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Quando il Pericles, Principe di Tiro fu rappresentato al Globe Theatre di Londra, presumibilmente nel 1608, fu scambiato da Ben Jonson  per una scelta innocua di Shakespeare in direzione della tendenza, allora corrente, a trasporre  teatralmente certi vecchi romances del  ‘500. Con buffa miopia il noto drammaturgo arrivò a definire l’ultimo  successo del suo più temibile concorrente, “a moudly tale”: letteralmente, “una favola ammuffita”. Invece, il primo, bellissimo, “dramma romanzesco” ( al quale seguiranno Cymbelino (1609-10), Il racconto d’inverno (primavera 1611), La tempesta (autunno 1611,) I due nobili congiunti (1613), annunciava, del tutto sommessamente ma con arguzia estrema, un cambiamento  nell’orientamento espressivo di Shakespeare e non solo…. Sostituire con il nome di Pericle, quello di Apollonio di Tiro, protagonista  del romanzo ellenistico alla fonte dei testi poetici che ispirano il dramma, (la “Confessio amantis” di John Gower, 1390, e il contemporaneo “The Pattern of Painful” di Laurence Twine, 1607), per nulla alludendo al grande statista greco, ma riferendosi al personaggio chiamato Pyrocles che anima, insieme all’ inseparabile compagno Musidorus, quell’ “Arcadia” di Sir Philip Sidney notissima agli elisabettiani, era un tiro mancino…: i King’s Men rappresentavano in quel momento un dramma di grande successo dal titolo, per l’appunto, Musidorus,  che però con l’”Arcadia” in questione non aveva relazione alcuna.. Ma far seguire ad un dramma così denominato un testo nuovo, intitolato a sua volta all’inseparabile compagno del personaggio appena congedato dalle scene, significava alludere senz’altro al Sidney e voler significare che quel testo andava certamente fruito nello stesso spirito dell’ “Arcadia”. Si trattava, perciò, di un brillante espediente pubblicitario, significativo per più ragioni.. Essendo il Sidney anche l’autore di in un’altra famosissima opera densamente critica nei confronti del teatro (“Defense of Poesie”,1595), imperniata soprattutto sull’unità di tempo e spazio e sull’assenza di assurdità, Shakespeare  nel suo Pericles gioca provocatoriamente proprio di paradosso, optando per una struttura drammatica  ripetutamente discontinua nel tempo e nello spazio, eppure fortemente coesa nello stile linguistico e nelle atmosfere. Così divertendosi ad imitare l’ unitarietà di linguaggio e di stile che informano la struttura dell ”Arcadia” per confutare tutte le critiche mosse dal suo autore nei confronti del teatro con la sua stessa opera. E’ la presenza del mare che nel “Pericles” risulta ineludibile: le vicende del protagonista e dei suoi cari sono costantemente incalzate dalle impennate  questa forza invasiva e destabilizzante che ne condiziona clima emotivo e qualità  sensoriale del linguaggio, tanto da far dire a T.S.Eliot che c’è ne drammi di Shakespeare un pattern (disegno, struttura, di solito musicale) “nel quale sono impiegati tutti i sensi per dire qualcosa che è al di là dei sensi” e che nel “Pericles”  a lui pareva di sentire “l’odore pervasivo dell’alga marina”.
Il senso di questa operazione consisteva nell’ inaugurare codici  letterari  e linguistici completamente nuovi che rivelavano il raggiungimento di un ulteriore spessore cognitivo:  la linea narrativa non poteva esaurirsi più, semplicemente, nella concatenazione degli eventi, ma si andava organizzando anche sui collegamenti delle loro  metaforiche proiezioni, mettendo in luce, in buona sostanza, come la lettura di un testo si articoli su piani diversi. Il testo, insomma, cominciava a configurarsi come un palinsesto. Piero Boitani nel suo affascinante” Vangelo secondo Shakespeare” (Il Mulino Intersezioni, 2009, pagg.59-61) arriva a indicare con puntualità sorprendente i parallelismi, incredibilmente chiari, tra il  nucleo centrale del Pericles e dell’Apollonio di Tiro con una trama secondaria della leggenda di Maria Maddalena.
