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Confesso, da subito, che mai e poi mai avrei desiderato assistere ad una pièce tratta da un romanzo estremo come “Il dolore”, di Marguerite Duras, se non vi avessi trovato connesso il nome, per me imprescindibile, di Mariangela Melato. Pur riconoscendo alla scrittrice la capacità di arrivare a consegnare al lettore, nei suoi momenti alti e immediati, un senso della vita recondito ai più, arricchito dalla pienezza e dal nitore di un’istantanea rara, avrei senz’altro paventato la crudezza dolente di un simile testo, soverchiata ad abundantiam come mi par d’essere, dal dolore che attraversa qualsivoglia forma di rappresentazione non demenziale offerta dai media, dall’editoria, dalla quotidianità minuta e nell’ umana impossibilità di metabolizzare fisicamente una tale dose di negatività incombente. Siccome una simile scelta riguarda l’attrice che, dall’ ”Orlando furioso” in poi, immancabilmente non mi sogno di perdere di vista, nè in teatro, nè al cinema, nè in qualsivoglia dei suoi spettacoli, le mie aspettative (vieppiù poiché in controtendenza), sono ovviamente altissime. E volutamente mi sono astenuta dal leggere qualsiasi critica o testo disponibili.
La prima rappresentazione romana del largo monologo che adatta per la scena il romanzo in questione, avviene presso il Teatro Valle, ma nel quadro più ampio di una iniziativa monografica proprio a lei, Melato, dedicata.. La parzialità dell’evento e il tempo trascorso dal suo esordio, lo sottraggono all’urgenza di una recensione colta e puntuale (che so essere già apparsa qui per l’edizione di Genova a firma di Dolores Pesce), ma questo ulteriore contesto ne incastona la lettura all’interno di una cornice complessiva che riguarda l’intero percorso professionale intrapreso dall’attrice, collocando con compiutezza “Il dolore” nel punto esatto in cui la fisionomia dell’artista è resa più riconoscibile dalla qualità umana dell’interprete: perché, mentre esprime una precisa scelta di posizione rispetto ai temi che agitano il nostro presente, questo spettacolo, così attento, ha il sapore raro di un’assunzione di responsabilità esistenziale nei confronti di se stessa, del suo pubblico e del suo Tempo.
Intanto che coltivo questa convinzione, una strana Nemesis, sollecitata, temo, da un’indignata Duras, fa sì che durante lo spettacolo io mi ritrovi, per la prima volta nella mia vita, sospinta in piccionaia. Dimensione intuita finora, per buffa sorte, soltanto nel modo confuso che possono suggerire certi fotogrammi dell’”Amadeus” di Milos Forman o di “Les enfants du paradis” di Marcel Carnè, giacchè in grazia di singolari (quanto irrilevanti in questa sede) condizioni, familiari prima e matrimoniali poi, ho potuto astenermene. Mi scopro dunque collocata in un palco, in verità centrale, ma in quarto ( sì, quarto) ordine di galleria che (se mi garantisce la visibilità totale di una scena – ahimè - lontanuccia e mi lascia percepire con chiarezza ogni moto del corpo e dell’anima fluens, di un’attrice per me così determinante) dolorosamente non mi consente di coglierne la minima espressione del volto. Bisbetica affranta, ma non doma, trovo in virtù di questa “nuova esperienza di confine” l’insospettata linfa per una ispirazione non schermata da alcunché né da alcunchì. Succede, infatti, che stavolta della Melato io riesca ad avvertire soprattutto (molto intensamente e dal primo istante di rappresentazione) il dinamismo potente e creativo di una grana di voce che seleziona i toni adeguati a valorizzare la chiarezza e la qualità acustica di quel suo timbro vocale tanto profondo.
Trattandosi di doti personalissime e a tutti ben note, è con stupore che mi accorgo di percepire qualcosa di diverso, molto più avanzato e assertivo, in grado di ridurre a silenzio ogni respiro altrui e di “gettare nel mio orecchio il corpo dell’attore“ con la sua materialità sonora, il suo respiro, la “patina delle sue consonanti”. Con il procedere dello spettacolo questa proprietà sonora si va definendo con evidenza come un dispositivo stereofonico ineguagliabile, articolato pulsionalmente attraverso fluide persistenze, scarti timbrici e improvvisi dislivelli di registro. Una condizione probabilmente in certa misura cosciente, ma non del tutto e non sempre, in cui il respiro e la voce sono strettamente connessi all’energia delle posture che l’attrice va assumendo con l’ assecondare ogni variazione del tono psicologico. Insomma, una scoperta di potere di modulazione finora inaudita (letteralmente) per qualità, pertinenza emotiva e durata, (e comunque mai raggiunta neppure dalla stessa Melato, in occasione di altre sue felici interpretazioni). La perentorietà di questa evidenza mi spinge ad altre, più impegnative, riflessioni. In questa operazione teatrale che dà voce ad un diario che dà voce ad un ricordo, si percepisce il senso di un’oralità così centrale, attenta e metaforizzata, che non può risolversi in una prova vocale eccellente dell’attrice, (sicuramente attratta da obiettivi professionali ben più complessi).
L’idea è, piuttosto, che si voglia qui testimoniare il ruolo giocato dalla voce nella conservazione delle società. Questa espressione vocale dinamica e creativa è attentissimamente costruita in funzione di una riscoperta del significato stesso dello spessore sonoro della fonazione e certo intende con questo sottolineare gli effetti profondi della memoria trasmessa a voce. Una memoria che attraverso la fisicità vocale esprime una dichiarata volontà di esistere, di trasformare l’assenza in presenza, di arrivare anche, perché no, a sciogliere la subordinazione epistemologica occidentale che la pospone alla scrittura, proponendo modalità diverse di sentire. Sostiene e incoraggia questa convinzione la tendenza espressa da Mariangela Melato in un successivo incontro, durante il quale spiegherà al suo pubblico e ai giovani allievi dell’Accademia d’Arte Drammatica di aver voluto affrontare un testo come questo (composto durante la prigionia del compagno a Dachau da una scrittrice che si è distinta come attivista della resistenza francese), per una scelta di campo a favore della memoria dell’Olocausto. Argomento che si fa impellente quando il diffondersi di una superficialità e una generalizzazione del pensiero comune minacciano di rimuovere dalle coscienze il ricordo dei momenti più bui, generati da un’Umanità distratta e sviata, rischiando anche di riprodurne gli effetti, pur di arrivare a negare gli orrori della Storia appena trascorsa.
Per questo motivo il testimone che viene consegnato al pubblico che assiste a quest’impresa è l’esperienza umana di un carattere indomito e resistente come quello della Duras. Ma nel pasto simbolico di uno spettacolo che molto ricorda una teofania mistica, non sono soltanto la saldezza e l’autenticità di un’anima femminile capace di attendere ad essere offerti in dono come esempi memorabili. A ricordare di ricordare per mantenere vivo il battito cardiaco dell’esistenza umana c’è l’enorme sensibilità della protagonista e la sua padronanza di un repertorio espressivo nitido e asciutto, la sua versatilità per il coraggio. Scelta di resistenza, perciò, che si accorda, egregiamente e ad un tempo, con lo specifico teatrale e con la funzione più antica riconosciuta alla trasmissione orale della memoria: arrivare ad assicurare la “continuità di una certa percezione della vita, di un’esperienza collettiva senza la quale l’individuo si troverebbe abbandonato al rischio della sua solitudine”.