Lo zio Leone

racconto in forma dialogica a tre voci di 

Carlo Barbera

 


Personaggi

Narratore
Lo zio Leone
La Nonna


L’autore a chi legge
Lo scritto che segue, intitolato “Lo Zio Leone” nasce dalla combinazione di varie storie, vere e fantastiche, per raccontare una vicenda che possa contribuire alla memoria di fatti che hanno sconvolto la vita di un popolo, ma anche la vita del mondo intero.
Il metodo di scrittura è quello del teatro di narrazione, dove più personaggi raccontano. Infatti qui abbiamo la figura del narratore, che sta fra i due attori, i quali dialogano, mischiandosi nella narrazione della storia.
Ciò mi permette di raccontare cose che sarebbero difficilissime da ricreare nella ristrettezza di un palcoscenico.
I personaggi sono siciliani, difatti parlano una lingua italiana, ma velatamente sicula, che in alcune espressioni ricorda il dialetto, soprattutto nelle imprecazioni di Leone, che spesso urla: “Buttana di quella buttana”, che non è una brutta parola, ma un modo di dire del mio paese.
Certamente in alcuni punti il linguaggio è volutamente scurrile, proprio a testimoniare il carattere pazzoide del protagonista, la sua rabbia, la follia che gli ha portato la guerra e le scene cui ha assistito durante la prigionia.
L’opera è volutamente breve, anche se la sole 13 cartelle non devono trarre in inganno, in quanto, non essendoci dialogo, è scritta in larga parte per esteso. Comunque non può dilungarsi inutilmente, in quanto, visto l’argomento e il sistema di scrittura, risulterebbe eccessivamente pesante. E io sono uno di quegli autori che vuole avvicinare la gente a teatro.
Buona Lettura



A T T O U N I C O
Per la realizzazione di questo lavoro non necessitano particolari scenografie; il tutto sarà così composto: muta nera, una pedana di circa 80 cm al centro, con degli scalini; un’altra pedana ci circa 25 cm a sinistra, con sopra una sedia; un praticabile a destra, lungo circa tre metri, largo un metro ed alto un metro, con dei gradini al centro. 
Al levarsi della tela in scena, seduto sui gradini del praticabile di centro, il Narratore, con un cono di luce puntato addosso, mentre il resto è buio. L’azione si svolge in epoca presente, coi personaggi dello zio Leone e della Nonna vestiti con abiti vecchi.

Narratore: Sono vent’anni che manco dal mio paese, ho fatto fortuna, ma non ho
dimenticato quelle strade, quei vicoli, quei giochi. Quando ammazzavamo i 
roditori e il tanfo del pollame per strada si sentiva, come ora di nafta e benzina;
il pecoraio lungo la piazza principale faceva sfilare le sue lane; per le vie del San Giovanni scoppiettavano i bracieri; la strada: un nostro dominio, discola prole di quella prole d’ante-guerra, che pure la guerra dissennò e scosse; molti erano i vecchi d’Ottocento; le donne canute con lo scialle nero a veder tornare l’uomo
dalla fatica grande del sale… Tutto era sabbia e tamerici allora.
Vago in giro in cerca di qualcosa che mi ricordi quel tempo. Oggi tutto è 
cambiato; le baracche dei pescatori sono a tre e quattro piani.
Qui si sono arricchiti tutti... 
Esco dal quartiere e comincio a girare per le strade del paese...
Ma ecco che succede qualcosa che non mi aspettavo: sogno, si, sto sognando... 
Sta tornando tutto come una volta.
Ci colpa quel vecchio palazzo, l’unico rimasto in fondo al paese, nemmeno nel
quartiere che descrivo, ma mi va bene lo stesso, mi serve per organizzare la
mente e raccontare questa brutta vicenda, in cui la guerra, come sempre,
la fa da padrona.
La guerra! La guerra! Sempre la guerra! La guerra non c’è più. La guerra c’è 
sempre.
Entro dal portone, sto salendo le scale, c’è una donnetta secca secca che mi 
guarda e mi ride, come se fosse contenta di vedermi o invece mi ride solo per prendermi in giro. Avrà ottanta – ottantacinque anni. Ha i capelli poco lunghi con la scrima ed una pettinessa attaccata a sinistra, che glieli ferma, perchè ce li ha sottili sottili, di quei capelli che cascano giù al primo colpo di scirocco. 
E’ seduta all’ingresso su una vecchia sedia impagliata, canta “Mamma mia dammi 
cento lire chè in America voglio andar”, ha un grembiule blu sulle gambe 
e sta pelando le patate... per la verità non le pela, le sbuccia, ma con una 
sicurezza che nemmeno le guarda. E’ vero, ma ne tira fuori ogni volta una 
striscia di buccia larga mezzo centimetro. 

