RENATA

di

Paolo Musìo


Personaggi

Renata, 67 anni
Gino, 42 anni
Iris, 26 anni


Renata, sola

Renata
In questo purgatorio io, al centro del cortile, in piedi e mi fa male. Leggo la scadenza del latte sul cartone. Sto ferma lì tanto di quel tempo che quando alzo lo sguardo il cortile non lo riconosco più. E’ venuta un’ora che non conosco, un’ora che lì nel cortile fa le ombre diverse e sposta e nasconde le solite cose e cambia il cortile in un posto brutto e senza nome come me.
Quanto è brutto aspettare.

Gino, solo

Gino
Io sono Gino del bar. A Renata faccio da portinaio, ma soprattutto porto su da bere dal bar, siamo enoteca. Renata è un’amica, e una buona cliente. La solitudine è brutta. Quando le porto da bere mi trattengo sempre un po’ su da lei, cinque minuti, dieci minuti. Pure se non mi va faccio finta di non avere niente da fare, perché so che le fa piacere e a me non costa niente. Cinque minuti, dieci minuti, poi si capisce quando si è fatta l’ora. Renata lo capisce da come sto seduto, perché mi vede seduto tutto fuori dalla sedia, allora dice “Ciao, va’” e io vado. Pure a me un sacco di cose non stanno bene. A sentire Renata verrebbe da dire che a lei non sta mai bene niente, ma perché è generosa. Ha aiutato tanta gente. Insieme al marito, Pietro, e ad altri, per tanti anni ha gestito una cooperativa di servizi sociali. Hanno lavorato come matti per anni poi tutto è andato male. Non ci stavano più con i conti ed hanno dovuto chiudere. E Pietro ha accettato il primo lavoro che gli è capitato. Comunque, quando a Renata ed a me i discorsi prendono la mano ad un certo punto taglio corto e saluto mentre lei mi tratta male, che sembra che ce l’ha con me e invece ce l’ha con il governo, e corro giù al bar dove mi tratta male pure Mario quando arrivo tardi. Mario è il mio socio. Avere un socio non è sempre una bella cosa. Certe volte è come avere una palla al piede. Te la tiri dietro e ti chiedi com’è andata che te la sei messa tu da solo questa palla incatenata al piede. Renata fa da sola da quando il marito se n’è andato. Quello è stato un brutto momento. C’era aria di chiusura, qui dentro. Sembrava tutto finito. Ma non è stato così. Non è mai così, con le persone vive.


Renata, Gino

Renata
Gino, ho deciso. Io prendo il suo posto. Non se ne accorgeranno. Vado io a fare il suo lavoro. Mi metto la sua giacca e vado. Basta solo tenere occupata la sedia. Sedersi sulla sua sedia e basta. Che si veda che c’è qualcuno seduto sopra, un’ombra che fissa il vuoto, lui, intento a fingere di fare qualcosa, scrivere, leggere, spostare qualche foglio sul tavolo, neanche, non so. Entrare ed aspettare l’ora di andare via, questo.
Gino, da oggi, mio marito sono io.

Renata, sola

Renata
I tuoi passi nei miei passi
Un amore è un’avventura
non finisce con la morte.
Ti porto con me per le strade
della città che abbiamo amato
sei così leggero e sono io o sei tu
a posare lo sguardo
largo, luminoso, disperato,
ancora dopo tanto tempo stupito,
sulle piazze improvvise, le fontane
che insieme abbiamo amato
sei tu nel suono dei miei passi
tu che ti perdi
tra le ombre indaffarate e stanche
nell’ora del rientro serale,
nell’ingombro dei corpi sui marciapiedi
tu che svanisci
nell’evidenza del mio presente vuoto
tra identiche solitudini effimere
che la fretta consuma
ed io nella fatica del tuo passo
mi perdo con te.

Renata, Gino


Renata
Sto sempre solo da una parte, mi diceva a tavola la sera. Sempre solo e zitto faccia al muro, una cosa appoggiata da una parte, diceva. E anche: quanto durerà? Se c’era qualcosa da dire, se era successo qualcosa al lavoro te lo dicevo, diceva. Che per lungo tratto non succeda niente è normale, al lavoro come nella vita, che va avanti a strappi e così ogni tanto è calma piatta e ogni tanto succede qualcosa di bello o di brutto e c’è qualcosa da dire per me che parlo poco, diceva. Oggi un uccelletto si è posato sul davanzale della finestra, ha guardato dentro ed è volato via: ecco, questo è qualcosa che ti posso raccontare, Renata. Parlare per parlare è fatto per quelli che si annoiano. Ed anche ascoltare quelli annoiati che parlano è una cosa noiosa che fanno quelli che si annoiano, diceva. Discutere è tutt’altro e lo sai bene. Stare zitto a fare niente, questo mi piace, adesso. Pensare bianco, pensare come penserebbe il muro bianco davanti al tavolo dove lavoro se potesse pensare guardandomi seduto lì a fare niente. Tutto bianco, il muro, il mio pensiero, il tempo. Tu non sai stare ferma un minuto, seduta su una sedia. Ti senti male, Renata. Ecco i disastri del nostro tempo, Pietro, dicevo io: un uomo come te, seduto ad un tavolo, a pensare bianco.


