SETTIMO PIANO, INTERNO 22
di
Annalisa Rossi
Su una musica entra la Portiera canticchiando un po' stonata.
PORTIERA Undici più undici fa ventidue…
Si mette a sistemare una stanza, in penombra. Si volta all'improvviso e vede il
pubblico.
PORTIERA Ma… non mi direte che siete tutti qui per il 22? L'appartamento al
settimo piano…
Sono due anni quasi che sta sfitto. E ci credo, appena si viene a sapere tutta
la storia, se ne vanno via. E che io me ne sto zitta zitta, non entro nei
particolari e non ne aggiungo… di altri…
Di che sto parlando? Di quali altri particolari? Eh, troppe cose sarebbero da
raccontare sull'interno 22! Mi credereste? Non credo. Gli scettici sono sempre
di più e combattivi. Temono di sembrare stupidi o sciocchi, quindi confutano,
disputano, ridono con sarcasmo di quello che i creduloni, cioè quelli che vedono
ciò che loro non possono vedere, dicono e raccontano.
Però, però… tra pochi giorni andrò in pensione, finalmente. E quindi posso anche
rinunciare alla mia onorabilità da portiera seria e affidabile e… raccontare.
Sí, dire finalmente a tutti voi che le cose non succedono per caso, che ci sono
fatti misteriosi che solo chi è cieco nel cervello non vede. Io ne sono stata
testimone. Ed ora, visto che siete qui per affittare l'interno 22, stupiti che
un appartamento signorile in questa bella zona costi cosí poco, lascerò che voi
entriate nei miei ricordi. E non solo.
Vi lascerò guardare dal buco della serratura… e potrete vedere quello che io ho
potuto solo immaginare… (finisce di sistemare la stanza, ci sono pochi mobili
coperti da lenzuola bianche). Ecco, era proprio così dopo qualche giorno, quando
potei entrarci per pochi istanti. Ora aspettiamo. Il racconto sta per iniziare.
Musica!
Si siede poco fuori la scena. Si alza la luce sull'appartamento all'interno 22.
Appare Uomo. Si guarda lungamente in uno specchio facendo smorfie.Durante il suo
racconto interagirà con la Portiera, la quale però non gli rivolgerà mai la
parola.
UOMO Sono pallido. Bianco. Smorto.
E già.
Uhhhh… com'è profonda questa ruga!
Sono veramente brutto.
Bello non lo sono mai stato. Nemmeno da bambino.
D'altra parte è una fesseria che son tutti belli i bambini.
Forse simpatici. Forse.
Alcuni sono insopportabili, lagnosi. Noiosi.
Ecco, sì.
Io ero un bambino noioso. Lamentoso, a volte.
E decisamente non bello.
Ora sono migliorato.
L'età con le sue rughe ha reso interessante un volto del tutto anonimo, che in
realtà non si poteva definire brutto ma, appunto, “non bello”.
Per la mia mamma ero il suo topolino, con quei dentoni davanti che mi impedivano
persino di chiudere la bocca.
Poi mi portò dal dentista e, dopo cinque anni di ferretti e tiranti, il mio
aspetto era rientrato nella normalità.
Lasciando però inalterato il mio lagnosissimo carattere.
Fossi stato davvero brutto, orrendo, schifoso, ripugnante, stomachevole… invece
no.
All'estrema bruttezza, che attira sguardi perfidi, parole di derisione e
ipocrita compassione, corrisponde sempre un carattere che via via diviene più
tenace, forse cattivo, ma certo di rilievo, sempre pronto ad accettare sfide,
pronto a combattere.
Io, invece, ebbi per destino la mediocrità.
Divenni un artista della fuga, un genio dell'ovvietà, un tenace esploratore di
ogni sconosciuto anfratto nascosto allo sguardo della vita…
Eppure venni costretto, sin da bambino, ad imprese impossibili.
Ricordo ancora quando a scuola, nell'ora di ginnastica, dovetti salire la fune.
Lo feci, sudato e affannato.
Ma poi rimasi lì appeso per due ore.
L'orrore di quel vuoto sotto di me era ben peggiore delle risate di scherno dei
miei compagni e dell'ira dell'insegnante.
La reazione di quel mondo di umani a me estranei mi era del tutto indifferente.
Dovettero salire con una scala per farmi scendere e poi fu detto alla mia
famiglia che la cosa migliore era quella di esonerarmi dall'ora di educazione
fisica.
Che tragedia.
Ma quale tragedia! Nella mia vita mai una disgrazia, una catastrofe, un
banalissimo dramma, una qualunque sciagura, un minimo evento degno di una
intervista TV!
I miei genitori, entrambi morti.
Sì, ma… lo avessero fatto a quarant'anni, o prima ancora.
Mi avessero lasciato solo.
Una bella vita da orfano, le notti insonni insieme ad altri bambini abbandonati
in buie stanze, senza feste di compleanno e senza letterine a Babbo Natale.
Uscendo dalla triste infanzia avrei scritto un libro che sarebbe diventato un
best-seller.
Oppure avrei presenziato a tutti i talk-show delle TV commerciali.
O, più banalmente, sarei diventato un serial killer ed il mio processo sarebbe
stato considerato il processo del secolo.
Invece no.
Mamma e papà sono morti a novant'anni, nel loro letto, insieme.
Il medico di famiglia me lo aveva annunciato quindici anni prima, con
incredibile precisione scientifica.
Non sbagliò nemmeno l'ora, salvo pochi minuti.
La scienza… che magia!
Il funerale, come di norma. Pochi intimi. Qualche lacrima.
Erano quindici anni che ci si preparava all'evento, il tempo di attesa così
lungo ci permise una migliore gestione del dolore.
Direi… il suo azzeramento.
Mi lasciarono senza particolari difficoltà economiche, né povero né ricco.
Avevo il mio stipendio da funzionario di banca: quel luogo dove mio padre
spariva tutti i lunedì alle 8 e ne usciva, apparentemente vivo, alle 18 di ogni
venerdì. Ora ne ereditavo sedia, scrivania, penne a biro e la segretaria più
brutta e scontrosa che una moglie potesse desiderare.
Era arrivato il mio futuro.
Chi ha tempo, non perda tempo!
Credo si dicesse, una volta, alle ragazze da marito.
Con me le ragazze non persero molto del loro tempo.
Alle rare feste a cui partecipai mio malgrado, ero poco più di un soprammobile.
Ma non me ne curai mai.
Sapevo che prima o poi, comunque, inspiegabilmente, si trova sempre qualcuno con
cui dividere questa noiosissima esistenza.
Una noia divisa in due consente di sperare in rari momenti di illusorie
felicità, come finestre socchiuse su una luce appena accennata…
Fu lei a trovarmi.
Lei, Stefania.
Disse che cercava quiete, tranquillità.
E che le sembravo la persona giusta.
Confermai la sua impressione e mi risparmiai corteggiamento e fiori.
Il suo spirito pratico, unito ad una rarefatta passione, ci consentì un lungo
fidanzamento, nell'attesa che i miei genitori lasciassero questa vita terrena e
quindi la loro camera da letto.
Dopo la loro dipartita ristrutturammo casa e nemmeno questa fase, di solito
motivo di liti, causò tra noi fratture o tensioni.
E con mia soddisfazione cedette subito anche al mio imperativo categorico
principale: il posto della TV a schermo piatto era davanti al letto.
Iniziammo a convivere, nell'attesa che i suoi genitori, che abitavano lontani ed
erano malati, potessero prendere parte al nostro matrimonio.
Io non ebbi modo di conoscerli appunto per il loro stato di salute, per il quale
era preferibile, così mi fu detto da Stefania, evitare visite di estranei.
Offendermi? E perchè mai? La vista della malattia mi è assai sgradevole e
sarebbe stato imbarazzante svenire per l'odore dei farmaci.
Stefania sovente si assentava da casa anche per settimane per star loro accanto
e favorire così l'attesa guarigione, ma il tempo passava senza che si notassero
miglioramenti.
Fui preso, stranamente, da una improvvisa fretta e quindi, una sera, proposi a
Stefania di sposarci ugualmente, tra di noi, senza invitati di sorta.
E così, scoprii il suo inganno.
Con aria contrita mi rivelò che era già sposata.
Per quasi vent'anni mi aveva abilmente tenuto nascosto il suo precedente, e
coincidente, marito.
Marito che aveva uno dei suoi negozi di macelleria proprio all'angolo del mio
palazzo e l'altro in un paese vicino, dove dimorava insieme ai genitori di
Stefania.
Come immaginare una cosa simile?
Stefania era rigorosamente vegetariana!
Ed io anche, che mangiavo poca carne e ben cotta, per non sentire il dolciastro
odore del sangue, la acquistavo solo nei centri commerciali, laddove nella
moltitudine ci si può perdere e non si è costretti ad intrattenere colloqui con
chi si trova al banco.
Insomma: non ero mai entrato in quella macelleria ed ero così stato facilmente
raggirato.
