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Oramai, dopo circa tre anni che questa mia rubrica è ospitata da Dramma.it, credo che sia necessario fare qualche puntualizzazione utile ai lettori che benevolmente la seguono. Osservare la vita, la nostra vita, dal punto di vista del teatro, in particolare nel “teatro di rappresentazione”, dove liberamente e per via poetica si dovrebbe attuare un processo di interpretazione e rielaborazione del vivere dell’uomo, come singolo e come essere sociale, non significa certo passivamente essere, tutti noi (autori, attori, registi, spettatori, ecc.) dei semplici e incuriositi voyer della Vita. Che era un po’ uno dei presupposti teorici del Naturalismo e del Verismo italiano di fine Ottocento. Tutto sta nel considerare il teatro, come io credo, soprattutto una critica, fatta in pubblico, come già nell’antica Grecia, ed una erosione eticamente stabilita di interessi costituiti, in quanto ritenuti nocivi, ingiusti, e pericolosi per il consorzio sociale, per l’umanità stessa. Se si riflette un poco, poiché tutti siamo alla ricerca della vera essenza dei valori primari che chiamiamo amore e pace, ci si accorge che quasi sempre in arte in generale e in particolare in quella teatrale, quando sa essere arte e non semplicemente “spettacolo”, accade che si riesce piuttosto a mettere in rilievo ellitticamente e negativamente le cose: a negare una negazione! Occorre, quindi, che uno dei primi requisiti dell’arte e del teatro sia quello di individuare con chiarezza, tramite la coerenza l’organicità la precisione anche tecnica, l’interesse negatore che si desidera e si tenta di colpire.
Da lunghi anni, forse da un centinaio d’anni, la crisi del Novecento, per alcuni il “secolo breve”, storicamente parlando, ci ha abituato alle tante parole composte col prefisso dis-, che indica un rovesciamento del senso buono, positivo, di una parola, e sottolinea una separazione, una rottura semantica: dis-sacrazione, dis-senso, di-vertimento, dis-armonia, dis-ordine, dis-cordia, dis-umano, dis-impegno, e così via, ché ne potremmo aggiungere altre  Di certo, però, difficilmente incontriamo la parola disinteresse, in un’epoca che assolutizza la produzione e il relativo consumo, di beni materiali e immateriali, perché si opporrebbe alla parola interesse, ma non più inteso come interesse superiore, assoluto (la Storia, la Vita, la Divinità, l’Economia, intesa etimologicamente come “ordine della casa”), ma interesse particulare.  Da ciò occorre che l’Arte individui con chiarezza, se e quando possibile, l’interesse come valore assoluto. Ne consegue, però, che si trattano le grandi parole Amore e Pace privi di un senso ben definito e assoluto dei termini, ma in modo dunque ellittico e per negazione: “odiare l’odio per o dell’amore”; dar “guerra alla guerra contro la pace”.  Ovviamente simile ricerca di significato, essenzialmente storico, sociale, cambia dal momento in cui viene presentata l’opera artistica, al momento in cui viene recepita. Si crea così un nesso, un rapporto, una analogia fra il produttore dell’opera e colui che poi la recepisce e la interpreta, nello spazio-tempo a lui destinato. In più, l’interprete deve svolgere la sua interpretazione anche lui in modo chiaro coerente organico. Inoltre, a ben vedere, se la parola disinteresse è un po’ sparita nei vocabolari della vita pubblica, comunitaria, ed ora sempre più globalizzata, io credo che ciò dipenda dal fatto che essa è l’equivalente di una parola positiva: la parola “amore”, che nell’uso, nondimeno, è contraffatta dal suo contrario. Ma si pensi bene: interesse, poi, non avrebbe etimologicamente un significato positivo? E cioè lo “stare tra”; il condividere? Ancora una volta, invece, si ricorre ad un uso negativo della parola, appunto al disinteresse, oggi poco usato, perché è lo “stare tra” che è poco corrispondente al vero.
Io credo che la parola “amore”, nello sbandieramento che comunque se ne fa, nelle varie contraffazioni, nelle retoriche con cui si usa, abbia sempre più il significato di “interesse camuffato”: una sorta di narcisistico amor proprio, che è poi l’opposto del vero amore, atto transpersonalizzante e transitivo (che parte, certo, da un soggetto che ha un suo ego, ma pronto ad andar oltre se stesso!). L’amor proprio è indicativo di una proprietà (essendo “proprio”) sollecita a tracciare attorno a se stessa un recinto dove finisce e viene perimetrato il proprio io; mentre l’atto d’amore inizia proprio sul punto in cui termina il proprio io.
In fin dei conti è al fine di recuperare il suo significato originario che l’amore si assimila al disinteresse, la cui urgenza è quella di annientare ogni ostacolo che si frapponga alla libera esplicazione dell’amore e della pace.
E per chiudere io credo che “osservare” dal teatro, che è atto creativo, la vita, la nostra vita, significhi ricercare sempre di essa per intuizione poetica i significati che aiutino a difenderla, in tutte le sue articolazioni, e a renderla per tutti un valore assoluto e irrinunciabile, colmo di amore pace e giustizia.

P. S.
Desidero qui ricordare uno dei miei maestri, Nicola Ciarletta, a cui sono in parte debitore di queste mie riflessioni, essendomi in particolare riferito al suo Il trinomio arte-amore-pace, in Metanoia. Fede e teatro, Roma, Bulzoni, 1983.