UNA NOTTE DI ELEONORA

di

Paolo Puppa


1
Eleonora, seduta su una poltroncina con libri ai piedi e un tavolino pieno di fogli, rumina tra sé intenta a scrivere, o meglio a rileggere, una lettera. Tiene in mano una matita per le correzioni. Luglio 1917.
Sua Eleonora. No, meglio sua Duse. Meglio forse sua Tragica, o Grande Tragica come il ragazzo mi chiama. (pausa) O meglio solo Eleonora la tragica (butta via il foglio con impazienza). Una volta col Poeta firmavo Ghisola, e Bumba o Lenor con Arrigo, col Santo. E prima ancora Nennella, nei giorni atroci di Napoli. Per ogni nuovo compagno una nuova firma. Cambiavo personaggio, insomma, come a teatro. Tutto un nome ero, in codice. Ma che vuol dire tragica, poi, quando intorno muoiono tutti? Firmare, firmare sempre. Il proprio nome. Portare il nome, e scritto in grande. La vita, un manifesto teatrale. Il Poeta cantava la cancellazione del nome. Anche lui, però, quanti nomi! Già. (Recita con ironia) ’Non ho più nome’. L’idea l’ha concepita tra le mie braccia. Mille anni fa, ormai. Mai più nomi. Almeno questo, colla guerra. Non aver più diritto al nome. A un nome. Grande tragica. Ridicolo! Parole, parole. Sempre parole. Oh, essere muti, e farci giudicare dai gesti. (Rilegge alcuni passaggi) “Non aver ricevuto da lei che una sola lettera”. La mania di avere segnali. Sapere che gli altri ci sono. Anche in scena, ogni tanto toccavo i miei colleghi, all’improvviso. Con Flavio, con l’Andò, lo toccavo per dichiararmi in pubblico. Già. Si cambia, si cambia col tempo. Loro non gradivano. Flavio Andò sì…..Volevo uscire dalla sensazione di essere sola, nell’universo. Ma forse non apprezzerà questo sollecito. Non è che un fanciullo, il soldatino. (Legge ancora)“Ho copiato religiosamente tutti i numeri e reparti, gruppi, batterie divisioni, tutta la complicata macchina (infernale) di guerra”. Sempre studiato a lungo la parte, sempre documentata su tutto. Io che non ho fatto scuola. “Voi giovani oggi siete i grandi della terra. La terra appartiene a voi. Noi siamo solo stupida gente che non sa che sospirare. Stupida gente che sa solo attendere. Ogni male apporterà un bene. Tornerete e il mondo sarà migliore”. (Guarda verso la platea, con uno sguardo trasognato). E’ stato a Milano, sotto un gran sole di luglio, in quella libreria da poco aperta, vicino alla Treves, che l’ho visto per la prima volta. Due settimane fa. Stava con un collega, anche lui allievo ufficiale. La divisa grigioverde. Così pulito. S’era lavato tutto, credo. Ma non cercava ragazze. Voleva un libro di Villon, da portare in trincea ai suoi fanti. M’ha spiegato che era per loro, proprio per loro, che hanno mamme illetterate e ingenue. Mi son venute le lagrime agli occhi. Le gambe hanno cominciato a tremare, come avviene sempre quando il core si riempie d’amore. Antiche usanze. Cominciava dalle gambe il mancamento. Ha la fronte alta, labbra carnose, gli occhi febbrili e piccoli. M’ha scritto che la mia voce gli accarezza i pensieri, glieli spiana. Una voce che viene dagli spazi aerei e porta la pace la mia voce. Un tempo, provocava altro, questa voce. Quando sono usciti dalla libreria, mi son messa sull’attenti. Piangevo, mentre il padrone del negozio ripeteva quale onore quale onore. Ha chiesto il mio nome, il ragazzo. Io volevo essere per lui solo una anziana signora, come a lutto. Ma ho dovuto, ho dovuto. Lui conosceva la mia fama. Fama, già. Se cadrà sotto le bombe, la mia fama gli sarà molto utile. Già. Ma non è mio figlio. Non ho figli io. Mai avuto figli. Cioè….
(Buio, musica)





2
Eleonora va in giro inquieta, sempre con una lettera in man e una matita nell’altra. Rilegge dei passi.
Ogni tanto si siede per l’affanno. Luce tenue, quasi in penombra.
Notte orrenda. Una delle notti peggiori in questo periodo. Tuoni e i lampi come granate. Ma noi siamo al sicuro. Lui, no. “Stamane, appena verso l’alba, cerco di scriverle qualche parola che le dia un attimo di conforto. Mi vergogno di vivere lontano dal rischio. Ci vorrebbe una leva universale, sì, sì, se la natura e l’anagrafe lo consentissero. Sì, al primo squillo di guerra, tutti gli italiani dovrebbero essere in armi. Vorrei essere un uomo, avere ventanni, disporre della bella forza della giovinezza un’altra volta, una seconda volta, per stare al suo fianco, nell’intimità di una camerata, proteggerla, caro Signor Nicastro, darle la mia vita se occorre. E mi direi anche : parti, raggiungilo, vigila sulla sua esistenza. Non osare tornare qua, non permetterti di tornare qua se non con lui. Di fronte a un soldato, tutto diventa bello, e grande, e di valore. La forza, la pena, l’angoscia, l’ebbrezza di vivere, e la gioia di ben sparire dal mondo”. No, lui non deve sparire, non deve sparire questa cosa pura, innocente, sì innocente. Ma una pena, una pena, una pena. “Tanto, la pena bisogna rispettarla, la sola forma di amore che mai venne meno, che mai s’è sfiorita, che sempre rinverde (gridando).Tanto bene, tanto bene le voglio! Le ho inviato violette di orto. Anche se la loro freschezza non dura, non dura.”