Lo stordimento fu breve.
Pentita, Stefania mi propose comunque di continuare la nostra relazione come se
niente fosse cambiato.
E tutto sommato questa nuova condizione poteva avere i suoi vantaggi.
Arriva sempre il momento in cui la moglie di un bancario si prende un macellaio
per amante.
Nel nostro caso le parti potevano essere invertite con soddisfazione di tutti.
Ma durò poco.
Se come fidanzata e futura, molto futura sposa, Stefania non provava rimorsi,
ora che era ufficialmente la mia amante entrò in crisi di coscienza.
La rigida educazione religiosa le aveva plasmato il carattere indirizzandolo
verso l'immagine di una donna perbene.
E quando negli anni '70 si trovò comunque coinvolta in assemblee autogestite per
parlare del privato che era pubblico, ne comprese e fece suo il senso che più le
si adattava: ciò che si diceva di essere nel privato, era ciò che si doveva far
credere in pubblico.
Quindi, se il proprio privato era molteplice, variegate ma coerenti al privato
dovevano essere le immagini di se stessa da proporre agli altri. Sempre che
queste fossero assolutamente perbene.
Era forse perbene essere la mia amante?
Di certo no.
Era forse perbene essere la mia fidanzata?
Certo. Lo era nel privato quando io lo credevo e poteva esserlo anche quando con
lei pubblicamente andavo al cinema o si passeggiava per le strade.
Era forse perbene essere la mia fidanzata, quando il marito non ne sapeva nulla?
Assolutamente sì. Per lui era la moglie, per me una fidanzata, per nessuno era
un'amante e lei così con lui e con me, distintamente, poteva comportarsi
nell'intimità e con i rispettivi conoscenti sempre da donna perbene.
Ora che però uno dei due mondi entrava in conflitto con la sua personale idea di
coerenza, occorreva distruggerlo.
Mi risparmiai di dirle che tutto ciò si chiamava ipocrisia.
Non ero io la persona adatta per simili rimproveri.
Decidemmo che non ci saremo visti più.
Ma il caso volle che fu spostata la fermata dell'autobus che prendevo per andare
e tornare dalla banca. E fu posta proprio davanti alla macelleria.
Come potevo evitare di lanciare uno sguardo veloce a lei, che dopo il nostro
addio si era installata alla cassa del negozio?
Ogni sera, alle 19 in punto, scendevo dall'automezzo, alzavo per un istante la
testa, incrociavo i suoi occhi, mi giravo e tornavo a casa.
Quei suoi occhi sereni e quieti ora mi sembravano colmi di una passione mai
vista prima.
Quella sua bocca che ricordavo sempre atteggiata ad un pacato sorriso, ora mi
appariva spalancata a riversare risate e parole a clienti sconosciuti.
Non era la Stefania che aveva condiviso con me lunghe e noiosissime giornate,
svogliati e rari amplessi. Era una femmina in calore, anche il porgere lo
scontrino sembrava annuncio di chissà quali abbracci, quanti baci…
Nel mentre che aprivo il portone di casa, ogni sera, dopo quella vista quasi
oscena, sentivo il cuore battere a mille, e mi domandavo quale fosse stato il
reale dare ed avere della nostra storia.
E mentre ero sotto la doccia cercavo di togliermi di dosso l'odore del sangue
che usciva dalla macelleria e che veniva dalla sua carne, esposta agli sguardi
dei passanti.
La carne di Stefania.
Mi sento così debole.
L'energia, la determinazione, l'audacia non so nemmeno cosa siano.
Ricordo… ricordo una sera. L'autobus non arrivava mai e così decisi di tornare a
casa a piedi.
In una piccola stradina che presi per accorciare i tempi, mi capitò di
assistere, mio malgrado, ad una rissa. O meglio, un'aggressione.
Due brutti ceffi stavano malmenando un poverino con calci e pugni. Scapparono
velocemente via, mentre altri passanti chiamavano soccorsi.
Io ero lì, dietro un palo della luce, incapace di agire ed anche di poter
pensare di farlo.
Paura? Non esattamente.
Era come uno straniamento dalle faccende della vita, specie le più sgradevoli.
Un non coinvolgimento, senza ragionamento, senza alcuna premeditazione.
La sensazione era come quella che avevo davanti ad un film.
Un uomo, dentro lo schermo, sta rantolando.
Lo hanno picchiato, insultato, derubato.
Io sono qui, nella mia poltrona, e lo guardo. Ne ho pietà e mi dispiace tanto,
tantissimo.
Penso che quei bastardi meriterebbero una bella lezione e che lo Stato dovrebbe
punirli con fermezza.
Mi dico che le leggi sono troppo permissive, le pene lievi.
Che bisognerebbe usare il carcere duro. Mettere la pena di morte.
Sì, ci vorrebbe qualche bella impiccagione ogni tanto!
Ed in diretta TV.
Ma se il film fosse un altro?
Se dopo quei fotogrammi spaventosi le immagini ci mostrassero un diverso
antefatto?
Quell'uomo rantolante è un pedofilo sadico, un uomo ripugnante, raggiunto dai
parenti di un bambino oggetto delle sue perverse attenzioni.
Un uomo malvagio, infido che… sì… ora l'inquadratura ce lo mostra, sta fingendo
dolore, in realtà non lo stanno colpendo, solo insultando, vogliono fermarlo,
consegnarlo alla polizia.
Ma l'improvvido intervento dei soliti bravi cittadini, che non comprendono
l'accaduto, gli consentirà di fuggire e di compiere altri terribili crimini.
La vita è peggiore delle fiction.
In quelle puoi sapere la verità che nella realtà ci resta oscura, forse per
sempre.
E nel quotidiano possiamo prendere posizione ed agire, in perfetta buona fede,
sbagliando la mira o il bersaglio.
Meglio star fermi.
Immobili, senza respirare, nascosti dietro ad un palo.
Dicevo della vita, la mia vita…
In questa mia vita tranquilla, coi capelli ordinati, la barba rasata ogni
mattina, lo stesso profumo da trent'anni…
In questa mia vita, con i ricordi riposti in ordine dentro i cassetti e le
speranze rimaste nel loro cellophane…
In questa vita, un giorno giunse lui, l'uomo con la giacca a quadri.
Passeggiava con una donna giovane, ben vestita.
Troppo alta per lui e, direi, anche troppo bella.
Li seguivo da un po'. Senza volerlo, intendiamoci.
Semplicemente si camminava sugli stessi marciapiedi, loro avanti ed io appresso.
Sentivo il brusio del loro fitto chiacchiericcio, senza distinguere però
l'oggetto della loro conversazione.
Vedevo l'ancheggiare di lei sui tacchi vertiginosi, un dondolìo sottolineato
dalla mano di lui che, in maniera apparentemente casuale, la sfiorava, quasi per
darle la giusta direzione di marcia.
Lei non si scansava dal gesto di lui, ma sottolineava il suo piacere per tale
attenzione toccandosi spesso la lunga treccia che le scendeva sino al seno
abbondante.
Si fermarono ad un tratto ad un semaforo rosso.
Fui così messo nelle condizioni di capire qualche parola, senza sembrare
importuno.
E colsi quella frase di lui.
Banale, sciocca, ovvia. Anche retorica.
“Si muore ogni giorno un po', poi si sparisce per sempre”.
Lei rise.
I due attraversarono.
Ed io rimasi lì, con quella frase retorica, ovvia, sciocca, banale scritta su di
un cartello stradale davanti a me.
Attraversai e la rividi portata in spalle da un operaio.
Girai l'angolo e stava appesa al ramo di un albero.
Preso dal panico corsi verso casa, tallonato da quelle parole.
Pendevano da un balcone insieme ad una tovaglia a quadri, legate ad un
aereoplano che passava sopra la mia testa, scritte sul libro di uno studente
dall'aria distratta, dipinte sul sagrato della chiesa, ostentate al collo di una
vecchia e ricca signora…
Passai veloce davanti alla macelleria di Stefania senza nemmeno guardare dentro,
temendo di vederle anche lì.
Ed invece le trovai nella buca delle lettere, stampate sul volantino del nuovo
Centro Commerciale Gardenia.
Salii le scale di corsa, entrai in casa ed erano già lì, che mi aspettavano
sulla mia poltrona preferita, davanti alla vecchia televisione in bianco e nero
di mamma.
Le guardai, fissandole con l'intento di farle sparire.
Ma quando passai dalla loro forma di lettere in corsivo alla forma delle mie
mani, mi resi conto che qualcosa non andava.
Corsi davanti allo specchio. Davanti a me quel che restava della mia immagine.
Semitrasparente, irriconoscibile.
Stavo già sparendo!
Dopo anni passati a morire un po' ogni giorno, ancora pochi giorni, o forse ore,
e sarei scomparso, svanito nel nulla. Per sempre.
Chi se ne sarebbe accorto? Chi mi avrebbe cercato?
Forse la portiera, un vicino, un collega mandato qui dalla banca.
