Sisma
(Messina 28 dicembre 1908)

monologo storico di 

Carlo Barbera

alla memoria di 
Alessandro Attanasio


L’autore a chi legge

Il mio interesse per il Terremoto di Messina nasce fin dai tempi dell’Università, quando lavoravo per realizzare la tesi di laurea sulla borghesia messinese tra il 1825 e il 1885. Ho visionato tanti di quegli atti si società e di matrimonio da sentire quelle persone che andavo conoscendo di nome come se fossero degli amici di tutti i giorni.
Molti tra questi morirono nel 1908 sotto le macerie o inghiottiti dal maremoto o dalle epidemie, dalle infezioni, dalle cancrene e da tutte quelle disgrazie che un cataclisma porta con se. Si aggiunga a questo che la mia famiglia fu falciata da questo triste evento, con la perdita di diverse persone, fra cui lo scienziato biologo Giovanni Barbera, vedovo di una Ainis, rimasto travolto dalle macerie nel palazzo di questa grande famiglia messinese, che si trovava proprio all’inizio della Palazzata.
Il mio interesse per il Terremoto del 1908 si concretizza con la realizzazione di due lavori: “La famiglia di Ruggero” una commedia ambientata tra il luglio e il 28 dicembre 1908; “Sisma” (Messina 28 dicembre 1908), lo spettacolo che andrete a leggere.
Nella realtà ho voluto scrivere questo monologo per avere la libertà di raccontare gli eventi senza la camicia stretta degli spazi scenici, che ti costringono entro certi limiti. C’è poi l’interesse che ultimamente nutro per il cosiddetto “teatro di narrazione”, che m’intriga molto, visto che la mia tradizione familiare è intrisa di capacità narrativa e narratoria. Il punto di partenza per la creazione di questo lavoro è il libro “28 dicembre 1908 – ore 5,21 – Terremoto” scritto da Sandro Attanasio, un eminente studioso catanese, che ha ricostruito in maniera scorrevole ed interessante gli eventi e le storie, partendo da studi e testimonianze varie. Sarebbe stato comodo prendere brani del libro qua e là e costruire il monologo. Ma il linguaggio non è teatrale e poi non mi appartiene. Così, con l’aiuto di quel testo, ho costruito questo spettacolo, che si presenta come una vera e propria inchiesta, da cui deve venir fuori una trasmissione giornalistica alla Minoli, rappresentata sul palcoscenico. Ecco perché l’uso delle immagini, necessarie, e la grande quantità di musiche, che ci servono per meglio sottolineare la recitazione. Infatti il racconto del terremoto deve essere recitato, con un coinvolgimento corporeo, fisico. Sbaglierebbe chi ne farebbe un semplice elenco di fatti, con la freddezza del giornalismo rapido e televisivo. L’attore che recita “Sisma” deve commuoversi e commuovere; deve vivere gli eventi; deve raccontarli non con distacco, ma come se li avesse sopportati in prima persona. Anche se non messinese, chi rappresenta questo testo deve diventarlo per lo spazio di tempo che esso dura. Vi avrei voluto inserire più ironia e forse anche una punta di comicità: non ci sono riuscito. Ma ciò non è un limite, è che l’argomento e i fatti sono talmente duri e dragici che forse l’ironia non sarebbe stata consona.
Si ricordi bene che questo lavoro non necessariamente deve essere un monologo, ma può essere recitato a più voci.
Infine un’ultima raccomandazione: chi dovesse accostarsi a questo lavoro lo faccia con quel rispetto e quella pietà che si usa quando si visitano i defunti, poiché è dedicato a loro, e poiché di quel mondo fa parte anche Sandro Attanasio. 

Buona lettura!
Atto Unico

La scena è tutta nera; uno schermo gigante al centro, uno sgabello alto a sinistra; un leggio in legno a destra. 
Al levarsi della tela ci sarà un cono di luce che illuminerà un attore, che si troverà seduto sullo sgabello, a testa in giù, come se pensasse. Si sentirà la sua voce fuori campo che recita queste parole:

Ogni storia siciliana è una storia diversa dal resto del mondo, come se la nostra terra avesse caratteristiche geologiche e umane, estranee al DNA terrestre, poiché frutto di un embrione sviluppatosi su di un pianeta esterno.
Forse solo grazie alla nostra testardaggine siamo riusciti fino a questo momento a sopravvivere a noi stessi e alle disgrazie che attiriamo come una calamita attira il ferro. Così tutto ciò che in altri posti assume fattezze di un certo tipo, da noi diventa terribilmente differente e anormale, quasi a volerci continuamente ricordare che la Sicilia e i siciliani non sono terrestri, ma extraterrestri.

(Parte una musica molto ritmata, possibilmente etnica, l’attore alza la testa e comincia a parlare)

Nella realtà dimostreremo che nulla di non terrestre esiste in Sicilia, ma è soltanto la nostra storia che ci distingue da altre terre, spingendoci a fare di ogni dramma una commedia e di ogni commedia un dramma.

(Si ferma la musica, l’attore si alza)

Ma la pietà, la considerazione per quanti hanno lasciato questo mondo perché vittime di un’immane sciagura, ci porta a rimettere tutto in gioco e ci spinge a raccontare gli eventi della storia. Perché non si dimentichi quanto è stato e quanto potrebbe verificarsi ancora.
Non è la natura assassina, siamo noi uomini che da sempre cerchiamo di domarla, a volte con la dolcezza, quasi sempre con la violenza. Ma la violenza chiama altra violenza, così spesso le reazioni di questa mamma severa, che si chiama natura, superano le nostre aspettative e ci lasciano veramente a bocca aperta, lì, a cercare le più strane soluzioni per riuscire a sottometterla. Non ce la facciamo quasi mai; quanto meno se ci illudiamo di esserci riusciti, ciò dura poco, il tempo giusto affinché essa si organizzi e ci dimostri ancora una volta che siamo un piccolo granello di sabbia in un universo grande quanto nemmeno riusciamo ad immaginare.

(La luce si abbassa totalmente e s’illumina lo schermo gigante, che riproduce immagini di Messina prima del 1908, col sottofondo di un allegro swing)

Eccola Messina la grande, la commerciale, la regina del Mediterraneo, la seconda città dell’isola; la sede del portofranco; il luogo di tante e tante banche, società assicurative e imprese di navigazione. Messina la ricca, la bella, la divertente e la divertita.

(Dopo avere scorso alcune immagini si giunge a quella della Palazzata)

All’occhio del viaggiatore che giunge dal mare Messina si presenta con l’opera colossale che viene chiamata la Palazzata, quasi a volere intimorire e nello stesso tempo affascinare chi arriva in città. E’ come una bella donna, col seno ben piazzato, alto, prosperoso, che al primo approccio vuole già stabilire chi comanda. 
La Palazzata era stata un’idea dell’architetto Giacomo Minutoli: una schiera di edifici dalla linea architettonica pura, che si prolungava a mezzaluna per tutta la Marina e si affacciava sulla magnifica rada, chiusa a levante dalla falce formata dalla penisola di San Ranieri. La Palazzata contava esattamente 36 edifici con altrettante porte. Era alta venti metri, quattro piani, e lunga per più di un miglio. A lavoro ultimato si presentava come un magnifico grande e unico palazzo... ahimè, un bel palazzo di cartone, impressionante, nella sua mole; poco robusto, nella realtà. 
Come quando si costruisce un castello di sabbia, che da l’impressione di essere vero e forte, ma alla prima avversità si sgretola.