. Gli manderò libri di poesia. Libri, libri, pagine numerose come le foglie degli alberi. Bisogna scegliere, però. Le letture devono servire a chiarire. Se no, sono come certi attori. Ingombrano. Vuole soprattutto poesia. Anche lui. Come l’altro. E filosofia, per me sempre una cosa aspra. Già. Studia Gentile e Kant. Ama però di più i greci e gli autori cristiani. E il Vangelo. Legge la parola di Gesù in mezzo ai soldati. Ragazzo colto. E bello. Dalle sue frasi, annuso la guerra, la sento che mi invade. Vedo dirupi, cieli scuri, pioggia e fango, sacchetti di frasche ed erbe dappertutto, schegge e boati, il fragore del core e il silenzio dell’attesa (si ferma per scriverlo). C’erano erbette sulle mura dell’Arena di Verona, quando sono stata Giulietta. Il soldatino mi vuole baciare la mano. “No, son io che devo baciare la sua bella mano di bombardiere del re, quella sua bella mano deve colpire, addosso a chi minaccia la patria nostra, deve colpire e tornare netta del sangue versato. Ma non mi piace spingere la sua giovinezza ad essere tanto violenta, perché lei mi parla del Vangelo. Lei mi assicura che i cecchini della trincea, una volta prigionieri sono solo creature spaventate, fratelli bisognosi di cibo, travolti dalla nostalgia della famiglia. Che avanzano, le mani alzate, implorando ‘Taliani, Taliani!’. (Si ferma e respira a fatica). Sì, sì, coi prigionieri bisogna mostrare pietà. Non possono più colpire, in fondo, no? Ma devono essere disarmati (grida). Attento, figliolo. Miri giusto, ma colpisca solo per salvar l’Italia. Sì, miri giusto e rimanga illeso e sereno. Tutte le stelle sopra la bella gioventù. Si riposi. Calma, calma, calma, e poi dopo si picchierà botte da orbi”. Questo magari lo tolgo. (Pausa, in tono ironico) Però ho tradito il signor Nicastro, già. Ho adottato altri figli della Guerra, ormai sono una madre feconda. Mando a tutti indumenti, sigarette e foto della mia giovinezza. Già, che mi sognino com’ero. A uno di questi figli devo essere sembrata una Erinni, quando incontrandolo l’ho apostrofato ‘Bene, bene, sei ingrassato. Ne hai ammazzati dei Cecchini?’. E a un altro, che era loro prigioniero, ho anche scritto che (controlla tra le carte) “quei maledetti, quando non uccidono il corpo, accoppano l’anima”. C’era poi un piccolo fante fiorentino, biondo e dallo sguardo infantile, che non mi aveva ringraziato subito per una foto ricevuta. C’ero rimasta male! Rimasta male! L’ha fatto mesi dopo dall’ospedale in cui era ricoverato. Si scusava perché gli avevano tagliato il braccio destro e non sapeva ancora scrivere con la sinistra. Altri, li ho stretti tra le braccia mentre agonizzavano e invocavano la madre. E intanto pensavo a lui, al signor Nicastro. In ogni caso la mano no, lui no, lui non deve baciarmela. Io vecchia, immobile, ad aspettare. Aspettare cosa? Non faccio niente per lui. No, la mano no. Io non posso essere né mamma, né nonna, né sorella, né altro. Nessun legame di qui per quei di là (si ferma per scrivere) “Benedetto sia chi accorcia la guerra irrompendo alla guerra. Se potessi venir io da lei! Se potessi esserle utile a n’importe quoi! Se potessi essere d’aiuto a lei che è giovane, se potessi far qualcosa per lei, se potessi esserle di sollievo per qualcosa di dolce, di mansueto, di calmo, fra tanto clangor che frastuona” (ripete più volte il passaggio come una battuta). Il mio soldato fanciullo, vuole vedermi a tutti i costi. E perché? Ogni permesso, ogni pausa la vuol passare da me a Firenze o a Milano. Non posso, non posso, non posso! Se lo vedo, sto male e non dormo la notte! Poi non ho più il lavoro a distrarmi, io. Per carità. Basta fingere di morire, fingere di amare, quando intorno nessuno ama più, e tutti muoiono davvero. Eppure arrossivo davvero, in scena. Non era finto il mio rossore. Sapevo come arrossire. Eh sì. Sì. Già. La Duse, la grande tragica, ovvero la commediante, comunque ha chiuso. Chiusooooooo! E se ne sta lontana dai palcoscenici. Il mio fanciullo è orfano, è orfano. Non ha più la madre. Mi confonde. Ma io non confondo, non confondo nessuno, io. Non ho figlio io, non ho figlio…Non ho più un figlio. (Smania tutta) Viene dalla Sicilia e ha solo ventanni. Sì, ho osato chiamarlo figlio, figlio di guerra. Magari, in questo momento, sulla sua testa, sui suoi capelli, sulla sua fronte, sui suoi occhietti, stanno scoppiando…come si chiamano?, gli shrapnnells, lanciati da austriaci furibondi sulle pendici del San Marco. Nooo! Questo no! Devo inserire qualcosa di importante, allora, una qualche verità di…di…di madre. “Ma se lei sapesse, caro, caro signor Nicastro, quanto si sta male così lontano! Se lei sapesse, Signor Nicastro tanto nostro, che ore tristi son queste, qui, nell’inazione. E con questa pioggia, poi, che fa il core grosso. Sul capezzale del mio lettino è appeso il nastrino tricolore. Ma ogni giorno, che attesa! Che batticuore quando la lettera del fronte arriva qua. Vorrei raccogliere un po’ di questa luce, di questo silenzio, e mandarlo, e isolare se non la Guerra, il romore della Guerra. Signor Nicastro amatissimo, aria, cielo, sole, battaglia e vittoria. Il resto non conta! Signor Nicastro, mi scriva! Non mi lasci senza notizie sue”. Mah, ci sono troppi ‘Signor Nicastro’.
(buio e musica)

3
Eleonora è di nuovo seduta sulla poltroncina, in mezzo a pile di libri, una lettera sul grembo, la penna in mano, lo sguardo trasognato. Intanto, una gran luce le spiove sul capo. Sul volto, tiene un velo, nonostante il gran sole fuori.