(Parte una musica)

Un tempo se le mangiavano quelle bucce patate, si, se le sbranavano, presi 
com’erano dalla fame. Lì, nel campo, c’era anche il mio anziano zio, lo zio Leone, 
vecchio ex combattente della Prima Guerra mondiale, la Grande Guerra, dove 
ancora qualche volta i soldati si scontravano corpo a corpo. 
Leone: (Entra attraversando il praticabile da dietro verso il proscenio) Lì ci volevano i 
coglioni. Capito? Avanti, Savoia! E ci mandavano a farci rompere il culo dalle 
mitragliatrici”...

Nonna: (Entra parlando, con in mano lana e ferri e si va a sedere sulla sedia a sinistra) 
Leone, non dire parolacce.

Leone: Mammà, lasciami in pace! (Si getta per terra supi no e accende una sigaretta)

Narratore: Quella lì è la nonna. Quando lo sentiva raccontare queste cose...
Seduti là stavamo, davanti al braciere, dove lo zio Leone consumava le sue nazionali senza filtro e ogni tanto sputava nella brace accesa. Poi, per fare andar via il cattivo odore, afferrava un limone, lo tagliava in due metà e ne piazzava una dentro il carbone acceso, adagiata dal lato della buccia. 

Leone: Perchè sta lì lo spirito, nella buccia. Ed è lo spirito che profuma e riempie la
casa, contrastando con il lezzo dell’ossido di carbonio.

Nonna: Certo che se aprissi un po’ la finestra non ti farebbe male. Qualche volta 
t’intossichi!

Leone: Meglio, così butto il sangue, muoio e mi levo dalle scatole.

(Musica. Si abbassano le luci)

Narratore: Lo zio Leone le conosceva bene quelle bucce di patata, perchè gli avevano 
fatto andar via i sentimenti, come si dice dalle nostre parti quando s’impazzisce.

Leone: “Buttana di quella buttana” 

Narratore: Imprecava sempre gridando dal balcone del vecchio palazzo barocco dove 
abitava, lì, nel quartiere di San Giovanni, dove tutti lo rispettavano e lo volevano 
bene. E ogni volta che gli passavano davanti lo salutavano all’antica: “Baciamo le 
mani, Cavaliere”

Leone: Baciatevi il culo.

Narratore: Rispondeva lui, nervoso, sempre più nervoso, da quando era tornato a casa. 
Aveva ragione, perchè si era dovuto sciroppare due anni di campo di concentramento lo zio Leone, senza essere nemmeno giudeo. E quelle bucce di patata le conosceva bene, perchè gli avevano fatto sballare i neuroni.
Così era diventato don Leone il pazzo. Ma quanti erano a conoscenza della
verità? Oppure era pazzo solo perchè la raccontava questa verità?

Leone: Buttana di quella buttana! Siamo in mano ai cretini!

