Io ero piccola piccola

di

Damiano Landriccia

 

IL SIPARIO SI ALZA. INVERNO. GIORNO. UNA GIOVANE DONNA E’ SEDUTA SU DI UNA PANCHINA AL CENTRO DI UNA PIAZZA PAESANA. ALLE SUE SPALLE VETRINE DI NEGOZI E GENTE CHE CAMMINA E VOCIFERA E FA LE COMPERE ALLE BANCARELLE. 


Non so perché. Novembre inoltrato e un vento freddo faceva sembrare tutto più lento e pesante, la pelle del mio viso tirava e bruciava. Avevo il solito maglione nero a collo alto perché nonostante guardassi l’armadio con interesse ogni volta finivo con il lasciarmi condizionare dai ricordi: e quel maglione sapeva di due occhi che mi guardavano e di una mano attorno al collo di un profumo da uomo vicino tanto da vicino da estasiarmi.

Quella era stata una scopata. Non so perché ma lo dicevo. Ero sincera, sempre e soltanto la verità. Lui mi diceva che avevo il repertorio di frasi ad effetto. Tanto carina tanto educata, permalosa, pelle chiara e frasi ad effetto che non significavano nulla almeno per chi mi ascoltava. Quanto male si può fare ad una persona nel nome della sincerità.

Di fronte quella vetrina, il mio viso quasi incollato, gli occhi lucidi; appena trovato della forza avevo poggiato la mano foderata di lana nera sul vetro in direzione della foto.
Camminare era triste e bello. Camminare non mi portava da Dio perché Dio era nulla in questo mondo Dio non aveva carne non poteva fare carezze. 
Dio senza di me era nulla. Io contribuivo assieme ad altri a rendere quello che c’era migliore. Io guardavo io soffrivo io cercavo di migliorare. Dopo di me, dopo i miei sbagli e quelli di altri tutto era più facile. Io ero con altri l’asfalto di Dio. E neanche un grazie. Andavo e vado una volta a settimana a messa.

Mi avevano costretta a fare all’amore. Un’altra delle mie frasi ad effetto. Dovevo solo spiegarla a chi mi ascoltava, ma la mia attenuante era la sincerità. Quanto male si può fare a chi ascolta con il pretesto della sincerità. 

Camminare non mi portava da nessuna parte, cercavo di colmare con le tante vetrine e i tanti volti quel vuoto che camminava a sua volta dentro me. Camminare con quella sensazione che non si era riusciti a mantenere nulla di quello che si pensava una volta conquistato desse felicità. Camminare con i pensieri che scavavano e avevano tutti i rumori più insopportabili.
Il primo essere vivente che mi avesse detto di reagire gli avrei sputato in faccia. Nessuno aveva diritto di finire quello in cui che neanche tu eri riuscita. Nessuno. Tranne chi era sceso nel tuo inferno e salito nel tuo paradiso.
Dormivo poco e mangiavo poco. Lui me lo aveva detto che ti accorgevi della fortuna che avevi solo quando era svanita. Poche cose sono come la polvere e l’aria non concede a tutti di fluttuare per le sue vie. Piangevo ma lo facevo spesso anche prima: lui li chiamava “black-out”.

La foto era lì dietro il vetro della vetrina. Il vetro lucido che sapeva di chimica pulente. Assieme ad altre foto che per me non esistevano erano vuote.
I capelli corti come sempre la barba appena fatta la solita camicia il solito maglione scuro la solita montatura da vista trasparente e gli occhi azzurri che erano stati miei. Perché gli occhi custodiscono. 
Avevo cercato di toccarlo ma c’era il vetro. Non potevo arrivare e stavo male. Non poter arrivare farebbe male a chiunque. Io avevo corso mi ero fermata per prendere fiato. Mi ero asciugata il sudore. Guardata attorno. Mi sentivo una bambina senza l’approvazione di suo padre. Una donna senza utero. Nessuno voleva più il mio cuore. Guardavano tutti il mio sedere il mio seno il mio viso le mie mani che una donna sa servono solo per portare a lui, al cuore. Solo una esca. E intorno a tanta povertà di anime, tra porci delle parole e dementi dei pensieri, si incamminava un batuffolo di ovatta ripieno di me. Io ero piccola piccola con il cuore rosso intenso di segreti pochi come le vocali del mio nome. 
La notte non mi voleva più, i sogni mi rifiutavano. Quegli occhi che avevo non scattavano più una foto perché era tutto buio e il flash delle emozioni era rotto.
Lui era lì. Come ogni uomo un dio di nulla. Come ogni uomo un dio grazie all’amore di una donna. Come ogni uomo un dio perché noi donne avevamo fatto che lo fosse. Noi li guardavamo che erano pezzenti della vita apparente e li trasformavamo in principi delle unghie smaltate e della barba fatta.
Lui era lì, non l’uomo più bello del mondo. Un uomo comune. Io l’avevo portato dentro me e ne avevo fatto un uomo come pochi. Io ero stata la fata. Io gli avevo dato saliva e umori vaginali. Tutto, solo pochi uomini ne erano coscienti, tutto il mondo in una cavità ricoperta di pelle e peli.
Io ero la puttana la puttana di un solo uomo. L’uomo che guardavo attraverso un vetro. 
Cosa cavolo erano le foto? Io adoravo le foto ne facevo di bellissime con una macchina digitale regalata da lui. Poi le stampavo e ci tappezzavo lo specchio in camera.
Io poggiavo il mio sedere freddo su di lui da nuda. Io cercavo con le mani vogliosa di metterlo dentro di me e lo guardavo negli occhi. Io assaporavo lento il piacere che mi dava farmi penetrare. 
Io ero la sua puttana. Per quante stupidaggini circolino in giro su di noi donne, si può essere puttana una sola volta senza impazzire dal dolore e dal piacere, senza che certi pensieri girono veloci e ti schiantino contro qualche muro.
Io avevo paura, mi raschiava la gola quella paura, mi rosicchiava lo stomaco. Io ero una goccia d’acqua che cadeva tra tante altre e diventavo come la pioggia un luogo comune. Io ero solo una donna fragile. Urlavo per le mie mani e le mie mani mi saltavano in viso per nascondere gli occhi che piangevano. Cercavo di non parlare ma tra gli schiaffi a pieno viso del silenzio il bacio bagnato della solitudine mi spingeva a pronunciare quelle parole che non significano nulla quei sguardi quei monologhi di cui avrei fatto a meno. Ti faceva idiota la solitudine. Sognavi un uomo che ti avesse sognata per prima. Non esisteva però. Ci si sognava assieme. O meglio si scopriva di essere stati sempre alla ricerca uno dell’altra appena si incrociavano gli sguardi. Colpo di fulmine. Io credevo nei colpi di fulmine. Una volta l’avevo detto anche a Silvio per telefono. Avevo provato a far ingelosire lui con Silvio, gli dicevo che ero al telefono con Silvio ma niente. Lui ci scherzava su.

