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Caro Diario, è un bel po' che ti trascuro: gli è che ho sempre da fare, timbrare il cartellino, curare il giardino, pagare le bollette, i bolli, le assicurazioni. Quest'anno, come sai, ci si è messo anche il nevone, e' nivòun, in italiano blizzard - almeno così veniva definito dai media nazionali mainstream: subito dopo gli ultimi tre giorni di gennaio - i giorni della merla, che da bianca divenne nera, affumicata dal comignolo  caldo dove si era rifugiata - per due settimane tonde abbiamo avuto neve, ghiaccio e vento ululante; dietro Rimini, sugli ultimi colli romagnoli, sul Montefeltro e sulla piccola Urbino, si è raggiunto il massimo, con neve fino al primo piano delle case et ultra.

Insomma, torno in ufficio, apro la posta e ci trovo la pubblicità di un allestimento di Dans la solitude des champs de coton, di Bernard Marie Koltès; fin qui niente di particolarmente nuovo: il testo, scritto negli anni Ottanta, è diventato da tempo un classico contemporaneo. La novità, almeno per me, è che viene presentato in duplice veste linguistica, in francese e in corso. Toh - mi sono detto - interessante! Sta a vedere che l'ibridazione tra 'lingue nazionali', dialetti e/o lingue nazionali minori e scene contemporanee non è un fenomeno solo italiano!?

Allora, diario, facciamo così: riprendiamo l'argomento da dove l'abbiamo lasciato l'ultima volta con "Dialetti a teatro" dando nuovamente la parola ad uno dei nostri migliori autori, Francesco Gabellini, finalista al Premio Riccione 2005.

Da parte mia, caro diario, due note: la prima è che Francesco, con giusto mix di impegno e beata incoscienza, è andato a scrivere un testo teatrale 'in dialetto' - ma, attenzione! non 'dialettale' - per sei personaggi, novità grandissima e difficile da maneggiare , dopo tutta la tradizione dei monologhi di Lello Baldini, Tonino Guerra e dello stesso Gabellini. Nelle farse delle filodrammatiche 'dialettali' i personaggi sono d'abitudine numerosi; non così nel teatro 'in dialetto' che si è venuto scrivendo dai sullodati, dagli anni Novanta in qua. Seconda nota: for the very first time ever, in terra di Romagna, attori della tradizione professionale hanno lavorato assieme agli animali da scena, ai talenti  provenienti dalle filodrammatiche. Insomma, stanno succedendo delle cose, e alcune di queste succedono in dialetto.

Caro diario, ci vorrebbe che si aprisse non dico un dibbattito, ma una piccola rete di informazioni e di corrispondenze sì , particolarmente per quanto riguarda il Centro-Nord mentre, per il Mezzogiorno, si tratterebbe di sapere quali evoluzioni vengono registrate nel campo della parola di scena in dialetto, in un'area dove questo rapporto è storicamente molto forte. Io, diario, sono convinto che non stiamo occupandoci di temi marginali o variamente nostalgici, se non addirittura reazionari: il dialetto ci porta dritto a due temi politici centrali: le parole, particolarmente le parole minori, periferiche, non ancora formattate in 'parole imperiali', parole di comando ; il territorio, dove lo scontro per il potere e la vita, per il potere sulla propria vita, è arrivato, non solo in Val di Susa e a Zuccotti Park, a uno snodo decisivo.

Ciao diario, a presto , fammi sapere !

