Un po’ di storia personale

di

Antonio  Sapienza


Personaggi

Il cabarettista
Figura in pigiama
L’intruso

In scena c’è il cabarettista, il quale fa come se volesse parlare oppure no. Infine si decide e parla.

Ogni anno ricorre “Il giorno della memoria”, (appunto il giorno, che in TV diventa una settimana, con buone dosi di rigetto) che ci ricorda la barbarie nazista commessa ai danni degli Ebrei. E chi non ha provato orrore per lo sterminio di tanti innocenti nei campi di concentramento nazisti? E chi, compreso me stesso, non ha seguito, con trepidazione la formazione dello stato d’Israele? (vedi il famoso film “Exodus” che ne mostrava il travaglio del suo embrione); ma nel contempo, con compassione e preoccupazione, per lo sfratto dei palestinesi dalle loro terre.
Appunto si diceva : una settimana per ricordare quei fatti nefasti. Ma, vedete, qualche volta mi salta la mosca sul naso e penso: Ma a me, e a quelli come me, che durante la guerra erano ragazzini; a quei genitori alle prese con la fame, la miseria, le malattie, e i bombardamenti- notturni e diurni – con vittime innocenti fra i civili- nessuno fa una commemorazione delle nostre sofferenze, dei nostri morti? E nessuna giornata per ricordare mio zio morto sul Carso? E mio cugino disperso in Russia, e mio padre disoccupato per sette anni per non aver voluto prendere la tessera de P.N.F.? E mio fratello, soldato, che venne da Napoli a Siracusa a piedi, dopo l’otto settembre, comminando sulla cresta degli appennini per sfuggire ai tedeschi e agli Alleati, arrivando a casa come un Gesù Cristo in croce, e con indosso solo una misera tuta di lavoro - perché gli abiti li aveva lasciati ai contadini che gli davano qualcosa da mangiare – le scarpe li dette al pescatore che lo traghetto in Sicilia. E delle mie sorelle insidiate dai signori Alleati, i quali quando le vedevano dicevano loro: “Segnorita, gig, gig?” - il cui significato vi lascio immaginare.  
E il sottoscritto, bambino affamato - sbatacchiato nei rifugi antiaerei, nelle grotte, nelle strade piene di macerie causate dai bombardamenti soprattutto notturni, sui civili, che nessun tribunale ha mai osato giudicare e condannare, loro e i loro mandanti, come criminali di guerra, per quei genocidi- il quale faceva collezione di… schegge di bombe che gli aerei sganciavano sulla città; ed ero un esperto e un valente collezionista: infatti riconoscevo il rumore degli aerei, sia in arrivo che in partenza e uscivo dai ripari prima che la sirena suonasse il cessato allarme, per raccattare i pezzi più pregiati (naturalmente con la disperazione di mia madre).  E ancora sempre bambino, corre in piazza dove, tra le arcate del convento di Santa Lucia, erano stati ammucchiati una ventina di cadaveri di vecchietti -vittime di una spezzonata, che a mezzogiorno stavano prendendo un po’ di sole in piazza - per vedere se tra quei cadaveri di poveretti straziati nelle carni, ci fosse mio padre, che in quel periodo aveva nelle vicinanze, il suo laboratorio di disoccupato.
No, niente giornate (o settimane ) del Ricordo.  E allora ho deciso di scrivere questo monologo per ricordare ciò che è stato dimenticato, trascurato, spesso trattato con insolenza, e fastidio, e raccontato soltanto dai film neorealisti, (Sciuscià, Ladri di biciclette ecc.) e poi fine.
Vi annoierete? Direte: “Sono cose risapute? Niente, abbiamo altro da fare! E che cavolo!”  Bene, ed io voglio parlarne proprio per questo motivo, e a chi non piaccia- in teatro- si può alzare e andarsene; mentre chi lo legge, vuol dire che chiude il copione e va a prendersi un hamburger, e una birra, nel vicino MacDonald.  