SI ALZA E SI AVVIA VERSO UNA VETRINA. VI GUARDA DENTRO E POGGIA LA MANO DESTRA SUL VETRO COME PER TOCCARE QUALCOSA.

Avevo poggiato la mano destra sul vetro. La gente immaginavo mi guardasse e provasse stupore magari stranezza per quel gesto. Ma non riuscivo ad accorgermi di altro. 
Lui, l’uomo della foto, il mio uomo restava immobile perché il flash di una macchinetta lo aveva consegnato a me e gli aveva tolto età e tempo.

ENTRA UN GIOVANE UOMO IN SCENA, LE SI AVVICINA E LE CAREZZA I CAPELLI LE DA’ UN BACIO SULLA FRONTE E LE PRENDE LE MANI, GLIELE LASCIA, LEI LO TRATTIENE UN PO’ SENZA RIUSCIRCI; POI USCENDO DAL PALCO SI FERMA A GUARDARE IL PUBBLICO.

Sapevo dove andare a trovarlo, non dovevo manco chiudere gli occhi. Una stanza da letto con l’essenziale. Un letto matrimoniale poggiato a muro e due comodini ai lati e un lampadario a forma di palla con un sole serigrafato.
Un uomo nudo sotto le coperte con una donna nuda sotto le coperte, uno dentro l’altra ansimanti. Un uomo e una donna nudi e vicini in un letto sotto le coperte.
Quell’uomo, il mio uomo una volta mi ha detto. E io quella volta ho registrato. Parole. Vero. Solo parole.

Mi ero laureata in legge. Mio padre aveva pianto. E quello che forse un po’ mi aveva fatto schifo era che mio padre fosse un impiegato. Uno di quelli che lavorava, lavorava, metteva i soldi in banca, aveva un programma per tutto. Io ero il suo programma. E prevedeva per quel giorno per quell’anno un po’ di pianto. Patetico e tenero da non capirci nulla.

ENTRA UN UOMO MATURO, IL PADRE, LE SI AVVICINA E GUARDANDOLA SCUOTE LA TESTA. LEI SEMBRA DISPIACIUTA, GLI SI AVVICINA CERCA DI ABBRACCIARLO MA LUI SI SCANSA E SCUOTE ANCORA LA TESTA, LA FISSA UN PO’, LEI PIANGE, LUI SI ALLONTANA SENZA GUARDARLA.

Mio padre non era un grande uomo. Mio padre era un uomo. Lo so perché portava i calzoni. Potrebbe sembrare che io non gli volessi bene. Gli volevo bene. Solo che quando mi coinvolgeva con la sua realtà del tutto personale, mi mandava il sangue alla testa. La realtà da una parte e lui dall’altra. Sapeva essere bigotto e saggio. Così modestamente accomodante. Mio padre era un uomo come tanti. Forse io da figlia l’avevo fatto diventare un altro: l’avevo fatto migliore perché mi sembrava un esempio. Poi la nausea. Mio padre mi ricordava di controllare un mese sì uno no l’olio della macchina e le gomme e i freni. Mi faceva notare che la macchina era sporca. Me la lavava.
Mio padre sarebbe stato un uomo inutile se non fosse stato padre. Ed io ero una figlia poco riconoscente ma avrebbe potuto rendermi la vita più facile. Avrebbe potuto regalarmi una casa e qualche mobile. Avrebbe potuto ma ha aspettato che fossi io a guadagnarmeli. Sarebbe stato più facile. Mi aveva aiutato a comperare una macchina, non me l’aveva comperata. Mi pagava l’assicurazione della macchina, questo sì. Certi mesi finiva che non avevo un euro in tasca. Mi aveva pagato l’università ma rientrava nei suoi doveri di padre ed era nei suoi programmi da prima che nascessi.
Mio fratello era andato via di casa, si era arruolato nell’esercito. Aveva preso il diploma e via. Viaggiava spesso per lavoro. Non pagava affitto non pagava pranzo e cena. Partiva per le sue missioni e guadagnava un casino. Poverino. Lo cantava persino Renato Zero che non dovevi farti mettere in divisa perché era la museruola alle ambizioni. Mio fratello leggeva e tanto. I libri li divorava. Parlava due lingue correttamente. Scriveva per qualche giornale recensioni cinematografiche. Aveva persino vinto un festival teatrale e gli avevano rappresentato un testo. Sembrava in gamba. Già, ma lui si è fatto mettere in divisa. Era fuggito, era da vigliacchi. Se era qualcosa lo doveva ai libri che leggeva. Ma gli piaceva leggere e avrebbe potuto laurearsi e diventare medico o avvocato. Quello sì che era dignitoso e non castrante. Prendere ordini per tutta la vita era orribile.
Non mi sono mai sentita orgogliosa per la laurea. Mi aveva riempito di orgoglio girare nuda per casa e alzarmi da letto nuda dopo aver fatto l’amore per andare in bagno e sentirlo ancora dentro di me; poi tornare in camera e prendere il suo pene tra le mani e non avere un solo attimo di imbarazzo nello stomaco.
Volevo ogni cosa. Ogni cosa era mia. Io ero un vuoto da riempire. Lui mi riempiva. Lui prima di lasciarsi andare via me lo aveva detto. 

