L’ ODORE DELLA VENDETTA


monologo di


NINO D’AGATA



Una donna è seduta al centro della scena con una luce che le illumina solo il viso.

L’ho ammazzato, signor Commissario. Freddamente. Lucidamente. Con un coltello. Un taglio netto alla gola. Non credo si sia reso conto di nulla. Arrivò un mattino di Aprile su una Station Wagon seguita da un camion dei traslochi. I signori Borghetti sarebbero stati i miei nuovi vicini di casa. Una giovane coppia e… “lui”. Appena sceso dalla macchina cominciò a correre allegramente sul prato ben curato e quella allegria contrastava notevolmente con la seriosità della giovane coppia. Lo ammetto: non mi piacquero granchè all’inizio, ma, pensai che fosse un giudizio un po’ troppo affrettato. Nei mesi che seguirono tentati di instaurare un minimo di rapporto, come si fa, normalmente, fra vicini di casa ma, puntualmente, mi imbattevo in una freddezza ingiustificata. Sperai che fosse, la loro, solo eccessiva riservatezza ma, un giorno, accadde un fatto che cancellò definitivamente quella speranza. Spesso mi ritrovavo incantata a guardare quell’esserino gironzolare sul prato e lo seguivo nelle sue corse, incantata e terribilmente e pericolosamente attratta, ma non capivo il perché. Quel giorno, sfidando la mia timidezza, mi avvicinai alla palizzata bassa che divideva il mio giardino dal suo. Lui avvertì la mia presenza e si girò di scatto e i suoi occhi, per un lungo istante, si fermarono nei miei. Feci un sorriso e lo chiamai con la mano. Con una leggera diffidenza cominciò a camminare verso di me, poi si fermò e tornò indietro, lo richiamai e, stavolta, con passo spedito, si avvicinò. Era vivace ma docile. Avvicinai la mano e si lasciò quasi toccare. Aveva un odore che conoscevo, che avevo già sentito e che mi turbava: era l’odore della sua pelle. Una voce tagliente e cattiva spezzò l’incantesimo: “ Non lo tocchi!” La giovane signora seriosa con ancora indosso il suo grembiulino da cucina, si era accorta di tutto. Il mio piccolo amico scappò spaventato, io mi scusai dicendo che non volevo fargli del male, ma non ebbi nessuna risposta e mi allontanai. Non badai molto all’incomprensibile atteggiamento e all’arroganza di quel gesto, mi preoccupò di più la faccenda dell’odore. Cominciai a scavare nella mia memoria. Andando a ritroso arrivai alla mia infanzia, lì mi portò quell’odore e il ricordo si fece nitido. C’era la guerra. I bombardamenti avevano distrutto, assieme alle case, la nostra infanzia e noi bambine giocavamo sulle macerie di quella follia, ma non era un gioco: cercavamo, fra quelle macerie, qualcosa da mangiare: c’erano solo cadaveri. Noi eravamo in cinque, con mia madre. Mio padre era partito convinto di quella guerra tutto vestito di nero; dopo un anno e un telegramma dell’esercito fu mia madre a vestirsi di nero. Avevamo fame tutti, ma non c’era niente in paese. Mia madre ci disse di non muoverci che sarebbe tornata con qualcosa da mangiare. E così fu. Uscì con un coltello e tornò con il grembiule nero pieno di pezzi di carne. Ci affrettammo a far bollire dell’acqua e, mentre mettevo i pezzi nella pentola, mi arrivava il loro odore, inebriante, forse per la fame. Dato che io avevo visto per strada solo cadaveri, non ebbi il coraggio di chiedere a mia madre dove avesse preso quella carne. A distanza di anni capii che cos’era perché… aveva lo stesso odore del mio piccolo vicino di casa. Un giorno, tornando dal lavoro, gettando lo sguardo automaticamente verso il giardino dei vicini, qualcosa di strano si impresse nei miei occhi. Tolsi lo sguardo, mi fermai di colpo e mi girai di scatto: non avrebbero dovuto farlo, quello non avrebbero dovuto farlo: una rete di recinzione mi divideva per sempre dal mio piccolo amico e… dal suo odore. Nella testa cominciarono ad accavallarsi molte cose: rabbia, disperazione, solitudine, vendetta. E, piano, piano, come un veleno, si fece largo, in mezzo a tutti quei pensieri confusi, un desiderio… doppio: la vendetta e l’odore. Era decisamente un’accoppiata alquanto bizzarra ma, pensai che, comunque, sarebbe stato facile gestirla e accantonarla in quell’angolo della mia mente dove riposano altre inquietudini tenute a bada da farmaci e lunghe sedute