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Nel mezzo del cammin della sua leggenda, e nel vivo di una sontuosa tournée mondiale, torna in Italia la straordinaria Biopic operistica e teatrale sul geniale fisico tedesco, creata trentasei anni fa da Bob Wilson e Philip Glass. Ed è merito e vanto della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia avere ospitato, in esclusiva per la penisola, questa quarta versione dello spettacolo (la prima è del 1976, seguita da una del 1984 e una del 1992) per un paio di affollatissime date nel penultimo weekend di marzo. C’era inoltre la curiosità di una generazione di spettatori al cospetto di un’Opera che, alla metà degli scorsi Settanta, aveva segnato un’epoca per i loro predecessori: non solo per il suo captante splendore ipnotico, ma pure per il suo carattere di alchemica novità in cui partitura musicale e azione scenica si combinavano in un assieme spettacolare talmente organico e compatto da risultare privo di antecedenti. Tanto da reiterare nella coeva critica specializzata (in special modo teatrale) il dilemma di come e con quali strumenti analizzare il teatro visivo e apparentemente “solo astratto” di Wilson che, per esempio, ben s’attagliava alle teorie Against Interpretation diffuse allora con successo da Susan Sontag. Del resto, cosa si può dire di uno spettacolo di quasi cinque ore senza intervallo che, per volere degli artefici stessi, consente allo spettatore di alzarsi dal proprio posto per andarsene e tornare a piacere? Cosa si può dire di una messinscena che quindi, sulla scorta di un tale svincolante presupposto, punta a favorire la spontanea rielaborazione di un percorso individuale d’interpretazione o di puro vissuto emotivo da parte di quel medesimo (o altro) spettatore? Eppure è proprio in domande di questo tipo che, probabilmente, si trova una chiave in grado di aprire molte porte, al di là delle quali si svela parte delle misteriose soglie di cui è composta questa affascinante creazione. In trentasei anni, qualcuno l’avrà già scritto: tuttavia, per me, EINSTEIN ON THE BEACH è uno spettacolo sulla Libertà. Giacché questo lavoro scenico è costellato da multiple gabbie diversamente trasfigurate, in quanto costituite da certi apparati scenografici che, di volta in volta, chiudono al loro interno i corpi di vari personaggi; così come da calcolatissime geometrie gestuali e di movimento complessivo (coronate da due sequenze di rotanti coreografie) a cui gli interpreti s’attengono con rigore; nonché da inserti testuali che trovano senso più nel suono e nella scansione robotica – dettata da una dizione millimetrica delle parole – che in un significato di immediata individuazione. Per tacere, naturalmente, dei vincoli condizionanti della partitura musicale di Glass, nata invero sul concept drammaturgico dello storyboard disegnato dal regista texano abile, poi, a reincorporare la propria orchestrazione di visioni nell’alveo del decorso musicale. Alveo creato su poche note ripetute con maniacalità svariante, giocate su orientali assonanze e scandite con un linguaggio ritmico d’impatto quasi pop rock. Un flusso di magia ossessiva su cui s’adagiano variabili tonalità luminose di prevalente blu (le celesti atmosfere cosmiche che Einstein amava spesso osservare da una spiaggia?) su uno sfondo dove può farsi strada l’enorme sagoma di un treno che, lentamente, da destra verso sinistra, compare e scompare per metà dopo aver finalmente mostrato un bizzarro conducente dalla vistosa barba rossa; oppure, l’interno di un’astronave suddiviso per ampi cubi, illuminati ognuno da un diagramma di lampadine accese presso cui gli interpreti si muovono come automi operai o continuano a suonare e cantare, mentre davanti ad essi s’intersecano i rettilinei voli di due teche contenenti un bambino (il piccolo Albert imprigionato sulle vette immaginose delle sue grandi riflessioni?) e una donna (lo spirito? ossia “Hewhà” la biblica “Eva” e cioè, stando alla radice etimologica, “l’ausilio spirituale” non ignoto al nostro genio ebraico conoscitore di Qabbalah?). Dalla buca dell’orchestra, intanto, è stato innalzato un violinista con le fattezze dello scienziato da anziano; il quale