Sarebbero alla fine entrati.
Non trovando nulla. Tutto al suo posto, tranne il sottoscritto.
Mi avrebbero cercato, per un po'.
Poi avrebbero chiuso il caso, pensando ad una improbabile fuga d'amore, o ad una
perdita di memoria.
E se durante le indagini avessero scoperto di Stefania?
Lei dapprima avrebbe negato di conoscermi ma poi, alle strette, avrebbe ammesso
una qualche lontana frequentazione. Aggiungendo però che erano anni ormai che mi
intravedeva appena, e che ero sempre più sbiadito, scolorito nei suoi ricordi…
Mentre io, ora, stavo sbiadendo sul serio.
La coerenza di quella fine con la mia vita di ogni giorno, dalla nascita in poi,
era incredibile.
Mai un giorno mi ero sollevato dal niente.
Mai un'emozione aveva provocato in me un aumento di temperatura o un brivido di
freddo.
Forse con Stefania, forse…
No, nessuna tragedia, sciagura, dramma intimo o familiare.
Nel liquido amniotico quotidiano mantenevo in un equilibrio perfetto tutte le
mie molecole.
Battito di cuore sommerso dai rumori cittadini, non udivo il costante scemare
del suono della mia monotona voce…
Sguardo superficiale e distratto sull'incessante movimento umano, non vedevo il
mio progressivo ed inesorabile scolorare…
Stavo di certo impazzendo.
Sì, era così, la mia ragione era perduta, fuggita, forse non c'era mai stata ed
era solo sembrata, chissà.
Eppure… mi guardai ancora allo specchio ed anche i miei occhi erano cambiati.
Non più marroni ma, direi, gialli paglierino.
La mia ragione era intatta, il mio corpo no.
Caddi sul divano.
E quel corpo si compose sui cuscini come fosse già liquido e pronto di lì a poco
a divenir respiro.
La mia mente cercò di imporsi al disfacimento.
Dovevo abbandonarmi a quel destino? Lasciare che tutto finisse, anzi, svanisse?
L'estraneità di quei pensieri di rivolta, tanto lontani dalla mia indole, erano
senz'altro anch'essi sintomo della fine.
Evidentemente l'istinto di sopravvivenza faceva sentire anche in me la sua
biologica realtà.
Nonostante io fossi l'esempio più eclatante dell'uomo nuovo, Homo “non più”
Erectus, che tornava ad essere curvo su di sé, allergico al sentire, scostante
nei riguardi del Pensiero… l'ovvietà da simbolo a nuovo istinto della razza.
No, no, no! Non era così, non erano veri quei pensieri, l'essere umano esiste e
vive, solo io non avevo voluto, solo io pagavo il non esistere col non essere
mai esistito!
Dovevo fare qualcosa. Subito.
Un gesto, un'azione qualunque che scoperchiando la mia tomba potesse mostrare il
mio corpo.
Decomposto, con i vermi a lavorare con la giusta lentezza, ma ancora concreto,
materiale, così reale da costringere i convenuti a trattenere i conati di
vomito.
Prima di sparire, mi sarei ucciso.
Ecco, sì.
Preparai tutto nei minimi particolari.
Prima di tutto, chiamare Stefania. Le avrei detto del mio progetto di uccidermi
e lei, di certo, mi avrebbe scongiurato di non farlo.
Quando ti vuoi ammazzare o lo fai a sorpresa o devi ascoltare le implorazioni di
chi non vuole rimorsi.
Avrei lasciato la porta socchiusa, per consentirle di entrare alla chiusura del
negozio.
Sarebbe venuta certa di avermi convinto a desistere e per ricevere la mia
gratitudine.
Ma sarebbe stata diversa l'accoglienza, ben più terribile di un ex innamorato
tradito e riconoscente.
Sorrisi pensando all'effetto cromatico del mio cadavere bianco, con le labbra
cianotiche, sul divano nero al centro del salotto.
Se poi mi fossi tagliato le vene, quella striscia di rosso sul pavimento avrebbe
dato a quella mia ultima immagine nel mondo un tocco artistico indimenticabile.
Quante volte ci scordiamo di chi ci dichiarava piangendo il suo amore, ma ci
resta impresso in memoria il colore delle sue scarpe stinto dalle lacrime? Siamo
schiavi delle immagini, della nostra incapacità di andare oltre la decadente
estetica dell'apparenza.
Tant'è.
Nel momento prossimo alla fine non potevo certo cambiare l'esistente, semmai
sfruttarne i limiti a mio vantaggio.
Pensai per un attimo anche di scrivere due righe, una frase di rimprovero,
oppure una breve poesia in stile giapponese.
Ma scartai immediatamente l'idea.
La lettura è un piacere per pochi, e quindi avrei solo dato conferma ai
sopravvissuti che era morta una persona noiosa.
Se poi il biglietto fosse caduto in mani di intellettuali avrei pure corso il
rischio di essere ricordato come un idiota privo di cultura letteraria.
Meglio lasciare tutti nel rovello sui motivi e sugli eventuali istigatori della
scelta.
Le morti che non si dimenticano sono quelle senza perché.
Scelsi perciò la posa migliore sul divano e mi tagliai le vene.
La morte sarebbe sopraggiunta dolcissima, senza dolore, lasciando il mio viso
come in vita, seppur pallidissimo.
Ebbi tutto il tempo di immaginare l'espressione di stupore e dolore di Stefania,
di meraviglia dei vicini. Lessi con piacere i titoli sui giornali, i servizi
televisivi, i commenti nei social network.
Non sarei scomparso nel nulla.
Perfetti sconosciuti avrebbero dissertato e dibattuto su di me, sulla mia vita e
la mia morte, scoprendo, ormai a mia insaputa, che, tutto sommato, non ero poi
niente male da vivo.
I vicini vennero. In una processione silenziosa ed ordinata, con la portiera a
stabilire i tempi di permanenza, si affacciarono alla porta, stupiti, mentre la
polizia con efficienza eseguiva i rilievi.
Stefania entrò ma non si stupì troppo, o comunque non lo diede a vedere.
Mostrare i propri sentimenti in pubblico, per una ex amante, non è perbene.
Mi portarono via dopo poche ore, ma il sangue si era rappreso, ed io sembravo un
piatto di fettuccine al ragù dopo due giorni di frigo.
Ed in frigo finii. Lì sì. Nei giornali, in tv, nel web… no.
Mentre io dissanguavo, un'esplosione di gas fece crollare due palazzi al centro
della città.
Venti morti, quaranta feriti, ottanta sfollati.
La progressione geometrica di quelle cifre impedì comunque anche a quei morti di
avere la giusta e meritata fetta di popolarità, e di loro resterà, come per me,
solo qualche sbiadito ricordo.
I numeri, le quantità…
La storia è fatta di cifre, date, statistiche. E pochi nomi. Santi, eroi,
martiri, tiranni, rivoluzionari, salvatori di varie patrie.
Forse loro non hanno avuto bisogno di inventarsi all'ultimo minuto un senso per
la propria esistenza.
Io credevo di aver trovato quel senso, quella ragione, nella negazione
dell'esistere, nel nulla.
Quello stesso nulla era il filo invisibile che univa ogni istante della mia
vita, tagliato la sera dai programmi televisivi e cucito al mattino dai luoghi
comuni della gente comune.
La negazione definitiva del mio sé anche fisico doveva darmi l'immortalità
attraverso il ricordo e gli occhi degli altri.
Altri… sconosciuti, spettatori come me di vite altrui, non partecipi, distanti,
indifferenti, nati con l'unico scopo di essere pubblico, non pagante e
plaudente, delle vicende di quei pochi che, coraggiosi o solo fortunati, avevano
avuto per sé gioie e dolori da raccontare o mostrare.
Solo ora, ora che è troppo tardi, ho capito.
Ora che non posso che dirlo a me stesso, e nessuno mi ascolta, vedo la
soluzione.
Non può esserci una logica che spieghi quel che unisce noi con il mondo, l'uno
con gli altri…
Il paradosso della nostra esistenza è nell'essere irripetibili ed unici perciò
incomprensibili anche a noi stessi, perchè la logica è collettiva e non può
spiegare l'individuo e… e… ed ora… che che che… (inizia a piangere) le parole si
perdono, il senso svanisce, l'opportunità che avevo è perduta… ora… ora… sono
qui, (si avvicina la Portiera, che lo consola carezzandogli la testa) pallido,
bianco… ssssssss.. sssmorto.
Sarà la Portiera ad accompagnarlo in fondo alla scena, mentre nell'appartamento
ridiscende la penombra.