Oh sì, l’anima esiste, ragazzo mio. Un Dio al di fuori di noi, forse, ma l’anima di certo c’è. E non è, non è, menzogna della carne (grida), come diceva il Poeta! E io l’anima non me la fumo. Ne sono sicura stamane, con tutto questo splendore che si avventa alle finestre a dirmi che posso ancora sperare. Ancora amare. A modo mio. Perché ha senso il tutto. E una volta di più dico sì alla vita, che va avanti sempre, conquista precaria, tesoro che non appartiene a nessuno. Viene primavera, di nuovo, un’altra volta. Devo essere pronta ad accoglierla come si deve. E’ venuto qua durante l’ultima licenza. “ Caro Signor Nicastro, l’ho anche benedetta perché entrando ha santificato la casa in via Robbia dove ho tanto patito. Ma io sono solo un’imboscata, vivo protetta. Vorrei essere e a Udine sì, per rendere meno paurosa l’attesa del fuoco e dell’assalto. E’ pericoloso, per me, pericoloso signora., continuano a ripetermi, senza capire. Quando morire per lei, al posto suo, ah questo sì, questo sì. Ho cercato un regalo andando per negozi, in quel diavolìo di merci, flanelle, guanti, gingili, caffettiere, casseruole, scaldamani, il core in pena, pensando all’orrida cosa. Se mi spiegasse di cosa ha bisogno, svaligerei tutte le botteghe. Alla fine ho scelto un piccolo orologio a braccialetto, per il suo polso di giovinetto, per vincere la solitudine infinita di cui mi parlava in una lettera precedente. Mi pare così di tenerle compagnia, con quel dono. Misura il tempo. Le ore dell’attesa più che quelle dell’azione. Però so che lei preferisce i libri agli orologi.” (Va verso il proscenio, come fosse una finestra e rivive il primo incontro, in casa). L’altro giorno è arrivato qua senza avvisarmi. Era in licenza. Già. E io ‘Oh Dio! Lei? Non merito tanto. Con questo stesso volto acceso lei parlava di Villon. Chissà cosa han veduto i suoi occhi! E’ stanco? Ora va a casa sua? Non è che riparte subito? Ah parola per noi così difficile, subito!’. Ma prima l’ho trascinato nella sala da pranzo, per un po’ di cibo. Mi ha raccontato dei suoi fanti. Ce n’era uno, ortolano di Napoli, sergente di batteria, che gli confessava sotto le mitragliatrici ‘Signor tenente aggio paura’. Allora l’ho supplicato di essere prudente, di non esporre la sua vita per niente. ‘Lei ha perduto la mamma fanciullo: lei ha doveri anche verso la sua famiglia’. Gli ho domandato anche se c’era pericolo che gli Austriaci sfondassero. ‘Li stiamo ricacciando indietro’, lui mi fa, tutto orgoglioso. Dopo un po’, a digiuno o quasi, mi dice ‘Tra poco la tradotta parte’ e io allora mi son coperta il volto con questo velo, proprio questo, per nascondere il pallore come nella scena di, di, di…. Poi ho chiamato lo chauffeur e gli ho chiesto di portarci di corsa al Campo di Marte. E là, là, in mezzo agli squilli della tromba militare, l’ho visto andar via in tutta fretta, il core in subbuglio, salire in una vettura già in moto. Allora son corsa a casa e gli ho scritto di getto “Dianzi, qualche minuto fa, quella creatura viva, viva ed eroica, dolce e tenace, che rideva come un bambino, eccola, era qua, era qua con me. E’ venuta a cercarmi, poveretta, è venuta a cercarmi dal fuoco che affina. Ogni minuto suo sia benedetto. Perché ho visto, ho toccato con mano questa creatura, un soldato nostro, vittorioso e verace. Grazie, tutte le stelle saranno con lei!”. E coi versi del Poeta ho aggiunto ”Di giorno, il sole non ti ferirà, né di notte, la luna”. Ma questo sole, ma questo sole oggi pare un oltraggio…
(buio e musica)


4
Eleonora smania sulla poltroncina, come in preda a un delirio. Ogni tanto afferra un foglio per apportare correzioni sull’ennesima lettera.
Come faceva la didascalia nella Francesca? Ah sì, ecco ‘abbandonata sui guanciali, immemore, vinta’. Il Poeta è sempre profetico, in qualche modo. Già. Da un po’ non uso più il cognome “Caro Luciano, amo scrivere adesso il suo nome. Amo scrivere il suo nome perché nessun altro modo direbbe la santità dell’ora, e la santità dei rapporti. Se le dicessi caro figlio come le dissi al momento della sua partenza Caro figlio certo le direi una parola che il core intravede, e sincera e buona. Ma in quest’ora orribile, quando milioni di creature non son più, io la ringrazio, caro, caro e amatissimo Luciano, io la ringrazio con tutta l’anima, la ringrazio di tutto, di vivere, di ascoltarmi, di credermi, d’esser soldato, e d’esser là. Grazie di vivere. Sua di tutto cuore”. Gli ho confidato di avere una figlia, a Cambridge, una cara figliola maritata a un bravo professore. I due coi loro piccoli vorrebbero stare con me. E invece io scrivo a lui, solo a lui. Non riesco a fare altro. Hanno una bambina con occhi lucenti, come gli occhi dei Santi, come i suoi. Gli ho mandato la foto della piccola. Il ragazzo l’ha mostrata in camerata. Ci ha fatto su pure un altarino, dov’è? Ah sì, qua (controlla da un foglio) “un bicchiere con qualche foglia, dei ramarri gialli, picchiettati di verde e di azzurro, come le mattine belle al risveglio sui monti bianchi di neve, vicino ai volumetti consumati nelle letture notturne”. Viene dall’Isola delle zagare, ha un’origine greca dunque. Ma predilige le Alpi, perché vi scorge la luce dei grandi secoli di Venezia. Ama San Bernardino di Siena, perché sapeva parlare agli umili, ai soldatini. E sta con loro, le stesse fatiche, gli stessi rischi, lui poeta soldato, come l’altro, in fondo. Ma più giovane, più giovane. Qua c’è freddo e vento, e la notte, allora, penso a lui lassù. M’ha confessato d’essersi ferito ad una mano, in Val delle Rose. “Vedo impresso il rosso vivo delle gocce del sangue sulla sua pelle, e tremo tutta. Voglio tutti i particolari. E’ per caso la mano sinistra? Devo saperlo! (grida). Lei mi ha scritto che quando la morte arriva, non la maledire! Essa è comandata. Tu che resti nel mondo, fa che la vita abbia la stessa innocenza della morte. Ma non può caro Luciano! Non può essere! Non deve essere! Mi permetta di congedarla oggi così. Vittoria dell’anima sul piccolo corpo! Quanto le voglio bene! Grazie e benedetto per ogni parola. Ho vissuto, lavorato, patito senza mentire mai, solo per essere in ascolto accanto a lei. Su! Siamo al fronte assieme! L’aria pura, il freddo, il fuoco, l’angoscia e la baldanza e le stelle sopra di noi! Benedetto! Benedetto! Benedetto! Caro amatissimo mio ragazzo bono Luciano. Le sue note di vita quotidiana mi appassionano. Mi interessa tutto di lei. Le voglio tanto bene. Mi permette anche di chiamarla caro figliolo?” Ormai è scritto e non si torna indietro.