RITORNA A SEDERE SULLA PANCHINA

Quando è che ci si sente qualcuno? Come si sa con certezza di essere qualcosa? Mentre ero a casa sul divano davanti al televisore desideravo che la coperta uscisse da sola dall’armadio e mi venisse addosso per coprirmi. Io le avrei dato quel potere. Io potevo tutto. Ero la regina. Non mi serviva nulla.
Potevo stare da sola avevo i miei spazi. Praticavo il silenzio poi esplodevo sparava a zero su tutto scherzavo offendevo. Ero talmente brava con le parole.
Facevo una doccia calda al giorno mi piaceva l’acqua calda lavava via i brutti sogni della notte e ti preparava ad averne di nuovi alla sera. La vita te la cambiava la paura non le paranoie ed infinito era l’universo quanto la stupidità ma per l’universo c’era una teoria.
La vita non te la cambiava l’avere o no vinto qualcosa, cambiava tornare a casa e trovare uno come lui, chiedergli di lottare con me e scoprire modi diversi per dirglielo. Trovarlo vestito che sapeva di essere mio. La coscienza che quando avessi avuto voglia lo consideravo solo carne senza pensieri.
Perché pensare chiude tutti i buchi della vita. Non si può neanche defecare senza abbandonare le proprie membra. Figuriamoci fare l’amore. Io avevo solo bisogno di essere un po’ istintiva. 
Stringere i suoi testicoli senza fargli male tra le mani, annusare, leccare, mordere, farmi scivolare dentro, svuotarlo.
Vedermi fare pipì sentire che pioveva la mia acqua dentro un water freddo e altrimenti inutile. Pensare che tutto faceva più schifo di ieri e sapere che nel forno c’era il pane che avevo impastato per lui.
Aspettare che intrufolasse la mano nelle mutandine a vita bassa e sentirmi carezzata. Avere voglia di tutto se mi sentivo il mio tutto e lui me lo concedeva.

Mi scriveva poesie. Era un autore teatrale e giornalista.

ENTRA DACCAPO IL GIOVANE UOMO E LE SI AVVICINA, LE SIEDE ACCANTO, LE METTE UN AMANO TRA I CAPELLI, LEI SORRIDE, GLI BACIA LE MANI. LUI RECITA UNA POESIA:

Non mi serve nulla
Posso stare da solo ho i miei spazi
Pratico il silenzio poi esplodo sparo a zero su tutto scherzo offendo 
Sono talmente bravo con le parole
Faccio due docce calde al giorno mi piace l’acqua calda lava via i brutti sogni della notte e ti prepara ad averne di nuovi alla sera
La vita te la cambia la paura non le paranoie
infinito è l’universo quanto la stupidità ma per l’universo c’è una teoria
La vita non te la cambia l’avere o no vinto qualcosa
cambia tornare a casa e trovare una come te
chiederti di lottare con me e scoprire modi diversi per dirtelo
Trovarti vestita che sai di essere mia
Sapere che hai la coscienza che quando ho voglia sei solo carne che non deve avere pensieri
Perché pensare chiude tutti i buchi della vita
Non si può neanche defecare senza abbandonare le proprie membra
Figuriamoci fare l’amore
Io ho solo bisogno di essere un po’ istintivo 
Stringere i tuoi seni tra le mani, vedere la pelle scomparire nei pugni, annusare, leccare, mordere, scivolarti dentro, svuotarmi 
Vederti fare pipì sentire che piove la tua acqua dentro un water freddo e altrimenti inutile
Pensare che tutto fa più schifo di ieri
e sapere che nel forno c’è il pane che hai impastato tu
Intrufolare la mano nelle mutandine a vita bassa e carezzarti
Avere voglia di tutto se tu ti senti il mio tutto e me lo concedi 

LEI LO ABBRACCIA, LUI LA STRINGE POI LE DA’ UN BACIO E SI ALLONTANA SALUTANDOLA AFFETTUOSAMENTE CON UN GESTO DI MANO.

Un giorno nella stanza da letto. Avevo versato altre lacrime. Ero stanca tornavo da lavoro avevo avuto una giornata difficile. Da stanca diventavo insopportabile. Lui ogni volta quasi mi implorava di non rovinare tutto che tanto era solo una giornata di merda e sarebbe passata. Io mi sentivo una cui si diceva quello che si doveva e non doveva fare, reagivo male. Lui reagiva male. La mia era legittima difesa, diceva. Io lo accusavo di non capire. Ma quella arroccata dentro se stessa ero io. E facevo male, picchiavo duro con le parole. Lui moriva. Ogni volta. E schiacciato dal peso che comportava non avere altri che me in quel buco di paese in cui vivevamo, tornava a prendermi. Io non mi lasciavo prendere. Lo logoravo. Ero logorante.
Lui si era avvicinato io l’avevo mandato via. Si era riavvicinato. Mi si era seduto accanto. Mi aveva parlato. Ma esistevo solo io. Io e il mio male personale. Privato.

