosissime a cui mi sono sottoposta.
Gli anni passavano e con la scusa della scrittura del libretto per il Falstaff di Verdi, Arrigo restava sempre di più a Milano…  dove c’era la sua vecchia fiamma, Fanny. Mentre io percorrevo le vie del teatro nel mondo per mantenere Enrichetta e la compagnia, che pagavo anche quando dovevo cancellare le recite a causa della mia salute. Perché io ricordavo bene cosa vuol dire dipendere da una paga per vivere!

Arrigo mi mancava e l’unica cosa capace di lenire le mie pene era la musica.

Ludwig van Beethoven, Adagio della Sonata Patetica, op. 13

Quando Beethoven compone musica si dimentica di sé e del mondo, è consapevole solo della gioia, o del dolore, o dello stato d’animo che ha deciso di esprimersi per suo tramite.
Grazie ad Arrigo, che lo reputava il più grande di tutti, Beethoven è entrato nella mia vita e, al contrario di Arrigo, non l’ha più lasciata.
Nel mio tempo, l’unico modo per godere della musica era suonarla in casa oppure recarsi a sentirla suonare. Io correvo ovunque sonassero Beethoven… A volte non era possibile, ma lui, Ludwig, restava comunque sempre con me: la sua maschera di gesso mi accompagnava in tournée ovunque andassi, le avevo fatto costruire una speciale scatola da viaggio, ed era la prima che facevo aprire nelle camere d’albergo che sono state la mia casa tutta la vita. Quando ero triste, lontana da tutto e da tutti in qualche angolo di mondo, quando mi sentivo stremata dal perenne male ai polmoni, quando avevo bisogno di riflettere e raccogliere le idee e le forze… io le parlavo.

Ormai ero pronta per il mondo e il mondo era pronto ad accogliermi. I paragoni con Sarah cominciavano ad essere imbarazzanti, ma noi due ci tenevamo a distanza. Ciò nonostante, capitò più di una volta di ritrovarci nello stesso Paese, nella stessa stagione. In Russia, in Inghilterra, in America…
E critici e cronisti impazzivano. Lei nata per la pubblicità, io schiva come una monaca di clausura. (va al piano) E c’è da credersi? Il mio silenzio incuriosiva molto di più!

Scott Joplin, Original Rags

(sulla musica) All’arrivo a New York, la prima volta, fui spaventata dal panorama di torri, grattacieli e cemento che mi si parò dinanzi. Corsi a chiudermi in albergo, con grande disperazione del mio agente. Pare che tutti volessero sapere di me, della mia vita, i miei gusti su questo e su quello… L’inferno!  (termina la musica)
Io dovevo recitare in palcoscenico, non fare l’intrattenitrice fuori scena!
Alla fine accettai di incontrare una giornalista, alla quale spiegai la mia necessità di quiete e concentrazione… chiedendo la comprensione delle donne, che mi capirono. (sorniona) E siccome in America sono le donne a decidere cosa leggere, cosa ascoltare e cosa andare a vedere a teatro…  - Ebbi un grande successo. I tram portavano dei cartelloni con scritto a caratteri cubitali “Eleonora Duse, the passing star!”. Una stella...  (alza il viso, cercando in alto con lo sguardo) «Ehi! Cossa ti pensi, papà?!». - Chissà cosa ne pensava mio padre, da lassù… o dovunque fosse volata la sua anima.

L’universo mi spalancava le porte… e Arrigo invece continuava a tenermi fuori dal suo mondo. A cercare di farmi sentire di nuovo la bambina accucciata sotto la cattedra perché la commediante non può stare con le figlie di buona famiglia.
Cechov mi adorava, Mejerch’old e Stanislavskji erano d’accordo solo sulla mia recitazione, il Presidente Cleveland e la First Lady mi hanno ricevuta alla Casa Bianca, un onore mai reso prima ad un’attrice, neanche a Sarah… (esasperata) E il mio uomo continuava a dire: «Bene, quando lascerai le scene?»… Sapendo perfettamente, lui meglio di me, che non poteva essere, anche perché il primo a non voler cambiare una virgola della propria vita, compresa Fanny, era proprio lui!
Cominciai a staccarmi, ad interessarmi ad altro, a pensarmi da sola e di nuovo a far conto solo su me stessa. Presi casa a Venezia, la mia patria dell’anima, dove tornavo dopo le mie tournée, l’unico luogo capace di placare la mia “smara”… dove mi riconoscevo  nel languore della laguna, nel mare che preme da fuori e con la luna penetra tra le calli e la inonda d’amore.

