L’ULTIMA STAZIONE

breve monologo 
di

Marco Moriconi


Sono giunto ad un’età che, solitamente, è la più vicina alla fine del viaggio. Il viaggio della vita, intendo.
E quando un essere umano arriva a questo punto del suo cammino, crede sia il caso di tirare le somme! 
E lo fa, cercando magari, di ricordare tutto ciò che nella vita ha passato. Cose buone. Cose cattive. Vittorie. Sconfitte.
Ricordare tutto!?…Magari!
A volte penso a ciò che ho fatto e a tutto quello che mi è accaduto. E a quante giornate passate a riflettere in solitudine.
Sono tornato qui. Sono davanti a questa casa che mi ha visto nascere, crescere e morire. Si. Morire. Perché si può morire anche rimanendo vivi, o almeno…apparentemente vivi.
Queste finestre, che da bambino mi sembravano due occhi che mi guardavano fin dal fondo del lungo viale, oggi mi appaiono come buchi neri che nascondono dolore e mistero. 
E il portoncino, che quando c’era il sole era aperto da sembrare una bocca sorridente, adesso è spalancato come ad urlare la disperazione di solitudine. Tutti questi rovi che circondano la mia casa appaiono come veli a coprire il passato. Già! Il passato!
Eppure quanti giochi e quante corse in mezzo a quest’aia che in primavera si animava come una fiera, con tante persone che l’attraversavano. 
E gli animali! Le oche, le galline e le rondini a garrire e a rincorrersi nel cielo a festeggiare la bella stagione che arrivava.
I ricordi si accavallano. Si susseguono. Ora veloci. 
Ora lenti. Come a ritmare i battiti del mio cuore.
Quante cose non ci sono più. Quante persone, non ci sono più! 
Ma se mi fermo a pensare, le vedo. Le vedo che parlano, ridono, lavorano. Ad esempio…li nel fienile o…li, davanti la stalla. E un’altra più in la, a spennare un pollo, perché domani è festa. Perché domani è domenica. 
Ricordi cari, felici, ma anche tristi.
C’è la mia adolescenza spezzata. Spezzata dal dolore della guerra, dell’odio e del disprezzo umano.
Cammino in mezzo a ciò che ormai appartiene ad una vita passata e vissuta con mille stati d’animo. Tutto, qui intorno, sembra un fermo immagine. Guardo la porta della stalla con il suo legno seccato dal sole, dalla pioggia e dal vento che hanno segnato il passare degli anni, del tempo. E questo tempo, seppure lungo, non ha cancellato tutto.
Il mio cuore non può dimenticare. Né la mia anima. Ho vissuto tutti questi anni, che mi hanno visto lontano da questo luogo, alla ricerca di una sorta di perdono. Con i ricordi e i rimorsi che hanno segnato la mia vita. E questa vita mi ha insegnato a sorreggere il peso di mille difficoltà. Allora torno al tempo che è stato. La mente non cancella. La mente conserva. E allora basta un odore, un suono, una parola e tutto ciò che credevi di aver dimenticato ti si presenta di nuovo davanti.