Renata, Gino


Renata
Sapevi di non essere solo. Tu non te lo ricordi perché sei giovane.

Gino
Giovane no.

Renata
Giovane no, ma non abbastanza vecchio per aver vissuto quegli anni appassionanti di partecipazione, di lotta, anni duri di scontro in cui si era solidali, tra lavoratori, compatti, mai soli, perché in gioco non era il piccolo interesse corporativo, ma il destino di una classe e di un sistema di valori. Si trattava in tutto e per tutto di un corpo, una cosa viva, fatta di persone e di idee, in marcia, e in qualsiasi occasione tenevamo sempre presente il riferimento a quel sistema di valori, a quel corpo cui sentivamo di appartenere, la cui storia ci apparteneva, era la nostra, quel corpo del cui destino si trattava come del nostro e che sarebbe stato irrimediabilmente danneggiato, compromesso dalla rinuncia dopo tante battaglie, a questo o quel diritto in nome di chissà quali responsabilità di fronte agli andamenti economici o per amor di patria. Non cedevamo ai ricatti e le alleanze venivano fatte sulla base delle idee, non erano solo cartelli elettorali, messi insieme alla meno peggio su casuali convergenze di comodo da rinnegare con la stessa leggerezza con cui erano stati formati.
Adesso dicono che eravamo ciechi.
(Silenzio)
Devi andare? Ciao.


Renata, sola


Renata
Una fatica inutile, aggiustare i tuoi vestiti su di me. Nessuno fa caso a me. Ma è meglio essere prudenti. Come mi sta? E’ consumato. Qui dietro, a star sempre seduto. E sui gomiti. Le tasche sono tutte sformate, piene, guarda qui.
No, Pietro, non ti guardo nelle tasche, questo no. (Pausa) No.
(Cammina su e giù con il vestito del marito, con le tasche gonfie, tintinnanti e fruscianti, fuma come lui, cerca il suo modo di fare, si siede, si alza, ecc.)
Esiste un uomo se nessuno lo guarda?
(Silenzio)
Come hai fatto a sopportare per tanto tempo quell’indifferenza così disarmante, quell’inimicizia debole, diminuita, stitica, inespressa per avarizia, per non prendersi il fastidio di calcolarti in vita, è come sostenere un assedio al contrario, con il nemico che si allontana dalla città, tutti i giorni si rimanda uno scontro e lo stomaco si rigira. Noi abbiamo amato la lotta, la lotta era una forma d’amore, noi abbiamo amato noi stessi nella lotta e ci siamo riconosciuti, che amarezza, Pietro, vedere ogni giorno persone tristi che si fanno il reciproco dispetto di non ammettersi tra i vivi, non salutarsi, non un sorriso, niente, non esisti, peggio esisti solo come ostacolo, impedimento, gli uni per gli altri nient’altro che corpi, a occupare ascensori, corpi in fila alla cassa del bar, davanti e dietro di te, stanchi, come morti, annoiati, nervosi alla mensa e giù in strada, ammassati negli autobus verso le case.
Non era questo che volevamo noi, per noi stessi e per gli altri, non era solo una casa, che volevamo noi, Pietro, non era la casa, ma un mondo nuovo dove vivere liberi, non era la sicurezza della casa ma nutrire la febbre che avevamo in comune e che ci mandava in giro, non soli, come questi disperati, ma in tanti, a condividere quella febbre con altri, un azzardo quotidiano, una scommessa, aprirsi la strada tra i pensieri grigi condivisi da tutti. Io ti ho amato sotto quel cielo. Come faccio ora ad adattarmi, come hai fatto tu, per necessità, certo, a questo purgatorio infame? Dove hai nascosto la tua rabbia, Pietro? Pietro?


Renata, Gino


Renata
Partecipo alla vita segreta delle piante, diceva. Smetto quasi di respirare ed ascolto il tempo che scorre attraverso di me, lentissimo, bevo la luce, sono un albero secolare dalle radici profonde, sono alto e forte, sono tutto presente e vivo e silenzioso, bello, ascolto il fluire della linfa dentro di me, non guardarmi come se fossi pazzo, diceva.


