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E’ consuetudine che la ricorrenza della scomparsa di un autore importante dia impulso a nuove iniziative intorno alla sua opera o persona: pubblicazione di inediti, riedizione di saggi famosi, apparizione di testi biografici aggiornati. A settanta anni dalla scomparsa di Virginia Woolf, la presentazione di un secondo libro di memorie scritto dalla novantenne nipote della scrittrice, Angelica Garnett (in contemporanea con la riedizione di “Una stanza tutta per sé” nella collana di Repubblica) mi persuade a leggere finalmente il primo libro della Garnett, “Ingannata con dolcezza –Un’infanzia a Bloomsbury”, insieme al secondo “La verità nascosta”. Intanto, uno sguardo distratto al librino di Repubblica, che ben ricordo e conosco, possedendolo in altra edizione, fa sì che la magia inquieta di Virginia mi catturi di nuovo. Non solo torno a leggerlo pressocchè per intero, ma ricordo anche ( giusto arrivata al punto in cui si descrive il famoso e riservatissimo prato della biblioteca di Oxbridge) di avere un antico conto in sospeso con il Sig. Ramsay di “Gita al faro”…

Riprendo la parte di epistolario in mio possesso dall’ ’80 (Le cose che accadono, 1912-22) e scorro agilmente  750 pagine con una percezione effettivamente acuita ed elettrizzata dai libri di Angelica Garnett (che di Virginia quasi non parla, ma ne descrive invece con dovizia e precisione l’entourage e gli affetti) e dagli approfondimenti di altri autori nel frattempo sedotti dalla raffinata scrittura della Woolf: Pierre Bourdieu, Nadia Fusini, Luisa Muraro, Nigel Nicolson…Il volume in mio possesso contiene lettere spumeggianti, di un’ironia irresistibile e di un’indomita pazienza, anche quando riguardano la problematica ancillare e un vorticoso alternarsi di domestiche, a tratti esasperante. Queste mie ultime letture consentono di captare numerose sfumature ironiche, altrimenti incomprensibili, come le vacuità sulla nascita di Angelica e i rimandi apicultorei in proposito, che si riferivano segretamente alla reale paternità della bambina (il bellissimo pittore omosessuale Duncan Grant, legato al David Garnett che vent’anni dopo vorrà caparbiamente sposare proprio Angelica, dandole poi quattro figli. I due in quel momento, come obiettori di coscienza, erano condannati ai lavori di campagna, tra i quali l’allevamento delle api). E così le allusioni alle presunte difficoltà scolastiche degli amatissimi nipoti maschi di Virginia, Julian e Quentin, nati dalla sorella Vanessa e Clive Bell: creature speciali e di grande talento che l’eccentricità della madre aveva allevato lontano dai metodi ottusi e massivi della scuola pubblica, alla quale si sentiranno per sempre inadatti. Cosa che, chi l’avrebbe mai detto, costituì non un privilegio, ma un terribile condizionamento per Angelica, cresciuta senza l’ansia di esami e priva di ogni esperienza simbolicamente formativa.

Ma si intravedono crescere questi due deliziosi ragazzini  e nascere la bambina, per la quale, a lungo, Virginia studierà il nome….che stava per essere quello di essere Clarissa, poi conferito, invece, al successivo personaggio letterario di Virgina, la Signora Dalloway….Lo sguardo premuroso della zia e quello innamorato della sorellina aiutano a comprendere il significato  delle scelte dei due, di Julian in particolare che cadrà nel ’37, partecipando valorosamente alla guerra civile di Spagna e precipitando la madre e la zia in uno lungo stato di stuporoso dolore. Il professor Quentin Bell sarà invece il  depositario delle opere di Virginia e il suo primo biografo, seguito da Angelica soltanto più tardi.