Teatro e dialetto in Romagna
di
Francesco Gabellini

Purtroppo non è sufficientemente noto a tutti che il fenomeno della Poesia scritta in dialetto romagnolo sia uno dei  più interessanti del panorama poetico nazionale della seconda metà del secolo scorso. Ciò detto, naturalmente, se si ha l’onestà intellettuale di equiparare le scritture in qualsiasi idioma esse vengano espresse. Allora le opere di Raffaello Baldini, di Tonino Guerra, di Nino Pedretti, di Gianni Fucci, di Tolmino Baldassari, di Walter Galli e di altri più giovani, che ancora oggi continuano a scrivere in dialetto, andrebbero studiate più attentamente e inscritti i loro nomi in elenchi che mai dovrebbero essere futili e compilati per un solipsistico piacere di redigere  statistiche, ma che dovrebbero servire come base dalla quale partire per tracciare una storia della nostra cultura. Parto da qui per parlare di dialetto e teatro in Romagna. Parto dalla Poesia. Perché, non a caso, le cose migliori scritte in romagnolo per il teatro sono state scritte da poeti. Raffaello Baldini, che slaccia le briglie della metrica ai suoi personaggi e regala loro un corpo e uno spazio reali (fino a un certo punto), in Zitti tutti!, in Carta Canta e nell’ultimo La Fondazione. Nevio Spadoni che con Marco Martinelli del Teatro delle Albe, esce dalla propria stanza dove inseguiva lampi lirici, per concretare  la propria scrittura, dando anch’egli vita a personaggi di una mitologia rurale in Lus e L’Isola di Alcina. Anche Zitti tutti! era stato messo in scena dal Teatro delle Albe, con l’attore baldiniano per eccellenza, Ivano Marescotti. Senza dimenticare l’importante lavoro di Giovanni Nadiani, che apparentemente sembra andare in una direzione di maggiore leggerezza, ma che in realtà fa perno su alcuni nodi centrali del nostro tema, come la traducibilità e la commistione linguistica.  Quindi se si vuole individuare un punto da cui partire per tracciare una linea simbolica che rappresenti l’esperienza del teatro in dialetto in Romagna, questo punto si potrebbe trovare idealmente tra Ravenna, Faenza e Santarcangelo. O quantomeno, se si vuole continuare a lasciare qualche segno che prolunghi la linea, non bisogna dimenticarsene l’origine. Si tratta di un’origine recente, ma significativa. Per quanto io sappia, non mi risultano esistere in tempi più remoti, anche se con modi e stili ovviamente diversi, esperienze altrettanto degne di nota. Ma, per tornare alla premessa poetica, vorrei dire secondo me quali sono i motivi per cui il teatro in dialetto in Romagna muove dalla Poesia. Un primo forte motivo è appunto di carattere storico-artistico: non esiste una forte tradizione drammaturgica, come succede invece in altre aree linguistiche (napoletano, siciliano…) Tradizione di scrittura teatrale che non solo crea basi all’interno delle strutture drammaturgiche, ma modifica il dialetto stesso. Più di quanto possa modificare una lingua, sebbene anche questa abbia risentito notevolmente in passato l’influenza della letteratura e della drammaturgia. Il dialetto, lingua prettamente orale, libera e selvatica, si autocodifica e muta senza criterio accademico alcuno, ma in base all’uso e alla libera scelta dei parlanti. Come una giacca che il figlio eredita dal padre e ne allunga o accorcia le maniche a seconda che sia più alto o più basso del genitore. Finché qualcuno non inizia a scrivere in quel dialetto. Allora se intorno a quella parlata si sviluppa una forte tradizione di Poesia, c’è da chiedersi quanto questa dopo decenni di ottimo lavoro può avere influenzato quel dialetto?  Se nel frattempo nessuno ha scritto nella stessa lingua né romanzi, né saggi, né opere teatrali. Si è solo parlato in dialetto romagnolo e poi sono state scritte grandi poesie. Mi sembra ovvio che oggi se si vuole scrivere per il teatro in dialetto romagnolo occorra fare i conti con tutto ciò. Naturalmente anche se si vuole scrivere qualsiasi altra cosa in romagnolo. Un altro punto da non tralasciare che si trova sullo stesso ipotetico asse dramma/dialetto in Romagna, anche se meriterebbe un discorso a parte, per l’uso straordinario del linguaggio, volutamente non con carattere di forte identità linguistica, è l’uso del dialetto che fa in alcuni suoi film Federico Fellini. A Fellini non interessa il dialetto in sé, credo non gli appartenesse neppure più tantissimo. Proprio per questo