PORTIERA (venendo in proscenio) Pover'uomo, vero? Una storia insolita, una morte
senza senso… o no? Guardatevi intorno, ora, o la mattina mentre andate al
lavoro… chissà che non scopriate di essere circondati anche voi da esseri
scoloriti, sbiaditi, neutrali e neutri. Sempre che non vi accorgiate che anche
voi… (ride) Ma sí, ormai ci stiamo tutti trasformando in esseri senza cuore e
senza anima, costantemente tiepidi… Sono questi ultimi tempi che vanno cosí. E
chissà se ci si potrà far qualcosa. Mah. Io sono solo una portiera, non so
prevedere il futuro. Ma ricordo bene il passato. La storia dell'interno 22 è una
lunga storia. E sí. (rientra nella penombra della stanza, toglie le lenzuola,
modifica la disposizione dei mobili)
Ventidue anni prima… Eh… ero una bella signora allora, una splendida
quarantenne. Quando salivo qui al settimo piano per portare la posta, il signore
dell'interno 21, che viveva solo, si appostava dietro la porta e mi guardava
dallo spioncino… Come me ne accorgevo? Sentivo strani rantoli dietro la sua
porta… (ride piano) Si trasferí, dopo quel che accadde all'interno 22, all'alba
del 15 giugno del 1988. Non poteva più, disse, vivere in un luogo con cosí poco
decoro… (torna verso il proscenio e guarda con attenzione la stanza appena
sistemata) Sí… pressapoco credo fosse cosí, il loro salotto. Ora possono
entrare…
La Portiera, come prima, si accomoda fuori scena. Si vede una figura di donna su
una carrozzina entrare lentamente.Poi si alzano le luci su un salotto modesto.
Emma ora è appisolata sulla sua sedia a rotelle.
Marta entra a casa. È visibilmente agitata. Guarda la sorella con apprensione.
Emma, quasi sentendo su di sé lo sguardo, si risveglia.
EMMA Marta… sei tornata!
MARTA Sí. Tardi, purtroppo.
EMMA È già notte?
MARTA Non ancora. Ma è quasi ora di cena.
EMMA Che bello! Si mangia, allora. Ho una fame!
MARTA Non hai mangiato oggi a pranzo?
EMMA Sí… bè… poco. Celeste prepara sempre le stesse cose. Cucina come fossi
malata. Malata di stomaco, intendo.
MARTA Povera Celeste. Non vuole che ti ingrassi.
EMMA Lei non ha capito che anche se non mi muovo il mio cervello vola vola vola…
e consuma.
MARTA Dai, stasera cucino come se fosse festa.
EMMA Festa? Il mio compleanno è tra due giorni… già si comincia con la baldoria?
(ride, poi, improvvisamente, una smorfia di dolore)
MARTA Ripresi i dolori?
EMMA Solo un po'. Dopo cena prendo le medicine e passa.
MARTA Cavolo.
EMMA Che c'è, Marta?
MARTA Oggi al lavoro sono stata trattenuta per un problema e… mi sono
dimenticata di comprarle.
EMMA Ma come è possibile? Sono finite ieri, come farò stanotte a dormire?
MARTA Potresti prendere le altre, quelle che ti avevano prescritto all'ospedale.
Ce ne sono ancora tre, mi sembra.
EMMA Quelle erano troppo forti, lo sai bene che me le avevano tolte.
MARTA Mezza pastiglia?
EMMA Dovrei rischiare di morire perché sei smemorata?
MARTA Scusami Emma. Esco e vedo se trovo una farmacia ancora aperta.
EMMA Ormai sono tutte chiuse, lo sai.
MARTA Ci sono quelle notturne, provo a cercarne una.
EMMA Cosí resto ancora sola. E senza cena.
MARTA Emma, o esco a prenderti le medicine o sto qui a preparare la cena!
EMMA Non perdere la pazienza! Sono io che dovrei arrabbiarmi. Tutto il giorno ad
aspettare che torni e poi scopro che non mi pensi mai, che non ti importa nulla
se sto male e la notte non dormo.
MARTA Non è vero. Ti penso in continuazione, sono vent'anni che sei il mio primo
pensiero. Può anche capitare che mi dimentichi di qualcosa, sono un essere umano
anch'io!
EMMA Già. Un essere umano stanco. Un essere umano che non ce la fa più a stare
appresso ad un rudere lagnoso. Se vent'anni fa…
MARTA Cosa stai per dire, Emma?
EMMA Se vent'anni fa fossi morta anche io con mamma e papà…
MARTA Sarei rimasta sola io. E per sempre, Emma. Non avrei più avuto una
famiglia, ecco cosa sarebbe successo.
EMMA Però… però dimentichi le mie medicine.
MARTA Potrei farti il mio massaggio giapponese special.
EMMA Non sei brava a fare i massaggi.
MARTA Ma se l'ultima volta che te l'ho fatto ti sei addormentata come un bimbo!
EMMA Perché ero troppo stanca. Mi sarei addormentata anche sotto le ruote di un
carrarmato.
MARTA Emma, Emma…
EMMA (tossisce e si volta ancora imbronciata)
MARTA (con dolcezza) Tortellini con panna piselli e funghi?
EMMA (fa “no” con la testa)
MARTA Bucatini all'amatriciana?
EMMA Coi bucatini mi sporco tutta. Rigatoni. All'amatriciana.
MARTA Bene.
EMMA Con tanto pecorino. E pepe. E peperoncino.
MARTA O pepe o peperoncino.
EMMA Non voglio scegliere.
MARTA Va bene. Tutti e due, allora. Poi però non ti lamentare se pizzica troppo.
EMMA Non mi lamenterò.
MARTA Allora vado a preparare.
EMMA Aspetta! Prima di andare in cucina… mi metti il valzer di papà?
MARTA Non sai stare nemmeno un giorno senza, vero?
EMMA Perché, tu ci riesci?
MARTA Almeno ci provo. Papà non sarebbe contento di saperci ancora cosí…
”attaccate” ai ricordi. E nemmeno mamma lo sarebbe.
EMMA Da quando in qua sei diventata una medium?
MARTA Una medium?
EMMA Bè… sei cosí certa di sapere cosa vogliono per noi mamma e papà…
MARTA Sono certa che ci amavano. E chi ci ama non vuole la nostra sofferenza.
EMMA Io, quando sento la sua musica, sono felice, non soffro mica. Mi spiace che
a te faccia soffrire. Stasera è proprio una serataccia!
MARTA Hai ragione. Scusami. È che…
EMMA Cosa?
MARTA Niente, niente.
EMMA Il tuo capo stronzo?
MARTA (poco convinta) Sí… sí. Il mio capo. Vado a preparare la cena. Quando è
pronto ti chiamo.
Fa per uscire di scena
EMMA La musica!
Senza parlare Marta accende un registratore. Iniziano le note di un valzer
malinconico. Emma muove la carrozzina quasi volesse ballare.
Penombra. Poi la voce di Marta.
MARTA È pronto, Emma!
EMMA Arrivo! Fame fame fame!
Spegne il registratore ed esce. Penombra. Rientra Marta. Si siede sulla
poltrona. Si mette le mani sul viso, sconfortata. Poi, improvvisamente si alza e
va al telefono. Compone un numero.
MARTA (parlando a voce bassa) Sandro?
MARTA Lo so che non dovrei chiamare, ma… ho paura, sai?
MARTA Hai saputo di…
MARTA Va bene, scusami… ecco… era per il nostro appuntamento di domani per… quei
libri che mi avevi prestato, tutto qui.
MARTA Sí… sí. Al solito posto. Con i libri. Ciao.
Entra inaspettata Emma.
EMMA Marta…
MARTA Che ci fai ancora alzata?
EMMA E tu cosa ci facevi al telefono?
MARTA Ora mi controlli?
EMMA Marta, ma che dici? Non ti sto controllando. Sono solo preoccupata.
MARTA Non c'è niente di cui preoccuparsi.
EMMA Invece sí. Sei molto strana ultimamente, sorellina mia.
MARTA Ti sbagli.
EMMA Allora sei diventata matta.
MARTA Uffa!
EMMA Un uomo?
MARTA Cosa?
EMMA Dico… sei innamorata?
MARTA (ride con sarcasmo) Magari.
EMMA Quel Sandro…
MARTA Solo un amico. Ha dei problemi e… lo sto aiutando.
EMMA Non ti basto io da aiutare? Hai la sindrome della crocerossina, allora!
MARTA Può essere, chissà.
Silenzio
EMMA Non me la racconti giusta, sai?
MARTA Basta, per favore. Ora è tardi e…
EMMA Mai troppo tardi per aprire il cuore!
MARTA Nessun cuore da aprire. Nessun cuore innamorato.
EMMA Va bene. Sei sempre stata cosí, anche da piccola. Un riccio.
MARTA Ed invecchiando si peggiora, di solito.
EMMA Mica sei vecchia. Forse… solo da rottamare! (ride)
MARTA (sorridendo) Dai mattacchiona, andiamo a dormire, o tiro i miei aculei
arrugginiti!
EMMA Prima il massaggio special, ricordati!
MARTA E come no? Non vedo l'ora di stritolarti le ossa!
Ridono. Escono insieme di scena. Buio.
Non è ancora l'alba. Squilla il telefono. Marta arriva insonnolita e risponde.