Attraverso queste lettere di Virginia, emergono fra tutte, con chiarezza emozionante, le figure del premuroso e colto marito Leonard e della  bellissima sorella Vanessa, che contende alla madre Julia il tratto materno silenzioso, signorile e rassicurante (Signora Ramsay), integrandolo  con un deciso anticonformismo, alimentato dalla sua appassionata determinazione a diventare pittrice e dalla genialità maliziosa ed esclusiva del gruppo di amici di Bloomsbury: sorta di propaggine di Cambridge, riunitasi intorno al fratello di Virginia, Thoby Stephen, allievo del filosofo Moore insieme a J.M. Keynes, Leonard Woolf (futuro marito di Virginia), Lytton Strachey (omosessuale invaghito di Virginia che poi si unirà alla pittrice Dora Carrington), Saxon Sydney Turner, E.M. Forster e i critici d’arte Roger Fry e Clive  Bell (che sposerà Vanessa). Questa sorella, soggetto d’ispirazione preferito da Virginia per più di una delle sue protagoniste, in particolare  per la Signora Dalloway, rappresenta una fonte di affetto e una sponda di conforto e confronto femminile insostituibile, essendo scomparsi assai presto entrambi i genitori delle ragazze Stephen. Gli amici di Bloomsbury, i letterati che si lasciano coinvolgere dall’impresa editoriale dei Woolf, la nascita della “The Hogart Press”, e l’impegno concreto di Virginia in questo sogno, gli artisti del gruppo Omega, gli Obiettori di coscienza, le femministe della Lega cooperativa femminile di Margaret Llewelyn Davies, gli aristocratici appartenenti alla ricercata cerchia familiare, le domestiche intriganti  e insofferenti, balenano nel tratto privato di Virginia con la loro umanità e le loro debolezze, disegnando una prospettiva unica della cultura e della società inglese di inizio secolo che comprende lo scoppio della guerra e la sua fine.

“Il romanzo della povera Rebecca West esplode come una salsiccia troppo piena. Dice tutto . E uno si trova coperto di particelle volanti…() Non riesco a scrivere con questa penna debosciata, ma devo procedere a fatica e dirti che ammiro sinceramente il povero vecchio Henry (James) e che l’estate scorsa ho effettivamente letto “Wings of a Dove” e mi è sembrata un’acrobazia così sorprendente, tanto da parte sua che da parte mia, che ora considero me e Henry uniti nel merito”.

“Ho appena finito l’ultimo libro di Conrad. Tu l’hai letto? E’ molto bello  e c’è un gran senso di calma. Mi piacerebbe sapere come riesce a ottenere questo suo effetto di spazio”.

“C’era anche un giovane, molto originale, dagli occhi screziati -Aldous Huxley- che per merito di Ka è stato assunto in un ufficio governativo. L’ho messo in guardia contro i pericoli che corre la sua anima; comunque, passa il tempo a tradurre poesie francesi”.

“Ci è stato chiesto di stampare il nuovo romanzo del signor Joyce, dopo che tutti i tipografi di Londra e la maggior parte di quelli di provincia avevano rifiutato. Per cominciare c’è un cane che piscia – poi c’è un uomo che si masturba, e si può essere monotoni anche su quest’argomento. Inoltre credo che il suo metodo, che è molto elaborato, voglia poi soltanto tagliar via le spiegazioni e mettere i pensieri tra virgolette. Perciò, non penso che lo stamperemo”.

“ E’stato molto gentile da parte tua comprare due copie del libro di Katherine Mansfield. E’ una neozelandese che ha la passione di scrivere e ha avuto esperienze di ogni sorta girovagando coi circhi ambulanti per le brughiere della Scozia e si è mantenuta scrivendo racconti su New Age; ma questa è di gran lunga la cosa  migliore che abbia scritto finora”.

Se non avesse scelto di lasciarsi andare tra i flutti del fiume Ouse, a un passo da casa, quel marzo del ’41, forse oggi avremmo di lei anche opere teatrali. Leggendo “Le onde” sarebbe lecito pensare  ad uno sviluppo possibile in questo senso: del resto lei stessa afferma: “  “Le onde” si stanno risolvendo  in una serie di monologhi drammatici. Il problema è come farli scorrere al ritmo delle onde”. Mira a far percepire l’esperienza interiore dei personaggi, mescolata allo sfondo che a loro non è dato percepire. Teatro?