(Musica)

Narratore: Vicino alla donnetta seccha passeggiava un gatto, uno di quei gatti randagi
che non capisci se son grigi o verdi. Intuiva che la vecchietta maneggiava roba 
commestibile e le si avvicinava con quella ruffianagine che hanno i gatti, simili ai
bambini, e si strofinava sulle gambe, facendo un miao, che ti faceva capire 
tutto: “Dammi qualcosa da mangiare”. La donna gli faceva una carezza e poi gli 
rispondeva: “Non ho niente, solo bucce di patate” e gliene lanciava una.
Il gatto correva ad annusarla e poi la rigettava. Anche i gatti le rifiutano le
bucce di patata. Lo zio Leone le conosceva bene invece, lì, nel campo di 
concentramento.

Leone: Maledetti figli di cento padri!

Nonna: Ma come, Leone, i tedeschi erano tanto buoni! 

Leone: Ma che stai dicendo, mammà?

Narratore: I tedeschi erano tanto buoni, secondo lei. 

Leone: Mammà, tu sei svanita! Non capisci più niente! Sei andata via di testa.

Narratore: Lei era andata via di testa, ma lui non stava certo tanto bene. 
E passeggiava da mane a sera su quel grande balcone del palazzo, con la spada in 
mano, e combatteva, non si sa contro quale nemico.

(Leone esegue quanto descritto dal Narratore)

Leone: (Combatte contro un nemico inisistente) Brutto bastardo! Sciabbacotu! Figghiu 
‘i sciabbacotu! Ti taglio la testa, ti taglio, maledetto!

Narratore: Sembrava un Don Chichotte, che lotta contro i mulini a vento.

(Musica)

Narratore: I mulini a vento esistono ed esistevano anche allora. I mulini a vento erano 
tutti gli imbecilli coi quali lui parlava, cercando di spiegare che la guerra è una 
follia che rende folli.

Leone: Ecco, guardate me. Non sono forse pazzo io? E chi ci colpa? La guerra ci colpa, 
la guerra. Chi mi avrebbe mai potuto portare in Germania in un campo di concentramento, se quel pazzo monotesticolare di Hitler non si fosse messo in testa che bisognava eliminare gli ebrei dalla faccia della terra?

Nonna: Sono così brave persone gli ebrei!

Leone: Mammà, lo so che sono brave persone. Io li ho difesi gli ebrei. Hai capito,
mammà? Li ho difesi! Ho rischiato la mia vita per loro.

Narratore: Erano tutti bravi nella sua testolina fusa. Povera nonna! Povera nonna! 
Povera nonna! Le sembrava male vedere suo figlio Leone che lottava contro i 
mulini a vento. Si, quegli imbecilli che gli battevano la mano sulla spalla e gli 
ripetevano: “E va bene, don Leone, ormai la guerra è finita. Dobbiamo pensare 
alla pace”

Leone: La pace? La pace? Ma come facevi a spiegarlielo che la pace non esiste? 
Due popoli sono in pace perchè altri cento, in guerra fra loro, gliela 
garantiscono quella pace. Imbecilli! Imbecilli! Ma come fanno a non capire? 
Il mondo ha vissuto sempre in equilibrio su un filo di seta: basta niente che
si rompe e ci ritroviamo sotto le bombe.

Narratore: Lui voleva spiegarlielo; voleva far comprendere loro che non si trattava della 
Germania o della Francia o della Russia... Degli Stati Uniti, del Giappone...
No, si trattava dell’uomo. Perchè l’uomo ce l’ha nel sangue.

Leone: Omo lupus omini. Ma cosa gliene fregava a Hitler di sterminare gli ebrei se non 
ci fossero stati dietro dei precisi interessi? C’è sempre qualcuno che ci mangia. 
Gli ebrei sono ricchi. Gli ebrei hanno l’argent! Gli ebrei potevano determinare
la differenza. E’ facile, no? Elimini dalla faccia della terra un’intera razza di
uomini; apri le casse dove ci sono i loro denari e te li prendi; tiri fuori il catasto
dei loro beni e li requisisci. E poi vedi che ricchezza ti sei procurato senza 
pagare un centesimo.

Narratore: O forse credevano quegli imbecilli che le Crociate fossero state combattute 
per la religione?