(buio e musica)



5
Eleonora appare stanchissima, sprofondata sulla poltroncina, in una posa esausta e mollemente
abbandonata. Fuori si sente la pioggia.
Il mio eroico ragazzo di notte studia e traduce Virgilio, invece di riposare. Così la mattina è ancor più stanco. Non posso che dargli del tu, allora :( legge tutta commossa, quasi gemendo) “Luciano amatissimo, ti do del tu, perché oggi mi sento più franca e più forte dopo le tue ultime lettere. La notte tengo accanto alla finestra un lume acceso, che secondo la leggenda conduce il viandante. Anche sua madre faceva così, mi hai spiegato, dicendo ‘Figghiuzzu faccio lume ai Santi che passano nell’aria’. Ti do del tu perché ti so forte, calmo, attivo, rischioso, prudente, acceso e padrone di te, padrone della Guerra. Ti do del tu non per una banale intimità ma perché il tu innalza le anime, quando le anime sanno l’angoscia, la vita e la gioia e tutto. Ti do del tu perché ti sento santo e bambino, soldato e uomo di pensiero, perché sei della mia terra e io sono italiana e non ho terrore della Guerra perché la so inevitabile come la morte, che tutti morremo. Anzi, me l’hai insegnato tu stesso, filosofo tanto giovane, che è necessario morire perché si svolga l’armonia del creato nell’eterno succedersi, e che morendo la vita si traduce in pura luce vicino a Dio. Sono con te. E’ meraviglioso che tu riesca a scrivere e trovi freno e equilibrio dell’anima fra la baraonda dell’azione. Ogni tua parola è una cosa grande. O Luciano tanto caro e bono e grande e magnifico che sai dimenticare te stesso e l’orrore che ti circonda. Perché questa baraonda(corregge dicendo ‘Già detto, meglio energia’) folle e grandiosa si ripeterà ancora ancora ancora per anni e anni dai figlioli dei figli vostri dopo questa Guerra. Ma sia benedetta la Vita e noi via nel vento con lei, perché non vale angosciarsene. Figlio, ti bacio e benedico te, te, soldato di devozione, te, che sai cos’è, cos’è Patria e dove! Scrivimi, non vivo che per le lettere tue e per consolarti, per rivederti, per riconoscerti figlio del tuo dovere e di papà tuo”. Ho nominato pure suo padre, come avessi un marito. L’ho anche avuto un marito io, secoli fa. Già. Ma questo lo lascio. “Sono stata poco bene, quasi un cencio, incapace di far niente. Ho tante noie, e invidio i granelli di polvere, liberi di andare nel vento, lontano di qua. La sera rientro a casa stracca, scorata e non mi riesce di far quello che l’anima vuole. Ma c’è questa confiance tra me e te. C’è una tristezza nell’aria, stasera, tremenda. Non riesco a trovar pace vicino al fragore delle onde, mentre tanto fragore sconvolge il mondo. Pace amara vicino alla dolcezza del mare. Tra la vita e la fine, ecco c’è posto per questa sola parola: sempre, che sa ogni cosa, le attese, le fedeli attese che formano la vita, e l’attimo che le disperde”. (Legge dubbiosa in silenzio il nuovo passaggio, poi mormora ‘No, questo non lo tolgo’) “Luciano, caro Luciano, cara anima bella, son qua con tutte le lettere tue, ma ne voglio ancora. Dammi un segnale, solo una paroletta, figlio mio caro, per dirmi che si resiste. Vorrei portarti colle mie mani un po’ d’acqua, darti sosta e sollievo. Il mio core è con te. Son qua e sto di guardia con tutta l’anima. Sì, l’anima mia ti fa la guardia”. Come fa il verso di Dante ? Ah sì, ‘che qui, per quei di là molto s’avanza’. “O vieni, vieni, figlio mio di guerra. Vieni da me che ti abbraccio forte forte. Siamo tutti e due così stanchi!”. E’ venuto per poche ore, solo per poche ore, la settimana scorsa, nell’ultima ora del vespro, mentre stavo all’albergo Cavour di Milano, il mio rondinino, solo un breve saluto, prima di ripartire e tornarsene tra i monti. In ascensore, gli accarezzavo, gli aggiustavo i capelli sulla fronte. Era dimagrito, debole e sfinito dal fuoco nemico ma la luce degli occhi intatta, anche se non osava rispondere al mio sguardo turbato. Gli ho donato Foglie d’erba di Whitman. La mattina l’ho condotto in Duomo. Dopo una sosta gli ho detto che la Madonna lo voleva salvare. Appena fuori gli ho sussurrato ‘Dove andiamo ora figlietto? Guidami. Tu hai la mano santa che sa trarre alla luce anche le mamme’. Siamo andati a passeggiare al giardino colla statua di Rosmini. C’erano bimbi che giocavano. Mi ha parlato così del filosofo, secondo cui occorre purificarsi. Mi ha citato anche Sant’Agostino, dove il succedersi delle creature è sentito come un susseguirsi di note musicali, un’armonia infinita che esprime l’universo. E mi veniva da dirgli invece che siamo cenere, cenere, nient’altro che cenere, con una gran voglia di piangere. Ah, le Confessioni sì, salvano. Sìììì, Dio deve esistere, e con lui Gesù. Guai, se no! Sì, questa la lascio: “Anima bella! Non temer mai per quelli che sono nella bassura! Tu vivi e rifai la povera vita. Ma bisogna poter dormire e poter mangiare e stendere le forze tese, inasprite. Io, però, io di mio non so inventar niente per recarti aiuto. Le parole sono così lente. Vorrei poter partire e venir a vedere cosa fare per te! Con te!”.
(buio e musica)



6
Eleonora in ginocchio, in proscenio, cerca di sistemare le lettere e i fogli accumulati intorno, con un che di selvaggio e di impaziente nella voce. Ogni tanto controlla da volumetti a terra.