(Ora viene proiettata una foto della Palazzata dopo il terremoto)

Eccola dopo il terremoto del 1908: questo è quanto resta della magnifica opera di Minutoli. 
Ma è forse giusto, normale, quanto stiamo vedendo? Oppure no? Oppure è colpa della testardaggine dell’uomo? Siamo anche qui per scoprire questo. Ma dopo.

(Luce piena. Lo schermo si oscura. Parte una musica)

Il 5 febbraio del 1783, alle 12,48, la città di Messina era stata rasa al suolo da un terribile movimento tellurico, che aveva portato i messinesi a produrre un detto: “Fari cchiù dannu d”u cincu ‘i frivaru” (Provocare più danni del 5 di febbraio), che poi si modificò in “Fari cchiù dannu d”u vintottu dicembri”. I morti erano stati tanti di meno rispetto al 1908. 
La ragione è semplice: l’orario differente. A quell’ora molta gente è fuori, a lavorare, pertanto si può salvare. Invece il sisma del 1908 si verificò alle 5,21, cogliendo gran parte degli abitanti delle città, e dei paesi interessati, nel sonno.
Fu infatti una fortuna che le scosse del 6, 7 e 28 febbraio, altrettanto disastrose, ormai trovavano la popolazione al sicuro, senza poter fare altre vittime. Per due anni si verificarono scosse d’assestamento, tanto che ormai i messinesi prevenivano le scosse come alcuni tipi di animali, accusando vertigini, vomito e attacchi di diarrea.
Visto il ripetersi dei terremoti a distanza di soli novant’anni, poiché l’ultimo disastroso sisma era stato nel 1693 e aveva distrutto Catania, il Re Ferdinando IV di Borbone, nel 1783, emanò una legge edilizia ben precisa e molto moderna nella sua essenza, riallacciandosi alle norme che già novant’anni prima erano state dettate per la città etnea. Bisognava costruire edifici bassi, grandi piazze e strade larghe, per permettere, in caso di terremoto, a chiunque di scappare e mettersi in salvo. 
Questa legge non fu assolutamente rispettata. Messina risorse dov’era prima e come prima. “Ma chi dici ‘stu cretinu? Si facissi ‘u rignanti e nuiautri nni facemu l’architetti” Con frasi del genere i furbi, gli speculatori, liquidarono quanto il governo aveva stabilito. E condannarono la città al disastro, un disastro di cui non si sono mai potute stabilire veramente le conseguenze in materia di vittime e di feriti. Comunque le stime ammontano a circa 100.000 morti, di cui 60.000 solo fra le mura di Messina.

Ma che città era Messina all’alba del 28 dicembre 1908?

(Riparte la proiezione di foto di prima del terremoto, con la stessa musica)

Messina era soprattutto il suo porto, un porto importante, che con l’accrescersi del traffico attraverso il canale di Suez aveva assunto un ruolo veramente primario all’interno del Mediterraneo. 
Con la realizzazione delle linee ferroviarie, molto precarie in Sicilia, come del resto ogni cosa, perché tutto è precario in Sicilia; ma comunque queste tanto sognate linee ferroviarie ora esistevano, e cominciava a tramontare il cabotaggio marittimo per la traduzione delle merci. 
Il cabotaggio era l’attività di trasporto che si svolgeva utilizzando piccole navi, che battevano la costa siciliana e quella calabra. Le strade erano insicure, e non esistendo i camion con l’antifurto satellitare, i poveri carrettieri, che trasportavano le merci, spesso e volentieri venivano assaliti e derubati dai briganti. Nella migliore delle ipotesi salvavano la vita, nella peggiore ce la rimettevano. 

(Si sente il rumore del carretto)

La notte era uno spettacolo; i carrettieri passavano lentamente per i paesi, con i loro carretti, e per tenersi svegli cantavano: “Amuri amuri chi m’hai fattu fari!” E nel frattempo continuavano il loro viaggio. “Fari m’hai fattu ‘na ‘ranni pazzia” E con le redini in mano andavano avanti fino a raggiungere le buie strade e gli insicuri ponti di collegamento esistenti sui tanti fiumi e torrenti siciliani. “Lu Patrinostru m’hai fattu scurdari. La megghiu parti di l’Avimaria!” ... Boohm! Un colpo in testa; un colpo di lupara; una serie di coltellate... Addio carrettiere! I briganti si prendevano il carico e lasciavano lì il malcapitato.

(Si sente il fischio di una locomotiva a vapore e il rumore del treno)

Ora la ferrovia cambiava le cose, dando all’isola la possibilità di trasporti più rapidi e sicuri. Così, in barba a quanto pensavano i Bossi e i Borghezio di allora, perché alcuni abitanti del nord la lega ce l’hanno sempre avuta nel DNA... nonostante le loro riserve, era stata creata una rete di navi traghetto, i “Ferry Boat” che davano modo di attraversare lo stretto in breve tempo, per cui, per entrare in Sicilia bisognava passare necessariamente da Messina, per cui la città riconfermava il suo ruolo di porta dell’isola.

E già da almeno cinquant’anni si parlava della costruzione di un ponte sullo stretto. Anzi, per essere più precisi, qualcuno parlava di ponte, qualche altro di tunnel, qualche altro sosteneva, come ancora si sostiene, che tanto il ponte quanto il tunnel fossero miraggi, come il fenomeno della Fata Morgana. Sapete cos’è? Soprattutto nei mesi estivi capita spesso all’alba di vedere nello stretto come una città che fluttua nell’aria: case, castelli... Ecco, questa è la Fata Morgana. Ecco, questo era il ponte.

Ma torniamo alla nostra Messina.

(Musica swing)

Centicinquantamila abitanti; una tranvia a vapore che collegava i villaggi con la città e si spingeva fino a Barcellona Pozzo di Gotto, 58 chilometri a nord; il terzo porto italiano; una borghesia operosissima, in parte proveniente da famiglia anche straniere, che avevano fatto risorgere questa città. 
A Messina si produceva e si esportava di tutto, dai sigari agli agrumi alla seta al vino all’olio all’abbigliamento al ferro ai mattoni. Fervente era l’attività speculativa e creditizia, quella assicurativa e quella legata ai trasporti, dal cabotaggio alla navigazione mediterranea e oceanica. 
Le scuole e l’Università di Messina erano rinomate per serietà e competenza e rappresentavano un altro fiore all’occhiello per la città.
Vi era una vita culturale vivacissima, con diversi giornali, Circoli, Associazioni.
Anche la chiesa messinese era potentissima... e quella lo è dappertutto, del resto... aveva una presenza sul territorio notevolmente diffusa, capillare, nel rispetto anche e comunque delle altre fedi religiose, presenti a Messina, vista la numerosa colonia straniera: inglesi e tedeschi soprattutto.
In ultimo dobbiamo dire dell’importanza nel campo militare, con numerosi stanziamenti sulle colline e nella fortificazione del porto. Messina era stazione di rifornimento della Regia Flotta, e ciò fu importante per i suoi abitanti, poiché la notte del terremoto vi erano stanziate nel porto diverse navi militari, che poterono dare i primi soccorsi.