Renata, Gino


Renata
Gino, devo stare più attenta. Ieri ho dimenticato di togliere l’anello e quando me ne sono accorta non veniva via, ho le mani gonfie, fa caldo lì e mi si gonfiano le mani. Aveva ragione Pietro, io mi sento male a stare tutto il tempo seduta, devo muovermi meno, ma come si fa? Io guardo il muro bianco e mi viene da urlare. La cravatta mi soffoca, sudo e mi tremano le mani. Ancora adesso, guarda. Non riesco a piangere. Bevo il caffè, trascorro il tempo in quell’ufficio triste e sento che muoio e insieme sopravvivo a questo mio lento morire, per esserne testimone, si direbbe, come sotto tortura. Io guardo il muro bianco, do le spalle alla grande sala ed ascolto il brusio indistinto che il lavoro produce alle mie spalle. E’ come un’acqua morta in cui siamo sospesi, una palude di respiri, ticchettii, telefoni, frusciare di giacche e piccoli colpi di tosse e scherzi stupidi a mezza voce e infinite conversazioni sul tempo. Poi succede una cosa nuova. Sorge segreta, inaspettata dentro di me. E’ un’onda, un’onda che nasce da quella mortificazione quotidiana, e mi porta via, allucinata, un’onda di maremoto che travolge tutto.
E’ il canto delle balene, Gino. Sale dal fondo delle gole beneducate, dai recessi dei corpi nella costrizione degli abiti, dalle schiene nervose. Da quell’inquietudine stordita dalla noia e dall’abitudine io mi figuro che possa salire il canto straziato delle balene, lì in quella grande sala, tra le scrivanie, davanti agli schermi grigi, per noi chiusi là dentro io mi figuro quel canto come sola lingua possibile fra esseri perduti in un oceano di solitudine, una musica di gemiti e muggiti di struggente dolcezza, richiami d’amore, richieste d’aiuto, lancinanti segnali di morte e di abbandono, tra sconosciuti, da enormi distanze, da corpi appena sbozzati dalla natura, che si cercano, incompiuti, voci potenti, inarticolate, esseri dotati di energia, vitalità, adatti a sfidare il freddo, il buio, destinati a vagare senza fine.


Gino, solo


Gino
Di quello scambio minimo, parlo, quello per cui io ti ascolto e ti faccio capire con gli occhi o con la testa che ti seguo nel tuo ragionamento e magari poi tu finisci di parlare perché non ti viene più niente da dire, perché hai fatto tutto il giro, in un certo senso, delle cose che volevi dire e io mi aggancio ad una cosa che hai detto tu, che mi è rimasta, e comincio a parlare io e vediamo un po’ dove andiamo a parare.
Tu la vedi la gente che ha questo gusto per la conversazione –che dicono si stia perdendo, ma io ne vedo ancora di questi che conversano e si spalleggiano nelle conversazioni quasi fino al traguardo della sera e di solito si scelgono già prima di sedersi così da non dover fare troppa fatica una volta seduti al tavolo per convincersi l’un l’altro da posizioni troppo distanti o umori troppo diversi quel giorno al bar. Ad uno di buonumore gli secca doversi tenere o vergognarsi perché ride con un altro che ha appena perso tutto ai cavalli per l’ennesima volta e non sa come uscirne e quel giorno va a conversare con qualcun altro due tavoli più in là. Così certo ciascuno più o meno scopre sempre quello che già sa, ma tutto questo è naturale e umano.
E io credo che bisogna credere che tutto questo conversare fitto fitto che non va da nessuna parte invece da qualche parte va. Tutto insieme è fatto di voci umane che scambiano anche dietro alle parole informazioni sullo stato della nazione, sui sentimenti che attraversano il tempo presente della nostra società di persone umane che ce la fanno più o meno a vivere insieme e ciascuno per conto suo.
Io credo che bisogna ascoltare le voci che si parlano fitto fitto e guardare il modo in cui le persone si ascoltano, per sapere veramente come vanno le cose e farsi un’idea propria, che pure se somiglia a quella che hai sentito dire pensata da un altro pure viene da te e la puoi raccontare.