L’ho presentato a Antonietta Pisa Rizzi, che voleva conoscere il mio soldatino. L’eleganza della casa l’ha intimidito. S’è messo per darsi un tono a discorrere del suo mare di Siracusa. I siciliani sono come i datteri. Han bisogno di molto sole per maturare, non delle nostre nebbie, invece. Secondo sua madre, lui sarebbe destinato a leggere il mondo come un libro, e sarebbe anche rimasto illeso in guerra, passando tra le sabbie mentre le sue orme sarebbero state benedette. La vittoria dello spirito gli preme molto di più di quella delle armi. Ieri m’ha scritto che rifiuta (legge) “l’eroismo degli esteti, dei cultori della voluttà di Dioniso. Basta colla letteratura del gesto che sfida la morte e ne ha invece paura. Adesso, è arrivato il tempo della lealtà, della coscienza. Basta cogli esteti che mi han fatto soffrire”. Sono arrossita e mi son chiesta cosa conosce del mio passato. Sta rileggendo il Fuoco, al fronte, e non si rassegna a vedermi identificare colla Foscarina. La bestialità primitiva di quel testo sarebbe diversa dal mio mondo. Eppure, il Poeta ha saputo anche cantare la mia voce, dove fioriscono gli anemoni, come in una prateria mattutina. E ancora ‘non odo quello che dice, intendo quello che non dice’. Era nelle Faville del maglio, mi pare. Oppure, ‘una risonanza nella voce tu hai, che mi consola e mi contrista’ e ‘suon di vostra voce che è sì strano’. Mila e Francesca, già. E anche che ‘sembra biancheggiare in solitudine di nevi, come la grande canizie’. Questa forse è Fedra. Grande canizie, già (ride mesta). E le mie mani le ha esaltate così: ‘dalle ultime falangi s’irradia e si prolunga il mio spirito, come potrebbero altrimenti toccargli la cima del core?’ Il mio soldatino invece è chiaro e semplice. Il commento di Stelio al racconto della fatica tremenda della attrice fanciulletta l’ha indignato, quando mi immaginava presa da un satiro, per la mia prima volta. La vita violenta non piace al mio figliolo. No. Io sarei diversa! Sono, sono una santa per lui, una mamma, una nonna magari. E’ geloso del Poeta! Io per lui non potrei mai essere stata il levriero affamato di gazzelle, la pantera pronta al salto, avida di nutrimento. Ma quand’ero Cleopatra, mi avventavo sul messaggero con una forza che spaventava il pubblico. E se leggesse le mie lettere ad Arrigo, durante i moti della passione. Non le immagina nemmeno! Del resto, anche lo scrittore inglese aveva scritto che ero flessibile e agile come una pantera e una ginnasta. E’ solo la fantasia del Poeta “ad avermi trasfigurato, mentre io avrei trovato la via dello spirito, essendomi attenuta tutta la vita ai valori eterni dell’esistenza”. Mi ha rivelato che il suo professore di greco, al liceo, quand’era giovane (ah, il professore suo quand’era giovane!...) aveva assistito ad una mia recita, e spiegava ai ragazzi che la mia voce toccava l’eternità come un verso di Saffo. Era un dramma di Dumas. Ho scosso il capo stanca e infastidita, e poi ho precisato che avevo servito l’arte come lui serviva l’Italia, perché solo con un ardore di vita che ci purifica noi possiamo tendere oltre l’effimero. Perché anch’io son pura, adesso, una ‘étoile toujours à sa place et toujours soudaine’, come mi aveva cantato Claudel. Quando siamo usciti, fuori c’era una luce calma, lieve e trasparente. Per l’ansia e la fretta, m’è venuta una gran tosse. Ho voluto correre come i soldati. Mi son seduta su un marciapiede, non c’era nemmeno una panchina. Quelli che passavano mi scambiavano per una vecchia madre stanca. Era l’ora del congedo, lui stava sull’attenti. Ero disperata. Da casa gli ho scritto subito: “Vedi che non sono buona a stare in linea, con voi. Ma Dio è con te di certo. Nulla ti lega, sai la strada. Noi ci rivedremo. Ma dove? Scusa se avevo di nuovo le lagrime agli occhi. Che sciocca! Faccio proprio come le donne che temono, mentre so che non potrai perire. Vero?”.
(buio e musica)

7
Eleonora, vestita di tutto punto, si sistema la veletta e il cappellino. Cerca di darsi un tono di eleganza civettuola. Appare in ansia, eccitata, quasi si apprestasse a un lungo viaggio. Si sentono tuoni e saette. Un uragano di settembre sta scoppiando fuori, e pare la guerra. Ogni tanto, come sempre, fruga tra fogli sul tavolino.
I compagni della camerata gli ripetono che gli eroi guerrieri di Barletta prima della battaglia scrivevano alle amorose. Allora gli ho chiesto se potevo, anche se così tossicolosa, raggiungerlo al fronte, con un telegramma. Lo aspettavo a Udine, all’Albergo d’Italia. Il comandante gli ha dato il permesso, perché tutti vogliono bene a ‘una grande Italiana’. Quando sono scesa, gli alti ufficiali erano schierati ad accogliermi. Parevo una giovinetta, m’ha scritto il mio figliolo, “per il fulgore dei denti perfetti, lo sguardo fulgente e puro, e il pallore dello spirito trasfigurato. Sì, proprio trasfigurato”. Se ne stava in disparte, umile per la gerarchia ma io ho voluto salutare davanti a tutti il soldato giunto dalle trincee. Gli alti ufficiali, saputo che era del San Marco, hanno detto ridendo che la sua zona presto ne vedrà di belle, e io ho naturalmente tremato. Gli ho parlato del progetto del Teatro del fronte. Ma lui vede nell’iniziativa l’aspetto mondano, un divertimento lontano dalle trincee dove il soldato vive tra polvere e sangue. Anch’io, l’ho rassicurato, inutile che vengano a tirarmi per la giacca. Basta, basta (urla). Buffonate! Davanti a giovani che