(Si illumina la scena. Parte una musica allegra)

L’intera giornata di domenica 27 dicembre 1908 fu allietata da un caldo sole, come spesso accade in Sicilia. La temperatura era eccezionalmente mite e sembrava anticipare la primavera, ancora lontana a venire. Nella mattinata i messinesi avevano affollato la Marina, il Giardino a mare e via Garibaldi. 
Nessuno si abituava a chiamare la Marina: corso Vittorio Emanuela. 
Per i messinesi era: ‘a Marina.
Dopo la pausa del pranzo, la gente era tornata nel pomeriggio a passeggiare nelle mete preferite di via Garibaldi, sfavillante di negozi e di eleganza; della Marina, dove apparivano le insegne delle tante banche, agenzie di navigazione e negozi, che avevano sede ai piani bassi della Palazzata.
Nel pomeriggio di quella domenica il sole al tramonto puntò i suoi raggi sulla Calabria, accarezzando la lunga striscia bianca di case allineate sulla riviera e il verde intenso della campagna che sale verso l’Aspromonte. “Cu’ ha ghiri pi mari! Haiu ‘a barca pulita” urlavano i barcaioli, che avevano fatto ottimi affari quel giorno, portando avanti e indietro in gite turistiche le coppiette o le famiglie della domenica.
Dopo i rintocchi dell’Avemaria, intorno alle cinque e mezza, i lampionai cominciarono a distribuirsi in giro per la città, con i loro bastoni lunghi e lo stoppino accesso, per dare vita ai numerosi lampioni di Messina, illuminata a gas già dal ‘700, come voleva la tradizione nelle città importanti.

(La luce va abbassandosi)

All’ora di cena le strade si svuotarono e la gente fece ritorno a casa. 
Nelle abitazioni messinesi la serata passò lietamente. Comitive di parenti e amici solennizzavano le festività natalizie con riunioni e giochi come la tombola, il sette e mezzo ed altri.
Nelle dimore più ricche invece si tenevano banchi di baccarat e chemin de fer, con centinaia di lire, che andavano via dalle tasche dei signori, mentre nelle case più povere si giocava a mandorle e nocciole. Dappertutto comunque, in case ricche o povere, non mancava il presepe.
Al teatro Vittorio Emanuele si rappresentava l’Aida di Giuseppe Verdi. 

(In sottofondo si sentirà la marcia trionfale dell’Aida)

La recita finì verso l’una; la gente defluì lentamente dal teatro, ci fu un gran movimento di carrozze in via Garibaldi e per le strade vicine. Per un bel pezzo si udì fischiettare la marcia trionfale dell’Aida. Poi sulla città calò il silenzio e il buio.

(La scena si rabbuia, parte una musica lenta)

Alle cinque del mattino il cielo era limpido e brillante di stelle. Il traghetto Calabria levò gli ormeggi e si avviò verso Villa San Giovanni. Ma uno strano fenomeno incuriosì i marinai: il livello delle acque si era alzato troppo. 
Non capita mai da quelle parti che le maree abbiano una tale consistenza.
“Talè, talè ‘stu mari chi capricci ca fa! Si vusciau!” 
“Appi a manciari assai puru iddu” rispose il compagno, e se ne andarono dentro, infreddoliti dall’aria frizzantina di quell’ora.
Nella stazione ferroviaria alcuni ferrovieri si divertivano davanti ad una tazza di
caffè, la seconda per chi prendeva servizio, l’ultima per chi sarebbe andato a letto dopo aver fatto la notte. Qualche pendolare schiacciava un pisolino, per concludere il sonno notturno che aveva dovuto interrompere. Davanti alla stazione sul Piazzale Roma, era un concerto il russare dei vetturini, che dormivano seduti nelle loro carrozzelle, sotto il cupolone di tela cerata, lì in attesa dei primi arrivi mattutini.
In uno dei tanti posti di guardia della Cittadella il soldato Gaspare Valenti guardava il cielo e la Calabria, che lasciava intravedere poche luci, ma limpide, e gridò al collega lì vicino: “Stamatina ci saravi ‘u suli. Piccatu chi nn’amu a ghiri a curcari” 
Il commilitone, dopo avere sfregato le mani una contro l’altra, accese una sigaretta e tirò una lunga boccata, poi rispose: “E tu non ti curcari, fai ‘na bella veglia. Io m’haiu a fari dudici uri di sonnu” 
Il Ferry Boat Calabria procedeva la sua navigazione verso Villa San Giovanni nella più totale tranquillità.

(Parte una base di strumenti cupi, mista al vento e a rumori di terremoto)

Ma questa durò ben poco; ad un tratto risuonò cupo, prolungato, un rumore che sembrava venire dalla profondità del mare. Sotto lo scafo del Calabria si aprì un’immensa voragine e la nave fu di colpo portata giù vertiginosamente per poi risalire con una rapidità incredibile, fra le urla dei passeggeri, sbattuta qua e la da un mare che la sconquassò. Le luci delle due sponde si spensero di colpo e lo stretto piombò in un buio terrificante. Un boato spaventoso annunciò l’arrivo imminente delle prime scosse violentissime, che facevano saltare il mobilio, rompevano i vetri e lasciavano entrare dalle finestre un vento fortissimo... tutto ciò in quei pochi edifici che rimanevano in piedi. Dappertutto cominciò a crollare qualunque cosa potesse essere chiamata muro.
Ecco cosa racconta il telegrafista Monforte, che si trovava alla stazione, al posto di lavoro: (Si abbassano le luci) “’A nuttata avia passatu pacificamenti, mancu un telegramma, nenti, tutto a posto. Tanto che per tenerci svegli nn’aviumu bivutu ‘na samma di cafè e aviumu fattu ‘u cuntu di tutti ‘i corna chi ognunu di nuiautri a ‘sta ura si stava facennu fari. A un certo punto abbiamo sentito un boato infernale, ca pari chi ‘u munnu s’abbissava. Istintivamente mi sono avvicinato alla finestra pi vidiri di capiri quarche cosa, e vitti ‘na luci, ‘na luci chi non era l’alba, ma una cosa nuova, strana, soprannaturale. Appoi cuminciau a trimari ‘a stanza, a trimari ogni cosa, anzi, cchiù chi trimari, sautava tuttu pi l’aria. Ma non sintia rumuru di casi chi cadiunu. Vuci, vuci, strazianti, chistu si, vuci si sintiunu.
Ma quannu ‘a scossa addivintau ondulatoria, tannu fu l’infernu cchiù niru!
Mi sintia comu si m’avissiru pigghiatu di pisu e m’avissiru sbattutu nto muru, ma non comu un cristianu, comu un pupu, si, un pupu di pezza. M’avvicinai alla finestra e cercai di guardare fuori. (Si commuove) Signuri Diu! Io non pensu chi pozzu mai cchiù vidiri ‘na cosa di chisti. ‘I casi cadiunu una arreti all’autra, illuminate da una specie di aurora boreale. Sintia un crollo enorme, gigantesco, comu s’avissiru sparatu milli cannuni. Poi si sintiunu ruzzuliari petri, comu si ci fussi un temporali terribili. 
E tra un rumuru e l’autru si sintia chianciri e gridari: “Aiutu! Aiutu! Aiutatimi!”
Alla fini sintia cadiri ‘a campa d”u Duomu: “Buuuuuhm!” M’attuppai ‘i ricchi, picchì ‘u rumuru fu terribili, e pinsai: “Addiu Missina”.
Pensu chi avia caputu giustu. E poi, chi c’era di capiri? ‘A nostra città non esistia cchiù”
(Si rialzano le luci) 