Allora: Nel 1936 nacqui in una casa di borgata, a cinquanta metri dalla scogliera, dopo che mio padre – clandestino per dieci anni negli Stati Uniti, fu prelevato dalla polizia dell’immigrazione e spedito, sul Rex, nell’Italia fascista- arrivò a Siracusa con il vestito grigio, il cravattino a farfalla le scarpe bicolore e la lobbia calzata in testa, e qualche dollaro in tasca. E si trovò nell’allora “Terzo mondo”, dove invece della cucina a quattro fornelli, il lavello con acqua calda e fredda, il frigorifero, trovò il fornello a carbone, l’acqua fredda, e la dispensa con la rete metallico per conservare i cibi…che non c’erano. Infatti, come dicevo sopra, a causa della testardaggine di non voler aderire al Fascismo, stette sette anni disoccupato. Ma nacqui io, per errore o per volontà non saprei dirlo. So solamente che mi misero nella “Naca a vento”- (due occhielloni fissati nelle pareti sopra il lettone dei miei genitori, una coperta legata con funi ai detti occhielli, una corda per dondolarmi, dove io e il mio destino dormivamo insieme…e via così.). E la fame si tagliava col coltello, e mia madre mandava  mia sorella minore da una mia zia che aveva sposato un Pilota di Porto – peraltro preso di mira dai fascisti con abbondante olio di ricino e percorse perché non volle mai gridare : “Viva il Duce” (che lui tentava di aggirare gridando in dialetto “Viva u ruci”, cioè il dolce, facendo incazzare gli squadristi) a prendere l’avanzo della pasta che mia zia metteva in pentola per i loro pranzo, aggiungendo qualcosina in più. Bella umiliazione, che ne pensate? E mia sorella maggiore. Che faceva la sartina presso una sartoria per donna, quando si staccava per il pranzo, arrivava a casa, constatava che a tavola non c’era nulla, si faceva una cantata e tornava in sartoria. E mio fratello maggiore, quindici anni più di me- infatti egli e le mie sorelle nacquero prima dell’andata di mio padre in America, invece io al suo ritorno- che andava dalla pizzicagnola a chiedere una “vastedda”, di pane, che poi per pagare sarebbe passato mio padre. Ed egli facendo l’apprendista idraulico, con la miseria che gli dava il “principale”, provava a fare ciò che poteva per aiutare la baracca traballante.  Mentre i parenti di mia madre- che avevano avuto ampi prestiti in dollari (che mio padre spediva a sua moglie), e che poi restituirono a fine conflitto con moneta svalutata – anche a causa della perenne mala annata, non aiutarono più di tanto la baracca suddetta. Anzi, si, l’aiutarono: Nel periodo dei bombardamenti più violenti, ci ospitarono nelle loro masserie in affitto, dove dormivamo nelle grotte, insieme alle vacche. E qui devo citare un episodio: Eravamo in una grande grotta che dividevamo con gli animali, e che era separata da un muro fatto di fascine di tralci di vite. E una notte, i buoi incominciarono a grattarsi le corna nelle suddette fascine, e quelle ci crollarono addosso. Ora noi dormivamo, io, mia madre e le mie sorelle, con tutti i parenti nell’altra metà della grotta, con i lettini addossati alla parete delle fascine -noi quattro- mentre gli altri avevano i loro lettini di fortuna, addossati alla parete dell’altra metà grotta. E dormivano tutti col lenzuolo che ci copriva interamente, a causa delle zanzare; quindi le fascine che ci arrivarono addosso ci impedivano di muoverci e di respirare. Ci aiutarono coloro che dormivano nel lato opposto. E mentre mia madre tentata disperatamente di farmi ponte per lasciarmi respirare, essi ci liberarono e, quando qualcuno accese una luce, vedemmo tre o quattro San Sebastiani: Erano “lazzariati” escoriati, graffiati e sanguinanti.
La località in cui si trovava grotta, era il promontorio Plemmirio, che chiudeva a sud-ovest il porto della città, e dove era stata piazzata una batteria contraerea che aveva due finti cannoni di legno e uno vero, e con quello dovevano contrastare l’invasione aerea e navale di Luglio. Ma, meno male che il Comando Marina, non osò sparare u colpo di cannone, perché un giorno, all’alba, quando io mi alzai e andando in cerca d’avventure nella zona, vidi il porto strapieno di navi, tale che neppure una barca a vela avrebbe trovato posto. E pensai: se avessero sparato un solo colpo di cannone ciascuna nave, avrebbero raso al suolo la città.  