Renata, distesa sul letto, sola


Renata
Dovrei lasciarti perché con te mi sento più sola di quando sono sola. Perché non capisco a cosa ti immoli, perché sembra che ti immoli, ti sacrifichi, in realtà marcisci senza opporre resistenza. C’erano giorni in cui pensavo: attento, così sprechi il mio amore ma non dicevo niente e per un po’ lasciavo che sprecassi la mia vita. C’erano giorni in cui mi sentivo una cosa che ti fosse capitata per le mani nel momento sbagliato, ti vedevo girare nel labirinto dei tuoi affetti senza sapere dove posarmi, che fartene di me. E’ capitato a te, è capitato a me. C’erano giorni in cui mi fuggivi come se puzzassi e tu non sapessi dirmelo, come se ti fosse impossibile starmi vicino e allora a me cadeva tutto dalle mani e mi ferivo tagliando il pane e sbattevo qua e là gli stinchi come se non conoscessi la casa e inciampavo nei tappeti come se non sapessi chi li aveva messi lì. Dovrei lasciarti perché accetti l’umiliazione di questo lavoro finto. Nessuno ha bisogno di te. Quanto durerà? Sento che se durasse ancora a lungo finirei anch’io per convincermi di non aver bisogno di te. Sento che perdo terreno con te, perché ti sottrai alla vita.
Perché esiti? Licenziati. Troveremo una soluzione. Sei bravo con le piante. Sei bravo con le parole. Io voglio un uomo. Un uomo è un braccio potente in azione. Tu puoi soffocare le mie paure con un gesto deciso, inondami, lìberati, liberami dal peso dei giorni, diménticati, abbandònati, abbandona il tuo petto sul mio petto, piangi, ridi, urla, fotti, non cedere al sonno, ma sogna questo presente duro, occhi aperti a sfidare il vuoto che ci si para davanti, Pietro, armato della tua disperazione, non mollare, non andare via, non mi lasciare.


Renata, vestita da uomo, Iris


Iris
Sono venuta a salutarti. Qualcosa non va? Hai l’aria di uno che non sa dove si trova. Sei sicuro che questa sia casa tua? (Ride) L’ombrello rosso l’ho perso. Io perdo le cose, te l’avevo detto. Bello, qui. Sembra di stare su una nave in mare aperto. Stai male? Forse non è stata una buona idea, venire da te, non mi guardi nemmeno. Sei cambiato da un giorno all’altro. E’ per quello che ti ho detto? L’ultima volta che abbiamo parlato pioveva forte e tu ridevi come un ragazzo. Oggi c’è il sole e tu non dici una parola. Bene. Grazie e scusa per l’ombrello. Ciao.


Renata, Iris


Iris
(Canticchia il motivo del disco di attesa del centralino della ditta)
Mi inviti a casa tua e poi non dici una parola. Mi sembra di dover ricominciare da zero, con te. E’ una cosa che non sopporto. (Canticchia) Io sono pigra. Qui, con te, c’è troppo lavoro da fare. Sono stanca. Passo tutto il giorno al telefono. Il silenzio all’altro capo del filo è una cosa che non sopporto. Può esserci chiunque: un demente, uno con i pantaloni slacciati, o nessuno. Io parlo. Dove finiscono le mie parole? (Canticchia)


Renata, Gino


Renata
Adesso io parlo con la ragazza che lavora al centralino e le spiego tutto, Gino, è una cara ragazza, devastata come tante, ma non completamente persa, ancora una persona, una che ringrazia e chiede scusa, l’unica là dentro con cui parlava Pietro. Lei vuole parlare con Pietro, Gino, a me gira la testa, non so cosa dire, a quella ragazza piace Pietro e non sa nulla ed io non so nulla di lei, parlavano, questo è stato subito chiaro ed io no, io non ci parlavo perché non sapevo di lei, di questa ragazza del centralino e così lei è venuta qui, capisci?, non so neanche come si chiama, a chiedere a Pietro che cosa è successo, perché non si parlano più.
(S’ interrompe)
Gino, ci sono cose che non voglio sapere, Pietro è morto.

Renata, Iris


Iris
Da quando hai smesso di parlarmi mi sono accorta di quanto sei importante per me. Io non voglio rinunciare a vederti. Le cose che ho detto a te non le ho dette a nessun altro, mai. Io mi fido di te. Aspetterò. Mi mancano i tuoi consigli, il tuo modo di guardarti attorno, le cose che sai solo tu e ogni tanto vengono fuori quando parliamo, cos’è la cocciniglia, cose così. Mi manchi, Pietro, non ti spaventare. (Renata ha un sussulto) Ridi? Ieri sera ho visto una pianta strana in mezzo ad un’aiuola spartitraffico, ti spiego dov’è, mi devi dire come si chiama. Sembra una parrucca anni settanta. Erano tornate di moda, poi sono di nuovo passate. (Canticchia)


Renata, Gino


Renata
Gino, basta niente e tutto gira su se stesso e mostra un volto mai visto e c’è bisogno di coraggio per sostenere gli sguardi ed uscire di casa e sapere che dire quando sei straniero nella tua vita di sempre e vorresti forse andare via e lasciare ogni cosa dove sta tranne te che esci e sparisci da quel paesaggio cambiato per sempre e ne trovi uno nuovo e muori per quello che eri e per quello che sei si vedrà.