ENTRA UNA GIOVANE DONNA E LE SI SIEDE ACCANTO. LE MOSTRA DELLE FOTO E LE PARLA SENZA CHE LA SUA VOCE SI SENTA.

Chiara. Una amica mi chiamava. Il mio nome, Chiara. 32 anni, avvocato da poco. Donna anche da poco. Qualche uomo, un fidanzamento durato molti anni. Avevo la donna che sarei diventata, grazie a lui, nascosta da qualche parte.
Alcuni regalavano rose, fiori, ti portavano fuori a cena. Chissà perché? Era così triste andare a cena con un uomo che conoscevi da poco e non avere nulla da dividere. Era così triste vedere quanto si affannavano perché andasse tutto bene. Mi ero sempre fatta un po’ di pena. Avevo smesso presto. Meglio una birra o una passeggiata. Meglio lui che ti baciava e tu gli chiedevi cosa avesse fatto, stupidamente. E lui ti rispondeva tranquillo che aveva voglia di baciarti. C’era tanta tristezza e aumentava ogni giorno di più grazie a certi fronzoli e convenienti.

LA GIOVANE DONNA ESCE DI SCENA.

Svegliatevi. Dovreste ficcarvi un dito in gola e andare a rimettere. Tutto quanto pensate sia onesto lo è solo per voi non per la persona che avete accanto. L’onestà non può essere confusa con quello che si è stati o si è finti di essere. Lì occorre il silenzio. L’onestà è avere il coraggio di gridare che si ha paura e che i piedi oltre quel marciapiede non li si è mai poggiati. E’ chiedere aiuto stringendo forte a sé.

E me ne stavo con la mano spalmata sulla vetrina di un fotografo. Una deficiente farebbe meglio. Avranno avuto sicuramente pena di me. Ma io non stavo bene. Non era una esimente, una attenuante certamente. Avevo avuto un periodo difficile. Non ero mai stata male così. Ero passata attraverso diversi uomini. Quello più elegante quello più festaiolo quello più grande di me. Mi sono fatta trattare come una bambolina ma ne avevo bisogno, mi ero appena lasciata con il mio primo ragazzo. Fare l’amore senza amore non era bello, io lo sapevo. Mi hanno costretta a fare l’amore. Ero stata sempre onesta con tutti. Ero una che aveva sempre dato molto e meritavo di sentirmi importante. Me lo meritavo. Quando non mi sentivo importante andavo via. Mollavo tutto. Non ero cattiva. Non ero cattiva.
Era il mio repertorio di frasi ad effetto. Lui le registrava perché mi ascoltava sempre. 

RIENTRA IL GIOVANE UOMO CHE LE SIEDE ACCANTO CHE LA GUARDA E SORRIDE FREDDO, IMPASSIBILE.

• Non andare via ti prego, non lasciarmi non così perché morirei.

Lui la guardava piangere

• Cambierò te lo prometto

Lui non voleva saperne, tanto non sarebbe cambiato nulla. Aveva le valigie pronte in macchina.

• Io ho investito tutto ciò che avevo in te. Ho dato tutta me stessa. Non andare via così. Non così.

IL GIOVANE UOMO ESCE SENZA GESTI, IN FRETTA. LEI SI COPRE IL VISO CON LE MANI.

Nella vita la punteggiatura non occorre. Fa molto più un punto, delle virgole e dei due punti e del punto e virgola. Accontenta tutti ed evita brutte figure a chi non conosce l’italiano.
Io ero stato sempre una virgola. Mi dicevano come vestire e cosa fosse giusto o meno. Poi ho fatto tutto di testa mia ho fatto tutto ciò che volevo. Ho tirato fuori il mio plurale. Ho tirato fuori le frasi ad effetto. Mi facevano sentire più viva. Mi facevano qualcuna.

Gli avevo scritto lettere, mi piaceva. Ma le più belle gliele aveva scritta una certa Marilù. Lui non me ne aveva mai parlato, non parlava del suo passato. Ogni tanto qualcosa veniva fuori, delle mail degli incontri. Quella Marilù gli aveva scritto delle lettere tenere e bellissime. Le mie erano ermetiche. Tante parole e poca me stessa. Il solito effetto di scena, la solita apparenza. Io ho vissuto di apparenza.

Avevamo litigato, anzi gli avevo fatto una scenata un giorno in una casa che usava per lavoro, un giorno che dalla spesa era tornato con il dvd di un film comico. Una scenata delirante. Lui mi aveva cacciata di casa. Io me ne ero andata. Ma non stavo bene non lo volevo. Per strada piangendo l’avevo chiamato con la valigia in una mano. Lui si era affacciato. Me lo ero visto venire incontro che mi prendeva per mano. Mi aveva abbracciata. Aveva gli occhi lucidi. Mi aveva fatto promettere di non farlo più di non provocarlo più in quella maniera. Gliel’avevo promesso. Eravamo tornati a casa insieme mano nella mano.

Quel mio amico abita lì quella è la strada che facevo per andare da lui. Aveva un cane. Gli volevo un grande bene. 
Era un’altra delle mie frasi ad effetto. Nel bel mezzo di una passeggiata in macchina con lui. Volevo solo essere sincera. Non so bene a cosa servisse ma lo dicevo. Non avrebbe aggiunto altro al nostro rapporto, non lo avrebbe fatto né migliore né peggiore ma lo dicevo.
Era tutto sin troppo organizzato. Tutto nei minimi particolari. Era un’altra delle mie frasi ad effetto. Parlavo di tutto e con franchezza. Mi sembravo onesta e sincera. Lui mi guardava senza dire nulla.
Ero sempre stato onesta con tutti i miei uomini. 