Monforte aveva capito bene: Messina non esisteva più.
I crolli interessavano il 90% degli edifici cittadini, mentre un terzo dei suoi abitanti sarebbero stati travolti dalle macerie e da tutte quelle disgrazie che il terremoto porta con se. La stazione ferroviaria era crollata, diventando un’immensa massa di inerti, sotto cui erano rimasti sepolti i ferrovieri, i viaggiatori e chiunque vi si trovasse dentro in quel terribile minuto. 
Il deputato e scrittore Gaetano Salvemini, che viveva a Messina, raccontò che fece appena in tempo a spalancare le imposte che la casa precipitò come in vortice, si inabissò e tutto disparve in un nebbione denso traversato da rumori come di valanga e da urla di gente che precipitando moriva. La moglie, i cinque figli e la sorella erano andati a finire sotto le macerie. Era scomparso tutto, tranne il muro maestro dove si trovava la finestra alla cui tenda il professore si era avvinghiato con la frenesia della disperazione di chi vuole salvarsi. L’appartamento di Salvemeni si trovava al quarto piano, eppure, cadendo, non si fece nulla, perchè sotto di lui le macerie avevano formato un cumulo alto quasi quanto l’edificio.
In casa Mirabelli i genitori furono svegliati dagli spaventosi boati e corsero ad afferrare i figli in camera da letto. Le due sorelle più grandi afferrarono ognuno un fratellino più piccolo e scapparono insieme alla madre, che teneva in braccio in figlioletto Umberto. 
Il padre? Beh, quando si dice il destino! Il padre ritardò, afferrò un mucchio di coperte e corse dietro il resto della famiglia. Ma giunto sulla soglia di casa vide sprofondare la tromba delle scale, che aveva inghiottito il resto dei congiunti. E non era ancora finita. Il pavimento sotto i piedi cominciò a sbriciolarsi e a crollare. Lasciò cadere le coperta nel tentativo di aggrapparsi. Ma a che cosa? Tutto crollò, eppure lui rimase illeso, andando a cadere su quel mucchio di coperte, che attutirono il colpo, salvandogli la vita.
Ciò che stava succedendo per strada ricordava veramente l’apocalisse. 
Gruppi di persone seminude che andavano correndo e girando completamente intontite, come anime dannate in un terribilmente reale inferno dantesco. A volte crollava un muro, una casa, un qualcosa che li faceva scomparire come in una guerra terribile. Dappertutto incendi, gemiti, rumore di crolli, vite spezzate, uomini e donne bloccati dalla cintola in giù che chiedevano aiuto. Fra questi il tenore Gamba, che rimase illeso nel busto, mentre le gambe erano bloccate, sepolte dalle macerie insieme a moglie e figli. Chiese aiuto per un bel pezzo, ma nessuno lo volle soccorrere. E così pensò bene di mettersi a cantare, morendo dilaniato dalle fiamme in cui era stato avvolto l’albergo Trinacria, che il tenore abitava. L’ultima immagine che fu ricordata era Gamba che cantava, circondato dalle fiamme, intonando per l’ultima volta “Oh terra addio! Addio valle di pianto”.
Una sorte migliore ebbe la cantante Kovaleck, sempre alloggiata al Trinacria.
Il crollo del pavimento la fece sprofondare al piano di sotto. In preda al terrore la donna si buttò seminuda sulla strada, fratturandosi le braccia, ma salvando la pelle.
Come per ironia della sorte, centotrenta pazzi, ricoverati nella clinica del professor Mandalari, rimasero completamente illesi, mentre i medici di guardia e tutto il personale giacquero sepolti sotto le macerie.
Nel carcere i dormitori delle guardie e del personale in genere crollarono travolgendo chi c’era dentro, mentre nelle celle dei detenuti furono solo scardinate le porte. Fu un gioco per loro forzarle e fuggire per la città. Ciò non fece altro che incentivare la già normale attività degli sciacalli.

(Parte una musica)

Ma c’era stato qualcosa di terribile che si era aggiunto alla situazione già precaria di per se. Difatti oltre alle scosse sismiche, erano avvenuti fenomeni terrificanti, a cominciare dalle crepe, apertesi in diversi punti nel terreno, per finire con il terribile maremoto, che invase la città con tre diverse ondate. 
Questo terminò il lavoro che il terremoto aveva lasciato in sospeso, travolgendo quanto trovava sulla sua strada, soprattutto i pochi fortunati che erano riusciti a sopravvivere ai crolli. Per tutto il 28 dicembre il mare rimase agitato, con alte maree che giungevano puntuali ogni quarto d’ora.
Quando i sismologi poterono conteggiare, si seppe che il terremoto era stato del 10° grado della scala Mercalli ed aveva sollecitato il terreno con 30 secondi di scosse ondulatorie e sussultori. Il livello viene denominato: “Totalmente catastrofico, ogni opera dell’uomo viene distrutta, grandi trasformazioni topografiche, deviazione dei fiumi e scomparsa di laghi” 
Aggiungeremmo: potenti maremoti che contribuiscono alla modifica della faccia della terra.
A Messina il mare fu terribile, scavalcò la penisola di San Ranieri e sconquassò la Cittadella, inespugnabile fortezza di costruzione spagnola.
Le acque risucchiarono i soldati dal posto di guardia, distrussero le garitte, sconvolsero gli spalti, abbatterono soffitti e pareti dei capannoni militari.
Il soldato Gaspare Valenti, del 22° Artiglieria, venne prelevato dall’onda e scaraventato nelle acque del porto, dove poi fu raccolto da una barca, che lo mise in salvo. Ma il suo racconto ha qualcosa di veramente romanzesco:
“Avia tutta ‘a nuttata chi vidia bugghiri ‘u mari. Ma pinsai: saravi ‘a tramuntana. C’era friddu dda nuttata, ma il cielo limpido. A un certo punto non si capiu cchiù nenti. La terra trimava e ballava, trimava e ballava... Circai di scappari. Ma unni? Unni avia annari? Intantu ‘na gran confusioni si sintia, non sulu a San Ranieri, ma in città. Rumuri strani, chi non si capia chiddu chi erunu. Erunu mura chi cadiunu! 
C’era tantu di ddu pubbirazzu, che l’aria non paria cchiù nira, ma grigia. Dopu quarche minutu s’accumianciau a vidiri l’umbra, l’umbra di ‘na città chi scumparia, illuminata dalle fiamme di centinaia di incendi. Si sintiunu vuci, genti chi gridava, chi chiancia, e ogni tantu si sintia cadiri un palazzu. Buooooohm! ‘U cumannanti nni chiamò a tutti: “Soldati, Messina è crollata sotto i colpi di un terribile terremoto. Noi siamo stati fortunati a salvarci, la nostra fortezza ha resistito. Presto, prendete quanto potete e andiamo di corsa ad aiutare i supertistiti e a smuovere i cadaveri”.
Non finiu di diri ‘sti paroli chi mi sintia arrivari di supra quarche cosa chi non si riniscia a capiri. Il mare si era alzato almeno di sei – setti metri e avia sautatu supra ‘e mura d”a fortezza. Pi ‘na decina di sicunni, ‘na decina di sicunni chi duraru un’eternità, ‘u mari m’affirrau e mi purtau nta l’aria; poi mi sbattiu nta l’acqua e scinnia pi quarche metru, senza aviri la forza di riturnari a galla. 
Ma quannu mi nn’accurgia di chiddu chi stava succidennu, accumincia a natari cu tutta la me’ forza. Niscia ‘a testa forza di l’acqua e vitti chiddu chi c’era attornu a mia: ‘u mari era chinu di morti e di ruttami. Accuminciai a gridari: “Aiutu! Aiutu! Aiutatimi!” Ma cu’ m’avia sentiri? Cu’ m’avia iutari? Ognunu circava di darisi aiutu d’iddu stissu. Ma io non ci ‘a facia! E gridava sempri: “Aiutu! Datimi aiutu!” Poi sintia ‘na vuci chi dicia: “Prestu, carusi, cca ci nn’è unu vivu” E ‘a stissa vuci chi mi chiamava e mi dicia: “Oh, unni si? Fati vidiri” “Sugnu cca, sugnu cca” gridai io cu l’urtimu filu di vuci chi mi ristava. 
Dda vuci vinia di ‘na barca di piscaturi, una di pochi barchi chi s’avia sarvatu, chi mi pigghiau e mi purtau supra a chiddu chi ristava d”a banchina d”u portu.
Quando scesi nel porto, non cridia all’occhi mei. Sulu quarche ura prima avia passatu nta dda Marina, a braccettu di ‘na bedda missinisa. E cu’ sapi a ‘sta ura unn’era? Era viva o morta? La turnai a circari dopu: grazie a Dio era viva.
Vardai attornu a mia e vitti un solu di morti e di ruttami chi ‘u mari sciacquava avanti e arreti. Davanti a mia ‘a Palazzata era quasi scomparsa. ‘Na fimmina di ‘na quarantina d’anni, nuda, mi vinni vicinu e mi dissi: “Surdatu, me’ maritu sta caminannu senza iammi” Gli occhi ce li aveva stravolti. Mi levai ‘a giacca e ci dissi: “Signuruzza, cummigghiativi”.
Nto mentri chi facia chistu, ‘n’autra ondata, cchiù forti d”a prima m’arrivau di supra e mi trascinau oltri la Palazzata, in via Garibaldi. A ‘stu puntu non sacciu comu fu chi cuminciai a curriri, a curriri, a curriri. E curria, passai paisi, passai casi boni e casi sdirrupati; sautai passaggi a liveddu; passai ciumari e curria, sempria curria. A un certu puntu, dopu non sacciu quantu tempu, arrivai in una grande piazza, unni c’era ‘na chiesa e tanti cristiani assittati. Mi firmai e cadia ‘nterra. ‘Na para di omini s’avvicinaru e mi misiru un cappottu sutta ‘a testa.
“Scusati, unni sugnu” ci dumannai. “A Ripostu” mi rispunniu unu “Di unni viniti?” “Di Missina” ci rispunnia “avi chi curru di Missina, di cincu e menza di stamatina. ‘Na signura s’avvicinau, si chinau supra di mia, m’accarizzau ‘a frunti e mi baciau. Poi mi dissi: “Siti furtunatu, ci putiti cuntari ‘e vostri figghi di aviri vistu la cchiù ‘ranni di li disgrazii di la nostra genti”
Ora ero al sicuro. Avevo corso per undici ore e avia fattu novanta chilometri” 