riesce a farne un uso straordinario. Egli pensa più a realizzare un carattere che ricorda o che scaturisce dalla sua fervida immaginazione, piuttosto che ad essere fedele alla sua realtà linguistica. Oggi che il dialetto è inevitabilmente destinato al declino come strumento di comunicazione e che i personaggi a teatro assumono connotazioni assai diverse e ogni volta si reinventano, occorrerebbe ricordarsi questa lezione del grande Maestro. C’era però anche in Fellini un uso in chiave lirica, lieve e ironica del dialetto, che fa pensare, vista anche la messe di Poeti che proprio in quegli anni iniziavano ad affilare i loro strumenti del mestiere, che usano il dialetto molto spesso ponendo la stessa chiave ad avvio di partitura, ad una componente insita nella lingua e nella cultura della gente che la parla. Come se, oltre alla  osservazione baldiniana per cui in dialetto non si può parlare di tutto, si potesse aggiungere che di ogni dialetto occorre estrarre l’essenza più intima e solo con quella lavorare. E da dove andarla a tirare fuori questa essenza? Come capirne i limiti? Qui entra in gioco una componente della quale fino a qui ho solo brevemente accennato, e cioè i parlanti, coloro che ancora parlano in dialetto. Ma anche le generazioni immediatamente successive che non lo parlano più, che magari lo hanno italianizzato, nelle quali resistono solo alcuni motti usati esclusivamente in chiave ridanciana. Se si vuole avviare una ricerca interessante di drammaturgia contemporanea in romagnolo occorre analizzare questo passaggio. Altrimenti si corre da una parte il rischio di scivolare nel cliché della tradizione filodrammatica delle compagnie dilettantesche e dall’altra di non riuscire a cogliere quell’essenza che fa sì che in quell’opera si senta la necessità dell’uso del dialetto. Non a caso tutte le pièce a cui facevo riferimento sopra sono più o meno dei soliloqui. Nessuno ha osato un dialogo. Al di là che la questione riguarda tutto il teatro, al di fuori della Romagna e anche dell’Italia. Forse però in Romagna,  dialogo più dialetto uguale commedia dialettale di parrocchia. O forse la storia e la tradizione letteraria del nostro dialetto trova in questa dimensione di libero flusso di pensieri detti fra sé e sé, proprio una cifra che la avvicina significativamente a quell’essenza. O forse, ancora, questo è un passaggio obbligato per una scrittura che in qualche modo viene dalla Poesia.
L’esperienza che abbiamo avviato lo scorso anno, insieme a Riccione Città Teatro, al nuovo Teatro Corte di Coriano, con il laboratorio che abbiamo chiamato “Butèga”, vuole proprio portare avanti questa ricerca, mettendo insieme persone più anziane, prevalentemente dialettofone, con attori più giovani. Ciò che si sta attuando è uno scambio di saperi, di gesti, posture, modi di essere e di porsi, raccontarsi. Anche sul piano umano l’esperienza appena avviata lo scorso anno è stata straordinaria. Ora altri comuni sono interessati ad avviare laboratori. Vorrei poter lavorare veramente con il tempo necessario a far sì che si possa avviare una ricerca. Vorrei costruire una drammaturgia insieme a tutte queste persone (i laboratori sono aperti a tutti) che prenda le mosse proprio dai loro vissuti e che si costruisca insieme nel tempo. Quando penso a un Teatro in romagnolo, penso anche a un Teatro che, nonostante la difficoltà di comprensione e la mancanza di una tradizione che gli abbia in qualche modo conferito uno statuto di lingua teatrale, possa uscire dai confini della Romagna, perché non credo che le barriere linguistiche siano muri insormontabili. Qualcuno mi potrebbe anche obiettare che allora potrei anche scrivere in italiano e il compito mi risulterebbe più semplice. Ma il risultato non sarebbe sicuramente lo stesso. Sì, è vero, sono, ancora una volta, d’accordo con Baldini, che non tutto si può dire in dialetto, ma ci sono cose che vanno dette proprio in quel modo e in nessun altro. A queste cose mi sento molto legato.   Credo che il Teatro sia un patrimonio di tutti e che chi lo fa si debba porre due importanti obiettivi: lavorare per la qualità dello spettacolo e allo stesso tempo cercare di portare a Teatro la gente, anche quella comune che a Teatro non ci va più, ma si lascia distrarre dai potenti “mezzi di distrazione di massa.” In questa difficile impresa credo che il dialetto potrebbe esserci d’aiuto.