vanno a morire sul serio, e per noi poi. Almeno recitassero (cerca tra le carte gridando ‘Dov’è, dov’è?’) “tra le granate, mentre il pericolo vostro potrebbe estendersi anche agli attori. Se noi cacciassimo con la frusta tutti gli imboscati, il teatro che portiamo in dono a voi, questo teatro che è la sola ricchezza di noi poveretti venuti ad offrirvela, sarebbe utile alla guerra. Ma non scrivermi più che solo se recitassi io, i soldati sarebbero disposti. No, io no, Luciano! Però questa terra dove si combatte è la terra dei miei padri! Ritrovo la mia aria. E la mia anima è come un’ala! Adesso ti intimo anch’io il ‘mio ordine di servizio’, ossia di scrivermi ogni giorno, anzi due volte, mattina e sera, basta una parola, un cenno. Come ‘non succede nulla’, oppure ‘la battaglia è cominciata’. Dimentica che sto a Udine e non a Firenze o a Milano. Perché il cuore delle mamme è in ansia e noi viviamo di notizie. Le mamme sono al mondo non per ragionare, ma per amare i loro piccoli. E di notte noi siamo là nel buio dei camminamenti. Le nostre mani vi cercano, e il cuore, pronto a balzare al rumore più semplice, starà bono e dirà nel momento del fuoco ‘Signore, tu lo salverai!’. Cerca di evitare le fatiche più aspre. Cerca di acchetarti nel sonno, almeno un pocolino. Sei stato ferito, in fondo. Io sento, sento che in agosto le armate dell’Isonzo marceranno rapide verso il bel mare di Trieste”. Un suo attendente mi ha rivelato che il mio figliolo va all’assalto senza bomba, senza rivoltella, perché ama la guerra senza sangue! Allora ho aggiunto “Figliolo mio dolce, devi proteggere la tua persona. So che ti dibatti tra l’angoscia dell’uccidere e il forte amore per la tua terra che vuoi grande e salva. Andare all’assalto col cuore entusiasta di fanciullo contro un cuore così pieno d’ira e di mitraglia non mi fa dormire. Per me le lane, per te le armi. Mi obbedirai? Se no, in qualche modo, coll’automobile, mi spingo anch’io vicino alle linee, fino a vedere la luce dei razzi. Oh no, non temere per me. Dopo che hanno bombardato Udine, sei venuto di corsa dalla tua madrina, a Tavagnacco per sincerarti che fossi salva. Ti ho accolto esausta per la fatica, la confusione, la paura di tutti, e ti mostravo gli alberi tranquilli, lontano dalle polveriere che scoppiano. Ho camminato con te senza cappello, come una donna del popolo. Ti stringevo la mano e sentivo ardere il tuo sangue, il tuo sangue. Ora non mi scrivi da giorni e giorni, e mi aggiro sofferente di ombra in ombra. (Rumore improvviso di bombe) Che succede, Luciano mio? E’ una valanga che precipita? Una fiumana che tutto travolge? I nostri soldati scappano giù dal fronte? Il Comando supremo accusa di tradimento le truppe. Com’è possibile? Nessuno dei ragazzi è vile”. Poi mi informano che ce l’ha fatta. E’ sfollato a Ferrara, colle poche lire rimaste in tasca s’è comprato le Confessioni di Sant’Agostino in francese, invece della cena. Così da Firenze gli ho scritto: “ Figlio amatissimo mio figlio caro, finalmente un indirizzo dove mandarti una parola di fede, di coraggio, di benedizione. Quanta angoscia in tutti questi giorni, quanta pena senza che mamma tua potesse aiutarti! Ma mai (singhiozza), mai non ti ho lasciato mai, mai, mai, mai, un minuto e da lontano ti trasmettevo coraggio e resistenza. Figlio mio bono, figlio mio piccolo, figlio mio grande, bono e piccolo come quando eri bambino, queste orrende giornate passeranno, vedrai! Figlio, fa che la consolazione ritorni in te e scrivimi sempre. Vorrei prenderti in braccio e darti un po’ di riposo. Figlio, veder distrutto tanto sforzo di lotta, perdere con Caporetto ciò che avevate conquistato, forse bisogna passare da questo enorme dolore perché quel che succede sul Piave e Brenta risana tutta l’Italia. Ma ti prego, parlami di te, non solo dei tuoi fanti. E non temere. Quei mostri non distruggeranno mai né la razza né l’anima dell’Italia. Dole l’anima di aver perso quello che fu perso, ma l’Italia col Piave risorge. Dimmi se posso mandarti qualche soldo, qualche flanella, calze, roba di lana, guanti, son la mamma tua! Se ti arriva un mio piccolo vaglia, accettalo come un bacetto di mamma. E manda pure senza francobolli. Io non vivo che per le lettere tue, per rivederti, per riconoscerti figlio del dovere tuo e di papà tuo. Ma ogni volta che ricevo una tua lettera, mi prende una pena frettolosa di arrivare vicino a te subito subito subito. Decidi tu se vuoi tornare bombardiere. Un’arma vale un’altra per difendere la terra tua. Fai quel che il core ti vuole. Ora devo restare a Milano. Il Santo mia luce e guida è malato grave. Grazie al Santo ho scoperto Dante e il resto che conta, il senso della poesia eterna. Bisogna ricorrere a lui, per sentire quanto sono vuoti i mondani e gli esteti in arte”. Avrei voluto vederli vicini, come padre e figlio…”Tutto il bene con te. Tu sei d’Italia e di mamma tua. Benedetto sempre”. No, queste parole, non le tolgo, no che non le tolgo. No, le lascio, perché no?: “Dimmi se, per esempio, io arrivassi di notte, potrei vedere te al mattino, stare un pochetto pochetto con te, nella giornata, fuori le ore del tuo lavoro e alla sera ripartirmene”. No, queste parole no, non le voglio togliere, non posso...Una lingua antica, questa, già, come coll’altro, col Santo. Già. Che strano!
(buio e musica)

8
Eleonora giace sfinita sulla poltrona, vicino al tavolino coi fogli. Una luce accecante invade la stanza.