(Parte una musica)

Il soldato Gaspare Valenti era al sicuro, ma il resto della popolazione Messinese, dov’era? 
(Si abbassano le luci e vengono proiettate immagini di Messina dopo il distrastro)

Lì, era lì, in parte sepolta, in parte a combattere insieme ai marinai della flotta italiana, di quella russa e di altre navi, che avevano subito attraccato in città o ancoratesi vicino per dare i primi soccorsi ai messinesi. 
Ecco quanto restava di Messina la grande, la commerciale, la regina del Mediterraneo, la porta della Sicilia, la seconda città dell’isola; la sede del portofranco; il luogo di tante e tante banche, società assicurative e imprese di navigazione. 
Messina la ricca, la bella, la divertente e la divertita, ridotta ora ad un immenso, triste, raccapricciante cimitero per uomini e cose.

(Parte una musica, che accompagna lo scorrere di immagini terribili. 
Poi si riaccendono le luci)

Mentre Messina e Reggio morivano, nel resto d’Italia ben poco si sapeva. 
E’ ovvio che i mezzi di comunicazione non erano quelli di oggi e poi bisogna aggiungere che la trasmissione telegrafica era impossibile, visto che tutto era crollato. Verso le 11,00 a Roma si diffuse la notizia vaga che un terremoto aveva colpito Bagnara. Fu solo grazie alla torpediniera Serpente se seppero le prime notizie. 
La nave si riempì di superstiti e riuscì a sbarcare a Nicotera, da dove alle 13,00 telegrafò a Roma, segnalando quanto era veramente accaduto. Per uno strano caso del destino la notizie raggiunse il Presidente del Consiglio Giolitti soltanto alle 17,45.
Nessuno voleva crede a quanto si diceva. Ma già in prima serata cominciarono ad uscire le edizioni straordinarie dei giornali e gli strilloni propagandavano per strada: “La morte a Messina! La Calabria distrutta” 
Una massa di persone invase la Stazione Termini quella sera. Erano siciliani e calabresi; urlavano, imprecavano, bestemmiavano, pregavano, piangevano. Erano senza notizie dei loro cari. Ma come si poteva sapere? Ogni comunicazione, sia essa telefonica, telegrafica o ferroviaria, si fermava a Palmi, in Calabria, molto prima di Villa San Giovanni.
Intanto a Messina si avviavano le prime opere di soccorso. Il 29 dicembre e nei quattro o cinque giorni che seguirono i medici militari e quelli civili delle squadre di soccorso, accorse in Sicilia, curarono decine di migliaia di scampati.
Tutti riportavano ferite, abrasioni, traumi terribili, malattie da raffreddamento, di cui bronchiti e polmoniti. 
I primissimi tavoli operatori furono lastre di marmo recuperate da un caffè della Palazzata, che era stato sventrato dal sisma.
Moltissime erano le fratture ossee e moltissime, nei giorni a seguire, cominciarono a contarsi le cancrene. Dopo l’ottavo giorno comparve un nuovo nemico: il tetano.
Ma soprattutto tutti riportavano gravi traumi psichici. I superstiti erano rimasti come ribambiti; avevano l’espressione inebetita e spesso non riuscivano più a parlare.
Tanti furono i casi di acinesi, cioè abolizione o riduzione dei movimenti.
Si lasciavano cadere come cenci, senza reagire, in attesa che la morte venisse a liberarli. Numerosissimi furono i casi di mutismo, cecità, nevrosi, epilessia, nevrastenia, tutto dovuto ai traumi psichici che i superstiti riportarono. 
Purtroppo l’ignoranza di molti soccorritori non fece loro comprendere che tanti atteggiamenti degli scampati erano dovuti ad una reazione psicologica, per cui furono scambiati per pigrizia e atavica indolenza della gente del sud. Ecco cosa riporta un documento dell’epoca: “I superstiti sono fiacchi, avidi, indolenti... non alzano un dito per aiutare, non vogliono nemmeno interrare i cadaveri... stanno a guardare mentre le squadre scavano... al momento del disseppellimento il congiunto superstite annuisce col capo e dice stancamente: lo riconosco”
Persino sui giornali si mobilitò il solito razzismo, con articoli che raccontavano dell’arretratezza dei siciliani; delle donne, che dormivano nude, erano state sorprese nel sonno dal terremoto e avrebbero preferito morire piuttosto che farsi vedere dai soccorritori.