Leone: E allora crediamo alle favole; a Babbo Natale, che arriva con le renne e porta i 
regali; alla Befana che scende dal camino e al lupo che si mangia Cappuccetto Rosso. No, non capiscono niente quegli imbecilli. Ci sono gli interessi! La patria l’hanno inventata le banche. La religione l’hanno inventata i banchieri! Forse anche Dio è un banchiere! Ci guadagna sicuramente anche lui a fare scoppiare le guerre, se no farebbe esplodere il cuore a chi le scatena.

Nonna: Leone, non bestemmiare!

Leone: Mammà, non sto bestemmiando.
Narratore: No, non bestemmiava mai lo zio Leone, anzi, dentro di se portava una grande 
religiosità e una cieca fede nel Padreterno. E me lo chiedeva continuamente.

Leone: Ma perchè Dio non l’ha fulminato sul nascere Hitler, invece di farlo crescere e 
diventare quella potenza che è stato per tanti anni!

Narratore: Poi si sedeva, accendeva la Nazionale e guardava nel vuoto.

Leone: (Esegue) Secondo me Dio se ne fotte dell’uomo e di tutte le sue schifezze.

Nonna: Leone, non bestemmiare! 

Leone: Mammà, non sto bestemmiando!

Nonna: Tutto fa parte dei disegni divini.

Leone: E allora questo Dio non sa disegnare, mammà! Non sa tirare due linee dritte. 
E se realizza veramente questi disegni... Questi disegni fanno schifo, mammà!

Nonna: I disegni di Dio non fanno schifo.

Leone: Fanno schifo.

Nonna: (Arrabbiata, fa quasi per schiaffeggiarlo) Leone, non bestemmiare, ti ho detto!

Leone: (Abbassa la testa come per prenderseli quegli schiaffi) Mammà, non sto 
bestemmiando!

(La mano della nonna resta ferma in alto sul collo di Leone, pronta per dargli lo 
schiaffo. Si tacciono di colpo)

Nonna: (Ora lo prende con le buone e lo conduce con la mano a sedersi) Siediti, 
mammina, siediti, non t’agitare.

Leone: Sono calmo, mammà.

Nonna: (Gli da un bacio in fronte e torna alla sua sedia) Lo so, bello di mamma, lo so.

(Musica)

Narratore: L’aria diventava irrespirabile a quel punto: fra il braciere e il fumo delle 
nazionali, c’era da intossicarsi. E la rabbia, la rabbia tremenda per quello che avevano patito quei due e tutti gli altri milioni di uomini costretti uno contro l’altro. L’inferno, quello era stato un inferno. Quella non era stata una guerra normale, ma qualcosa di diverso, che nessuno riusciva a spiegare.

Leone: Ma buttana di quella buttana! Una volta per fare le guerre, si dichiaravano.
Uno Stato mandava un ambasciatore ad un altro Stato e gli diceva: “Da domani
in poi guardatevi le spalle perchè vi sto attaccando” Ora come funziona? 
Hitler invade la Polonia e i giapponesi bombardano Pearl Habour, mentre quelli 
se ne stanno tranquilli a festeggiare la domenica. Ma che guerra di merda è 
questa? Neanche nella guerra c’è onore? Ma per chi bisogna morire? 
“Tètnamenai gar kàlon
enì promakòisi pesonta
andr’agatùs perì è
pàtridi marnamenon”
Queste minchiate diceva Tirteo: “E’ bello morire per la patria, cadendo in prima
fila”

Nonna: Non era proprio così, Leone.

Leone: Ma il senso è quello, mammà! Morire in prima fila per la patria! Tè!

(Fa un gestaccio. Si oscura tutto di colpo. Musica. Si riaccendono le luci)

Narratore: Lo zio Leone non mangiava tanto, ma era grosso, perchè diceva di essere 
gonfio per la rabbia.

Leone: Quella che porto dentro è tutta bile distribuita nell’organismo. Non è grasso.

