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Desidero riprendere il filo del discorso di questa rubrica Osservatorio teatro, che ho quasi interrotto negli ultimi tempi. E lo faccio citando testualmente, per analizzarlo tornandoci sopra, punto per punto, l’ultimo periodo del primo scritto risalente a fine 2013 (titolo: Il teatro ripete poeticamente la vita):
“Per concludere: credo che il poeta vero, l’artista, l’attore, il drammaturgo, in fondo, sono coloro che “mettono in forma”, nell’atto di reinvenzione poetica, qualsiasi manifestazione della Vita, amandola, innanzi tutto, e quindi, attraversando anche i suoi inferni, come pure i suoi misteri. E preservandola nell’atto creativo dal “brusio”, dai “rumori” di fondo perturbanti del mondo, dalle “trite e inutili parole” della chiacchiera massmediatica, dai molteplici condizionamenti e impedimenti del secolo, dal determinismo monistico dei mercati globali, dai miti moderni e postmoderni del potere tecnoscientifico.”.
Primo punto: “… credo che il poeta vero, l’artista, l’attore, il drammaturgo, in fondo, sono coloro che “mettono in forma”, nell’atto di reinvenzione poetica, qualsiasi manifestazione della vita, amandola, innanzi tutto, e quindi attraversando anche i suoi inferni, come pure i suoi misteri.”.  Prima di tutto vorrei precisare che il mettere insieme varie figure della creatività (poeta, artista figurativo, attore, drammaturgo) vuol dire che ciascuna di esse, nel suo specifico campo, deve saper abbandonare ciò a cui inevitabilmente la vita concreta porta ciascuno di noi, e cioè: l’agire meccanicamente; il pensare per schemi; il parlare per frasi fatte; insomma tutti quegli automatismi che nella vita d’ogni giorno tendono a farci risparmiare tempo, fatica, fastidio, denaro. Gli automatismi uccidono la creatività! Per cui re-inventare poeticamente la vita significa eliminare il più possibile il pensiero automatico (beninteso, non quello voluto dai surrealisti, che è altra cosa!); star lontani da ciò che è scontato, prima ancora di scegliere la propria poetica, il proprio stile, il proprio linguaggio, è una conditio sine qua non risulta molto difficile “inventare” per sintesi poetica. Ad esempio pensiamo alla tanto magnificata, e giustamente, scena del caffè che Eduardo inventò per Questi fantasmi: è davvero un insegnamento fondamentale per tutti noi la lunga azione in cui il nostro grande drammaturgo spiega come deve essere la preparazione del caffè alla napoletana: al contempo vuol essere spiegazione di come, a teatro, tutto deve essere compiuto, agito con estrema consapevolezza!
Proseguiamo: ogni manifestazione del nostro vivere, ogni aspetto della vita, la Vita in generale bisogna saperli amare per farne poi materia poetica! Per poter essere liberi di agire consapevolmente e non automaticamente, dobbiamo essere liberi da riserve di ogni tipo, tra cui quelle sentimentali e mentali: ciò non vuol dire che poi non si sia liberi in finale di scegliere le cose che più amiamo: ce lo ha insegnato Testori, specie coi suoi studi sull’arte italiana: non dobbiamo per così dire avere la puzza sotto il naso: tutta la realtà può interessarci, attirarci, provocarci, purché non si abbiano chiusure particolari: ha ragione Papa Francesco nel ricordarci i limiti enormi della cultura dello scarto e della globalizzazione dell’Indifferenza. Bene: chi vuol reinventare la Vita, la Realtà poeticamente, deve essere intimamente aperto a ogni loro manifestazione, sia negativa (gli inferni, ce lo ricorda Italo Calvino, che ci raccomanda di saperli riconoscere per poterli attraversare e superare), che positiva, e anche misteriosa (il poeta spesso è un mistico che interroga la divinità nel suo profondo mistero!).
Secondo punto: “E preservandola [la Vita] nell’atto creativo dal “brusio”, dai rumori di fondo perturbanti del mondo, dalle “trite e inutili parole” della chiacchiera massmediatica”: io credo che, nel ricreare la Vita, per via poetica, si possa incorrere nel pericolo di farsi avvolgere dal velo superficiale di una estesissima tramatura di discorsi, parole, frasi fatte, slogans, senza, poi, che ce ne accorgiamo, o magari solo per il fatto che se non ci si fa megafoni della chiacchiera universale difficilmente qualcuno ci ascolterebbe, ci leggerebbe, ci guarderebbe. Pensiamo alle trasmissioni televisive, all’enorme sciocchezzaio che si accumula giornalmente, oggi bissato dai mezzi di comunicazione quali i social net! Purtroppo il mercato vuole “prodotti artistici” similtelevisivi, e questo è un enorme ostacolo per chi sa di poter dire qualcosa fuori dal coro, e soprattutto non confuso nella stragrande superficialità dei messaggi. Però io penso che dedicandosi a forme e generi comici, satirici, umoristici, si possano evitare molti rischi, e anche qui voglio ricordare un grande maestro della tradizione europea quale fu Molière! E, all’oggi, si pensi alla lezione di un Dario Fo.
Ma proseguiamo, col terzo punto: “… dai molteplici condizionamenti e impedimenti del secolo, dal determinismo monistico dei mercati globali, dai miti moderni e postmoderni del potere tecnoscientifico.”: se il teatro deve essere vero teatro, cioè, come ha detto Taviani, un’esperienza creativa che non è non-arte, e non è non-vita, istituendosi come ponte fra le due dimensioni, è necessario che chi lo abita sappia stare nel mondo, ma non essere del mondo. Mi spiego: quasi evangelicamente, occorre saper rinunciare alle lusinghe modaiole, alle profferte consumistiche, alla mitizzazione che certe vie del neo-neo capitalismo sta imponendo. Perché? Perché, chi, come noi, ama il teatro, e lo fa, deve rendersi conto che esso è un prodotto artistico oggi “scaduto”, che cerca soprattutto di divenire un’eccezione nella società dello spettacolo, ma non venendo “ridotto” a eccezione. Certo, occorre l’aiuto indispensabile che una società civile deve saper dare, in qualsiasi modo! Ma l’arte teatrale occidentale deve guardare alle sue origini, giacché se si mette a gareggiare coi miti attuali è destinato a perdere, forse a scomparire!