Nel mio passato i giorni passavano pieni di cose orribili e noiose, non c’era spazio per altro. Arrivava la sera ero stanca, volevo tanto leggere ma mi bruciavano gli occhi, dormivo e addio cose belle.
Sarebbe stato per domani?
Il sole passava con difficoltà attraverso una coperta di nuvole nere nere. Fumavo a polmoni aperti bene e pensavo che in fondo tutto si nascondeva in un angolo del cuore.
Certi giorni non esistevano malinconie, avevo voglia solo di sentirmi leggera e soddisfatta. Il domani sarebbe stato diverso ma ci avrei pensato.
Volevo dimenticare, volevo imparare a vivere in ogni luogo del mondo e non sentirmi più sola. Cosa mi accadeva? Ero io?
Le cose tristi le chiudevo nel cassetto, la chiave me la appendevo al collo. Un giorno la chiave la avrei buttata e sarei tornata la bambina che ero.
Volevo fare i capricci ed essere una principessa. Ma non volevo essere una principessa in un castello alla mercè di un drago. Il mio castello avrebbe dovuto avere tutti i camini accesi, tappeti rossi e blu e quadri dei miei antenati felici. E si sarebbe ballato e bevuto aspettando nascere il sole fra i monti. E bimbi che correvano ovunque senza cadere mai. E una finestra che si apriva sul tetto ed io da lì avrei guardato il mondo senza desiderare di visitarlo mai.

Nei periodi in cui senti la voglia di innamorarti devi stare attenta a dove metti i piedi: come aver bevuto un filtro, di quelli che ti innamorerai del primo essere che incontri.

Ero arrivata a casa alle sette e mezza e trovato la sua lettera. Avevo avuto un attimo di paura… forse mi immaginavo cosa avrebbe detto e quanto l’avrebbe detto bene. 
Mi chiedeva una risposta. Io ero trasparente e odiavo i rapporti sospesi. Volevo essere in grado di non dirgli nulla e attendere le sue lettere e riempirmi gli occhi coi colori delle sue parentesi e le orecchie coi suoni delle sue parole. Non lo ero. Oddio che roba mi era capitata, mai prima in vita mia. E pensare che avevo sempre desiderato di ricevere lettere come le sue e le avevo sul comodino ed erano una fitta al cuore.
Io era una vigliacca ma avevo dovuto imparare ad esserlo per non soffrire troppo. Avrei voluto che mi abbracciasse perché avevo il vuoto attorno e mi serviva un braccio teso per scavalcare il nulla. Urlavo bisogno d’amore, mi mancava più del cibo. Ma non erano quelle le condizioni, non eravamo padroni di noi.
Io quando non capivo, non toccavo avevo paura. Poi era arrivata la sua lettera ed io piangevo perché era stupenda. Avevo pianto perché mi ci ero riconosciuta. Avevo pianto perché non avevo capito ed avevo avuto paura. Non sapevo cosa aspettarmi da me e non sapevo se mi avrebbe fatto bene mostrarmi a lui.
Io cercavo la serenità. Ero stanca. In alcuni momenti avevo la sensazione che il mio cervello fosse in continua ricerca, sempre al lavoro e così al mattino mi svegliavo esausta dopo ore di dormiveglia, di sogni cattivi in cui rivivevo tutti i miei fallimenti. Io cercavo la serenità. Credevo di avere sicurezza e serenità. Pensavo di essermene impadronita stando con una persona superficiale. Era il mio passato. L’avevo scelto e mi ero fatta scegliere. Avevo scelto qualcuno che mi leggeva ma non mi scriveva, che sapeva parlare solo di quello che gli occhi vedevano di giorno. Quella persona mi aveva messo la zavorra ai piedi. I miei anni con lui erano stati di sicurezza e stabilità. Era vero. Dentro di me sentivo una tempesta di sentimenti e pulsioni, ma ritenevo di avere un dovere: quello di accontentarmi perché poco amore era meglio di tanta indifferenza.
Poi mi sono ritrovata lì ed ho avuto il coraggio di ammettere che lui non mi mancava. Mi guardavo attorno e mi accorgevo di quante cose mi fossi negata in tutti quegli anni ed ero grata solo del fatto che in cinque o sei anni mi ero riconosciuta degli spazi tutti miei.
Sapevo cosa volevo, l’avevo visto in sogno. Volevo la passione. Volevo che le mie viscere profumassero di qualcun altro. Volevo amare qualcuno qualcosa con tutta me stessa. Volevo una parte di me fuori me stessa. Volevo che il mio cervello si fermasse ad ascoltare il rumore assordante del mio cuore e volevo che il mio cuore fosse dappertutto. Volevo talmente essere presa da qualcosa da dimenticare la merda che mi stava attorno. Volevo sentirmi così amata e forte da potermene sbattere di tutto. Io lo volevo il mio paradiso, sarebbero stati occhi che non mi avrebbero lasciato mai, che avrebbero curato la mia anima stanca e insegnato a godere.

Una persona può cambiarti la vita solo perché ti dice le parole giuste, ti tocca lì dove ti serviva. Lui mi faceva paura, non so perché ne avevo paura.
Aveva ragione quando diceva che nessuno ci conosceva veramente che ci si scambiavano chiavi che a volte funzionavano altre no; perché chi tentava di aprire era maldestro o perché la chiave era imperfetta o perché chi forniva la chiave decideva improvvisamente di bloccare l’accesso sistemando un’altra chiave in senso contrario.