Nonna: Tu non sei normale, figlio mio, la guerra ti ha dato alla testa. Del resto, ne hai
combattute due. 

Leone: Mammà, non dire fesserie.

Nonna: Vado a preparare due fili di pasta. (Esce)

Leone: E si, è meglio che occupi un po’ di tempo. (Continua a fumare la sua sigaretta, 
seduto sulla pedana)

Narratore: Per la verità, lo zio Leone tanto normale non lo era mai stato. Sin dai tempi 
del liceo, quando aveva preso otto nell’interrogazione di Greco e si era andato a
nascondere in fondo al pozzo, per la vergogna, abituato, com’era, ad afferrare
dieci in tutte le materie.

Leone: Ma se studiavo quanto un cane e mi aprivo le spalle , che male c’era a 
pretenderlo? La verità era un’altra. Il professore di Latino e Greco si era messo
una pulce in testa: voleva fare sposare mia sorella con quella specie di mostro
di figlio che aveva messo al mondo. E io glielo dissi chiaro: “Professore, la specie
deve andare a migliorare, non a peggiorare”. Minchia! Mi ha odiato da quel 
momento in poi.

Narratore: Lo zio Leone prendeva dieci in tutte le materie. Aveva fatto del liceo una 
specie di ragione di vita. Studiava, studiava e ancora studiava, senza tregua.
La sua era un’ossessione. Chiuso in casa, passava le sue giornate e poi la sera
usciva a passeggiare in lungo e in largo nella piazza del paese. E già allora lo 
chiamavano il pazzo.

Leone: Certo, perchè uno non se ne poteva andare in giro per il paese a farsi una
passeggiata da mezzanotte alle due, dopo avere passato un’intera giornata
sui libri. 

Narratore: Passeggiava in lungo e in largo nella piazza del paese, e quando incontrava
un gatto ci si metteva a giocare. Poi a mezzanotte c’erano i fornai che
andavano a lavorare e lui ci si passava un po’ di tempo. 

Nonna: (Entra con un piatto di spaghetti in mano e li porta a Leone) Dormiva poco,
dormiva, solo un paio d’ore. Glielo dicevo sempre che i giovani devono dormire.
Lui mi rispondeva che non aveva sonno.

Leone: Ma se non avevo sonno, che ci potevo fare? Questi spaghetti fanno schifo!
Si possono usare per incollare i manifesti.

Nonna: Erano al dente. 

Leone: Erano al dente. Ora sono alla gengiva.

Nonna: Ma per venire dalla cucina fino a qua si sono scotti. Vuoi che te li rifaccio?

Leone: Non voglio niente, mammà, lasciami in pace. Non ho più fame.

Nonna: (Va a riprendere il suo posto sulla sedia) Non riusciva a dormire. Era talmente
preso dalla sua mania per lo studio che la notte ripeteva di nuovo le lezioni.
E suo padre si disperava. Desiderava che andasse a donne. Ma lui niente, non ne
voleva sentire.

Leone: A donne? A donne! A quindici – sedici anni dove dovevo andare a donne?
Dici la verità: voleva che andassi nei bordelli assieme a lui.

Nonna: Ora non tiriamo in ballo storie passate e trapassate.

Leone: Sei stata tu a tirarle in ballo. Le donne mi facevano antipatia, va bene?
Io ero un duro. Tutte quelle fesserie che un uomo doveva fare per conquistare 
una donna... Le puttane non mi andavano a genio...

Nonna: E studiava, studiava dalla mattina alla sera... e pure la notte.
Narratore: Non si sa da chi avesse preso questo ragazzo, certo è che lo studio era per
lui l’unica valvola di sfogo per superare una solitudine che lo accompagnava
dalla nascita.

(Musica)

Narratore: Nel 1916 lo zio Leone compì dicott’anni e nel giro di poco tempo gli arrivò
la chiamata alle armi nei bersaglieri.

