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Se pensiamo, nell’ambito del Novecento italiano letterario,  alla Favola del figlio cambiato, di Luigi Pirandello, o a La storia di Elsa Morante, o al recentissimo Venuto al mondo di Margaret Mazzantini, ci rendiamo conto di come e quanto l’attuale vicenda del gravissimo errore commesso al Centro per la infertilità dell’ospedale romano Sandro Pertini, possa essere tema davvero interessante e problematico sotto più punti di vista per una rielaborazione poetica sia di scrittura drammaturgica che di composizione scenica.

In ossequio alle caratteristiche di questa mia rubrica, riassumo brevemente la vicenda:
il 4 dicembre 2013 nel reparto di infertilità e fisiopatologia della riproduzione del Pertini almeno quattro donne si sottopongono all’impianto degli embrioni;
ai primi di marzo  di quest’anno una delle mamme sottoponendosi a una villocentesi al Sant’Anna di Roma, si accorge che nel referto si afferma che nei due feti che porta in grembo non è stato rilevato materiale genetico né suo né del padre e marito;
a fine marzo la coppia in attesa dei gemelli non biologici si rivolge a un legale. Scoppia il caso. L’ospedale Pertini nomina una commissione e avvia un’inchiesta interna sull’accaduto;
una delle coppie che si era sottoposta con insuccesso alla fecondazione il 4 dicembre, si rivolge alla Procura per chiedere di sapere se i due feti siano compatibili con i loro DNA;
a tutt’oggi, mentre scrivo, la struttura ospedaliera responsabile, fa sapere che:
l’errore è nato dall’aver confuso, dati i cognomi molto simili, i contenitori degli embrioni di una coppia con quelli di un’altra coppia;
ovviamente non fa sapere i nomi della coppia a cui corrisponde il DNA che invece contrassegna l’embrione impiantato nella coppia che ha scoperto l’errore: nella prima coppia, comunque, il tentativo di impiantare l’embrione è fallito;
alla terza coppia che ha fatto l’esposto reclamando che l’embrione fosse il suo, anche se per essa il tentativo non è riuscito, l’ufficio competente dell’ospedale comunica che il trattamento svoltosi a dicembre non fu nello stesso giorno in cui gli addetti commisero l’incredibile errore.

Si possono davvero trarre degli spunti assolutamente importanti per rielaborare sia un testo drammatico, per chi lavora sulla tipologia: messa-in-scena, o in vita,  di un testo drammatico; sia per chi crede di più e lavora di più sulla scrittura scenica, o su una concezione testuale oggi detta postdrammatica. Parto dal secondo caso e allora dobbiamo rifarci alla favola pirandelliana: chi lavora nella direzione postdrammatica e\o di scrittura scenica, può affidarsi appunto a un mondo antico e favolistico, magari lo stesso a cui si rivolse Pirandello: streghe, maghe, fattucchiere, madri addolorate, è tutto un mondo arcaico e miticoarchetipico che si muove: la favola finisce bene perché, è la tesi pirandelliana, il Figlio scambiato tornerà felicemente dalla sua madre naturale, anche se fino a quel momento la sua vita alla corte nobiliare era stata materialmente assai felice. Tale impostazione favorisce la libertà immaginativa, svincola da nessi realistici e logici troppo determinati, infittisce un rapporto più emozionale e sentimentale con gli ipotetici spettatori.
Per chi invece frequenta un modo più tradizionale di fare teatro, e parte dalla scrittura di un testo drammatico, credo utile rivolgersi ai romanzi della Morante e della Mazzantini, nei quali, ricordo, la soluzione finale è scelta in favore del nascituro: la protagonista della Morante, Ida,  vittima di una violenza sessuale da parte di un soldato nazista. Accetta la gravidanza e nascerà “Useppe”, divenendo uno dei protagonisti del romanzo; scelta diversa fa la Mazzantini nella sua opera: Gemma “adotta” di fatto, non potendo procreare, un figlio che è anche figlio di una maledetta guerra, quella nei Balcani degli anni Novanta: quel figlio che fino alla conclusione dell’intreccio il lettore crede comunque essere stato procreato almeno dal giovane fotografo marito di Gemma, e che invece è frutto anche qui di una violenza subita dall’amica della coppia che avrebbe dovuto surrogare la incapacità di Gemma di procreare.
Inoltre vorrei ricordare altre due possibilità di “trattare” il tema offertoci dalle problematiche della vita: inserire il “riso” nel “pianto”, o, viceversa, il pianto nel riso, come dire, circa le scelte di “genere” drammatico, seguire gli schemi di Dario Fo (inserire il comico nel tragico) o quelli di Eduardo De Filippo (far irrompere il tragico su un orizzonte teatrale d’attesa comico: il “riso verde”, insomma). Sicuramente entrambe le modalità ci riportano a una sensibilità “grottesca” se non “assurda”, e comunque paradossale, estrema, tipiche della modernità novecentesca.
Concludendo. Il caso drammatico, spiacevole e commovente  di Roma, ci presenta in estrema sintesi, due coppie: una avrà un figlio con il materiale (mi si perdoni il termine) biologico dell’altra coppia: quest’ultima non procreerà, pur sapendo che a livello di una pur piccola quota di DNA, il loro, la prima coppia potrà avere un figlio. Questo è il nucleo da cui partire e su cui lavorare.
Lo propongo ai lettori interessati, che, se lo vorranno, potranno scrivermi al proposito.
Come titolo, o traccia, o definizione iniziale propongo, pirandelliggiando:
La favola di un figlio scambiato e… (perduto?)