Nadia Fusini suggerisce acutamente in proposito che “Non dobbiamo sempre capire. V’è una conoscenza che si forma nell’incomprensione, nell’urto con le difficoltà”. E certo le  figure femminili di Woolf conoscono bene il lavoro sottile del silenzio consapevole, dell’empatia: la sua scrittura sa cogliere l’istante della realtà che si manifesta, per gli altri indicibile. La scrittrice ne ha coscienza e vuole, per questo, “Dare il momento intero, qualsiasi cosa esso includa”. Ma anche perché pensa che “Non si è lasciati soli a se stessi ma a qualcosa nell’universo: nel mezzo della tristezza, della depressione, del tedio si vede una pinna di pesce che passa lontano”.   Siccome “Il momento è una combinazione di pensiero, di sensazione.. la voce del mare… ecco che lo spreco  e  la morte vengono dall’inclusione di cose che non appartengono al momento. La mia insofferenza con i romanzieri non è forse perché non selezionano niente? I poeti invece sono bravissimi a semplificare: praticamente tutto è lasciato fuori”: dunque vuole “Eliminare ogni spreco, tutto il superfluo, le parti senza vita”. Siamo a un passo dall’”arte come vita rimessa in bello” di Pirandello, nei pressi di una forma liricodrammatica…E infatti: “Leggerò Ibsen e Shakespeare e Racine. E scriverò qualcosa su di loro. E’ il migliore stimolo per come è fatta la mia mente. Perché allora leggo con furia e precisione: altrimenti lascio correre, salto”.

Potrebbe anche essere utile considerare la vivacità del nucleo familiare di Virgina, che lascia intuire una larghezza di orizzonti inconsueta per una famiglia tardovittoriana così numerosa, sebbene appartenente all’autorevole critico letterario Lesley Stephen, che aveva in prime nozze sposato la figlia di Thackeray, da cui aveva avuto una prima figlia Laura. Legatosi successivamente  a Julia Jakson, vedova di Herbert Duckworth, e nipote della bellissima fotografa Julia Margaret Cameron, (una delle famose sette splendide sorelle vittoriane Prattle), Lesley allevò i figli di lei George, Stella e Gerald insieme ai suoi, Vanessa, Thoby, Virginia e Adrian. Presenze di familiari per gli Stephen erano tra gli altri  Henry James, George Meredith, G.B. Shaw e Bertrand Russel.

Il primo romanzo di Virginia Woolf che scelsi leggere fu “Gita al faro”, nei primi anni ’70. Una partenza lenta, perplessa, la prima volta: credo di essermi fermata a pagina cinquanta o giù di lì. Ci tornai su in seguito, da giovane signora, con una curiosità nuova, come cercando suggerimenti per una dimensione femminile di misurata eleganza. Apprezzai infinitamente la Signora Ramsay eleggendo dentro di me  quello stile come il più composto e, per l’appunto, signorile.

Non sapevo di essermi  scelta un complicato modello di sottomissione al dominio maschile più infantile e arbitrario, foriero di una pericolosissima forza di alienazione simbolica. La rilettura critica del romanzo praticata da Pierre Bourdieu nel 1998 mi ha restituito la chiave dell’habitus emancipato. E comincia dalle “Three Guineas”: “Non possiamo non pensare che le società sono congiure che soffocano il fratello privato che molte di noi hanno motivo di rispettare e generano al suo posto un maschio mostruoso, dalla voce prepotente, dal pugno duro, puerilmente intento a tracciare cerchi di gesso sulla superficie della terra, linee di demarcazione mistiche entro le quali vengono ammassati gli esseri umani, rigidamente, separatamente, artificialmente; dove, dipinto di rosso e di oro, adorno come un selvaggio di piume, nostro fratello consuma riti mistici e assapora il dubbio piacere del potere e del dominio, mentre noi, le “sue” donne, siamo chiuse a chiave tra le pareti domestiche, senza spazio alcuno nelle molte società in cui la società si compone.”
Per inciso, fu  Quentin a rivelare l’ aggressione a sfondo sessuale subita da Virginia ad opera di un fratellastro. Trauma increscioso, per sempre in risonanza, forse, con il suo sguardo ferito e i  dolorosi smarrimenti che ce ne hanno sottratto troppo presto l’ ingegno ineguagliabile.

N.B.
Nel 1922 Virginia aveva iniziato  la stesura di una commedia imperniata sullo scontro comico tra il mondo a lei contemporaneo e quello vittoriano in estinzione, mescolando argutamente vicende personali e argomenti difficili, come l’omosessualità o l’amore senile. Nel 1934, in occasione del sedicesimo compleanno della nipote Angelica, questa commedia (”Freshwater”), fu rappresentata nello studio londinese della sorella  Vanessa,  interpretata da Leonard Woolf e Duncan Grant, insieme Vanessa, Julian Bell, Adrian Stephen e Angelica, mentre in platea il fragore delle  risate di Clive Bell superava la voce degli interpreti.