E, dopo l’invasione, quando inciampai in una mano di un cadavere mal sepolto, le mie avventure furono quelle di trovare i cadaveri dei soldati caduti nel promontorio, nella spiaggia e di segnalarli al parroco. Ora vi racconto un episodio significativo: Si era verso la fine del 1942, stavamo ancora in città, e i bombardamenti erano quotidiani, le case dei nostri vicini, giorno dopo giorno, erano solo macerie. Di notte andavamo a dormire nei ricoveri scavati nella roccia arenaria: pensate anche voi cosa sarebbe successo se solo una bomba lo centrava?  Allora una volta decidemmo di andare a dormire presso una grotta, vicino al convento dei cappuccini, nei pressi della latomia che prende proprio quel nome. Ma in quella grotta ci andavano a dormire tutti i mendicanti della zona, per cui erano infestati di pidocchi, pulci e cimici. Le mie sorelle, quando se li videro addosso, urlarono chiedendo a mio padre di uscire immediatamente da quella grotta e di ritornare a casa, e, sarebbe successo quello che doveva succedere, ma in quel luogo non ci vollero restare un minuto in più. I miei genitori avevano aderito controvoglia, adducendo il fatto che c’era anche il coprifuoco. Infatti una pattuglia ci fermò, ma mio padre, che era in licenza, in quanto richiamato in servizio in Esercito, malamente li mandò a quel paese dicendo: Ma che cazzo di spie state cercando? non vedete che siamo una famiglia che torna a casa dopo aver passato ore d’incubo nella grotta delle latomie?   
E, dopo la predetta invasione, finì la fame: Gli alleati ci abbuffarono di gallette, tanto che mi prese il disgusto a sentirne solo l’odore. Mentre io e i miei compagni sparavamo alla lucertole coi moschetti mod. 91, abbandonati dai nostri soldati, durante la loro fuga verso la salvezza dalla prigionia, dal rastrellamento dei tedeschi, della fucilazione. Per poi trovare un divertente gioco: prendevamo gli “spaghetti” – cioè la polvere da sparo dai proiettili inesplosi, e li scagliavamo tra le gambe delle ragazze, le quali fuggivano terrorizzate ( o fingevano). Quindi tra gli scogli facevamo le nostre bombe riempiendo i piccoli bidoni di benzina vuote e con una miccia facevamo il finemondo (– finchè un mio amico ci rimise tre dita e mezza natica). E, intanto, mio padre, finalmente, lavorò facendo l’interprete agli americani.
Ma poi gli Alleati lasciarono l’Italia, mezza distrutta, mezza umiliata, mezza affamata, e mio padre iniziò un’altra via crucis: la disoccupazione che era così fitta che si poteva tagliare col coltello. E ripiombammo nella miseria e nella fame. Quella volta non potendo avere un paio di scarpe, mio padre mi costruì un paio di zoccoli con i quali andavo correndo per la strada acciottolata, inseguendo i miei compagni. E un giorno caddi e mi scheggiai un incisivo appena spuntatomi.
Questo sfregio alla bocca mi perseguitò per tutta l’adolescenza, facendovi avere un senso s’inferiorità rispetto agli altri ragazzi e mettendomi in disagio con le ragazze. Sapete, una volta, nell’aula di chimica, mentre aspettavano l’insegnante, ci mettemmo a scherzare tra di noi ragazzi allo schiaffo del soldato. Al gioco si vollero aggiungere pure le ragazze, e la cosa divenne interessante: io avevo trovate e battute di spirito gradite alle fanciulle, insomma “papariavo” fra di esse. Un mio compagno, preso dall’invidia o della gelosia, mi apostrofò pesantemente chiamandomi “sgangalato” – sdentato-. Bene gli mollai un manrovescio che lo mandò a sbattere sullo scaffaletto dei vetrini, con buona pace della lezione di chimica applicata. E, quindi, anche il mio handicap si aggravò: non sorridevo più, ero scontroso e solitario. Tutto si sistemò quando, già in Aeronautica, a diciotto anni, mi feci fare una protesi che mise fine al mio senso d’inferiorità. Ma era già il millenovecento cinquantaquattro, e ne passarono delusioni, nel frattempo.  