Nonna: Mi pare di vederlo ancora, con quella divisa e col cappello pieno di penne
nere. Quant’era bello! Bersagliere! Bersagliere d’Italia!

Narratore: Sulla tradotta erano stipati come animali, ma lui era contento, perchè
andava a servire la patria.
“Tètnamenai gar kàlon
enì promakòisi pesonta
andr’agatùs per è
pàtridi marnamenon”
I versi di Tierteo gli frullavano continuamente in testa: coprirsi d’onore morendo
per la patria.

Leone: Già, la patria, la patria... quella inventata dalle banche.

Nonna: Finiscila, Leone, non dire fesserie.

Narratore: Però allora lui ci credeva, a tal punto che rifiutò la possibilità di tornarsene 
tranquillamente a casa.

Leone: Mi giunse in trincea un telegramma, in cui c’era scritto che mia madre stava
per morire, allegato ad una lettera di trasferimento per avvicinimento al padre.
Presi il primo treno e tornai a casa. Ma quale morire? Avevano fatto i brogli: mia
madre era sana come un pesce. Era stato mio padre, che aveva approfittato di 
una conoscenza per farmi trasferire. E io sarei dovuto rimanere imboscato
mentre i miei compagni morivano come cani? No, me ne sono tornato subito
al fronte, in prima linea.

Nonna: Certo, perchè tu dovevi salvarla la patria.

Leone: Non m’interessava la patria. Erano i miei compagni il mio pensiero fisso.
E poi, questa guerra del caz...

Nonna: Leone!

Leone: Dico, questa guerra, una volta dichiarata, dovevamo vincerla o no?
Quando sei lì, anche se parti senza motivazioni, vedendo morire i tuoi compagni,
cominci a odiare il nemico in maniera viscerale. E questo io feci: cominciai a 
odiare i nemici e a perdere la tramontana. “Avanti, Savoia!” e andavo all’attacco.
E quanti uomini ho ucciso! Perchè, poi? Non lo so. Però so che odiavo! Odiavo!
Ero partito che non lo conoscevo l’odio e sono tornato che non riuscivo più
a provare nessun altro sentimento.

(Musica) 

Narratore: Niente, nessun altro sentimento. La guerra l’aveva fregato in pieno, gli
aveva tolto la gioia di vivere, ammesso che ne avesse mai avuta. Non volle più 
studiare, non ne aveva più la passione.

Nonna: Tètnamenai gar kàlon...

Leone: E basta! Non lo voglio più sentire Tirteo! Che si studia a fare se i grandi della 
terra, quelli che hanno studiato più di noi, si dichiarano guerra e fanno 
ammazzare tutta quella gente? Se lo studio della storia non ci serve d’esperienza, 
che studiamo a fare?

Nonna: Leone, si studia per arricchire il proprio bagaglio. Ma tu che pensavi, che
studiando come un forsennato avresti evitato lo scoppio della guerra?

Leone: Mammà, mammà, sempre con la fesseria pronta da dire, tu.

(Si abbassano le luci)

Narratore: Nel frattempo, però, si affacciava un nuovo personaggio, che si doveva
prendere la responsabilità di salvare l’Italia: Benito Mussolini. 

(Musica: “Giovinezza”)

Leone: Ah certo, quell’inetto di Vittorio Emanuele si era messo in testa che Mussolini
potesse fare quello che i Savoia non avevano saputo fare: rimettere impiedi
questa disgraziata nazione, ammesso che fosse mai stata una nazione.

Nonna: Leone, non si parla male del Re e della Patria.

Leone: Mammà, io parlo male di chi mi pare e piace. Che ci sono andati a fare i nostri
soldati di nuovo in Africa? Roma imperiale, diceva lui da Palazzo Venezia.

Narratore: In quel momento il Fascismo suscita nello zio Leone una grande simpatia.
Lui vede in Mussolini, nel suo dirigismo, nel suo imperattivismo, il rovescio
della medaglia di Vittorio Emanuele di Savoia. In realtà si arruola e parte per
l’Africa, ma deve tornarsene di corsa, colpito da una sorta di febbre malarica,
che lo costringerà a rimanere in Italia.