MARTA Sí?
MARTA Dove?
MARTA Tutti?
MARTA Sanno anche di me, allora?
MARTA Bastardo…
MARTA È finita, Sandro. Finita. Tu vai se ci riesci. Io non posso. E non voglio.
Attacca. Da fuori scena, Emma.
EMMA Marta! Ma chi è a quest'ora?
Marta non risponde.
EMMA Marta!
Marta continua a non rispondere.
Arriva Emma.
EMMA Marta!
Marta ancora in silenzio, come impietrita.
EMMA Marta…
MARTA (come se si fosse risvegliata all'improvviso in quel momento) Tutto bene.
Tutto bene.
EMMA Tutto bene un corno! Sono le quattro!
MARTA Le quattro? Ah, già.
EMMA Ah, già?
MARTA Tutto bene. Tutto bene.
EMMA Sembri un disco rotto.
Marta resta in silenzio.
EMMA Ti prego. Dimmi cosa succede. Ti prego.
Dopo pochi istanti di silenzio:
MARTA Scusami, Emma. Perdonami.
EMMA (agitata) Di cosa devo perdonarti?
Marta non risponde.
EMMA (urlando) Di che cazzo di cosa devo perdonarti!
MARTA Non dire parolacce. E poi sono le quattro, svegli tutti.
EMMA Non me ne frega niente. E dico tutte le parolacce che voglio. Cazzo cazzo
cazzo!
MARTA Smettila.
EMMA Non è una parolaccia. Da quando in qua il cazzo è una parolaccia?
MARTA È un modo volgare di esprimersi, allora.
EMMA E perché dovrei fare la signora? Sono stata svegliata alle quattro e mia
sorella dice cose senza senso con una faccia da pazza. Quindi mi esprimo come mi
pare.
MARTA (tira un grosso sospiro) Va bene, Emma. Ora… ti dico.
Marta ritorna in silenzio.
EMMA Allora? Sto aspettando, sai?
MARTA Ti voglio bene, Emma.
EMMA Sicura?
MARTA Come sarebbe a dire?
EMMA Ma sí. Lo so che mi vuoi bene. Continua.
MARTA È una storia lunga. E… complicata.
EMMA Io ho tempo e non ho più sonno. Continua, dai.
MARTA Ricordi quel giorno?
EMMA “Quel” giorno?
MARTA Sí.
EMMA (sbattendo le mani sulle ruote della carrozzina) Pensi che potrei
scordarlo?
MARTA E quello che successe dopo?
EMMA Che intendi?
MARTA Il processo a quei bastardi.
EMMA Tu, c'eri. Io ero a curare quello che era possibile curare.
MARTA Durò poco. Il tempo di sentire “scusateci tanto” e l'offerta dei loro
avvocati. Pochi milioni per due vite…
EMMA E per la mia schiena spezzata. Lo so, Marta. Fu terribile.
MARTA Passarono col rosso. Loro e la scorta.
EMMA Oggi sarebbe diverso. Oggi…
MARTA No, Emma. Sarebbe la stessa cosa. Non è cambiato nulla.
EMMA Forse. Ma… cosa c'entra con te stasera? Spiegati.
MARTA Come hai detto, prima? Tu eri a curare quello che era possibile curare. Ma
io, che non dovevo curare niente. Io, che ne ero uscita viva…
EMMA Nemmeno un graffio. Fu un miracolo.
MARTA Dovrei ringraziare Dio per questo?
EMMA Bé… io che sono rimasta invalida comunque l'ho fatto. Sapessi quante volte,
mentre la vita mi riprendeva, l'ho ringraziato di poter vedere ancora la luce
del sole. Di avere ancora te!
MARTA E mamma e papà persi per sempre?
EMMA (si tocca il petto) Sono qui. (tocca il petto di Marta) E qui.
MARTA Sono morti, Emma! Morti! Papà ha smesso di comporre la sua musica, mamma
ha smesso di ridere e di ballare con lui. Ricordi, Emma? Ricordi i loro valzer
insieme, e noi che si rideva perché papà le pestava i piedi? Dopo, basta. Stop.
Fine!
EMMA Perché tutto ora, Marta? Credevo stessi meglio, credevo che avessi…
MARTA Dimenticato? Mai. Né dimenticato, né perdonato.
EMMA Sí, però…
MARTA Però?
EMMA (quasi sillabando) Cosa c'entra con stasera?
MARTA È l'inizio.
EMMA L'inizio. (annuisce) E… il seguito?
MARTA Tu che uscivi dall'ospedale col corpo distrutto. E non capivo, non capivo…
non capisco ancora, come potevi sorridere quella mattina.
EMMA Non si può piangere sempre. Quei mesi in ospedale a volte imploravo tra le
lacrime di morire anch'io. Ma la vita piano piano tornò. Anche se a volte volevo
scacciarla via come fosse un'ospite invadente. Tornò. E quando ti accorgi che
piangi non più di dolore ma per la commozione di rivedere un fiore sul comodino,
di poter riassaggiare un biscotto, di poter riascoltare il valzer di nostro
padre… allora vuol dire che la vita ha vinto. E ti devi arrendere. E vivere
ancora. Per quanto si può. Come si può.
MARTA Io no.
EMMA Tu no… cosa, no?
MARTA Non ho dimenticato. Non ho perdonato.
EMMA Non c'è mai la possibilità di fare altrimenti.
MARTA Lo dici tu. Io sono diversa. E li ho visti in faccia. I visi falsamente
contriti. La loro ipocrisia. I soliti potenti che tutto possono comprare. Anche
la vita degli altri. Che tutto possono decidere, anche quanto valgono il dolore
e la solitudine.
EMMA Vendetta, Marta? È lí che vuoi arrivare?
MARTA In un certo senso. Di più. Giustizia proletaria.
EMMA Giustizia… proletaria? Ma cosa stai dicendo, come ti esprimi? Cosa c'entra
con te, me, le mie gambe, i nostri genitori, il dolore, la perdita?
MARTA Quelle pers… quegli esseri infami… sono solo una parte del problema. Lo
capii qualche mese dopo, non subito. Subito ero solo piena di rabbia contro chi
aveva causato la nostra infelicità. Una rabbia sterile. Poi… incontrai… altri.
Quando ripresi l'Università. Erano altri uguali a me… con storie diverse da me.
Loro mi aiutarono a capire i meccanismi, quelli che ci trasformano in maschere
di tragedie annunciate, previste, programmate. E la mia rabbia divenne
improvvisamente utile.
EMMA Nessuna rabbia può essere utile. Se non a chi l'ha provocata.
MARTA Che intendi dire?
EMMA Non ti avevano spiegato “i meccanismi”?
MARTA Certo. Vuoi che li spieghi anche a te?
EMMA Non mi servono lezioni di politica rivoluzionaria, grazie.
MARTA A me sono servite.
EMMA No, mia cara. Tu sei “servita”. A loro.
MARTA Sbagli. E di grosso.
EMMA Sei servita a tutti loro.
MARTA Di quali “loro” parli?
EMMA Tutti! Parlo di chi ha provocato la tua rabbia e di chi l'ha vista ed ha
pensato”bene, questa rabbia ci può tornare utile. Questa rabbia è la porta di
accesso al suo cervello, alla sua anima, al… ”
MARTA Basta così. Non sai nemmeno di cosa stai parlando. Non sono un pupazzo. Ho
ascoltato e studiato e visto realtà che nemmeno sapevo esistessero. Ho ragionato
con la mia testa, sempre. La rabbia è stato solo l'inizio. Solo l'inizio. Poi
sono arrivate consapevolezza e scelta.
EMMA E questa scelta, dove ti ha portata, eh?
Marta non risponde.
EMMA Dove sei arrivata, dopo?
MARTA Non ho mai ucciso nessuno, se è questo che vuoi sapere.
EMMA Bene.
MARTA Ma solo perché non me l'hanno mai chiesto.
EMMA E tu saresti la persona libera che ragiona con la sua testa? Non sarai un
pupazzo, ma ci somigli molto.
MARTA Ce li abbiamo tutti i fili da marionetta, sai? I miei fili li ho pensati e
scelti da me.
EMMA Pensi di meritare un applauso, per questo? Peccato, le mie mani hanno dei
problemi a farlo.
Silenzio.
EMMA Non hai ucciso. Quindi?
MARTA Quindi che?
EMMA Ormai mi devi dire tutto. Cosa hai fatto?
MARTA Ho nascosto… cose.
EMMA Qui?
MARTA Anche.
EMMA Grazie di esserti dimenticata che qui ci sono anch'io.
MARTA Era bene che tu non sapessi nulla.
EMMA Perché non ti fidavi di me o perché i cattivi che combatti potevano
torturarmi e farmi parlare?
MARTA Il tuo sarcasmo è fuori luogo.
EMMA No. Trasformare la nostra casa in un covo è stato fuori luogo. E non voglio
nemmeno sapere cosa hai nascosto. Anche se lo immagino.
