Numero 1 di aprile-giugno 2000

Il ricambio generazionale del pubblico

di Duccio Camerini

(Intervento per il convegno indetto da Umbriateatro a Foligno il 12 Aprile 2000)

Io sono uno scrittore, e più che un intervento, una relazione, proverò a raccontare una storia. Come tutte le storie, autobiografica. C'era una volta un paese, dalle antiche tradizioni e dalle antiche discordie. Anche gli altri paesi da cui era circondato avevano avuto le loro guerre, le loro carneficine ormai mitologiche, ma chissà perchè tutti gli altri paesi avevano prima o poi cominciato ad assumere una qualche sommaria identità territoriale, e questo paese invece no. Era tutto frastagliato, un arcipelago di staterelli a stento in contatto tra loro. Questo paese - e qui sta la favola, perchè appunto paese non era ancora - aveva ospitato in passato la più grande civiltà fiorita in questa parte del mondo, e gloriose vestigia ancora decoravano le sue contrade. Ma questo buffo patchwork di nazioni in nazione sarebbe rimasto diviso ancora per molti secoli. Anche dal punto di visto degli svaghi, degli intrattenimenti, gli altri paesi avevano - come dire - "nazionalizzato" i loro sforzi, attinto dal capitale del loro inconscio comune, e dato vita ad un repertorio di storie da cui tutti si sentivano in qualche modo rappresentati. Erano storie che appartenevano, le loro. Nel frattempo, invece, il nostro paese-patchwork mostrava diversi stili e scuole di pensiero, impulsi contrastanti, che se da un lato stavano dando vita ad uno dei più grandi fenomeni della storia, il rinascimento, dall'altra sancivano sempre di più il distacco tra poeti (il termine scrittore è successivo) e popolo, tra artisti e richiesta. Pittori e scultori prosperavano su illustri committenze signorili o papali, e le loro opere incantavano anche i comuni passanti, ma quanto alla parola scritta... L'esempio calza a pennello sul teatro. Il teatro, si sa, è anche parola scritta. Dunque. L'analfabetismo era pressochè totale, e per il teatro non scrivevano autori ad esso predisposti, ma poeti o addirittura filosofi. La più celebrata commedia mai scritta nel paese-patchwork in quel periodo si chiama Mandragola, ed ebbe la fortuna di essere rappresentata per ben sette, massimo otto volte, al chiuso di un salone gentilizio in presenza di principi e altre - poche - teste coronate. Ecco, ci siamo. Nel paese-patchwork il teatro era un fenomeno intimo. Negli altri paesi era diverso, e infatti appena pochi decenni dopo, in un paese separato dal continente da un canale detto Manica, prosperava un teatro professato da un tale William Crollalanza, un teatro di eccezionale altezza linguistica, venerato e invidiato dai colti, seguito ai borghesi e adorato dal popolino. Un teatro che poteva essere letto, ma anche visto e goduto come un spettacolo. Andiamo avanti. Qualche tempo dopo, nel paese-patchwork cominciò a farsi strada la tradizione della "commedia dell'arte", ovvero buffoni professionisti che si tramandavano lazzi e sbertuli di padre in figlio, come facevano i fabbri con incudini e martelli. Ma appunto questa tradizione, l'unica vera creata in quel paese, si era affermata proprio perchè asseriva in fondo la "non" necessità di scrivere. La "non" necessità di una storia, preferiva lavorare sui "caratteri". Insomma, per una serie di scherzi del destino, il paese-patchwork aveva davvero un rapporto difficile con la scrittura, e - al contrario di tutti gli altri paesi - la scrittura - persino quella teatrale - era affare di pochi. La scrittura era quindi - per usare un'espressione successiva - "cosa nostra" Molti secoli passano ancora, ma la questione non si risolve. Un ingegno veneziano, tale Goldòn, riesce intanto a creare un repertorio di storie della gente, intrufolandosi nelle strutture delle commedie per maschere, sottraendole una alla volta, ma senza farsi accorgere da nessuno. Quasi