psichiatriche. Non fu così. Qualcosa aveva aperto un varco nel mio fragile ordine mentale e il mio sistema di controllo saltò. Agii di conseguenza. Durante la notte cominciai a scavare una buca in prossimità della recinzione di confine. Il sole del mattino illuminò come una benedizione quel varco che vanificava, con i suoi cinquanta centimetri di diametro, centinaia di metri di rete metallica. Aspettai con la pazienza di un pescatore su uno scoglio. Fui premiata. Dopo qualche ora, il mio amico fu vicinissimo. Non feci nulla. Trattenni il fiato e, dopo qualche esitazione, il mio dolce amico scoprì un’ erba nuova. Lo chiamai piano e lui cominciò a seguirmi fino alla soglia della porta della cucina. La aprii. Entrai senza girarmi a guardarlo. Lo sentii entrare. Mi avvicinai piano alla porta. Uno scatto metallico unì per sempre i nostri destini. D’un tratto, un pensiero entrò prepotentemente nella mia mente: la buca! Dovevo richiuderla! Avrebbero capito subito! Ci arrivai col cuore in gola. La giovane coppia cominciava già a cercare. Controllando i loro movimenti, rapidamente, chiusi il varco. Un ultima occhiata e ritornai indietro lasciandomi alle spalle i loro richiami. Tornai in cucina. Lo ritrovai stupito, fermo in un angolo, forse un po’ impaurito. D’improvviso, un altro pensiero: sarebbero venuti a cercarlo da me! Certamente! Dovevo sbrigarmi! Ma come fare? Mi serviva un sostegno… psicologico. Lo trovai: la fame! Immaginai che ci fosse la guerra intorno a me, come da bambina. Immaginai di essere affamata, molto affamata. Immaginai… che fosse già morto e che l’avevo trovato per strada, in mezzo alle macerie. Intanto, fuori, la giovane coppia era più agitata. Mi affacciai e li vidi confabulare ammiccando verso casa mia. Era giunto il momento! Presi un coltello. Poggiai il mio amico sul ripiano del lavandino. Gli tenni la testa ferma… e colpii. Il sangue colava. Ero atterrita, ma l’odore aveva ormai invaso la cucina e la mia mente. Orrore e odore. “Orrore e odore”. Con quella assonanza musicale cominciai a farlo a pezzi. Piccoli pezzi. E, mentre lavoravo, pensavo a mia madre e a quello che aveva fatto per me. E pensai che la guerra, in qualche modo, era responsabile di quello che stavo facendo. Mi sentii sollevata e sorrisi allegramente. Riempii di carne le buste di plastica che avevo preparato per il congelatore. Sull’ultimo sacchetto guardai fuori dalla cucina. La giovane coppia non si dava pace. Li vidi parlare animatamente, sembravano accusarsi reciprocamente. Cominciarono a litigare furiosamente. All’improvviso, lui diede uno schiaffo violentissimo a lei che cadde per terra, ma si rialzò, afferrò un randello e colpì lui alle gambe ma lui era più forte e cominciò a prenderla a calci. Non mi ero sbagliata: erano due animali. Guardando il sacchetto che avevo ancora in mano, mi consolai pensando che, in fondo, quei due, non meritavano una creatura così dolce e tenera. Li lasciai scannarsi e mi occupai di quell’ultimo sacchetto. Mentre lo riponevo mi accorsi che, negli ultimi sacchetti, c’era un pezzo di carne più chiaro degli altri. Certamente tenero, molto più tenero degli altri. Non riuscii a individuare a quale parte del corpo appartenesse, forse la coscia e, mentre cercavo di capire… non so… le urla di quei due là fuori che litigavano, la mia infanzia, la guerra, tutto cominciò a confondersi e, automaticamente, presi una pentola e la riempii d’acqua. La misi sul fuoco e vi depositai quel pezzo di carne. Restai immobile con lo sguardo alla finestra. Quando fu cotta, presi un piatto e, come da bambina, la condii con un po’ di sale, olio e limone. Dopo qualche esitazione, il mio piccolo amico era dentro di me, custodito, al riparo da quei due mostri là fuori. Quando i Carabinieri, chiamati da quei due, gironzolarono attorno alla buca e, guardando la terra smossa, indicarono casa mia, capii che era finita.
Ed ora eccomi qua davanti a lei, signor Commissario, a raccontarle questa storia. Sono pentita per quello che ho fatto, ma non sono pentita per quei due perché, ripeto, sono due animali. So quello che rischio. Non so come ne uscirò, ma so con certezza che, la prossima volta, il pollo me lo compro già pronto in rosticceria.

FINE