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Un paio di assolvenze circolari di luce, e lo sguardo comincia ad aprirsi sullo studio del pittore Mark Rothko nella New York di fine anni ’50, in cui vive all’apice della fama. Di spalle al pubblico, sulla sinistra a ridosso della quarta parete, Ferdinando Bruni impersona l’artista che compare seduto in poltrona a contemplare un proprio dipinto posto al centro, verso il fondo, finché da dietro entrerà il suo nuovo assistente Ken, interpretato dal ventiduenne Alejandro Bruni Ocaña. Il neo-arrivato è un giovane acconciato (e incravattato) in un grigio vestito d’ordinanza ed è reduce, come si scoprirà nel giro di poco, dalla perdita tragica e sanguinosa dei genitori. Trauma a cui gli verrà spesso fatto di associare dolorosamente dei colori, a partire dal bianco, ma non il rosso. Tinta da lui reputata espressiva di vitalità, forse giusto perché associabile al sangue: al suo flusso pulsante, alla sua universa e fluida circolazione, di cui persino la perdita fatale (e qui sta un paradosso fertile ancorché funesto) può virarsi a una trasformazione in altra forma e sostanza. Uno scorrere via da limiti umanamente dati, liberato – comunque sia accaduto – verso dove ancora non si è e ancora non si sa. Così come appaiono non essere e non sapere, senza meno, i due stessi astanti. Rothko si contorce nei suoi dilemmi metafisici e sottili ragionamenti filosofici relativi all’arte, vantandone gli aspetti spirituali e d’intuitiva istruzione, cedendo però alle lusinghe della moda e del mercato allorché accetta di realizzare – per vanità, sorta da intima insicurezza – un ciclo di grandi tele destinate a decorare gli interni di un lussuoso ristorante à la page, dietro un compenso record per l’epoca. Ken è stato svezzato troppo presto e in malo modo all’esistenza, attraverso una violenta mutilazione d’affetti; ha bisogno insomma di reintegrare molteplici motivi ed elementi, e per questo si para disposto all’ascolto e all’osservazione di quanto gli accade intorno, allo scopo di una maggiore comprensione delle cose. Del resto, egli consuona col proprio tempo in via di cambiamento giacché – per esempio – ama la New Wave di artisti Pop in ascesa (Johns, Stella, Lichtenstein, Warhol), per contro malvista dal suo ipercritico interlocutore: animato da un iroso piglio da aspirante anacoreta e di più anziana generazione. Non per niente, folate di musica classica – cioè di altri tempi – riempiono spesso lo studio del maestro intento a lavorare o a pensare. Tanto che pure gli intervalli di buio hanno un senso, nell’ottica appena delineata, al di là della loro funzione di servizio; quando questi giungono, infatti, se ne approfitta per cambiare la disposizione degli arredi scenici e per suggerire un avanzamento temporale della vicenda da una scena all’altra. Ma ben oltre a ciò, tali stacchi di oscurità sono manifestazione palpabile di quell’alea di deprivazione che circonfonde le rispettive storie esistenziali dei protagonisti; delle quali, visualizzano così la serie di avallamenti abissali che – nell’ellissi cieca di un istante – ne intarsia, ne rompe il possibile decorso scorrevole lungo l’apprendimento di una consapevolezza. Ovvero, una disposizione d’animo sincera in grado di porre ognuno di fronte alle faglie di se stesso e delle proprie inficianti paure, per superarle. D’altronde, i dialoghi sono serrati e hanno il ritmo complice dei migliori Serials americani. Ma è la recitazione di Bruni e di Ocaña a trasmettere dei segnali di inquietudine e rottura interiore nel processo sicuro e disinvolto del parlato. Il primo attore profonde in Rothko una vena burbera, bisbetica e di vibratile tormento, quest’ultimo percepibile nella gestualità di braccia che spesso si allungano a protendere le mani in un’agitazione ricorrente di dita; l’altro invece si profila su un contegno di apparente flemma di cui, tuttavia, fa tralucere dei tratti spiritati nella compostezza oltremodo assorta e altresì proiettata nel proprio sguardo teso a una costante dilatazione d’occhi, come se un flusso di pensieri nascosti ne premesse da dietro la membrana, pronti a sgorgare poi sul suo umorale datore di lavoro. Finché sgorgheranno, in effetti, in un’ondata vorticosa di parole a circondare ardenti e inesorabili il noto pittore, svelato finalmente nel suo paranoico disamore verso la gente, nel suo continuo lamentio per cui non “va bene niente”, nella sua ferita visione da cui fuoriesce astrattamente l’idea che l’arte debba “solo far male”. Bruni subisce siffatta marea protestataria impietrito, con il viso spostato verso il proprio asse di sinistra e paralizzato nel busto che, frattanto, ruota sulle gambe seguendo il periplo accerchiante del ragazzo impegnato a sfogarsi contro di lui. Il famoso artefice è circondato dai suoi sterili pregiudizi e credenze sul mondo che ora gli si riversano addosso; colto nel girone infernale di una teoria di meschinità depauperanti. Dedicandosi all’arte con una tensione tale da divorare un’intera vita e l’anima, egli s’accorge di aver perso tanti aspetti emozionali e affettivi, di contatto vero e diretto con la molteplicità colorata del Reale – pregno di altre forme e sostanze in corso di dinamico ed acceso mutamento e creazione – al di là delle campiture evidenti delle sue pur ragionate persuasioni. Così, sarà un atto d’amore quello che nel finale riserverà in maniera commovente al suo giovane allievo che, lungo un biennio (condensato in un’ora e un quarto di spettacolo), lo ha affiancato nella realizzazione delle opere per il ristorante di lusso. Come se alfine Rothko si assumesse, senza coinvolgimenti altrui, le proprie responsabilità rispetto al nero; quel nero di cui può lordarsi e riempirsi l’esistenza, assorbendone i palpiti di bagliore. Perché il fuoco splendente e cangiante del rosso, oltre a saperlo vedere e riconoscere, bisogna saperlo creare e cogliere ogni giorno: didentro e al di fuori, sul confine delle superfici intorno e nel vivo esplicarsi delle tensioni interne. La regia di Frongia opera intelligentemente proprio sulla “levigatezza televisiva” (lamentata da qualcuno senza grossi argomenti) del bel testo di John Logan, scalfendone e ferendone l’apparenza secondo i crismi anzidetti che lavorano per fessurazioni e dilatazioni allusive, per contrazioni ed espansioni luminose e spaziali, in base al grado di temperamento espresso nel mentre dalla coppia di interpreti. Sui quali, alla fine, erompe lo scroscio prolungato di meritati applausi.

Foto Luca Piva

ROSSO
di John Logan.
Traduzione: Matteo Colombo.
Regia, scene e costumi: Francesco Frongia.
Luci: Nando Frigerio.
Interpreti: Ferdinando Bruni e Alejandro Bruni Ocaña.
Produzione: Teatro dell’Elfo.
Prima rappresentazione: Milano, Teatro Elfo Puccini, 8 maggio 2012; repliche fino al 3 giugno (www.elfo.org).
Il 15 e 16 giugno, in scena alla Cavallerizza Reale di Torino per il Festival delle Colline Torinesi (www.festivaldellecolline.it).