Ma torniamo ai giorni dell’occupazione alleata. Vedete, quando arrivarono i nuovi padroni, questi requisirono le ville dei signori costruite vicino al mare e nelle relative terrazze, vi piazzarono un cannoncino a due canne, coi quali fecero capire ai tedeschi (ci provarono una sola volta) che da quelle parti non c’era” trippa per gatti”: Infatti c’era un cannoncino ogni duecento metri. Naturalmente la truppa d’occupazione, requisiti le ville, vi insediarono i loro soldati che manovravano i cannoni. Uno di questi, un autista per la precisione, ogni volta che mi incontrava, mi mostrava la sua…dentiera, visto che ne ero letteralmente terrorizzato per quella stregoneria di togliersi i denti con la punta della lingua, per poi rimetterli. Nel frattempo alla scuola comunale, mi bocciarono! Eravamo nel ’44, in piena guerra, avevo otto anni, tornavamo dallo sfollamento e mi bocciarono (forse per troppe assenze, forse ero un  asino, questo non lo seppi mai). Rifeci l’anno, passai in quinta e, a fine anno, il maestro Floridia disse a mio fratello: “ Mandatelo a lavorare!” . Mio padre prese un terno al lotto, avrebbe avuto, finalmente, un figlio che lo seguiva nel mestiere, visto che mio fratello non ne aveva voluto sapere di fare il “Mastru d’ascia”. Io, invece, purtroppo per lui, volevo continuare a studiare, grazie alla complicità di mia madre.  E da qui iniziò il mio calvario scolastico vero e proprio. E qui mi fermo, un’altra volta vi dirò come andò a finire la questione.
Eppoi arrivò l’intrallazzo. Si intrallazzava tutto, specialmente le sigarette americane. Cosa c’entrai io con l’intrallazzo delle sigarette? E velo dico subito: Fu lo sparti acque tra la possibilità che frequentassi elementi malavitosi – con relative conseguenze, e la vita normale di onesti cittadini. Le due possibilità si intrecciarono e si separarono nel giro di pochi giorni. Mi spiego meglio: Eravamo nel ’45 o ’46, non ricordo bene, quando dal treno in corsa, arrivò ai miei piedi un sacco di juta stracolmo di sigarette americane. Devo premettere che la ferrovia passava a un centinaio di metri, da casa mia, ed era nel versante ovest, cioè il parco giochi di noi ragazzini, in quanto accessibile, tra tutte le case che sorgevano lungo il percorso, che si allungavano, dopo l’uscita del treno da uno stratto passaggio tra la roccia, fino alla stazione. Quel giorno, verso le ore pomeridiane, dal treno furono scaraventati diversi sacchi pieni di dette sigarette americane. Uno mi arrivò quasi addosso. Io mi guardai attorno, perplesso, ma nessuno dei vari complici degli intrallazzisti si mosse per raccoglierlo, quindi con indifferenza, mi caricai il sacco sulle spalle e andai via alla chetichella. Sapete perché venivano gettate dal treno in corsa i sacchi? Perché alla stazione c’erano i carabinieri che controllavano i bagagli. Preso il sacco, scesi nella scogliera e lo nascosi dentro una grotta che serviva da sede dei “carusi” della scogliera.
Ritornai su, e me ne stetti tranquillo ad aspettare il momento opportuno per trovare a chi vendere il malloppo, magari ad un ragazzo più grande che già si adoperava nel campo dell’intrallazzo. Ma, invece del ragazzo, si presentò don Mario, boss (come si dice ora) locale, che mi prese per la collottola e mi chiede di consegnare la “merce”. Ma come fu? Scoperto dopo appena un‘ora? Fu che il legittimo proprietario del sacco, giunto dalla stazione, ne chiese conto al complice, il quale si difese dicendo  che a lui, dal treno in corsa, non era arrivato un bel nulla; anzi, ne era arrivato uno che fu gettato ad un ragazzo, il quale lo aveva raccolto e se lo sera portato via. “ Bestia! Quello era il mio!” urlò l’intrallazzista, e partì la caccia del ragazzo. Della questione fu interessato don Mario, il quale, dopo una breve indagine (c’ero solo io in zona), e conoscendo i suoi polli, e mio padre che egli sapeva alieno dal losco traffico, e quindi impossibile che io avessi portato il malloppo a casa mia, trovatomi a bighellonare nei pressi, con grande intuito, mi prese, come dissi, per la collottola e mi mormorò minaccioso: “Ora portaci al luogo dove lo hai nascosto.” Preso in castagna, mogio mogio li condussi nella grotta, essi presero il sacco e anzicchè rifilarmi un sacco di botte, mi fecero un complice occhialino. Ma quale, ma dove, ma chi! Io mi ero preso una tale fifa la quale mi consigliò sensatamente di stare lontano da quella…professione, e d’intraprendere altre vie.