Tenevo la mano sulla vetrina. Delle gocce sottili e pungolose cominciavano a cadere. Se ci fosse stato qualcuno dietro il vetro da cui guardavo, avrebbe visto due occhi lucidi e vuoti. Il vuoto stava sempre dentro del vetro, era una regola della vita.
Lui era in una foto che lo ritraeva dal busto in su. Perché fosse lì lo ignoravo. Immaginavo tante cose che mi tiravano pugni nello stomaco: una storiella con la fotografa sposata che conoscevo. Per quale altro motivo la sua foto doveva essere lì. Non mi ero mai insospettita di nulla. La fotografa, Roberta, mi sorrideva sempre e con me sempre gentile; io ingenua come chi non ha mai scopato ma si è lasciata scopare come chi non ha mai voluto essere un buco per un uomo ma lo è stato.
Pioveva e in quelle gocce c’era un non so che di discreto, parevano voler scusarsi del fastidio cadendo a terra il più veloce possibile. 
Avevo la sensazione che mi avessero tolto da dentro prima del tempo un qualcosa che cresceva e mi rendeva sicura che mi cullava. L’amore. Ascoltando quella parola, sorridevo. 
Nella foto lui era solo e sembrava l’uomo che tutte sognavano che non era mai esistito né poteva esistere. Uno di quelli che facevano l’amore con te, ti prendevano come fossi solo un pezzo di carne che ti guardavano nuda e bagnata di lui senza farti sentire una che aveva peccato. Con lui non c’erano mai stati rimorsi di coscienza perché era quello che desideravo. 


Erano le sette di sera di un martedì novembrino, pioveva. La nostra stanza era un po’ triste piena del suo neorealismo casalingo, la tenda chiusa per intero lungo l’unica finestra non aveva aperto alla luce del tramonto ma era di colore chiaro con del rosso e del giallo disegnati sopra. Eppure la felicità viveva comoda in un appartamento piccolo come il nostro. Dietro la tenda chiusa c’era il mare: un pò d’acqua per quando dal cielo non cadeva altro che polvere.
Era sdraiato sul divano di velluto porpora davanti al televisore acceso con me accanto. Spesso si girava dalla mia parte e mi baciava sulla guancia. Impazzivo di gioia quando mi lasciava poggiare la testa sul petto, tamponandomi il cuore che batteva all’impazzata; mi grattavo la tempia alla sua barbetta e gli lasciavo scivolare la mano sulla mia pancia, sotto il maglione, e un po’ più su lungo i contorni del seno. Mi sentiva respirare lentamente e contrarre i muscoli addominali. Le sue mani che mi passeggiano sulle cosce e le mie unghie che lo grattavano.
Se mi scappava da dentro un po’ di nulla, lui se ne accorgeva e mi guardava le dita cercando qualcosa e quel suo guardare mi portava la nostalgia del mare, del vento, delle nuvole. Volavo con lui, avvinghiata a lui.

ENTRA IL GIOVANE UOMO E ASCOLTA E LE PARLA:

• Che cos’hai dentro, adesso cucciolo mio?
• Niente…
• Io, invece, sono triste perché so che non resterai con me per sempre, un giorno ti stancherai di me. A chi mi chiede se mi resterai accanto per sempre io rispondo che non lo so. Ma tu, non lasciarmi mai sola. Giuralo!

SI SPENGONO LE LUCI DIVENTA TUTTO BUIO PER UN ATTIMO E AL RIACCENDERSI IL GIOVANE UOMO NON C’E’ PIU’

Potevano cancellare il resto che mi stava attorno, non esisteva nulla. Non mi serviva nulla. La mia mano se non fosse stato per il vetro sarebbe arrivata al suo viso. Quel vetro ce lo avevo messo io tra me e lui. Vedevo quella vetrina come una metafora della vita, triste e autolesionista e squallida. La mia vita. Chiara era brava a vantarsi di avere avuto e conosciuto. Chiara avevo quel modo di fare ingenuo e idiota, abbassare il tono di voce emettere un sorriso scostumato e smisurato. Tenere la sigaretta tra le dita come chi fumava per sembrare qualcun altro. Non fare in tempo ad inspirare del fumo e già buttarlo fuori senza una qualche simmetria tipica del fumatore. Tutto doveva apparire diverso da quello che era. Chiara una povera donna cresciuta in fretta con un rancore tumorale nell’anima, con le lacrime sempre vicine al contorno degli occhi. La rete delle ciglia non le fermava più, lasciava che si suicidassero che perdessero il sale mischiandosi al fondotinta del viso. 

SI SPENGONO LE LUCI ANCORA E AL RIACCENDERSI IL GIOVANE UOMO LE E’ ACCANTO E LE PARLA:


• Tu sei una donna libera Chiara, ti lascio libera di fare e pensare tutto non ti impongo nulla. Posso non condividere. A volte non condivido. Tu non mi lasci libero. Indaghi, ti imponi minacciando con il tuo fare ferito di non essere ancora capita e trattata male. Non sono libero di tornare a casa con qualcosa perché diventa inutile e superfluo. Mi ripeti tutto, rifai le stesse domande, non chiedi mai spiegazioni, contesti tutto. La mia sincerità ti getta nello sconforto, ti senti delusa e corri in qualche stanza lontana. Improvvisamente non hai più voglia di fare nulla, per te non sono più nulla. Divento il fantasma di uno dei tuoi ex amori o storie, devi gridare e piangere forte. Non posso avvicinarmi. Non me lo permetti. Prendi il telefono e chiami tua madre che è l’unica che ti ha sempre capita e mai ti ha rinfacciato qualcosa. Tua madre che ti ricorda che sei lontana da lei per stare vicino ad un uomo come tanti. Tua madre che ti ricorda che stare vicino a l’uomo che ami è un bel modo di ricominciare la propria vita. Tua madre che ti consola e allo stresso tempo ti imbottisce di dubbi. Tua madre ti manca. Tua madre è a cinque minuti di macchina da te.