“Son tornata a casa, figlio. Ma non si ha pace in nessun luogo. Si può solo soffrire e resistere. Stamane è l’alba, 14 gennaio, e tu sei già al lavoro. Io al mio che è quello di volere. Volere che tu resista. La tua ultima lettera l’ho portata tutto il giorno come una bandiera. So che c’è oltre al papà tuo, alle sorelle tue, a me, un’altra creatura (la voce si agita) che aspetta, al tuo paese. Vero, figlio mio? Noi tutti viviamo in te. Non temere mai d’essere solo. Un’anima come la tua ha ogni anima in sé. Vivo solo pensando a quando mi sentirò dire ‘Mamma son qua!’ Ma quanti hanno patito prima di noi! Ora bisogna tornare da capo e arare la terra perché sia nostra. Tutti noi siamo composti per disgregarci e sparire, sparire per ritornare sotto altro nome, sotto altra forma. Allora eccomi figlio, pronta con te. Mamma tua andrà con te dove tu vuoi, figlio, né fuoco né altra forza potranno impedirlo. Come i fiori, le acque, le stelle, anche noi transitiamo nella vita e non ne possiamo soffrire, figlietto mio dolce e bravo. E resistiamo perché siamo gli ordigni della terra. E vogliamo lavorare per questa divina terra nostra, ma sparire per noi due non conta più. Noi due siamo atomi che ci si capisce al volo. Tu sei senza viltà, senza peccato, senza rimorso, perché tu hai obbedito, hai combattuto, hai pianto. L’uragano travolgerà presto anche il nemico. Le tue lettere sono il pane quotidiano dell’anima mia, sono sospironi dal core. Le rileggo come con l’orecchio teso si cerca di afferrare una melodia che si ode a frammenti, tanta è la lontananza. Se mi par di vedere la tua vita, tu non puoi vedere la mia, tanto è fatta di pene che non si possono dire, e che non contano nulla. L’Italia è vostra. Adesso, dopo novembre crudele, è il momento del riordinamento. Dalla mano ferma della tua calligrafia, vedo che stai meglio in salute. Io, invece, scrivo a matita, e mi tremola il polso. Le parole vorrei volassero lontano dalla carta, perché non rispondono quasi mai alla voce del core. Ma io non ho che amor di patria e sono sicura di te. Ora è tutto guerra e tutto è Italia. Caporetto dispare. Ma la licenza quando l’avrai? Se vivo fino a quel giorno, quando verrai, suona la campanella d’un colpo solo senza fermarti che io capirò che sei te e correrò così più svelta degli altri ad aprirti. Tutto è scritto nel cielo. Anche la vittoria e il ritrovarsi della madre col figlio. Ma se hai una tua fotografia, oh ti prego, ti scongiuro, mandamela! Che io ti veda, povero figlietto, che hai sospirato e pensato tanto. Sai, se fossi morta prima di averti incontrato, che lato magnifico, bono, dolente e dolce ignorerei della vita! Oggi c’è un gran sole, davvero. Perché torna primavera, una musica sottovoce fra tanto rombo di morte. Ma questa atroce e meravigliosa guerra mi mangia l’anima dentro. Ti cerco per le strade, figlio, ti cerco dappertutto, nella luce e nell’ombra. Tu sei la giovinezza santa che ne ammaestra tutti. Avere un figliolo d’anima quale sei, bisogna non piangere. So che stai a Piacenza, dunque, città da me toccata una sola volta a 14 anni con la mia povera mamma, l’anno della sua morte. Recitavo la Francesca del Pellico. Oh tristezza di quella tenera età. Quei versi che non capivo mi facevano diventar rossa. Parlare d’amore a gente sconosciuta mi dava angoscia nel core e desiderio di morire. E invece sono ancora qua, figlietto mio. Perché la vita volta, come voltiamo la paginetta da carta da lettera. Ma se arrivassi di notte, potrei vedere te al mattino, stare un pochetto pochetto con te, fuori delle ore del tuo lavoro, e alla sera ripartirmene. Stare con te, ancora un attimo. E così sia”.
(buio e musica)

9
Buio quasi assoluto. Luce tenue che illumina sul proscenio Eleonora, mentre legge a voce alta, nel colmo dell’estasi. Marzo 1918
“Ecco, ti aspetto. So che verrai tra breve. Non è successo nulla. E’ stato solo un sogno amaro, che si dilegua come un temporale orrendo. Mi pareva di non rivederti più. Mai più. Ma non si muore d’angoscia se la fede ci anima, no? Fa conto che questa casa sia la tenda tua delle Alpi, calma dopo la bufera, la tenda in cui è venuta a incontrarti la mamma tua che ti cercava. Conto i minuti prima del tuo arrivo. E’ solo un lieve ritardo, ma sono certa che verrai. Sarò dietro la porta. Sentirò il tuo passo. Ad un tratto si udrà la campanella. Entrerai con passo svelto. Io ti dirò ‘Così nessuno vi ha vinto. E’ stata la tempesta che vi ha costretti a scendere al piano, mentre quei maledetti vi seguivano come lupi’. Ti ho preparato mandarini e arance. Prendili. Sono la tua Sicilia. Sai, non dormivo più da quando ti sapevo nell’Inferno. Ma ho acceso una lampada, l’ho alimentata, e ho atteso, atteso, atteso finché la posta mi ha portato il tuo primo segno e il filo si è riannodato. Sulla parete ti mostrerò l’immagine di mia madre, la poveretta che veniva con me per le strade del Veneto, quando noi si era attori vaganti, sempre in giro. Quando mi vedeva qualcosa in mano che amava, mi diceva subito ‘donala’. Ti condurrò per mano al letto tuo. Da qua potrai sentire come la notte è calma. E sotto il cielo avvertirai anche il correre dell’Arno. E se si alza il vento, ti sembrerà una voce amica, perché sei abituato al fremere della natura. A me invece il mutare del tempo e le notti mobili che preludono alla primavera recano ansia. C’è qui l’acqua accanto alla lampada. Questo è un maglione bianco che ho fatto lavorare per te. Lo porterai al fronte. Se hai freddo, lo puoi indossare anche subito. Ecco, vedi, accarezzo questa lana e la colloco sul tuo letto. Dormirai quieto, figliolo mio. Mi hai scritto che i tuoi soldati non son fuggiti! Al fante che avendo cinque figli voleva ritirarsi dal fuoco l’hai convinto a restare appunto per i suoi cinque figli. Che siate fuggiti, lo credono solo quelli che seguono i comunicati dei Comandi. A Mestre mi dicevi che vi chiamavano ‘poareti’ o ‘cari da Dio’. Loro, i semplici, non danno ascolto ai Comandi. Ma ognuno di noi ha nella propria vita una verità che gli altri hanno disconosciuto. Pensa a me e al Fuoco. Ormai sono solo foglie cadute naturalmente al termine della loro stagione. Ti sussurrerò buona notte. La Germania non può vincere. Verrà presto maggio con rose che mani di bimbi e di fanciulle daranno a voi giovani, vicino alle acque benedette dalla vostra volontà di vittoria, dalla vostra gioventù bella. Mi hai detto che una volta ti sono apparsa come una dea dalle dolci mani, e che le mie palpebre fugano le nebbie dello spirito, sì un’apparizione che solo le sillabe d’Omero potrebbero esprimere. Un’apparizione che t’ha fatto tremare il core. Non scriverlo più, figliolo caro. Mi fai solo male così. Dopo la notte nel letto, verrà la mattina, col tempo colorito, e le mie donne ti porteranno il latte. Ma lo sai che una di costoro, la più giovane, che arrossisce quando ti vede, è convinta tu sia davvero mio figliolo? Me l’ha pure chiesto e io ho risposto ‘Perché non dovrebbe essere veramente mio figlio?’. Ma verrà un giorno, oh lo so bene, che non avrò intorno altra persona che me. Magari uscirò di casa ogni mattina per impostare una lettera a me stessa. Perché la vita, me, m’ha sbalestrata fuori di nicchia. E quando mi accorgo di non appartenere al creato, mi sento tutta opaca. Se vorrai, potrai lavorare su quel gran tavolo, a scrivere la tua esperienza di soldato. E mi difenderai dai pipistrelli malefici per me. Poi, lo so, ripartirai di qui. Io ho la casa che mi copre, e che terrà l’impronta delle cose che hai visto e toccato. Resterò a lungo nella tua camera per stare ancora vicina a te. Sarai così dolce e non farai rumore con tanta guerra in core. Ma tu vivrai all’aperto, col conforto delle prime stelle con te. Riposa più lo spirito che il corpo, mio bombardiere del re. Ama di tutto amore quest’amore d’Italia che hai così tanto nel core. Il resto si scioglierà da sé, come le acque vanno al mare. Ma vieni, vieni, non farmi più aspettare!”.