libera dalle corde dello strumento (di cui era un appassionato cultore) la musica scatenata dei suoi spazianti pensieri, visualizzati in 3D nello specchio incantato della scena. Area dove avviene il loro tramarsi fitto di associazioni psichiche diverse (e apparentemente indipendenti), fisicizzato dal diramarsi nomade – in analogia a connessioni sinaptiche e neurali – di azioni e interventi performativi lungo disparati binari e traiettorie, strutturati altresì dal reticolo del Light Design. Tutto ciò, alla ricerca di una luce polare in grado d’irradiare limpido bagliore, sollevando il mistero dell’umana essenza dal buio connaturato in cui ha luogo il viaggio irrequieto della vita. Per questo, nel mezzo dell’ultimo atto, si vede un luminoso parallelepipedo – disteso orizzontalmente al centro del palco – sollevarsi lentissimamente da un lato in senso orario, sospinto da una ieratica vocalizzazione femminile, fino a stagliarsi verticale nella sua ascesa verso metafisiche altezze in cui sparire alla volta di un Oltre e di un Altrove. Prima di una simile opzione immaginativa e talmente dischiusa a immense virtualità, c’è però un più concentrato aldiquà con cui misurarsi per noi che siamo qui e ora. Lo rappresenta l’antecedente episodio dell’udienza in un simbolico tribunale, allestito davanti a una camera dalle linee essenziali e con un grande letto in bella vista: ovvero, l’intimità privata delle persone posta a giudizio dello sguardo degli altri e della società con le sue istituzioni tutte d’un pezzo. E questa dimensione profondamente personale e dell’invisibile nascosto (il sonno, il sogno) è messa sotto processo, oltretutto, nella sua carica di produttiva irrazionalità che viene espressa specialmente nei giochi ritmici e sonori dei nonsense verbali scritti da Christopher Knowles e a cui dà voce, con inarrestabile acribia, un’eccezionale Helga Davis assurta in quel mentre ad assoluta protagonista. Sicché, ecco palesarsi ad un tratto le sbarre di una prigione dove due carcerati stilizzano – in una coreografia di gesti – il procedere stesso della Davis impegnata ancora nel suo ritmato recitativo privo di significati direzionati; finché improvvisamente estrae da un costume la sorpresa di un mitra da rivolgere con micidiale ironia verso il pubblico, freddato nel suo orizzonte di attese qualsiasi. L’associazione a un dato di follia criminale, in un impianto così meticolosamente congegnato, pare in realtà suggerire la necessità dell’infrazione spiazzante e dell’errore per disserrare confini e schemi astrattamente imposti all’esistenza: in modo da fare spazio alle sommerse istanze liberatorie e salvifiche dell’immaginazione creatrice di prospettive nuove, più ampie e perciò capaci di ariosa rigenerazione. Ed è a partire da lì, infatti, che degli inappuntabili servi di scena iniziano a scomporre l’architettura di arredi del tribunale, lasciando alla fine soltanto il bianco letto da cui ne deriverà, appunto, il suddetto monolite in grado di ergersi radioso nella vasta oscurità, aperta agli universi infiniti di qualunque mirabile Possibile. Una parabola chiosata in maniera eloquente da un vecchio guidatore d’autobus tramite parole semplici e toccanti pertinenti l’Amore: energia che tutto tiene insieme – tanto è indefinita e smisurata – connettendo persone, cose, natura, idee, tempi e spazi; e che traccia dunque molteplici direttrici, rotte e segnali di lucente contatto, al di là dell’effimero e solitario transito a cui ognuno è esposto su questo mondo.

Foto di Lucie Jansch

EINSTEIN ON THE BEACH
Opera in quattro atti
di Robert Wilson e Philip Glass.
Regia, scene e light design: Robert Wilson.
Musiche/Parole: Philip Glass.
Coreografie: Lucinda Childs.
Testi: Christopher Knowles, Samuel M. Johnson e Lucinda Childs.
Direzione musicale: Michael Riesman.
Costumi: Carlos Soto.
Suono: Kurt Munkacsi.
Interpreti: Helga Davis, Kate Moran, Antoine Silverman, The Lucinda Childs Dance Company e The Philip Glass Ensemble.
Produzione: Pomegranate Arts, Inc. (www.pomegranatearts.com);
in associazione con Change Performing Arts (www.changeperformingarts.com).
Reggio Emilia, Teatro Municipale Romolo Valli, 24 e 25 marzo 2012 (www.iteatri.re.it).