Ma la tematica sotterranea  che attraversa insistentemente questo dramma (e così pure tutti gli altri drammi romanzeschi)  è, in una nuova dimensione, la stessa che agitava Re Lear: : una ricerca attorno ad un potere regale e umano che sta perdendo la sua sacralità e consegna l’uomo alle sue passioni sfrenate senza più l’ ausilio della ragione naturale, né della totalità di un ordine, che, dilatandosi a raggiungere coordinate mai conosciute prima, finisce per frantumarsi. Forse a pesare sul disorientamento di Shakespeare è l’incapacità prospettica delle le figure guida deputate a ciò: gli Stuart, sovrani attaccati al medioevo religioso e  feudale del tutto privi di immaginazione ed  energia rispetto alla loro posizione storica e spirituale, in un frangente in cui l’inghilterra elisabettiana appariva impegnata in “un grandioso sforzo di movimento e di passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima”. Tutti i drammi romanzeschi shakespeariani sono agitati da un vorticoso movimento di spazio e tempo: nell’intero  Mediterraneo (Pericles), tra la Britannia e Roma, fra i monti e le selve (Cymbelino), attraverso la Sicilia e verso la Boemia ( Il racconto d’inverno), a Milano prima e a Milano e Napoli dopo (La tempesta). Tutti questi testi prendono inizio dal grave errore commesso da un sovrano, divenuto tiranno per effetto della pienezza del suo potere, in direzione di un abuso più o meno dichiaratamente incestuoso. Ciò consente di esplorare ogni rapporto d’amore, via via spostando l’accento più oltre: padri e figli, mariti e mogli, coppie, generazioni, sessi etero e omo, umano e divino.
La nuova fase creativa, motivata anche dal venir meno della tipologia composita di pubblico che aveva favorito la nascita della grande tragedia e commedia elisabettiane,  e dalla necessità di rispondere alle esigenze di due diversi teatri frequentati da due tipologie di pubblico differentissime, permetteva a Shakespeare, con la trasposizione della tragedia in fiaba, di rendere espliciti  i significati allegorici, di ridurre la consistenza umana dei personaggi, conferendo maggior importanza all’intreccio degli eventi e delle circostanze, che acquistano senso in proprio, indipendentemente dai loro attori. Ma la fiaba è anche, di nuovo, il miraggio consolatorio di Lear:  intrattenimento di preghiera, canto e racconto, vagheggiato dal sovrano in compagnia di Cordelia, nel recinto di una prigione dall’aura sacrale dove la fiaba si fa mezzo per la ricerca del mistero delle cose, come se i due fossero “spie di dio”.
La conoscenza riguarda la carne e il cuore degli esseri umani e la morte appare a Shakespeare in questi ultimi drammi non come una fine, ma come un passaggio, un nuovo inizio: “cose che muoiono e cose appena nate si incontrano così sulla medesima riva, come nella vita”  si dice nel Racconto d’inverno, dove la statua che rappresenta il personaggio femminile più importante  viene scolpita, è detto, da Giulio Romano, che fu architetto e pittore dei Gonzaga, ma scultore non proprio. Noto, però, per la sua passione per la libertà compositiva, per l’arditezza dei ritmi e la non convenzionalità degli ordini  architettonici che richiamano la creatività feconda e provocatoria dell’ultimo Shakespeare.   E a Giulio Romano è anche attribuita una famosa ”Allegoria dell’immortalità” che potrebbe essere in risonanza con i temi che attraversano Il racconto d’inverno .
Tutto considerato, è con immenso sollievo che a 400 anni di distanza sia andata perduta ogni traccia di anziani signori ebbri di potere e mossi da incontrollate pulsioni incestuose, incapaci di percepire e sostenere la sacralità del loro ruolo storico, intanto che le fisionomie dei continenti intorno premono per uscire da una superata condizione coloniale: questa sì, sarebbe stata davvero una favola ammuffita…