(Parte una musica di pianoforte)

Quelli non erano certo tempi in cui la follia, i comportamenti devianti, trovavano una qualche forma di comprensione.
Una barca aspettava nel porto, mentre robusti infermieri trascinavano persone legate e le facevano imbarcare. Ma chi erano? Erano i pazzi di Messina... no, non quelli scappati dal reparto del professor Mandalari... no, erano persona normali fino alle cinque e venti del 28 dicembre. Ora avevano perso la testa; dapprima si contentavano di vagabondare, ma poi diventavano cattivi, violenti; tentavano di togliersi la vita o di uccidere altre persone. E così bisognava portarli via per evitare che potessero fare male a se e agli altri. Venivano legati e trascinati via di mattina presto. Li caricavano sulla barca e li portavano via, nessuno sapeva dove, mentre vociferavano, guardavano attoniti la città che si allontanava... qualcuno piangeva, forse in un momento di lucidità.
Per fortuna le nuove generazioni avevano subito solo degli shock leggeri o forse tanti non avevano neppure avvertito quanto era successo. Erano i bambini, che andavano su e giù per la città e cominciavano coi loro giochi a dare un barlume di speranza a quanti erano sopravvissuti e non avevano perso il lume della ragione.
I giornali del nord però non riportarono mai il caso del telegrafista Sergi, che vagava alla stazione, fra migliaia di persone in attesa di prendere un treno per Catania. Sergi aveva il misero incasso della nottata antecedente il cataclisma e si rifiutava di partire, perchè prima avrebbe dovuto consegnare i soldi. Ma consegnarli a chi? 
I suoi superiori erano tutti morti. Alla fine desistette e partì per Catania, dove affidò il denaro nelle mani di un superiore del posto.

Certo che persone così ne servirebbero tante per dare ai cittadini un po’ di fiducia nello Stato e nei suoi impiegati.

Nel frattempo continuava l’opera dei soccorritori. Masse di persone ferite giacevano ovunque in un mare di fango, sotto la pioggia battente. I moribondi chiamavano, imploravano. Alcuni chiedevano aiuto per vivere, altri invece per morire.
Molti erano i suicidi di persone che avevano perduto tutto: casa, famiglia, speranza.
Dalle macerie cominciava a salire il lezzo dei cadaveri; i soccorritori lavoravano instancabilmente con le narici tappate da cotone intriso di disinfettanti. 
I corpi tratti dalle rovine erano quasi tutti seminudi, incrostati di polvere, di calcinacci, orribilmente mutilati, spiaccicati. Molti erano morti da soli, altri vennero trovati a gruppi di famiglie. 
Intanto un’idea si era fatta strada presso le autorità: allontanare i superstiti e bombardare la città dal mare per far crollare ciò che rimaneva in piedi. Questo avrebbe dovuto impedire il diffondersi di epidemie. Ma come fare? Tutti ben sapevano che sotto le macerie sopravvivevano ancora centinaia, forse migliaia di persone. 
E poi come fermare le epidemie con un semplice bombardamento? Sarebbero stati necessari proiettili intrisi di disinfettanti. Solo che la natura provvede da se, e il fuoco dei numerosi incendi stava pensando a condurre una massiccia opera di disinfestazione.
Il 29 dicembre alle ore 17,15 venne collocato un filo telegrafico volante fino al torrente Zaera e il prefetto Trinchieri riuscì ad inviare il telegramma che avvisava la morte della città: “Il disastro è inconcepibile, supera qualsiasi supposizione si possa fare. Messina è totalmente distrutta”.
Sempre nel pomeriggio del 29 dicembre Vittorio Emanuele III e la Regina Elena giunsero a Napoli da dove si sarebbero imbarcati verso i luoghi del disastro.
Parallelamente il Pontefice Pio X si trovò davanti a un terribile dilemma: poteva lasciare le mura vaticane e correre nello Stretto anche lui? Fu deciso che il Papa non vi dovesse andare, tutto ciò per ovvie ragioni politiche. Si dichiarò che lo spostamento del Papa nei luoghi sventurati di Sicilia e Calabria avrebbe comportato grossi problemi organizzativi, con l’impiego di enormi uomini e mezzi, distogliendo i soccorritori, che in quel momento erano impegnati ad aiutare i sopravvissuti.
La mattina del 30 dicembre giunse a Messina la coppia Reale, accompagnata da un gran numero di navi, che portavano soccorso di vario genere. La Regina Elena si trasferì immediatamente sul Campania, trasformata in nave ospedale.
Finalmente cominciò un vero e proprio confronto fra la città e il potere centrale.
Il Sindaco Gaetano D’Arrigo disse chiaramente al Re che Messina aveva avuto aiuto più dai russi che dagli italiani. Il Re gli rispose che lui non aveva diritto a parlare, visto che era fuggito dalla città.
Dopo il Sovrano e il suo seguito si inoltrarono nella città distrutta. Qui si vissero momenti di comica commozione, con il ministro Vittorio Emanuele Orlando che singhiozzava, continuando a ripetere: “E’ troppo! E’ troppo!”, mentre il Re si lasciava andare ad abbracci e baci ai poveri superstiti messinesi. Il tutto naturalmente immortalato da fotografi e cineprese.
Nella realtà Vittorio Emanuele III era rimasto sconvolto da quanto aveva visto e fece subito telegrafare al Presidente del Consiglio Giolitti un telegramma che rimase nella storia: “Qui c’è strage, fuoco e sangue. Spedite navi, navi, navi e navi”
Per la prima volta i cittadini meridionali avevano visto lo Stato in una veste diversa da quella che conoscevano. Si trovavano di fronte ad uno Stato paterno e benefattore, lontano da quello poliziesco e sfruttatore.
Comunque Messina moriva e continuava a morire sotto le macerie. 
Per giorni e giorni si cercò di sentire un gemito, un rumore, che provenisse da dall’interno degli inerti e desse la speranza di trovare persone ancora in vita. In alcuni casi fu così, in altri dobbiamo accettare l’idea che tanti trovarono la morte per fame o per asfissia, cercando un aiuto che non poterono mai ricevere.