Iris, sola


Una voce sussurra le sue scuse, sconosciuti entrano nella mia vita e subito spariscono ed io per loro, siamo un pensiero improvviso nella mente universale, mi dico, un pensiero scemo. (Canticchia) “Sì, attenda in linea, prego, le passo l’ufficio contabilità.”


Gino, solo


Gino
Io voglio dire una cosa. Nessuno sa con chi ha a che fare. La stessa cosa, vista da più punti non è affatto la stessa, questo è un insegnamento per la democrazia, qualcosa di cui tener conto in ogni momento, ma è difficile, molto difficile, perché su questo principio sembra davvero difficile costruire e molto coraggioso e faticoso costruire un amore, uno stato, qualcosa di ambizioso nei confronti del tempo, della durata.
Nessuno è perfetto ed io lo so che se Mario, il mio socio, insiste a dire che sarebbe giusto spostare i tavoli in modo che ciascuno si faccia i fatti suoi e non tutti quelli di tutti, come ora, io lo so che se insiste una sedia gliela tiro, prima o poi.
E’ necessaria una grande generosità ed autocontrollo, per ascoltare le ragioni degli altri, che derivano da innumerevoli cause, il carattere, l’educazione, le esperienze passate, dobbiamo ascoltare noi stessi ancor prima che gli altri, per saggiare la profondità delle nostre convinzioni, che guidano la nostra azione nel mondo, per riconoscerci davvero nelle nostre scelte e non trovarci a guardare un giorno dietro di noi a ciò che abbiamo fatto come all’opera di un altro.
Ma per quanti sforzi facciamo nessuno sa con chi ha a che fare a partire da se stesso e tutti prendono la parola per dire di sé io sono fatto così, ognuno diverso e speciale ed ignoto a se stesso ed agli altri nella sua unicità riprodotta nella massa fino alla nausea e questa incertezza si riflette senz’altro su qualunque agire politico, rendendo difficile accogliere la complessità ed aprendo la strada ad ogni semplificazione, ad ogni finzione.
E a ben vedere è appassionante e portentoso che partendo da questi presupposti di totale incertezza esistano pur sempre, e sempre nuovi ne vengano fondati, amori e stati, tenuti insieme in modo da sfidare l’anarchia sul suo stesso terreno, a dispetto di ogni logica, con configurazioni di potere sempre più basate su regole fittizie, che non tengono conto della complessità sempre più profondamente anarchica della vita individuale.
Questa divaricazione è il nuovo paesaggio politico: la forza ottundente della finzione sembra attualmente prevalere e lavorare in modo apparente per l’ordine, ma in realtà, come forza di distrazione, procura un ritardo sul riconoscimento delle spinte anarchiche profonde. Lasciate libere esse continuano ad agire e moltiplicarsi.


Renata, Iris


Renata
Io non sono Pietro

Iris
Chi sei?

Renata
Sono Renata

Iris
E Pietro?

Renata
E’ morto.

Iris
Un bicchiere d’acqua, per favore.

Renata
Sì.

(Le porta un bicchiere d’acqua. Iris beve)

Iris
Da quanto tempo parlo con te? Invece che con Pietro, intendo.

Renata
Non preoccuparti.

Iris
Non mi preoccupo. Faccio la centralinista. Capita che qualcuno sbagli interno. Chi si fa passare l’interno sbagliato spiega il suo caso alla persona sbagliata, ha sprecato il suo tempo, energia, a volte sono casi tragici. Adesso sono stanca.

Renata
Mi dispiace

Iris
Perché non hai detto niente? Cosa volevi sentire? Mi hai spiata.

Renata
Non sapevo come dirtelo

Iris
Hai visto? E’ stato facile.

Renata
Avevo paura che mi denunciassi, che mi facessi cacciare.

Iris
Ora non hai più paura?

Renata
Devo averne?

Iris
Come è morto?

Renata
Come una mosca rimasta chiusa in un appartamento vuoto. Una specie di consunzione, di annichilimento.

Iris
Strano.

Renata
Perché?

Iris
Non corrisponde.

Renata
Capisco. Infarto. E’ stato un infarto. Ecco. Da qualche tempo tengo nascosta la sua morte alla ditta.

Iris
L’hai fatto per il lavoro.

Renata
Non so più perché.

Iris
Dov’è, ora?

Renata
In quel posacenere.


