Numero 0 del gennaio-aprile 2000

We care

di Marcello Isidori

E’ un po’ imbarazzante scrivere un articolo sul proprio modo di fare teatro,sarebbe più bello essere famosi e leggere quello che i critici teatrali o altri personaggi dicono di te. E magari dissentire e offendersi oppure lamentare il fatto che ci si sente non capiti. E’ però vera una cosa: quello che posso dire io sul mio stesso teatro, qualora verrà letto dalle persone che già hanno visto, e magari apprezzato, qualche mia commedia, forse li spiazzerà un po’ e l’idea che si erano fatti di me non coinciderà con quello che io penso dei miei testi. Fatta questa premessa "pirandelliana" vorrei partire proprio dalla citazione di questo grande drammaturgo che ci ha lasciato un’importante eredità: il personaggio concepito dall’autore ha una vita propria e l’autore non deve fare altro che assecondare e quindi descrivere questa vita come se si trattasse di una persona viva, esistente. La storia, di conseguenza, non è altro che la serie di avvenimenti che vengono creati dal comportamento dei personaggi stessi. L’autore, in pratica, non deve inventare nulla. Io credo però che l’autore, nel momento in cui crea dei personaggi, tranne alcuni casi, li crea in quanto gli servono a raccontare una determinata storia. L’idea di una nuova commedia pertanto può venire in due casi: quando si creano uno o più personaggi, oppure quando ci si immagina il germe di una storia, una situazione o un "messaggio". Personalmente, solo in due casi ho cominciato a lavorare ad una commedia partendo unicamente dai personaggi e lasciando che questi, con i loro caratteri e la loro "vita autonoma", creassero la storia. Negli altri casi ho sempre avuto una storia da raccontare, un messaggio da inviare, un tema da trattare e i personaggi, più o meno approfonditi, sono comunque sempre stati strumentali alla storia da raccontare. Questo non mi ha impedito di "renderli vivi", di dare loro una personalità che si sviluppasse all’interno della storia, ovvero qualora questo non sia accaduto ciò è da attribuire esclusivamente ad un mio errore. Inutile a questo punto dire che il teatro che preferisco scrivere è di quest’ultimo tipo. Per me è essenziale la vicenda ed in particolare che questa non racconti solo se stessa ma abbia un significato esemplare, sia cioè una metafora di qualche grande problema. In sostanza non cerco di evitare il dramma minimalista, ma cerco di fare in modo che questo rappresenti più o meno simbolicamente temi massimalisti. La conseguenza è che anche i miei personaggi sono spesso simbolici, pur nella loro "carnalità". Un altro elemento che reputo fondamentale è che il teatro non è e non può essere "la realtà". Al contrario non può che essere "una rappresentazione della realtà". In altre parole per me il teatro non è "vero" ma "vero-simile" e in quanto tale è comunque finzione. La vicenda si svolge su di un palcoscenico, un rettangolo di legno delimitato da quinte, fondali e platea ed illuminato da fasci di luci elettriche. Il pubblico sa che si tratta di una finzione, è inutile ingannarlo. Preso atto di questo, è meglio forse sprecare delle energie per sfruttare al meglio questa caratteristica di "consapevole finzione" piuttosto che per cercare di rendere la rappresentazione scenica il più possibile realistica. Ciò che conta è che ci sia una coerenza interna al testo, non che questo sia coerente con "il possibile". L’assurdo o l’impossibile, qualora sia coerente con la storia, può e deve avere diritto di cittadinanza nella pièce teatrale. Il difficile è semmai imparare a sfruttare l’assurdo per dare consistenza, significato e completezza alla vicenda. Personalmente sto cercando d’imparare a farlo. Sostanzialmente il motivo per cui scrivo teatro è perché credo che ciascuno di noi debba dare un suo contributo positivo all’umanità, o perlomeno a quella piccola parte di umanità con la quale ha a che fare. E secondo me ognuno dovrebbe farlo perché ciò che avviene intorno a noi, ci riguarda tutti, e ce ne dovremmo occupare. Parafrasando il motto di Don Lorenzo Milani dovremmo dire "we care". Il mio teatro vuole essere ispirato a questo motto e il mio più grande obiettivo non è tanto quello di risolvere i problemi del mondo e dell’uomo (non ridete per favore) ma fare in modo che la gente, dopo aver visto una mia commedia, rifletta sull’esistenza e sulla necessità di fare qualcosa peraffrontare questi problemi.