(La luce si abbassa fino al buio. Parte una musica e riappaiono alcune 
immagini di Messina distrutta)

Non c’è terremoto senza sciacallaggi. La truce storia dei saccheggi, delle indicibili violenze e delle ruberie commesse a Messina da individui assetati di sangue e ubriachi di rapina, prese corpo la sera del 28 dicembre con un dispaccio che giungeva da Catania e che diceva così: 

(Si oscura lo schermo e torna in luce la scena)

“I detenuti, evasi in massima parte dal penitenziario, hanno iniziato il saccheggio e la gente fugge spaventata prendendo la via della montagna e lasciando in balia dei saccheggiatori le case per avere salva la vita. Gli evasi hanno saccheggiato ovunque, commettendo anche barbari assassini”
Ma non erano solo degli assassini quelli che si davano allo sciacallaggio, in realtà c’erano anche molte persone che volevano sopravvivere. Molta parte di coloro che si diedero ai saccheggi erano individui che nella loro vita non si sarebbero mai sognati di infrangere la legge. 
Furono saccheggiati magazzini e botteghe di ogni genere, spesso da persone che avevano fame o che avevano perso ogni forma di legale dignità. Caos, ecco cos’era diventata la città: caos. Ognuno si aiutava come poteva, per mangiare, per portare qualcosa ai figli superstiti o a chi ne avesse bisogno e non potesse farlo da solo. 
Tanto ogni cosa che si trovava era res nullius, non serviva a nessuno.
Persino i soldati, i soccorritori, per poter mangiare erano costretti ad entrare nei magazzini e prendere qualcosa. E comunque non sempre questi si limitarono ai generi di prima necessità, ma a volte si portarono via soldi e preziosi. Chi avrebbe dovuto applicare la legge marziale contro i saccheggiatori, faceva parte esso stesso integrante di questi ultimi. Agli sciacalli della città si aggiunsero quelli che venivano da paesi e villaggi distrutti. Persino i contadini arrivavano coi muli scarichi e ripartivano pieni di preziosi e denari. Naturalmente chi ci andò di mezzo furono i poveri derelitti che vagavano fra macerie e botteghe per trovare qualcosa da mangiare. I giornali del nord fecero di tutta l’erba un fascio. In seguito si seppe di persone assassinate per essere derubate, di corpi mutilati, cui furono tolti anelli e quant’altro. Nacquero espressioni come: “Mozzatori di orecchie; mietitori di dita”, fortunatamente riferite a violenze su persone già morte, su corpi sfracellati, che furono in ogni caso alleggeriti dei preziosi.
Lo sciacallaggio fu una delle disgrazie peggiori, in ordine d’importanza, che il terremoto portò con se. Alla mezzanotte del 31 dicembre la città era presidiata da numerose forze di polizia e soldati di varie nazionalità. Per le strade, ormai ridotte a grandi montagne di macerie, si vedevano, unici lugubri abitatori, le bieche figure dei ladri, che frugavano i resti della morte. Qualcuno che veniva sorpreso dai soldati di ronda, era immediatamente fucilato sul posto, socondo quanto prescritto dalla Legge Marziale.
La giustizia sommaria fu esercitata a Messina con grande ferocia e superficialità dagli stessi uomini che avevano dimostrato tanta magnanimità nell’intervenire come soccorritori. Ciò che apparve più atroce fu la fucilazione di coloro che tornavano a cercare i propri effetti fra le macerie della casa distrutta, dove forse giacevano anche i propri cari.
Ma queste furono le conseguenze dello Stato d’Assedio, forse necessario per instaurare un po’ d’ordine in città, forse inutile, sicuramente deleterio. E se oggi, per non esserti fermato ad un posto di blocco, può capitare che ti scarichino addosso una raffica di mitra, figuriamoci cento anni fa cosa poteva accadere in una città distrutta dal terremoto dove vigeva la Legge Marziale.

(Buio. Parte una musica di stampo moderno)

La grande Messina dunque non c’era più, era solo un cumulo di macerie da cui veniva fuori il lezzo dei cadaveri e di tutto ciò che potesse decomporsi. Ma perchè la città era caduta? Per colpa del terremoto, si potrebbe dire. Certo. Ma come abbiamo affermato all’inizio, non è la natura assassina, siamo noi uomini che da sempre cerchiamo di domarla, a volte con la dolcezza, quasi sempre con la violenza, spesso con l’incompetenza e ancora più spesso con la disonestà. 
Siamo noi che edifichiamo case nel greto del torrente, vicino alla riva del mare, sotto il cratere del vulcano, e come le formiche vengono massacrate dal piede dell’uomo, per essersi creato il formicaio lungo il suo passaggio, così noi veniamo distrutti dal piede della natura per averne ostacolato il corso.
Abbiamo già accennato al fatto che le precise norme antisismiche dettate dal governo borbonico dopo i terremoti del 1693 e del 1783 furono sempre disattese.

(Si abbassano le luci e appaiono immagini di Messina prima del terremoto)

Tutto quello che appariva nella sua sontuosa grandezza altro non era che un insieme di palazzi di cartone, che vennero giù in brevissimo tempo travolgendo ogni cosa e ogni persona. Persino l’Ospedale Civico, che aveva fatto nascere il detto: “Cchiù duru di ‘na cantunera di ‘spitali” , venne giù come un castello di sabbia alla prima marea. La Palazzata, orgoglio della città, era in realtà un’opera malata già alla sua costruzione, sia per l’altezza, ma soprattutto per come era stata edificata. Molta parte degli inerti del 1783 erano stati utilizzati per la nuova costruzione. Nei solai e dentro i soffitti di pomice furono trovati materiali di ogni genere, comprese ossa d’animali. All’inizio del 1800 Giuseppe La Farina scrive: “Messina è una città a due piani”, poiché ciò prevedeva la legge borbonica, che le case fossero pianterreno e primo piano. Questo durò ben poco. I sontuosi palazzi delle grandi famiglie messinesi superavano abbondantemente l’altezza raccomandata dalla legge. Dunque una città malata dentro, anche se bella e sana fuori.

(Musica. Ora viene proiettata un’immagine del cimitero di Messina)

Entrando dalla porta centrale del cimitero monumentale di Messina, a cinquanta
metri sulla sinistra, si trova la tomba della famiglia Mirabelli. 

(Immagine della tomba)

Sulla lapide di sinistra si legge: “Marianna Vitale in Mirabelli, sposa fedele, madre carissima e martire del dovere, coi bimbi Guglielmo e Umberto. Riposano pure i fratelli Filippo e Carlo Mirabelli, periti nel disastro del 28 dicembre 1908. E Serafina, Mariannina e Aurora Mirabelli. 
Che letizia essere Angeli di Dio, Mamma Cara!
E papà perchè non è venuto con noi?
Eh, figlioli miei,
papà è rimasto laggiù
nella valle ove tutto è dolore.
Voi che siete di sgabello al trono di Dio,
pregatelo che venga presto tra noi.
Gesù non rifiuta nulla 
ai bimbi innocenti,
seppelliti nel disastro del 28 dicembre 1908.

(Riprendono a passare immagini della città prima e dopo il sisma)

La lapide al centro è l’epigrafe di Andrea Mirabelli, l’infelice padre di questa famiglia, sopravvissuto al massacro dei suoi cari.
Voi tutti che vi accostate
a questa tomba
pregate per la pace eterna.
Alla mia sposa amatissima,
ai miei sette figli,
che trovai dormenti 
nei loro letti di morte
vittime della catastrofe.

O Serafina, Mariannina, Filippo, Carlo,
Aurora, Guglielmo, Umberto,
perchè non rispondete
ai miei pianti, ai miei sospiri!
Non squarciate quel velo
che mi racchiude
e congiungetemi a voi.

(Terminano le immagini e un cono di luce illumina l’attore)

Nella terza lapide, posta a destra, è la sepoltura di Rosina Crisafulli, scampata al terremoto e compagna di Andrea Mirabelli negli anni della straziante sopravvivenza.

(Con una dolce musica di sottofondo si sente una voce di donna fuori 
campo)

Anch’io orbata
dai miei fratelli dalla catastrofe,
ero sola derelitta al mondo
con la mia povera madre.
Un Angelo però ci venne in aiuto
che volle nel suo immenso dolore
essere un eroe di carità.
Dando sepoltura ai miei,
togliendomi dalla miseria
sposandomi
rendendomi meno amaro il dolore
che continuamente mi rode.
E perciò io, col cuore
colmo di riconoscenza
verso il mio benefattore,
voglio essere sepolta
al suo fianco.