Renata, sola


Renata
Tu stavi cominciando un nuovo cammino. Io devo capire. Tu parlavi con la centralinista. Ti stavi attrezzando per non essere lasciato indietro, per non restare a combattere da solo, come un giapponese nella giungla. Che lotta combattevi di cui non potessi dividere con te le strategie, i giorni? Avevi paura di me, di discutere con me. Io ero il peso che ti avrebbe riportato indietro, impedito il nuovo viaggio, io l’identità in crisi nel fallimento generale, noi due, faccia a faccia una sera dopo l’altra alle prese con gli scenari futuri, ce ne vuole di coraggio, i nostri sforzi hanno raccolto così poco, così poco da renderci odiosi a noi stessi nei momenti di sfiducia, ma cessare di sperare non era da te. Tu parlavi con la ragazza. Notizie dal mondo, inaspettate risorse, tener testa ad una giovane donna, un mondo nuovo con regole nuove, altre solitudini, tutto diverso, noi con un mondo da inventare sulle macerie della guerra, questi devastati dentro, menomati nel sogno, ma il mostro da vicino fa meno paura, non è così?, anzi non ne fa nessuna e tu come sempre a cercar di capire o forse volevi solo baciarla.


Renata, Iris


Iris
Noi parlavamo e le parole facevano lo spazio in cui stare. Uno spazio diverso da quello in cui eravamo, Capisci? Veniva una parola che portava con sé lo spazio nuovo e subito noi facevamo silenzio, perché la parola potesse allargarsi dentro di noi, fare il suo lavoro, diceva Pietro. Stavamo zitti ad aspettare, ad ascoltare una parola, non so, deserto o jacuzzi. Un giorno Pietro ha detto deserto, che il deserto veniva avanti verso di noi, e subito abbiamo avuto sete.

Renata
Come ti chiami?

Iris
Iris. E’ un fiore, mi dicono.

Renata
Un fiore blu.

(Pausa)

Iris
Come uomo non sei male. Ho delle amiche che potrebbero darti dei consigli. Lo dicevo a Pietro ed ora lo dico a te: hai bisogno di un vestito nuovo.

Renata
No. Questo va bene.

Iris
Guardati le tasche, scoppiano.

Renata
E’ tutta roba di Pietro. Io non tocco niente.

Iris
Porti in giro tutto il giorno la sua giacca. Come fai a resistere alla curiosità di guardargli nelle tasche?

Resisto
Resisto. La giacca la metto per andare a lavorare. La notte dopo il funerale ho dormito con questa giacca, la cravatta e il resto. Al mattino ero pronta e sono andata a lavorare al posto suo. Finora nessuno si è accorto della sostituzione.

Iris
E se se ne sono accorti non gliene importa niente. Nessuno fa caso a nessuno. Meglio. Pietro sembrava fatto per non essere notato. Ho bevuto troppo tè.

Renata
Eppure tu l’hai notato.

Iris
Faccio sempre la stessa strada per andare a lavorare. Sul viadotto c’è la fila ed io guardo le case, sono sempre le stesse. Un giorno vedo una casa che mi sembra di non aver mai visto prima. Ecco, con Pietro è stato così. Interessante o no, era nuovo ed era lì da chissà quanto tempo. Abbiamo cominciato a parlare. Lui sapeva tutto, io niente e questo ci metteva allegria. Parlare con te è guardare in un baratro, diceva. E ridevamo. Io ci guardo, nei baratri e mi piace se mi gira la testa. Ma questo non ti interessa, vero?


Renata, Iris


Iris
Che stavi bene con lui, insomma, che hai vissuto con lui la stagione bella della vita, la stessa visione del mondo. Ma è stato davvero così? Pietro era contento, ora, come se prima non lo fosse mai stato.

Renata
Non essere contento era il suo modo di sentirsi vivo.

Iris
Questo lo dici tu. Lo dici tu di te stessa per prima e per questo ti sembra di poterlo dire anche per lui.

Renata
Ma io lo so. A noi il vento di quegli anni faceva tirare la pelle sulla faccia e ci sentivamo vivi senza bisogno di saperci contenti, di cosa poi?, tu non ne sai niente e parli, altro che essere contento, ridotto a fare questo lavoro da nulla, so io cosa provo ogni giorno, GIORNI PERDUTI, VITA CHE PASSA, ASPETTARE LA MORTE, tu sei giovane, anestetizzata, la tua solitudine neanche la vedi, dove sprofondi, sana, tutta trafitta, sei carina ma come morta senza mondo, scommetto che sei stitica, figlia di precariato diffuso vi hanno reso incapaci di pensiero, di progetto, futuro a tempo determinato il vostro, persi i diritti, la coscienza dei diritti cancellata, perduta, ecco cosa resta, si sono resi la vita facile a spese vostre, non te ne sei ancora accorta, provo pena per te, rabbia, tanta rabbia.