Arrigo Boito, L’altra notte in fondo al mar da Mefistofele (introduzione)

Era stata una delle mie solite notti insonni. All’alba andai verso San Marco. Arrivai a Riva degli Schiavoni mentre una gondola attraccava, dopo aver vagato sull’acqua tutta la notte. Ne scese l’infernale, divino (termina la musica) D’Annunzio.
Lo conoscevo appena, ma avevo letto i suoi libri. Fu un incontro fatale, che tenne avvinte per dieci anni le nostre anime, la mia sete di assoluto alla sua. Io ero più grande e alcuni attraversamenti del deserto li avevo già compiuti: la smania di vita, la volontà di imporre la mia visione dell’arte, la ricerca del successo… Ma lui, il mio Ariel, era ancora affamato. E lo sarebbe sempre rimasto. Era la sua natura.
Insieme abbiamo concepito il sogno di un nuovo teatro di poesia, la nostra Bayreuth.
Ho lavorato per questo come una missionaria, spendendo tutti i miei soldi per farlo scrivere sereno, alla Capponcina, e per allestire le sue creazioni: Francesca da Rimini, La città morta, Sogno di un mattino di primavera… Come una sacerdotessa e sfidando la riprovazione dei miei amici, ho fatto di tutto per portare la sua parola al successo, e ne sa qualcosa il mio impresario all’estero, che non riusciva ad impedirmi di inviargli assegni di migliaia di lire per i diritti d’autore, mentre lui continuava a tradirmi e a rimproverarmi di aver messo in scena Ibsen, invece di dedicarmi interamente alle sue opere!
Quando scrisse Il Fuoco, che persino Sarah gettò inorridita nel caminetto davanti agli amici, lei che mi aveva voluto sottrarre la prima mondiale de La città morta – un bel fiasco! … Quando uscì Il Fuoco, dicevo, Matilde e Primoli mi affrontarono per aprirmi gli occhi… Ma io gli occhi li avevo ben aperti, io sapevo quello che stavo facendo: stavo inseguendo il nostro sogno.  Io e Gabriele eravamo uguali: due vampiri assetati di arte e di assoluto.
Ma come fare a spiegarlo? Così risposi semplicemente: «Amici miei, ho quarant’anni e amo!».  

Richard Wagner, Marcia solenne del Santo Graal da Parsifal (trascrizione di Franz Liszt , battute 69-117)

Quando ho avuto il privilegio di conoscere personalmente Wagner, il mio autore preferito insieme a Beethoven, ho visto in lui ciò che sento nella sua musica, qualcosa come una consapevolezza della propria supremazia. Wagner deve aver detto tra sé e sé: «Farò quello che voglio e costringerò il mondo ad accettarmi» e c’è riuscito. - La musica, dopo tutto, non è mai completo abbandono, non è mai del tutto priva di coscienza di sé: è sensualità straordinaria… non è l’incoscienza della passione.  Amo Wagner perché riconosco in lui la forza che avrei voluto avere io, amo la sua musica perché immancabilmente mi porta sul ciglio di un assoluto da cui spiccare il volo, dove non sempre la mia arte mi conduce, benché lo aneli.

Wagner è stata la passione più grande veramente condivisa con Gabriele, il suo regalo più importante, insieme al sogno di un nostro teatro di poesia.
Forse era quel sogno ciò che ho amato più di ogni altra cosa. E fu lui a spezzarlo. Non per avermi tradito con altre donne, compreso Sarah, ma per aver scritto la sua protagonista più bella per una ventenne! La figlia di Iorio…
Sapeva che non avrei mai potuto essere io, ero troppo vecchia! E la scrisse lo stesso, sicuro che di fronte all’arte non mi sarei opposta. E così avvenne, infatti. -  Ma qualcosa tra noi si spezzò per sempre.
I miei amici brindarono sollevati, convinti che mi fossi immolata per dieci anni sull’altare sbagliato, anni che avevano fatto crescere solo lui, il Vate, anni persi per la Duse.
Ma non sanno che chi è come me deve avere un sogno, per sopravvivere.

Ricominciai a vagare per il mondo con il mio teatro. Con un nuovo desiderio: conoscere Ibsen, baciare le mani a questo gigante del teatro, che sono stata orgogliosa di far conoscere all’Italia e al mondo! Feci organizzare una tournée al nord, ma era tardi. Stava morendo. Aspettai ore in piedi nella neve davanti alla sua casa, ad Oslo. Speravo di poterlo almeno scorgere, dietro le tende pesanti delle sue finestre, e quella speranza mi riscaldava il cuore.

Edvard Grieg, Gratitude da Pezzi Lirici, op. 62 n. 2

(di spalle). E un giorno un oculista di Bonn pronuncia una sentenza terribile: (si volta, con gli occhialini scuri) la signora Duse deve smettere di recitare.
Che ironia, eh? Le luci del palcoscenico, che mi avevano dato l’unico calore capace di vincere il freddo dell’anima… mi stavano rendendo cieca! – Dovetti ritirarmi. All’improvviso avevo tanto tempo… Ma non potevo morire. Così nacque il progetto della Casa delle Attrici, un’altra delle mie utopie… che vent’anni dopo però è diventata realtà, con la nascita dell’Accademia d’Arte Drammatica.
Andavo molto al cinema. Il mio grande rimpianto era essere nata troppo presto per quest’arte meravigliosa, il vetro che svela le anime… Ho anche girato un film, Cenere… (sbalordita e ammaliata) Per la prima volta, mi sono vista recitare!
E ho capito che avevo ragione io. - Io volevo togliere, togliere, fare meno, mentre il regista voleva “di più”! Risultato: un’opera a metà, ma poi arrivò la guerra e finì tutto. – Meglio del film della Bernhardt, comunque, che sembrava una marionetta impazzita! Ma quello era il suo stile: fare, fare, fare! Andare in mongolfiera, scrivere le sue memorie, dormire in una bara, rubarmi La città morta, recitare Amleto a sessant’anni, con una gamba di legno, ma mai fermarsi!
È stata lei a spingermi a ricominciare, a guerra finita: aveva perso una gamba eppure continuava a recitare! Era come se mi dicesse: cosa aspetti, muoviti! A me manca una gamba, a te un polmone… e allora? Il teatro è il nostro destino.