(La scena s’illumina quasi a luce piena)

Sicuramente non abbiamo molti mezzi per prevenire i terremoti e tutte le varie disgrazie che ci dispensa la natura, perchè rappresentano il modo attraverso cui essa si rinnova e modifica il suo aspetto. Ma possiamo certamente ridurre i danni, se soltanto mettiamo la nostra intelligenza a servizio dell’onestà e della fratellanza.

(La scena si oscura leggermente)

Questo spettacolo è dedicato a Sandro Attanasio, lungimirante autore di un bellissimo libro sul terremoto del 28 dicembre 1908 e mio collaboratore nella stesura del lavoro. Lui però non lo sa, poiché è scomparso da tempo.
(Buio. La musica dell’inizio)
Fine

Terminato di scrivere venerdì 21 ottobre 2005 alle ore 08,21.

Traduzioni

Il racconto del telegrafista Monforte

“La nottata era trascorsa pacificamente, nemmeno un telegramma, nulla, tutto a posto. Tanto che per tenerci svegli avevamo bevuto una gran quantità di caffè e fatto il conto delle corna che in quel momento ciascuno di noi si stava facendo piazzare. 
A un certo punto un boato infernale, che sembrava che il mondo s’inabissasse. Istintivamente mi sono avvicinato alla finestra per cercare di capire qualcosa, e ho visto una luce, una luce che non era l’alba, ma un fenomeno nuovo, strano, soprannaturale. Poi ha cominciato ha tremare la stanza, a tremare ogni cosa, anzi, più che tremare, saltava tutto in aria. Però non sentivo rumore di case che cadevano. 
Voci, voci, strazianti, questo si, si sentivano voci.
Ma quando la scossa diventò ondulatoria, allora fu l’inferno più nero!
Mi sono sentito come se mi avessero afferrato e sbattuto sul muro, ma non come un uomo, come una marionetta, si, una marionetta di pezza. Mi sono avvicinato alla finestra e ho cercato di guardare fuori. (Si commuove) Signore Dio! Io non credo che riuscirò mai a vedere una cosa del genere. Le case cadevano una dopo l’altra, illuminate da una specie di aurora boreale. Ho inteso un crollo enorme, gigantesco, come se avessero sparato mille cannoni. Poi si sentivano pietre rotolare, come se ci fosse un temporale terribile. E tra un rumore e l’altro giungeva il pianto della gente che gridava: “Aiuto! Aiuto! Aiutatemi!” Alla fine sentii cadere la campana del Duomo: “Buuuuuhm!” Mi tappai le orecchie, perchè il rumore era spaventoso, e pensai: “Addio Messina”. 
Credo di aver capito bene. Del resto che c’era da capire? La nostra città non esisteva più.


Il Racconto del soldato Gaspare Valenti

“Era tutta la notte che vedevo ribollire il mare. Pensai: “Sarà la tramontana”. C’era freddo quella notte, ma il cielo limpido. A un certo punto non si capì più niente. La terra tremava e ballava, tremava e ballava... Cercai di fuggire. Ma dove? Dove potevo andare? Intanto si sentiva una gran confusione, non solo a San Ranieri, ma in città. Rumori strani, che non si riusciva a comprendere di cosa si trattasse. Erano mura che cascavano. C’era tanta di quella polvere, che l’aria non sembrava più nera, ma grigia. Dopo qualche minuto cominciammo a intravedere un’ombra, l’ombra di una città che andava scomparendo, illuminata dalle fiamme di centinaia di incendi. 
Si udivano voci di gente che gridava, che piangeva, e ogni tanto giungeva il rumore di un palazzo che crollava. Buooooohm! Il comandante ci convocò tutti: “Soldati, Messina è crollata sotto i colpi di un terribile del terremoto. Noi siamo stati fortunati a salvarci, la nostra fortezza ha resistito. Presto, prendete quanto potete e andiamo di corsa ad aiutare i supertistiti e a smuovere i cadaveri”.
Non terminò di pronunciare queste parole che mi sentii arrivare addosso qualcosa che non riuscivo a capire. Il mare si era alzato almeno di sei – setti metri e aveva scavalcato le mura della fortezza. Per una decina di secondi, una decina di secondi che sembrarono un’eternità, il mare mi afferrò e mi lanciò in aria; poi mi sbatté in acqua, facendomi scendere per qualche metro, senza trovare la forza di riemergere a galla. 
Ma quando mi resi conto di quanto stesse succedendo, cominciai a nuotare con tutta la forza che mi restava. Tirai fuori la testa dall’acqua e vidi quanto c’era attorno a me: il mare era traboccante di cadaveri e di rottami. Cominciai a gridare: “Aiuto! Aiuto! Aiutatemi!” Chi poteva udire il mio grido? Chi poteva aiutarmi? Ognuno si dava da fare per salvare se stesso. Invece io non ce la facevo più! E gridavo sempre: “Aiuto! Datemi aiuto!” Poi udii una voce che diceva: “Presto, ragazzi, qui c’è uno vivo” E la stessa voce che mi chiamava e mi diceva: “Ohè, dove sei? Fatti vedere” “Sono qui, sono qui” gridai con l’ultimo filo di voce che mi avanzava. 
Quella voce giungeva da una barca di pescatori, una delle poche barche che si erano salvate. Mi presero a bordo e mi sbarcarono su quanto restava della banchina del porto.
Quando scesi in città, non credevo ai miei occhi. Solo qualche ora prima avevo attraversato la Marina a braccetto di una bella messinese. Chissà dov’era andata a finire? Era viva o morta? Tornai a cercarla dopo: grazie a Dio era viva!
Guardai attorno a me e vidi solo morti e rottami, che il mare trascinava avanti e indietro. Davanti a me la Palazzata era quasi scomparsa. Una donna d’una quarantina d’anni, nuda, mi si avvicinò e mi disse: “Soldato, mio marito sta camminando senza gambe” Gli occhi li aveva stravolti. Mi sfilai la giacca e le dissi: “Signora, copritevi”.
Nel frattempo un’altra ondata più forte di quella precedente mi travolse e mi trascinò oltre la Palazzata, in via Garibaldi. A questo punto non so come fu che cominciai a correre, correre, correre. E correvo, attraversai paesi, vidi case intere e altre distrutte; superai passaggi a livello; attraversai torrenti, e correvo, sempre correvo. A un certo punto, dopo non so quanto tempo, giunsi in una grande piazza, dove c’era una chiesa e tante persone sedute. Mi fermai e caddi per terra. Alcuni uomini si avvicinarono e mi adagiarono un cappotto arrotolato sotto la testa.
“Scusate, dove mi trovo” chiesi. “A Riposto” mi rispose uno “Da dove venite?” “Da Messina” gli dissi “arrivo da Messina, sono fuggito alle cinque e mezzo di stamattina” Una signora si avvicinò, si chinò su di me, m’accarezzò la fronte e mi baciò. Poi mi disse: “Siete fortunato, potete raccontare ai vostri figli di avere assistito alla più immane delle disgrazie capitate alla nostra gente”
Ora ero al sicuro. Avevo corso per undici ore e avevo attraversato novanta chilometri”