L’altro via fu questa: tra mi miei compagni, c’era anche un ragazzino figlio di un medico, nipote di un medico e futuro medico egli stesso, il quale se ne stava alla larga della “banda”, per volere paterno, nonnerno e zierno. Ma la madre, che non era siciliana, e che voleva dare un compagno di giochi al figlio, decise che essendo il fratello della sartina, che le cuciva i vestiti alle cognate zitelle, ero idoneo allo scopo. Tale frequentazione si rivelò, per me opportuna, sia per il buon esempio, buona lettura, buoni principi, e perchè si instaurò una amicizia che durò moltissimi anni, e che le vie del mondo dispersero.
In quel tempo i genitori del mio amico, gli avevano regalato un abbonamento ad un giornalino che si chiamava “Il Vittorioso” che era una rivista “edificante”. E in effetti per me lo fu. Da essa conobbi Kipling e il suo Kim, seppi dei campi di calcio verdi di tappeto erboso (quello della mia città era di terra battuta), conobbi Jacovitti, valente e longevo fumettista, ecc. ecc. e, quindi, mi fu aperta una finestra su un altro mondo. Mondo che apprezzai e in cui volli vivere. (Ma presto me ne pentii: lì, non ci fu mai spazio per uno proveniente da un mondo diverso. Nascesti lì? E li devi morire! Ma, vi assicuro che forse non era del tutto sbagliato). Comunque sia, mi fece prendere una visione diversa della vita- conobbi la cultura, mio pane quotidiano. E in una mia poesia scrissi: “Nacqui proletario, il Caso dormiva con me nella “naca a vento”, poi volli diventare borghese e quasi subito me ne pentii …”

Una notte entrò in camera mia (o lo sognai) una figura vestita con un pigiama a strisce, (possibile in forma dialogata) che mi disse:
Sei sicuro che non ci sia differenza tra te e me?
Tra te e me? E che c’entra? Ma chi sei, cosa vuoi?
Sono uno di quelli dei quali tu ti sei stancato di udirne le storie.  
Ah, sei un ebreo…-
…dei campi di sterminio.
Difatti…E cosa desideri? Di te sappiamo già tutto! Su di te sono stati scritti fiumi di parole, centinaia di film, decine di libri, e decine di opere teatrali. Tu sei come gli eroi dei film western, le vostre storie non si esauriscono mai.
Perfetto! Non si esauriscono mai! E sai perché? Perchè eravamo milioni; e milioni devono essere le nostre storie.
E sia! Però le vostre storie mica sono tanto divertenti. Sono tutti uguali: C’è l’ebreo buono e il nazista cattivo.
Lo ammetto. Ma le storie ci sono.
E allora teneteli per voi. A noi ci è bastato conoscerne cento per farci l’idea vera della vostra sofferenza…
…del nostro martirio, della nostra atroce morte…-
…e sia anche questo. Però, un giorno all’anno, un film all’anno, un dramma all’anno, sono più che sufficienti per non dimenticare.
Sarei d’accordo se non vedessi pesanti nubi di razzismo all’orizzonte.
E lasciali venire, non ti curare, perché ormai la nostra società possiede gli antidoti giusti per debellarlo. Il vento della giustizia soffia forte!
Già. Speriamo. Intanto sappi che ti sono vicino per le tue sofferenze da bambino….
… e da ragazzo, perché ce ne furono ancora di sofferenze, materiali e morali. Sappi caro amico che l’umiliazione, l’emarginazione, la derisione, il sarcasmo,  l’impotenza, la supponenza, feriscono più della tortura fisica. Ma basta così, stiamo scivolando nel patetico. Ora tornatene da dove sei venuto, amico mio, e datti pace. Addio!
Addio… e coraggio.  
E come venne sparì… E a me m’è passata la voglia di raccontare. Addio anche a voi.
       
Fine