MARTA Mi ripeto: non sai di cosa stai parlando.
EMMA È vero. Allora torniamo a parlare di quello che conosco bene. Cioé di me e
di te. Anzi, mi correggo. Parliamo di me e basta. Io non ti conosco più.
MARTA Non ti ho mai ingannata. Con te sono sempre stata io, se non ti ho detto
quello che ora sai è stato solo per proteggerti dal dolore.
EMMA Il fatto che tu non mi abbia detto nulla del tuo… hobby, è veramente il
minimo.
MARTA Perché?
EMMA Perché non mi hai mai parlato della tua disperazione. Perché non mi hai
permesso di aiutarti.
MARTA Eri… sei troppo fragile. Dovevo essere forte per starti vicina.
EMMA Io non ero e non sono fragile, Marta. Sono invalida. È molto diverso, sai?
MARTA Avevi comunque bisogno di aiuto più di me.
EMMA Che arroganti, voi normali che state su due zampe. Noi che stiamo su due
ruote, o che non vediamo più, o che non parliamo o non sentiamo o…
MARTA Dura molto?
EMMA Dura fino a quando non sarò stanca!
MARTA Allora continua.
EMMA Ebbene, mia cara, noi siamo invalidi nel corpo. E i nostri limiti e
problemi stanno sempre con noi, cosí evidenti e tangibili. Non possiamo mai
dimenticarli o nasconderli. Impariamo a conoscerli, a gestirli. Al punto tale
che, per noi, a volte sembra che i diversi, gli strani, siate voi. Ma voi…
”normali”… quante invalidità deturpanti vi portate dentro senza guardarle mai?
Quante volte avreste bisogno degli altri e non chiedete per orgoglio o
arroganza?
MARTA Così, secondo te, quando uscisti dall'ospedale e stavi lottando per
riprenderti, avrei dovuto scaricarti addosso quel che avevo dentro?
EMMA Sí. Neanche immagini quanto mi avresti aiutata. Potevi farmi sentire utile.
Invece sono stata per vent'anni il rottame da accudire e imboccare e consolare
come fossi una bambina scema!
MARTA Credevo ti piacesse fare la bambina!
EMMA Ed io credevo che tu fossi felice di accudirmi, ecco perché piagnucolavo e
facevo i capricci.
MARTA Mi sentivo solo in colpa e volevo risarcirti.
EMMA In colpa per cosa?
MARTA Perché io ero viva e sana e intorno a me macerie macerie macerie!
EMMA Rabbia. Senso di colpa. Non ti sei risparmiata niente.
MARTA Vent'anni di finzioni, dunque.
EMMA Forse solo vent'anni di paura.
MARTA Paura?
EMMA Paura. Del vuoto. Avevamo entrambe paura di quella voragine che si era
aperta improvvisamente sotto quella felicità che era la nostra famiglia.
MARTA Sí. Eravamo tutte e due lí…
EMMA Sull'orlo del precipizio.
MARTA A tenerci per mano. Come da bambine.
EMMA A guardare di sotto, ciascuna da sola.
MARTA E abbiamo visto cose diverse.
EMMA Io un passato da ricordare e ricordare.
MARTA Io un passato. E basta.
EMMA Quelle macerie… da ricostruire.
MARTA Polvere che si solleva e ti ferma il respiro.
EMMA Cose diverse, abbiamo visto.
MARTA Ma le mani erano unite.
EMMA Mani sorelle.
Silenzio.
MARTA Sorelle… Sorella, Emma mia. Io…
EMMA Devi andare via, vero?
MARTA Verranno a prendermi.
EMMA Quando?
MARTA Qualche giorno, qualche ora. O minuti, non lo so.
EMMA Puoi scappare. Altri lo hanno fatto.
MARTA No. Forse ho sbagliato e hai ragione tu. Forse invece era giusto così.
Voglio avere molti anni per pensarci.
EMMA Ed io?
MARTA Tu… tu… (piange, le mani sul viso)
EMMA Sola?
Marta non risponde.
EMMA Un altro precipizio da guardare.
MARTA Non so che fare per…
EMMA Per me? Non lasciarmi sola, ecco che puoi fare.
MARTA E come? Non potrò portarti con me. E forse per molto tempo non potrò
nemmeno vederti. Sai come vanno queste cose, no?
EMMA Mi lasceresti a guardare giù senza la tua mano stretta alla mia?
MARTA Come posso aiutarti, come, se non so come aiutare me stessa?
EMMA Potrei… potrei venir via anch'io.
MARTA Venir via? Che vuoi dire?
EMMA Dove sono mamma e papà ora?
MARTA (si tocca il petto) Qui. (tocca il petto di Emma) E qui.
EMMA E dove sarei io se non… se non fossi più?
MARTA Ma…
EMMA (tocca il petto di Marta) Qui. Per tutta la tua vita. Ad addolcire rimorsi
e rancori. A farti ragionare con il cuore e non solo con la testa.
MARTA Tu… tu vuoi morire?
EMMA Io non posso restare sola. E non perché sarebbe difficile farmi accudire.
In questi venti lunghi e brevissimi anni, ho vissuto aspettandoti ogni giorno.
Con te ho condiviso i silenzi e la musica. Con te ho giocato a fare la bambina.
Con te non importava cosa mangiavo e quanto dormivo. Quella voragine si era
chiusa e sopra vedevo te e me, bambine, in due sull'altalena in giardino.
Ricordi? In piedi, senza paura e poi… saltare giù! Aiutami, Marta, aiutami ad
andare via.
MARTA Cosa dici… come potrei io…
EMMA Da sola mi sarebbe difficile. Queste dita non hanno una gran presa. Dovrei
aprire la scatola, poi tirare fuori il… come si chiama? Blister, mi sembra. Poi
prendere le pastiglie e ingoiarle. Dovrei mandarle giù senz'acqua, oppure
prendere l'acqua dal rubinetto, ma i bicchieri li tieni in alto, non saprei
arrivarci. Non so fare quasi più nulla, come da piccola.
MARTA Dovrei ucciderti?
EMMA No no no… calma calma. Non è uccidere. È portarmi con te. E sono io a
chiederlo. Tu fai la brava sorellina e mi aiuti, tutto qui.
MARTA Non posso.
EMMA Sí che puoi. Solo per gli altri potevi farlo a richiesta?
MARTA È diverso. Molto diverso. Io ti voglio bene, Emma.
EMMA Dare la morte come atto d'amore è la prova d'amore più difficile. Non sei
una persona che si tira indietro, Marta.
Silenzio.Poi si sentono in lontananza delle sirene.
EMMA Sono già loro?
MARTA Non credo. Non so.
EMMA Tienimi stretta la mano. (Marta obbedisce)Dobbiamo fare in fretta. È come
saltare giù dall'altalena, come allora. Sei una donna coraggiosa. Giusto?
Marta si alza. Sembra un automa. Si volta per andare a prendere le pastiglie.
EMMA Grazie, sorellina. Vorrei anche… un valzer ancora. Puoi…?
Marta in silenzio va ad accendere il registratore. Poi esce di scena. Rientra
con il bicchiere d'acqua. Prende le pastiglie e poi si avvicina ad Emma. L'aiuta
a bere. E poi, mentre la musica va, muove la carrozzina con la sorella a tempo
di danza.
Buio. Le due donne lentamente escono dal fondo scena. La musica prosegue, la
Portiera si alza e danza con la scopa. Poi, quando la musica finisce, si rivolge
al pubblico.
PORTIERA Si può morire per troppi pensieri che fanno corto circuito nel
cervello… o semplicemente per troppo amore. Le conoscevo poco, le inquiline del
22. Erano qui da qualche mese. E se ne sono andate, in modi diversi, anche loro
senza salutare nessuno. Peccato, erano simpatiche. Quindi… facciamo bene i
conti… nel 2010 si uccide l'inquilino quasi invisibile… ventidue anni prima
questa tragedia… ventidue… interno ventidue… Un caso. Un semplice caso.
(ridacchia) Lo so, lo so, non vi ho ancora convinti!
Mentre continua a parlare, rientra nella penombra e comincia a portar via i
mobili, mettendoli alla rinfusa nel fondo scena. Lascerà solo una sedia ed un
telefono poggiato a terra
Già… era vuoto, o quasi, quest'appartamento, allora… Era il 24 dicembre, tutti a
far regali. Ed io, giovane giovane, ero felice di aver preso con mio marito
questo portierato e di avere anche lo spazio, nella guardiola, per un bel
presepe . Casa e bottega. L'ideale per metter su famiglia. C'era il boom, ma
eravamo ancora poveri, o forse solo più… come dire? Leggeri, con poche cose
utili nei bagagli a mano. Ci si accontentava… che la guerra fosse ormai dietro
le spalle, i nostri morti quasi dimenticati, che le macerie si fossero
trasformate in palazzi signorili nelle nuove zone residenziali… Ingenui e
sognatori… con quel futuro da acquistare a rate e lasciare con orgoglio ai
nostri figli… Eravamo brave persone, non tutti, ovvio, ma in molti sí. Il
risveglio sarebbe cominciato a breve… (si massaggia la schiena) Che fatica! Alla
mia età non dovrei fare questi sforzi. E tutto solo per togliermi una
soddisfazione. Anche una portiera, alla fine della carriera, ha il diritto di
divertirsi un po'! (viene in proscenio) Era, vi dicevo, il 24 dicembre. Quando
arrivò quell'ometto buffo che doveva andare all'interno 22. Lo accompagnai su,
gli aprii la porta e me ne andai subito a preparare la cena di Natale.