avesse paura di venire impiccato. Quasi che un uomo che vuole scrivere, in quello strano paese deve far finta di non scrivere. Goldòn però faceva ben sperare per il futuro, quand'ecco l'avvento del melodramma musicale, che avrebbe catalizzato interessi e cuori del paese-patchwork, risolvendo il dilemma teatro-popolo tutto a suo favore. Molti secoli passano ancora e il paese patchwork si dà un'unità nazionale, ma lo fa un pò per celia e un pò per non morir, in realtà si finge unito per accarezzarsi - in privato - i lembi colorati del patchwork. Questo paese ha tradizioni letterarie illustri ma quasi sempre staccate dal popolo. Lo svago preferito dal popolo si chiama varietà, un nome che la dice lunga, una serie di "pezzi" affidati a comici a volte geniali a volte modesti, senza niente di scritto per carità, tutto è affidato all'estro, senza una storia. Varietà. Che è un altro modo per dire patchwork. E ciò mina il futuro del teatro in questo paese. Sia chiaro: il teatro è teatro, niente di essenziale, non è un ospedale, non si salvano vite umane. E' un termometro, una sibilla, una medium, cose interessanti di cui si può anche fare senza. Però se ci pensiamo, i teatri vengono adibiti a vari usi: comizi, trasmissioni televisive, gruppi incontro di alcolisti anonimi, consigli comunali, assemblee condominiali. Tutto bene, finquando i cittadini abitano il loro teatro. Verrebbe però da dire che - nel paese ora unito ma sempre patchwork - nei suoi teatri manca solo il teatro. Tutto il resto c'è. E manca perchè le persone che fanno teatro, gli artisti, o con orrida parola, i teatranti, non lo fanno più con spinte e motivazioni, amore e tradizione, come i fabbri con le incudini e i martelli, ma lo fanno con disamore, approssimazione, volgarità, frustrazione e senso di smarrimento, privati della loro identità. E questo perché nel paese patchwork i teatri sono disertati dalla gente, che guarda con sospetto ai testi che in essi si rappresentano, e questo perchè il problema nasce a monte. Nasce dalla fabbrica delle persone. La fabbrica di un popolo: la scuola. Mentre nelle scuole di quel paese al di là della manica, dove il teatro è vicino alle persone, una delle materie di studio è "drama", come dire: attitudini comunicative. Drama usato non solo per formare gli alunni al teatro, ma anzi per insegnargli a confrontarsi con i grandi temi della vita, attraverso un gioco antico e misterioso. Ormai è chiaro che in questo strano paese, può fare di più per la formazione delle nuove generazioni il teatro, piuttosto che la televisione, con la sua violenta futilità, o altri media più o meno intossicati e intossicanti. E arriviamo alla fine di questa storia. Allo spazio solitamente dedicato nei vecchi racconti alla morale. Un giorno viene indetto un convegno sul rapporto tra scuola e teatro. In una città di quello strano paese. E uno che scrive ancora testardamente per il teatro viene chiamato a dire la sua. Allora lo scrittore (no, non vuole essere chiamato autore, né poeta, né drammaturgo), lo scrittore chiede alle persone presenti un favore: inserite la cultura teatrale nelle scuole, ovvero la cultura dell'uomo, riguadagnate il tempo perduto, fatelo perchè così noi potremo scrivere teatro migliore e renderci più utili. E' già cominciato un rinnovamanto nella scena di questo paese, e alcuni testi che si stanno scrivendo appartengono già ai loro destinatari. Cominciamo a vedere un teatro per le persone, e non più solo per poche teste coronate. Ma abbiamo bisogno di aiuto. Metteteci in condizione di scrivere per qualcuno, disse lo scrittore. Ed ecco il finalissimo. Futuro-utopico desiderativo. Passa ancora qualche anno, e nelle scuole ora le storie appartengono alle nuove generazioni, che se le tramandano di bocca in bocca, e sentono di avere oggi più parole per descriversi, più di quante ne avessero mai avute i loro predecessori.