Gino, solo


Gino
Si può vivere in un mondo che si disprezza? Tra persone che si detestano? Questa non è più una lamentela. E’ la domanda cui rispondere, da cui dipende l’azione o la fuga, il futuro o il suicidio.
Integrarsi, isolarsi. Perdersi, ritrovarsi soli.


Renata, Gino


Gino
Noi non vogliamo vedere l’estraneità. Fa parte delle cose che non vogliamo vedere.

Renata
La mia vita, così com’è ora, è una fogna a cielo aperto. Credevo di aver già fatto tutti gli errori. Ho sbagliato ad entrare così nella sua vita. Non riconosco più nulla, né lui, né me. Ho distrutto tutto e non volevo. Andrò via di là, inizierò le pratiche per la liquidazione. Ho deciso di riprendere in mano la mia vita. Questo è il modo migliore per onorare il passato che io e Pietro abbiamo in comune. Quel posto è una fogna. La mancanza di prospettive uccide. Ha ucciso Pietro, farà lo stesso con me se non saprò reagire. Licenziandomi tiro fuori anche lui dalla palude. La fiducia è una. E’ politica, e richiede cuore e intelligenza. Ma tutto si sposta e cambia mentre viviamo e cerchiamo di capire e per capire fissiamo le cose che fisse non stanno mai e non capiamo in tempo, non ci accorgiamo in tempo che l’unica cosa che c’è da capire è il continuo mutamento, ecco, il continuo mutamento.
Devi tenerti pronto, Gino, tutto può sempre succedere.


Gino, solo


Gino
Se io apro il locale e i clienti non vengono e i vicini protestano, il giorno dopo lo chiudo. Se intorno a te gli altri non vogliono, tu non andrai mai da nessuna parte. E’ duro ammetterlo ma è così. Contro la volontà di quelli che ti circondano, che sono il mondo in cui ti muovi ed agisci, tu non avrai possibilità di fiorire. E questa constatazione invece di scoraggiarti, ti invita a guardare alla società umana con favore ed attenzione, perché a partire dalla tua collocazione in essa tu troverai la tua identità e costruirai il tuo destino. Una società sana ama i suoi figli e trova a ciascuno il suo posto nel mondo, perché è fatta per l’uomo, è fatta per la vita e vuole ed ama la vita, contro la morte, perché quella società sana esiste proprio al fine di metterlo in culo alla morte grazie ai suoi figli ed all’amore ed alla organizzazione della vita dei suoi figli, costruita in modo che la vita di ognuno fiorisca. E’ dunque necessario che la comunità ti accetti e riconosca e ti permetta di svolgere la tua attività, la tua azione e senta la tua presenza come utile e non ti lasci libero soltanto di suicidarti. Tu vuoi essere accettato, anche quando ti metti da parte perché non sei d’accordo o il tuo temperamento te lo impone o semplicemente ti piace così, ed è naturale che questo avvenga. Tu vuoi rappresentare comunque qualcosa, straniero tu vuoi che si dica di te che sei straniero, che è comunque meglio di niente, di quel niente che invece può capitarti di diventare da un giorno all’altro o nascere nessuno addirittura, senza possibilità di affermazione con l’avallo della collettività che ti esclude.


Iris. Gino


Iris
Che ci fai tu sempre qui dalla vecchia?

Gino
Le porto da bere. Tu?

Iris
Mi ha incastrata un’altra volta. Non ho saputo dire di no. Quella donna vuole ormai una cosa sola da me: occupare quanto più spazio possibile nella mia testa prima di morire. Io parlavo con Pietro, ora sono qui alle prese con la sua controfigura.

Gino
E’ una donna coraggiosa e se ti chiede di parlare con lei fai bene a farlo.

Iris
E’ amara. Ha creduto in cose che non ritrova più da nessuna parte. Sei mai stato a fare una passeggiata con lei? Si aggira per le strade come tra cumuli di macerie, lo capisci da come guarda la gente, che secondo lei si trascina senza accorgersene in mezzo alla devastazione. Io sono giovane, lavoro e chiedo di divertirmi e non mi sento scema per questo. Questi hanno vissuto sempre da un’altra parte rispetto al mondo com’è, che ne sanno, a forza di spostare l’orizzonte non sanno più dove stanno. Succede tutto nella loro testa e non li sfiora nemmeno l’idea che forse non sono stati così bravi se si ritrovano ad invecchiare così male, soli in mezzo alla catastrofe. Perché se erano così bravi allora cos’è successo, la lotta era impossibile o il modo era sbagliato, o il caso ha chiuso loro il passo, il momento giusto è passato, e se noi siamo quello che siamo è qualcosa che viene da loro che ci guasta all’origine, e non possono chiamarsi fuori, anche quelli che figli non ne hanno fatti, non li hanno voluti, se noi siamo quello che siamo è qualcosa nella generazione, nel passaggio di consegne, che non ha funzionato, nell’educazione. Pietro era diverso, ma di lui non parlo. Io non mi affeziono ai vecchi, perché poi muoiono.