Gli dissi che, dopo, quando aveva finito, poteva chiudere lui. E di ricordarsi
di riportarmi le chiavi. (si siede al suo solito posto. Poi si rialza di scatto
e riparla al pubblico) Birichini… non mi avete chiesto che anno fosse… fatevi i
conti voi… 2010… poi 1988… poi… (aspetta qualche secondo)… 1966.
Si vede, nella penombra, un uomo entrare in scena e restare fermo nel fondo. La
luce si alza lentamente.
PASQUALE Eccome qui. L'urtimo lavoro della giornata e poi… a casa. Cò sto mar de
stommaco che me perseguita da ieri… Ma appena vedo l'ammore mio me passa tutto,
ce 'o so'.
Chissà perché me tocca sempre a me l'urtimo turno de la viggilia de Natale. Cò
tutti li parenti che m'aspettano a tavola e me guardano incazzati che c'hanno
fame.
È vero che li colleghi c'hanno li fijetti… E vabbè… cerco de sbrigamme.
Vedemo un po' sto telefono. La portiera dice che la signorina che ha preso casa
vole tutto pronto pé quanno c'entra.
E noi je famo trovà tutto pronto…
Comincia ad armeggiare col telefono. Canticchia uno stornello improvvisato.
So l'omo della Sippe,
ma nun me faccio pippe,
lavoro e so sudato
da quanno sono nato…
Vedemo un po' si funziona…
Compone un numero.
Ciao amò! Come te butta stasera, ancora a cucinà?
Come “chi è?” sò io, l'amore tuo bello. Che fai, nun me riconoschi?
Ah, se sente male! Allora ce devo lavorà ancora. Vabbé, tra un po' te richiamo.
Ciao amò!
Attacca.
Ahò, me credevo che annava bene…
Ricomincia ad armeggiare con il telefono. E riprende a cantare.
Sò Pasqualino bello
lavoro cor cervello,
si pensi che me stanco
nun me conoschi manco…
Mentre sta ancora lavorando, il telefono comincia a squillare. Si spaventa.
Ahhh! Oddio, che fai, soni?
Pronto? Chi è?
Come sarebbe a dí… chi è lei, si permette. E' lei che ha chiamato, no?
E allora… un po' d'edducazzione!
Come?
Maria Grazia?
Maria Grazia De Renzi? Nun te conosco.
Io so (pomposamente) il lavorante primo operaio degli uffici Sippe de Roma
Centro!
Er nome? Pasqualino Petrillo, matricola azziendale nummero 7512367!
E mò che c'ha saputo er nome e puro er nummero, me dica, Maria Grazia De Renzi,
che vole a stò telefono che sto a riparà.
No, none! Qui nun c'abbita nessun Giampiero. Anzi, nun c'abbita ancora nisuno.
La casa è vota!
Si sbaja. Eppoi, acché ne so io, qui ce verrà ad abbità na' donna.
Ma che ne so io de come se chiama, e me lasci lavorà che ciò un sacco d'impegni
mo che finisco!
Devo scartà li regali co' l'ammore mio!
Attacca.
Certo che ce sono 'n sacco de ggente gnorante a sto' monno.
Facendo il verso alla sua interlocutrice telefonica che parlava con la erre
francese.
Sono Marria Grrazia De Rrenzi. Puro l'erre moscia.
Riprende a lavorare cantando, questa volta con maggior impegno.
Si mamma e papà so giocosi
je fanno a la pupetta sto scherzetto:
si prendono commare la natura
er nome pé la vita je sarà…
canzonatura!
Ahò… canto che paro n'angelo der paradiso!
Eh… si mamma mia m'avesse fatto cantà ar coro de la parocchia… oggi potevo sta a
cantà a Canzonissima, artro che telefoni!
Continua a lavorare canticchiando tra sé e sé.
Oh. Bene. Mò dovrebbe affunzzionà.
Famme riprovà a chiamà l'amore mio.
Compone il numero.
Ammore mio bello bello de Pasqualino tuo che stasera te riempio de mozzichi e te
faccio cantà tutte le canzoni de Natale a squarciagola!
Ma… che… cosa… ma chi è ar telefono? Sirvia!
Ma lei chi è 'nzomma?
Er marito de Sirvia? Ahò, ma che se semo impazziti? Sirvia è la mia fidanzata
convivente! Come se permette a dí che c'ha marito?
Sete sposati da 30 anni? Ma se Sirvia nun ariva ai quaranta… e mica ce se po'
sposà da regazzine!
Settant'anni? Ma che stà a dí… settant'anni. E' vero che oggi comme oggi la
meddicina fa miracoli… ma la mia Sirvia nun po' avé settant'anni.
Senta… senta… ma me faccia parlà! 'nzomma…
Uffa! Ma che je frega sapé comme me chiamo…
E vabbé. Pasqualino Petrillo, matricola azziendale nummero 7512367.
Certo che c'ho la matricola. So lavorante primo operaio de la Sippe Roma Centro,
che se crede! E 'mo me dice puro er nomme suo. E puro er cognome de la Sirvia de
settant'anni, cosí finimmo sta commedia.
Ah bè. Allora nun è lei. La mia Sirvia se chiama Napoli. E sì, li nonni suoi
erano de Napoli. Così mò sta tranquillo.
Certo che è lei che deve sta tranquillo. Si era la mia Sirvia la moje sua…
cornuti eravamo tutti e due. Ma lei era puro pedofilo!
Attacca arrabbiato.
Mi sa tanto che sto telefono stasera me fa finì tardi.
Sta giornata era cominciata male e mò finisce peggio.
M'arzo, e ciò sto mar de stommaco che me furmina e nun me passa nemmeno cò tre
arka serze.
Sirvia mia sterica perza pe la cena co li parenti. Nimmanco m'ha salutato quanno
so sortito.
Esco, e scopro che m'hanno fregato la Vespetta mia… cinquantino bello che
pistava da paura…
Novo novo, appena comprato. Cinqu'anni de cambiali. Sti cornuti. Che si li
becco… e primo o poi li becco chi so… je do tante de quelle pizze che prima
d'arestarli pè furto, li fermano pè vagabondaggio.
Vado a fa la denuncia e trovo la fila ar commissariato.
Ahò, ma se po' fa la fila da la polizzia?
Io doveva anna' ar lavoro…
E vabbé. Faccio sta denuncia e poi vado a prenne er tramme. Stavo sur tramme
tranquillo tranquillo e a 'ncerto punto… “Aiuto, er fumo! Er tram va a foco!” Na
signora comincia a urlà come na pazza.
Se ferma er tram e scennemo tutti de corza.
E mentre se giramo tutti verzo na catasta de gomme che stava a brucià sur
marciapiede… nun famo in tempo a capì l'equivoco, che er tram ha già richiuso le
porte e se riparte.
Ahò! Fermete! Manco per cavolo. Sto bastardo de l'autista se ne è jito. Che si
lo pijo… si lo pijo… lo smonto e poi do foco all'istruzzioni.
'Nzomma, me la so dovuta fa a piedi. Du ore c'ho impegnato. Cor capo che
m'aspettava in cagnesco.
E mò… ce se mette sto cazzo de telefono!
Ricomincia a smanettare con la cornetta. Il telefono squilla. Lui resta
impietrito.
Drin… drinn…
E no… e no e no. Mo stamo proprio a esaggerà.
Drinn… drin…
(spaventato) E che ce stanno li fantasmi qui? Nun po' esse che squilla cò la
cornetta staccata…
Attacca di corsa.
PASQUALE E mo vedemo che fai. Manca solo che…
VOCE Pronto! Pronto! Volete rispondere?
PASQUALE C… c… chi è?
VOCE Come sarebbe chi è? E' lei che ha chiamato!
PASQUALE Io? Io? M… m… ma no. Lei se sbajia.
VOCE A sí? Io mi sbaglio? Ma che dice? E poi vorrei proprio sapere chi le ha
dato questo numero di telefono!
PASQUALE Ma io nun ce lo so sto nummero suo!
VOCE Non faccia lo gnorri. Questa è un'utenza riservatissima, praticamente non
la conosce nessuno, quindi…
PASQUALE Quindi si nun la conosce nisuno, nisuno po' avemmela data.
VOCE Lei mi sta facendo arrabbiare… e se m'arrabbio io… fulmini e saette!