SI SPENGONO LE LUCI E AL RIACCENDERSI LUI NON C’E’

Il mio stereo suonava, in quel buco di casa mia, la canzone che ascoltava sempre lui; era patetico ma come mi aveva insegnato sempre lui, portava magia quel brano musicale. “Open Arms” di Journey. Non sapevo neanche chi fosse quel cantante, ma forse sapevo poche cose ed era la sola verità. La verità era sola come chi la subiva. 
Rovistando tra le sue cose avevo trovato nella tasca di un vecchio giubbotto delle lettere. Il cuore mi era salito in gola perché erano i suoi segreti. Le avevo prese, toccate e cosa stupida ma da donna persino annusate e sapevano solo di polvere e conservato. Ne presi una a caso e la calligrafia parlava di amore e rimpianto. Cominciato a leggerla mi accorsi e mi pesò, di non saper scrivere lettere d’amore; non belle come quella che stavo leggendo. Lui aveva ragione, ancora lui, non sapevo fare molte cose ma il mio orgoglio mi incitava a crederlo; il mio carattere. Avrei dovuto trovarle prima quelle lettere per arrabbiarmi con lui e fare la gelosa e fare la donna che aveva paura di non essere tutto per il suo uomo che qualcun’altra fosse stata meglio più donna.
La scriveva Grazia. Chi era Grazia? Era bella? Intelligente? Faceva bene all’amore? baciava bene? Girava nuda per qualche casa anche lei per lui? Si era lasciata fotografare nuda anche lei?

Non riuscivo a staccare la mano dal vetro e il vetro si era appannato perché il calore della mia mano passava attraverso il guanto di lana. Mi sentivo una stupida, mi mentivo per non soffrire, non mentivo ad altri ma a me stessa. Per uno scherzo del destino una foto del nostro matrimonio un anno dopo era finita esposta in vetrina. Io però l’avevo fatta diventare un’altra: lui era solo ed era lì perché aveva avuto una storia con la fotografa che conoscevo bene. Sarei dovuta entrare dentro e gridare, piangere con la fotografa ma il dolore me lo impediva. La foto. Avevo un abito bianco semplice. Un po’ troppo trucco. Sorridevo soddisfatta. Lui era in abito scuro e gli brillavano gli occhi da dietro i vetri degli occhiali. Eravamo belli e fieri. Il nostro matrimonio era costato poco più di cinquemila euro, pochi invitati. I miei genitori si erano sposati allo stesso modo trent’anni prima. 
Se un qualcuno mi avesse spogliata, avrebbe trovato la fede appesa al crocifisso che portava al collo; non riuscivo a separarmene, mi sentivo nuda ed inutile senza. Era il mio vero cuore a ciondolarmi sul petto, tondo e di oro bianco con il suo nome inciso. Avevo deciso che per quella separazione prima o poi sarei morta, nonostante gli avessi ripetuto che se mi avesse lasciata non sarei stata più felice ma non sarei di certo morta: d’amore non si poteva morire. 
Io ero lì. Come ogni donna un dio di nulla. Come ogni donna un dio grazie all’amore di un uomo. Come ogni donna un dio perché certi uomini avevano fatto che lo fosse. Loro ci guardavano che eravamo pezzenti della vita apparente e ci trasformavano in principesse delle unghie smaltate.
Io ero lì, non la donna più bella del mondo. Una donna comune. Io l’avevo portato dentro me ed ero diventata una donna come poche. Era quella la verità.

Ero una donna cui bastava e basta un approccio semplice, un buffetto sulla guancia che quel qualcuno mi prendesse sotto braccio e mi riempisse di parole, di belle cose, di quello che mi farebbe, di dove mi porterebbe.




IL GIOVANE UOMO RIENTRA IN SCENA E LEI ALZANDOSI VA AD ABBRACCIARLO

• Non lasciarmi sola ti prego! Non sopravvivrei ho investito tutta me stessa in te. Non mi è rimasto niente altro…cerca di capirmi, non mi dai il tempo di riprendermi sono a pezzi mentalmente, tutte le emozioni dell’ultimo periodo mi hanno messo kappao. Sono stanca di stare male per colpa tua, vieni sempre prima tu ma io? Ho cercato di migliorare, ce l’ho messa tutta ma tu sei cambiato? 

LUI LE PARLA. SI PARLANO E SI ASCOLTANO

• …piangere non ti salverà Chiara. Ti ho implorata di non farmi la guerra di non farci la guerra che tanto quello che era lì fuori da noi in guerra lo era da tempo per altri motivi. Giudicale sciocchezze ma ti camminavo vicino con la paura che andassi in crisi perché stanca o perché non capivi una battuta. Avevo paura di te, ho paura di te. Non sei stata mai capace di litigare e lasciarti con un abbraccio o un sorriso tutto alle spalle, hai sempre esageratamente esasperato ogni stato d’animo. Ti arrabbi e non mi conosci più, non sono più nulla. Vengo a cercarti ma tu mi respingi. Chiamale sciocchezze ma non potevo tornare a casa con un cd musicale o un giocattolino qualunque perché tu non mi ripetessi che era inutile che avevamo altre spese. Essere liberi e sentirsi liberi a volte ti fa spendere qualche euro per cose inutili ma che sul momento ti dànno la sensazione che tutto possa essere diverso. Sei la persona più dolce del mondo ma te ne dimentichi e diventi la dura che deve contrastare ogni cosa. Non mi hai mai detto che qualsiasi cosa io facessi tu eri fiera di me. Mai. Avevo e ho solo un milione di “ti amo” al giorno. Sarebbe bastato e basterebbe un abbraccio, una carezza al giorno. Voglio scendere a prenderti nel tuo inferno ogni volta che ce n’è bisogno e poter rivedere la luce con te. La luce però dura poco tu hai bisogno del dolore per sentirti coccolata e protetta da chi sta vicino. Tu usi il dolore ed è straziante. Non capisci e mi dichiari guerra. Non mi chiedi spiegazioni, lotti con me al limite della tua lucidità solo per non sentirti trattata male. Ti senti trattata male se non ti si dà ragione, se una battuta arriva quando ti sei appena svegliata e hai bisogno di tempo per prendere coscienza, ti arrabbi se vado a prendere un caffè e ti lascio a letto un po’ più di tempo sola ad aspettarmi. La libertà muove l’amore e la vita. Tu non ne dai. Ho paura di te e te l’ho detto sempre perché tu mi aiutassi a vincerla. Non rinfacciarmi il dolore ne ho abbastanza di mio. Faccio fatica a trovare queste parole che da parole magari servono a poco ma provano a spiegarti. 