Enrichetta non era contenta che ricominciassi, il che mi irritò non poco: il lavoro era la mia vita e solo grazie ad esso lei ora era la moglie di un professore di Cambridge! (spazientita) Lo so che è colpa mia se non ha mai compreso il mio lavoro, ma pensare che potessi essere appagata di giocare con i nipotini!
Io ho lavorato tutta la vita e ho viaggiato tutta la vita. - E sono morta in viaggio, quando avrei tanto voluto tornare da mia figlia, almeno quell’anno…  
Era stata una bella tournée, sino a Pittsburg. Un trionfo.
A New York c’erano tutti: Ethel e John Barrymore, Lilian Gish, Gloria Swanson, Rodolfo Valentino... anche il caro Stanislavskij! Nel 1924 il mondo stava cambiando, la musica stava cambiando! Quella avrebbe dovuto essere la mia epoca: il cinema, i viaggi, le nuove scoperte!

George Gershwin, Rhapsody in blue (finale)

A Los Angeles ho visitato gli Studios: è tutto così colossale in America! Persino il sole, sembra più grande.  Un giovane attore si avvicina, esclama infervorato che io ho mostrato a tutti la strada per il futuro, mi bacia la mano e scompare tra la folla delle comparse. Barrymore mi disse che si chiamava Strasberg.  Lee Strasberg. -  Arriviamo da Chaplin che sta girando ma quando mi vede ferma tutto per farmi da cicerone… un uomo veramente geniale, un artista preparato. Mi ha fatto una valanga di domande, aveva analizzato la mia regia de La donna del mare punto per punto, persino le luci! Mi ha ringraziato per essermi spinta così lontano per portare a loro la mia arte: «Immagino che avrà nostalgia di casa… », ha detto salutandomi.
I never had a home… Io non ho mai avuto una casa. Ma avrei voluto tornare da Enrichetta, avevo appena scoperto quante cose avevamo da dirci.
Prima di imbarcarci per New York, avevamo dato alcune recite a Londra e lei, a mia insaputa, ha comprato i biglietti ed è venuta a vedermi di nascosto.
Perché un’attrice venerata da tutti proibisce alla propria figlia - solo a lei - di vederla recitare? Perché?!
Per… pudore, credo. Paura di guardarmi allo specchio. È questo che sono i figli. Uno specchio senza veli.  
È stato scritto che sembrava fossi nuda, in scena. Ed era vero, perché l’anima era nuda! – Avevo pudore di mostrarmi così a mia figlia. Di turbarla. - Poi Enrichetta è cresciuta, e ho cominciato a temere il suo giudizio. Era diventata severa, gelosa di tutte le persone che mi circondavano.  Molto religiosa… come avrebbe giudicato una madre che ogni sera si metteva a nudo senza pudore davanti a centinaia di persone?

Ma quella sera, per la prima volta, mi ha disobbedito, e io ne sono stata così felice! L’indomani è venuta a trovarmi… e abbiamo parlato. Le cose accadono quando possono, purtroppo, e mai quando dovrebbero… Mi aveva accettata, e forse perdonata. Abbiamo pianto insieme e ci siamo lasciate con la promessa di recuperare il tempo perduto, di trascorrere insieme l’estate … Sarebbe bastata solo un’estate in più…
Una rabbia, se ci ripenso! Una come me, che con un polmone solo ha tenuto in pugno – e so solo io con quale fatica! – le platee di mezzo mondo… andarsi a beccare una polmonite proprio a Pittsburg!
Nevicava e io mi ero incaponita a raggiungere il teatro a piedi, ma lo trovammo chiuso. Barbari. Il teatro ancora chiuso tre ore prima dell’andata in scena! E come si prepara un attore, quando?! - Un freddo terribile! E io di freddo me ne intendo! Ne conosco tutte le sfumature.
Il freddo di Pittsburg era il freddo che scava dentro l’anima.
È la vita…
C’è un solo rimedio: andare, andare andare avanti. Muoversi, reagire. Recitare, amare, ascoltare la musica! Le mie ultime parole alle amiche che mi circondavano sono state: cosa fate lì immobili? Bisogna muoversi! Bisogna partire! Agire, agire!

Il teatro non era il mio destino. Il teatro è stato la mia vita.
Il mio destino era il futuro.

John Cage, Ophelia

FINE