PASQUALE Seee… ma chi sei? Giove Pluvio?
VOCE No. Dio.
PASQUALE Dio chi?
VOCE Come sarebbe… ”Dio chi”. Dio, Dio. Quello che sta nell'alto dei cieli,
piccola umana creatura ignorante!
PASQUALE E no, e no. L'insurti no. Io so Pasqualino Petrillo, matricola
aziendale…
VOCE 7512367, Sip Roma Centro. Ora ti ho riconosciuto!
PASQUALE Aah…mò te riconnosco io! Sei Giggetto der centralino. Ce stavo quasi a
cascà. Poi me spieghi comm'hai fatto, eh!
VOCE Ma che Giggetto! Sono Dio!
PASQUALE (ridendo) Sì… er Dio de li nummeri!
VOCE Certo… Dio dei numeri. E di tutto ciò che esiste nell'Universo.
PASQUALE Ahò, mo me stai a sfrucuglià male. Io devo da lavorà e finí presto, che
c'ho n'appuntamento importante cò l'ammore mio. Lo scarto de li regali e er
cenone co' li parenti!
VOCE Pasquale, ma non ti sei accorto che il telefono è regolarmente attaccato? E
che stai parlando lo stesso con me?
PASQUALE E allora? Che ne so…sarà…un guasto. Sto qui per questo. Mò te riparo
così t'azzitti.
VOCE No mio caro. Tu mi hai chiamato perché hai bisogno urgente di me, del tuo
Dio.
PASQUALE Perchè, mò ripari pure li telefoni? E datte pace!
VOCE Nessuno che non abbia veramente bisogno di me riesce a chiamarmi all'utenza
riservata. A meno che…tu non abbia sottratto il numero a…
PASQUALE Ehi ehi… piano cò st'illazzioni. Io so operaio serio e lavoratore. Nun
so' ladro, neanche de nummeri. E nun c'ho bisogno de Dio pe' riparà un telefono…
er Dio der telefono…so' io!
VOCE Forse… forse… (si sente uno svogliar di pagine)…
PASQUALE Che fai… leggi?
VOCE E sí… eccoti qua. Sei a pagina 851.236. Seconda riga in alto a destra.
PASQUALE Che stai a guardà? L'elenco telefonico?
VOCE No… il libro degli angeli.
PASQUALE E che ce starebbe a fa' Pasquale Petrillo nell'elenco de telefono
dell'angeli?
VOCE non è l'elenco del telefono. E' la lista degli angeli attuali e futuri. Tu
sei futuro. Prossimo.
PASQUALE Cioè… spiegame meglio… io sarebbi… saretti… sarotti…
VOCE Un angelo. Perché… non ti piace l'idea?
PASQUALE De diventà n'angelo?
VOCE Sí. Un angelo. Pasquale, angelo del Signore.
PASQUALE E comme no. Magari puro co' le ali.
VOCE Certo. Tutti gli angeli qui in cielo hanno le ali. Tu non le hai perché sei
ancora in forma umana e sei sulla Terra, ma…
PASQUALE E bbasta! E vabbé che stamo a Natale, ma mica me vorrai mette sur
presepe! Eppoi…l'angeli so belli, arti, bionni…
VOCE E puri di cuore Pasquale, proprio come te.
PASQUALE (intimidito)… Bé, puro de core… diciamo che so' de carattere bono,
ecco, và. Faccio bubbù… ma nun mozzico mai.
VOCE Lo so bene. E' pure scritto.
PASQUALE Sull'elenco dell'angeli…
VOCE Infatti. Solo chi in tutta la sua vita non ha mai fatto del male a nessuno,
nemmeno per sbaglio, può diventare un angelo.
PASQUALE Bè, fino a mò… forse. Ma la vita è lunga e quindi potrebbi ancora… (si
ferma all'improvviso)
VOCE (tossisce imbarazzato)
PASQUALE N… n… nun famo scherzi, Dio!
VOCE Ecco, vedi, caro… mio caro Pasquale…
PASQUALE E no… e no… none! Che me voi fa morí?
VOCE Pasquale…io non faccio morire nessuno. Ognuno muore quando gli tocca. Però
posso farti vivere in eterno, dopo.
PASQUALE Perchè, prima no? Me fai morí pe' poi famme vive in eterno. Nun so
scherzi che se fanno, questi!
VOCE Hai sempre il tuo mal di stomaco, Pasquale?
PASQUALE E come ce lo sa… già. Sei Dio.
VOCE Allora, Pasquale?
PASQUALE Sí, nun me da pace da ieri matina, st'infame.
VOCE Ecco.
PASQUALE Ecco, che? Nun fa er crittico.
VOCE Crittico?
PASQUALE Sí, crittico, crittico. Quello che nun fa capí gnente.
VOCE Aah… criptico!
PASQUALE Ma sì, quella robba là. 'Nzomma…spieghete!
VOCE Non ti preoccupare di nulla, Pasquale. Ora ti saluto…a presto!
PASQUALE Ehi ehi… a 'ndo vai? Ehi! Come sarebbe a dì “a presto”? Presto quanno?
Ehi!
Sta fermo in silenzio per un po'. Poi si rimette a lavorare, pensieroso.
Mo dovrebbe sta a posto.
Drin! Drin!
Esita impaurito. Poi con estrema lentezza tira su la cornetta.
Pronto?
Ancora lei?
A Maria Grà…te l'ho detto che nun ce 'o so chi è che verrà qui ad abbità!
Ah… er tuo ex, cò la fidanzata nova.
Nun piagne Maria Grà. Nun ne vale la pena, damme retta.
Si capisce che sei 'na bella ragazza.
Da che? Bè… da la voce. C'hai na bella voce, fidete. Io lavoro co li telefoni e
de voci ne sento tante, de tutti li tipi…
De tutti li tipi te dico… arcuni manco te l'immagini, credeme.
No Maria Grà! Nun lo dì manco pe scherzo! E nun lo pensà nimmanco!
Vabbè… su… me metto seduto e me racconti. Tanto… mica c'ho fretta! Sfogate così
te passa.
Passa un po' di tempo. Maria Grazia al telefono racconta, Pasquale seduto per
terra ascolta mezzo addormentato.
Ohhh… meno male! E ce lo sapevo che parlanno te passava!
Ora mettete a nanna e vedrai che domani è n'antro giorno, Rossella… scusa, Maria
Grazia. Ciao e… Buon Natale!
Bè… nun esaggerà… che so stato n'angelo… so solo Pasquale, operaio de la Sippe.
Bona notte!
Attacca.
S'è fatta na certa… L'ammore mio me starà ad aspettà pè la cena de la viggilia e
pè scartà li regali. Li parenti saranno incazzati neri… (sistema la borsa degli
attrezzi)…mettemo a posto… e annamo a… (si tocca il petto)… m… ma… che…
(annaspa, senza respiro)… nun famo… nun famo… scherzi. E' Natale… nun se po'… a
Natale… co li parenti… e Sirvia… nun se…
Cerca di arrivare alla porta sul fondo scena, ma crolla a terra. Un'ombra appare
sul muro…l'ombra di un angelo con le ali.
PASQUALE (voce fuori campo) Dio! Diooo! Mò all'ammore mio chi glielo racconta
che nun arrivo pè la cena co li parenti… E er regalo da scartà? Che scherzo de
Natale che m’hai fatto… Però…però… anvedi! Sò diventato arto… bionno… e puro
bello. E colle ali! Ammazza quanto so’ grosse! Fa 'n po' vede si funzionano…
(battito d'ali) Mooorto mejo der cinquantino mio! Certo che… che sto regalo nun
me l'aspettavo mica! A Dio… sai che te dico? Sei proprio uno forte! Arrivooo!
Battito d’ali e l’ombra dell’angelo Pasquale scompare. Buio
PORTIERA Non mi riportò più le chiavi. Me le diede il medico che constatò il
decesso. Fu una triste vigilia. Anche se non scorderò mai il sorriso che
quell'ometto buffo aveva sul viso quando lo girarono. Sembrava felice… chissà.
Non sempre morire è una disgrazia. (si rimette a spazzare) Vi ho convinto? No?
Sempre intenzionati ad affittare quest'appartamento? Non avete paura di
incrociare dietro una porta lo sguardo dell'uomo che morì per non sparire? O di
venire svegliati nella notte da un valzer triste? E nemmeno di rispondere al
telefono e sentire...la voce di Dio? Bè..fate come vi pare. Io tra pochi giorni
me ne andrò in pensione. Resterò ad abitare nella mia casetta al piano terra. I
condomini hanno deciso di non avere più il portierato. Per risparmiare, dicono.
Per me, è meglio. Chiuderò qui i miei giorni. E chissà che, tra vent'anni, io
non sia ancora viva per poter dire… ”Ve l'avevo detto!”.
(canticchia un po' stonata) Undici più undici fa ventidue… porta che si apre…
porta che si chiude… Undici più undici fa ventidue… vita che finisce… vita che
rinasce…
FINE