Leone: Mi ero convinto che Mussolini avrebbe potuto sbrogliare la matassa. 
Ma poi lui mi ha tradito, si, mi ha tradito quando si è alleato con quel pazzo 
monotesticolare di Hitler. Buttana di quella buttana! Come poteva dire che gli 
bastava qualche migliaio di morti per sedersi al tavolo dei vincitori?
Qualche migliaio di morti! E cosa sono gli uomini, secondo i governanti?
Sono oggetti, formiche, pezzi di merda? Forse si, forse ci considerano meno 
di questo. Siamo rifiuti, roba inanimata da buttare nel cesso, nella fogna!

Nonna: Leone, Mussolini è un brav’uomo. Non dire queste cose. Ci vuoi fare arrestare
tutti quanti?

Leone: Mammà, stai tranquilla, siamo in democrazia. Il tempo è passato, svegliati.

Nonna: Quale democrazia, Leone? Che se tu dici che sei di un certo partito, quelli 
dell’altro ti chiudono tutte le porte? O che tuo fratello, per avere quel posto
al Comune, sono trent’anni che cerca voti per quell’onorevole? O che per 
sposarsi in chiesa non si deve essere Comunisti? E’ questa la democrazia?
E allora va tutto bene.

Leone: E tu ti rifugi nel passato?

Nonna: E’ questa la democrazia?

Leone: Mammà, quanto meno queste cose le stai dicendo senza che ti riempiano di
olio di ricino o di manganellate.

Nonna: Ah, è questo il problema? E allora va tutto bene.

(Musica)

Narratore: Mussolini l’ha fatta l’alleanza coi tedeschi: l’Asse Roma – Berlino.

Nonna: Tuo padre lo diceva che avrebbero distrutto il mondo.

Narratore: E infatti l’hanno distrutto, punto per punto l’hanno rovinato. 
L’Europa l’hanno macellata. Cinquanta milioni di morti in tutto il pianeta.

Nonna: Lo diceva tuo padre che avrebbero distrutto il mondo.

Leone: E va bene, mammà, lo diceva, lo diceva, ma io ero giovane e ci avevo creduto.
Poi cominciarono a dire che gli ebrei erano una razza inferiore.
Ma buttana di quella buttana! Perchè ogni cosa che si fa nel mondo comincia 
per il bene e finisce sempre male? Che c’entravano gli ebrei con tutti i casini che 
c’erano in Italia?

Nonna: Sono ricchi gli ebrei.

Leone: Sono ricchi gli ebrei. E chi glieli ha dati i soldi, noi? Hanno diritto gli ebrei di 
essere ricchi?

Nonna: Certo che hanno diritto.

Leone: E perchè Hitler li ha perseguitati? Cosa credi, che sia vera la storia della razza 
ariana? Lui non era bello, alto, biondo... Se si fosse veramente fatta la razza 
ariana lui sarebbe stato il primo a morire nei forni. Buttana di quella buttana!
Io ci avevo creduto che Mussolini avrebbe salvato il mondo. E lui che fa?
Si allea con quel pazzo monotesticolare. Buttana di quella buttana!

Narratore: E quelle bucce di patate le conosceva bene lo zio Leone.

Leone: Hanno fatto i campi di concentramento, hai capito? I campi di concentramento
hanno fatto. Ma come può l’uomo essere così crudele verso un suo simile?

Nonna: E’ la guerra, Leone.