• Bravo! Quante parole, belle parole, ma per te non ne hai? Pensi sia facile starti accanto? Interpretare i tuoi silenzi… dover capire sempre gli scherzi della tua superba e suprema intelligenza… vuoi restare solo vero? Ti sei stancato della vita matrimoniale e vuoi scappare via… forse non ne hai le palle e aspetti che logora lo faccia io… bè, io sono stanca… sono io che ti lascio e me ne vado… vado da chi mi capisce sul serio e davvero mi vuole bene... 

• …l’hai voluto tu, poteva andare diversamente perchè prima di sfuriare di fare la dura di rinfacciare di minacciare con la tua fragilità… potevi fermarti, ammutolirti, tirarmi uno schiaffetto, mandarmi al diavolo e tornare ad abbracciarmi o a sorridermi. Hai sempre esasperato tutto sino alla paranoia. Farmi portare via un braccio farebbe meno male che andare via da te ma non ho altra scelta, io rivoglio la persona che è nascosta dentro te sotto chili di rancore e rabbia. Perdona al tuo passato quello che ti ha fatto. Perdona te stessa per quello che non avresti voluto essere. Muori oggi e rinasci una volta per tutte. Il tuo dolore oggi soltanto per l’ultima volta e dopo se capita piccoli dolori che passano in fretta senza cicatrici. Non ti chiedo di non soffrire, arrabbiarti o star male, ti chiedo solo di perdonare quando a farti star male sono io. Prendi tutto meno sul serio che si vive più felici. Io non ho colpe per il dolore che hai da parte nascosto dentro te. Non usarlo contro me. Ti prego!



LUI ESCE DI SCENA. LE LUCI SI SPENGONO, AL RIACCENDERSI LEI E’ DAVANTI LA VETRINA DEL NEGOZIO

Ero davanti la vetrina di un fotografo. Passavano veloci ed estranee le altre vite nei corpi di ogni fisicità, le macchine come scatolette del tonno nel supermercato della quotidianità. Seccava la mia felicità come saliva senza bocca. In un vetro riflesso c’era tutto tranne la mia vita. 
Il freddo e la pioggia mi avevano paralizzato il corpo. Piangevo. Sognavo di riaverlo davanti e dirgli ancora che non avevo mai avuto vita prima e che non ne avrei avuta una dopo senza lui che aldiavolo tutto quello che raccontavano sull’amore, io avevo bisogno di lui. Ero disperata e la disperazione mi aveva gettata nel panico. Le lacrime mi bruciavano. Tremavo. Sentivo un freddo glaciale stringermi stomaco e testa. Avevo paura di deglutire, temevo bruciasse. Il vuoto che partorivo dentro sarebbe diventato rassegnazione e avrebbe lasciato il posto a quel tipo di vuoto che mi rendeva catatonica. Non volevo piangere mai più e mai più volevo aver paura e mai più volevo sentire l’eco della mia voce che mi ritornava dentro le viscere. 

SI SPENGONO LE LUCI E RESTANO TALI.

Poi improvvisamente delle mani mi presero il braccio teso, della mano immobile al vetro. Qualcuno mi tirava a sé chiamandomi per nome. Potevo uscire dal dolore girandomi e seguendo quelle mani che mi afferravano o logorarmi. Lui avrebbe voluto che io mi lasciassi prendere e guidare alla luce. Sarebbe finito diversamente, non sarebbe finito nulla. Piangevo e tramavo come una bambina rimproverata e messa in castigo nella sua camera. Desideravo girarmi. Riuscii a mettere a fuoco chi mi tirava a sé e mi chiamava. Un lampo di gioia mi piegò le gambe. Era lui. Era lui. Era tornato a prendermi. Lo abbracciai forte, premetti con tutta me stessa sul suo petto, mi nascosi tra le sue braccia. Gli gridai di perdonarmi che non stavo più in piedi. Piansi talmente forte che mi si ruppe la voce e mi si frantumarono gli occhi che non vedevo nulla. 



• Portami dove non c’è il dolore, dove vuoi basta che tu sia la sola persona a vedermi piangere. Ti seguo, sono tua… voglio solo essere perdonata ma anche tu devi chiedermi perdono… mi hai dilaniata… mi hai lasciata sola… sola… ho vagato nelle fogne della vita… fuori è una fogna, avevi ragione tu… non lasciarmi più sola per favore…portami a casa e fammi addormentare con te accanto…

SI RIACCENDONO LE LUCI E UNA GUARDIA GIURATA E’ ACCANTOA CHIARA ASSIEME ALL’AMICA ROBERTA

• Signora! Signora sta bene? Sono una guardia giurata… le dispiace allontanarsi dalla vetrina e venire con me… se non sta bene le chiamo una ambulanza? Venga, si allontani dalla vetrina.

• Chiara? Chiara? Non ti avevo riconosciuta… scusami ho chiamato una guardia giurata! Stai bene? Sono Roberta… ero dentro il negozio e ti ho vista fuori… non ti senti bene? Vuoi entrare dentro? Cerchi qualcosa? Vuoi che chiami tua madre?

SI CHIUDE IL SIPARIO