(buio e musica)

10
Seduta al tavolino, Eleonora rilegge l’ultima lettera indirizzata al suo soldato. Dicembre 1920. La voce è ora indurita, distaccata, rassegnata.
“Caro Nicastro, ti scrivo in una sosta di tosse. Dunque ti sei laureato e stai colla famiglia nuova e vecchia a Messina. Eccoti in armi per altre strade. Ti sta anche per nascere una creatura. Crescerà come te, ne sono certa. Ma quando ti davano per disperso, e la tua casa in Sicilia era tutto un gemito, io lo sapevo che non potevi essere dilaniato, distrutto. Mentre vincevate sul Piave, i nemici ti hanno raccolto boccheggiante sul Montello e hanno allontanato la morte dal tuo respiro. Eri divenuto, nei campi d’Ungheria, un’esile foglia miracolosamente rimasta sull’albero dell’esistenza. Quanto a me, io debbo rinunziare al mio rifugio, e tornare al mondo cercando lavoro. Questo avviene però non nella santità, ma come cosa angosciosa. Nella trincea ora sono io. O giovinezza! Potessi essere forte come sei stato tu al fuoco! Quando sei rientrato in Italia, m’hai cercato subito a Firenze, ma io ero ammalata in albergo. M’hai visto in uno stato quasi comatoso, che avrei voluto evitarti, avvelenata da 39 gradi di influenza. I medici dicevano che non avrei superato la crisi. Avevi gli occhi pieni di lagrime. Io ho baciato i tuoi capelli che si sporgevano verso di me. Bisogna però indulgere con me, perché sono malata d’anima e di persona. Ho perso il Santo, la luce della mia vita. Il mio solo bene in questa terra. Sì, il mio solo bene. Un taglio netto, reciso, nero. Parlarne non giova, non posso. E sono anche in pena per un disastro finanziario che riduce questi ultimi anni di vita mia un problema di qualche difficoltà. Meglio così. In fondo. Ora sono più leggera. Mostri, cani, mostri! Non voglio indietro nulla dalle banche tedesche, mentre i soldati sono morti per salvarci. Ma tu sei giovane. Hai te stesso, hai l’Italia, troverai la tua strada. Diverrai davvero insegnante in una scuola di popolo, magari una di pescatori sulle spiagge della tua isola? Lontano da me, tra le le orme della mamma tua. Della tua vera mamma. Ah, è una conclusione questa, allora? Non vai a confinarti troppo nella solitudine? Tanto, ogni giorno spero sia il penultimo di vita mia, perché la mia salute si scolla di più. Io barcollo ormai. Alla mia solita broncopolmonite si sono aggiunte febbri malariche. Presto, potrò arrivare alla parola fine. Se non ti scrivo è perché non ho fiato per stare al mondo. E poi sono inebetita dal chinino. Quando sarò morta, vorrei che sul marmo della mia fossa vengano incise queste due parole latine: ‘Quod potui’. Sono stata a Cambridge, con Enrichetta mia, dopo cinque anni di separazione. Ma quando ti ho visto a Genova senza divisa, in borghese, e mi hai spiegato che preferivi far così per evitare di spargere zizzania, perché la gente dava la caccia a chi aveva combattuto, ho gridato ’che tragedia! Che dopoguerra affannoso!’ Le tue lettere, nei giorni delle mitragliatrici scroscianti, mi atterrivano più degli spari. Ora hai al fianco una cara fanciulla tutta tua. Sono consolata per te perché il tuo cuore così è uscito dal lutto. Ma ho presunto di me, quando ti pregai o acconsentii che tu mi chiamassi Mamma. Non avevo dato prove di me per meritare un tal nome! E ti ho mostrato un’anima in pena, quando bisognava invece sollevare. Avrei voluto donarti un bel sorriso, tutto spianato come il mare che copre le profondità. Ho raccolto le tue lettere e le ho fatte pubblicare dalla Voce. Sono piene di errori, di censure, ti hanno anche sbagliato il nome. Ti chiamano Luigi, non Luciano. Sai, se non fossi una mezza invalida, vorrei spingermi sino alla tua Messina, alla vista delle onde. Ma ora mi aspetta di nuovo il teatro, e forse andrò un’altra volta in terre lontane, nelle Americhe faticose. (Divaga citando) Come recitava il Poeta? ‘Respira verso il mare, e i pensieri indicibili fanno il suo volto sfolgorante d’un segreto di stelle’. Mi sa che manca qualcosa. E comunque sto adesso coll’Oceano del norvegese. Il mio Ibsen. Il Poeta però, il vecchio soldato, è giusto che tu lo sappia, ha ripreso a scrivermi da Venezia.. Ah, tenerci ancora una volta per mano. Tutte le persone amate nella mia vita. Tenere te, te, te, ancora per mano, farmi accompagnare per le strade, colla tua fresca divisa grigioverde! Ma non si può più. Coraggio, informami, quando potrai, su quello che fai. Addio, Eleonora Duse”. (Resta colla matita in bocca, incerta e delusa).
(buio e sipario)