Leone: Ma che dici, mammà? Che dici? La guerra è guerra. No, quella non è stata 
guerra, ma qualcosa che le somigliava tanto. Mammà, la guerra la combattono
gli eserciti. Che c’entrano le razze ariane e i campi di concentramento?
Quella non è guerra, quella è macello, follia. Quella è la mania di uno che
si alza al mattino è si mette in testa oggi una cosa domani un’altra cosa.
E se non prima realizza tutti i suoi progetti, anche quelli più folli, non se ne
sta tranquillo a godersi i giorni che gli hanno dato da vivere.
E ammazzano persone come se fossero a caccia, come se sparassero sui
beccacci, sulle pernici. Però sempre nei confronti degli animali un minimo di
rispetto esiste, ma fra persone, fra persone niente. Poi si nascondono
dietro il fantasma della patria. Io, con questi occhi, ho visto un ufficiale
tedesco che si affacciava dal balcone e faceva il tiro al volo con gli esseri
umani. Buttana di quella buttana! Io, con questi occhi, ho visto un ufficiale
tedesco che si divertiva a spezzare le ossa dei bambini. Buttana di quella 
buttana! Io, con questi occhi, ho visto un ufficiale tedesco che ha sparato
a un bambino, perchè si stava mangiando le bucce delle patate! (Scoppia in
lacrime) Capite? Le bucce delle patate! Oh Dio! Dio! Dio! Ma dov’eri mentre
succedevano queste cose? Dov’eri? Perchè abbiamo dovuto subire tutto 
questo? Io non sono nemmeno ebreo. Per quanti anni dovremo pagare quella
croce su cui ti abbiamo appeso?

Nonna: No, Leone, non bestemmiare! Il Signore perdona!

Leone: Il Signore perdona?

Nonna: Si, Leone. Che c’entra Dio? Lui ci ha dato il libero arbitrio.

Leone: Ancora con questo libero arbitrio, mammà? Ancora con questo libero arbitrio? 
Basta! (Si afferra come se impazzisse) Io tutte le notti li vedo arrivare: l’ufficiale
tedesco e il bambino. E’ carino il bambino, è piccolino, magrolino, ma non per
denutrizione, è proprio magrolino di costituzione. Sta giocando vicino alla cucina del campo, e canta: “Oh che bel castello marcondirondirondello.
Oh che bel castello marcondirondirondà” Ora dalla finestra buttano le bucce
di patata. Il bambino corre, va a prenderle... La madre ha capito; gli urla: 
“No, non toccarle” e va per prenderlo in braccio. Il tedesco è fermo, si gira,
poi le grida: “Non ti muovere, puttana ebrea”, puntandole la pistola.
La donna si ferma a circa venti metri dal bambino. Il tedesco si mette in
mezzo a madre e figlio e poi con la pistola puntata si gira verso uno e verso
l’altra, verso uno e verso l’altra, verso uno e verso l’altra, verso uno, il bambino,
e spara: tohn! Il petto del bimbo si squarcia, il suo sorpicino cade per terra.
La madre corre come un razzo, si butta coi denti al collo del tedesco e con
un morso gli stacca la carotide. Cadono per terra, l’ufficile è morto sul colpo,
mentre la donna viene crivellata da centinaia di colpi di mitra. (Cade a sedere
distrutto) Buttana di quella buttana. Quella non è stata guerra, ma un’altra
storia.


Nonna: (Gli si avvicina e lo abbraccia come per sostenerlo) Leone, bello di mamma,
è passato tutto!

Leone: Non è passato niente, mammà! (Si tocca la testa) Qua dentro non è passato
niente, niente!

Nonna: Vieni, Leone, andiamo a letto. Si è fatto tardi.

Leone: Si, mammà, andiamo a letto.

(I due escono)

Narratore: Un caso di omonimia, un caso di volgare omonimia e lo zio Leone andò a
finire in un campo di concentramento. Terminata la guerra il suo omonimo, che 
seppe, non ci ha voluto dire come, del fatto e delle sofferenze dello zio, è 
venuto a trovarci, ha voluto conoscerlo e lo ha ringraziato.
Lo zio lo ha abbracciato e ha pianto, ha pianto tanto, tantissimo.

(Parte una musica, si abbassano le luci e il narratore esce di scena)

Fine