Avevo da poco compiuto sedici anni e quella che più mi mancava era la figura di mio padre. Era uno dei dispersi in Russia. Era uno dei morti, in Russia!
La guerra, la maledetta guerra, aveva cominciato a portare la distruzione nella mia famiglia e se la mia infanzia mi aveva regalato momenti felici, la mia adolescenza mi vide vittima e carnefice.
Era una mattina d’estate. L’estate del 1944. Il sole era già alto quando scesi in cortile e vidi che la bicicletta di mia madre non c’era. 
Ero rimasto solo con mio nonno Giuseppe. Mi disse che era dovuta correre a casa di una signora. Mia madre faceva la levatrice. 
Avevo paura. I tedeschi erano in ritirata e distruggevano ogni cosa si trovasse sul loro cammino. La loro rabbia era pericolosa e temevo per la vita di mia madre.
Ero molto legato a mio nonno. Era il padre di mio padre e ormai si sentiva, orgogliosamente, l’unico responsabile della mia vita. I miei due fratelli più grandi erano alla macchia, a combattere. E la sofferenza di tutta questa situazione si poteva leggere tra le rughe del suo volto.
Con lui avevo imparato a sparare. 
Era un buon cacciatore, ma adesso il fucile lo usava per difenderci da chiunque avesse osato avvicinarsi alla casa. Era quasi l’ora del pranzo e mia madre non tornava.
Ero preoccupato. La casa della partoriente era a poco meno di cinque chilometri. Improvvisamente sento un rombo di motori e vedo un gran polverone avanzare lungo il viale. Dio! Sono i tedeschi! “Nonno! Nonno!” comincio a gridare. “Arrivano i tedeschi!”
Mio nonno urlò di andarmi a nascondere dentro una botte e prese la sua doppietta. La nascose dietro un albero, aspettandoli dritto in piedi. Io potevo vedere tutto da un buco che aveva la botte. Avevo il cuore in gola.
Vidi spuntare dal cancello un paio di sidecar e subito dietro un blindato. Quando si fermarono urlarono qualcosa all’indirizzo di mio nonno. Lui non rispose. Urlarono ancora e subito dopo uno di loro, che era sceso da uno dei sidecar, si avvicinò minaccioso a mio nonno. Estrasse la pistola e sparò un solo colpo. 
Mio nonno stramazzò al suolo senza un lamento. Dio, no! Mio nonno! Perché? Volevo urlare. Volevo scappare.
Non riuscivo a credere a ciò che avevo visto.
Cominciai a piangere. Pregavo Dio di farli andar via.
Sarei voluto uscire dalla botte, ma la paura mi bloccava.
Guardavo il cancello e speravo che mia madre non arrivasse proprio ora.
I tedeschi scesero e, mitra alla mano, entrarono in casa abbattendo a calci le porte. 
L’aia era rimasta deserta. La tentazione era di saltare fuori e ucciderli tutti. Vidi il fucile di mio nonno ancora poggiato all’albero. Corsi a prenderlo.
Mi tremavano le gambe. 
Poi, pensando a mio padre e ai miei fratelli entrai in casa e il primo che mi trovai davanti lo sorpresi nella cucina. Avevo il fiato grosso. Mi sentivo mancare l’aria.
Mentre io fissavo lui, lui fissava il mio fucile.
Accennò un sorriso mentre stringeva tra i denti un tozzo di pane, proprio davanti la madia. Chiusi gli occhi e gli esplosi contro i due colpi. Gettai a terra il fucile, mentre lui, con un rantolo si accasciava a terra.
Corsi di nuovo a nascondermi nella botte con il cuore in gola. Sentii le urla dei suoi commilitoni e li vidi correre fuori infuriati a cercare chi avesse sparato. 
Poi ricevettero via radio una comunicazione che gli ordinò di andarsene subito. Lasciarono così il loro compagno, morto. 
Rimasi nella botte non so quanto tempo. Mi ero vomitato addosso. Mi ero pisciato addosso e piangevo.
Finalmente arrivò mia madre. La sentii urlare disperatamente nel vedere il corpo di mio nonno e quando scappai fuori dal nascondiglio, mi corse incontrò abbracciandomi in lacrime, quasi a soffocarmi. Quella stretta racchiudeva tutta la sua rabbia, il suo dolore e la sua unica speranza. Me. 
Nonno Giuseppe era stato ucciso sotto i miei occhi e io avevo ucciso un uomo. Avevo ucciso un uomo!
Entrai, allora, in casa, in cucina e vidi quel tedesco disteso in terra in una pozza di sangue. Mi avvicinai e vidi la sua mano destra stringere un pezzo di carta.
Guardai meglio quel pezzo di carta: era una foto.
Presi coraggio e lentamente gliela sfilai dalle mani.
Guardandola, vidi una donna con un bambino in braccio e, dietro, la scritta: Stoccarda 17 luglio 1942.
Cominciai a piangere. 
Anche io, come quel tedesco, non avevo ucciso solamente un uomo. 
Anche io, come quel tedesco, avevo distrutto una famiglia. 


La mia giovinezza non fu mai serena. Da quell’estate del ’44 la mia mente non ha mai smesso di pensare al caporale Peter Wurz e a quella fotografia. Quell’episodio ha tormentato gran parte della mia vita, anche se, finita la guerra, ricominciai a vivere. 
Feci diversi lavori prima di impiegarmi per quasi quarant’anni nelle ferrovie. Ho fatto il macchinista per tutto questo tempo. Ho condotto tante storie umane. Ora felici, ora tragiche. Chissà quante volte è stato maledetto il mio treno che spezzava una storia o chi, magari, lo ha benedetto perché rappresentava una speranza.
In tutti questi anni sono stato lacerato dall’idea di cercare la signora Wurz e suo figlio, per giustificarmi e chiedere il loro perdono. 
Non l’ho mai fatto. Perché? Forse per paura, per orgoglio o forse solo per vergogna.
Non giudicatemi male. Non giudicatemi, vi prego. 
Ogni essere umano porta, nella propria vita, un bagaglio di dolore. Questo bagaglio può essere pesante e se non si hanno forti spalle, basta poco per cedere.
Ormai sono vecchio e, come dicevo all’inizio, sono tornato proprio dove ho sempre desiderato chiudere il racconto della mia vita e con la coscienza che mi ha accompagnato per tutto questo lungo e tortuoso viaggio. 
E come ho fatto centinaia di volte, mi fermo alla stazione, ma questa volta è solo mia, la mia ultima stazione.