Renata, sola


Renata
Nella conchiglia dell’orecchio non suona più la tua voce ruvida la sera arriva col vino che bevo da sola e cerco nel buio davanti a me all’altro capo del tavolo un gesto le poche parole nel respiro calmo un lampo negli occhi bastava a sapere: nessuno mi è stato mai così vicino, nessuno mai ti sarà più vicino di me.


Renata, vestita da uomo, nel deserto, sola



Renata
(Legge da vari foglietti che estrae dalle tasche della giacca)

Non sono d’accordo

Noi dobbiamo individuare il punto debole, la crepa strutturale che ci permetta con la massima economia di mezzi di far crollare l’intero edificio di menzogne costruito intorno a noi per imprigionarci, neutralizzarci. Dopo il crollo dei sistemi ideologici del passato, noi per primi dobbiamo vanificare l’ulteriore costruzione di false realtà in cui vediamo ogni giorno perdersi le nostre coscienze, dobbiamo creare una rete che fornisca informazioni puntuali e suffragate da prove inconfutabili sui raggiri che ogni giorno vengono posti in essere a nostro danno. L’immensa campagna pubblicitaria in atto lavora alla polverizzazione, alla nebulizzazione della forza di contrapposizione, noi dobbiamo agire in questo nuovo scenario di solitudini

Ed io non mi curo d’esser stato messo da parte se per ciascuno il proprio tempo non sempre corrisponde al tempo di essere compresi, o a quello in cui ha vissuto, la solitudine è un peso leggero per chi la affronta con la mente limpida e senza tradire se stesso e le proprie convinzioni. Solo, ora capisco la fretta: non ci saranno infinite occasioni per raccontare il cielo che ho visto quando ero forte e vivo e andavo per le strade, quand’ero un uomo del mio tempo

Schema di potatura dell’olivo 4

Impedire ai gatti di farsi le unghie sul tronco della fejoa già sofferente

Nonostante gli sforzi fatti fino ad oggi mi accorgo che si fa sempre più strada e si consolida, proprio tra gli strati più poveri della società, l’idea che gli uomini non siano affatto tutti uguali, non degni di godere delle stesse opportunità. E’ spettrale vedere come la povertà torni ad essere considerata da molti come un tratto del destino di esseri umani inferiori e che a causa di questo rovesciamento, ciò che non ne è che un effetto divenga causa di politiche di emarginazione e sfruttamento.

Pagare Gino

Pensavamo che la democrazia creasse un’atmosfera di libertà, di discussione, di dialettica, di perseguimento della verità. Il diritto, il classico diritto alla vita, alla libertà. Democrazia come diritto di appartenere ad una minoranza e non venire soppressi.

Rivoluzione permanente

6687589 o 5?

il mio cervello se lo ciuccia una zanzara

Sorprendenti bulbi. Li pianti e li dimentichi. Poi, quando meno te l’aspetti, ecco il fiore.

Ossessione del sorriso

Tutti insieme chi?

Rinnovare passaporto Renata

Chiedere ad Iris che fine ha fatto l’ombrello rosso

Quelli pagati per pensare, quelli pagati per fare, i disoccupati.

La mia vita per una parola di speranza. Il futuro è un cuore giovane ed innamorato, un cuore avventuroso, il futuro, figlio di un cuore avventuroso, figlio di un cuore avventuroso

Gino, solo


Gino
Renata va nel deserto, con addosso la giacca di Pietro dalle tasche gonfie, ha con sé il posacenere, lo copre con la mano.
Nel deserto tutto uguale cerca il posto che le sembra più giusto, dritto davanti a sé sulla prossima duna davanti all’ultimo orizzonte. Renata lascia che il vento si porti via Pietro, le basta alzare la mano dal posacenere ed in un batter d’occhio non c’è più nulla.
Renata da sola nel deserto legge tutto quello che trova nelle tasche di Pietro. Renata legge e il vento le strappa i foglietti dalle mani. Legge controvento ad alta voce tutti quelli che riesce a trattenere.
Poi torna sui suoi passi ed in albergo scrive due cartoline: una ad Iris ed una a me. Sulle cartoline si vede il deserto e un grande cielo blu. Scrive che sta bene e che non sa quando torna. Mi chiede di dare acqua alle piante.