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C'è chi scrive bellissime storie 'vergando' un foglio bianco con parole cui altri daranno voce e corpo e chi lo fa montando una leggera bicicletta e scavallando montagne e colli. Così Marco Martinelli e Marco Pantani si sono incontrati, forse inevitabilmente, sulle strade che dalla comune Romagna si irradiano verso il mondo. “De te fabula narratur” si potrebbe dire, ed in effetti il “Pantani”di Martinelli e della Montanari

parla ai e dei nostri giorni che hanno divorato e ancora divorano con crudeltà l'uomo che scriveva storie con la sua bicicletta.
Ci parla, con una sintassi che viaggia con abile mano tra il teatro inchiesta, quello di Luigi Squarzina per intenderci, ed il migliore giornalismo investigativo, sicuro e anche crudo nelle sue fonti e nelle sue testimonianze, di un sistema che espelle la fantasia e l'indipendenza di giudizio quando non sono funzionali agli interessi che contano. Il sistema del ciascuno a suo posto che non riguarda solo Pantani ma ognuno di noi anche quando volgiamo altrove lo sguardo. Ma, proprio a partire da questo e lasciando trapelare ed emergere tra le righe secche dell'inchiesta che cerca la verità la poesia che è anelito di sincerità, parla a qualcosa e ci parla di qualcosa di più universale e metafisico, prima e oltre ogni cronaca e ogni contemporaneità. La drammaturgia rinnova così nell'alfabeto della modernità la tragedia dell'esistenza, del contrasto tra individualità e legge, tra libertà e potere, narrando anche e soprattutto le più intimamente nascoste modalità con cui l'organismo sociale individua ed espelle il male. Marco Pantani si fa così, proprio nel centro della sua esistenza concreta e singolare, metafora sofferente, piegato come il Christus Patiens tra i soldati mentre a Madonna di Campiglio nel maggio 1999 viene trascinato fuori dal suo albergo, prima stazione di una crudele via crucis laica. Nuovo e contemporaneo 'capro espiatorio' in cui la Società metabolizza il proprio peccato ed esercita la violenza della punizione definitiva protetta da ogni senso di colpa.
Perchè, come scrive Renè Girard appunto ne Il Capro Espiatorio, “la cultura umana è votata alla dissimulazione perpetua delle proprie origini nella violenza collettiva”, così che “i persecutori credono sempre nell'eccellenza della loro causa, ma in realtà odiano senza causa”.
Ma è anche una tragedia 'moderna' e come tale, e questo forse fa ancora più male, esercitata da personaggi modesti e volgari che celano interessi molto poco nobili, in cui il denaro è matrice e pietra di paragone 'capitalista', ed è una tragedia alimentata dall'invidia, sentimento anch'esso involgarito e instillato a piene mani in una Società, ormai di tutti gregari, confusa ed esasperata di cui il 'peloton' ciclistico si fa qui potente e chiarissima simbologia, una Società piegata ed indifesa ormai contro ogni incursione di un potere triste e assai poco divino.
È una società la nostra che esercita ancora la violenza sul capro espiatorio ma quasi meccanicamente, avendo perso col tempo la consapevolezza del proprio peccato, e senza consapevolezza non vi può essere elaborazione e redenzione. Resta la violenza cieca che si alimenta da sé. Il Pantani di Martinelli ne è simbolo anche per l'incapacità della Società, sia quella chiusa del suo ciclismo, che quella della comunicazione, di riconoscere, nonostante le evidenze che Martinelli propone senza pausa, l'errore e l'orrore e dunque il processo che ha portato alla morte di Marco Pantani. Riconoscere il proprio errore è il primo passo per riconoscere che il peccato è dentro di noi, ineludibile comunque come l'altro grande rimosso della nostra contemporaneità, la morte, ma anche ormai peso insopportabilmente spaventoso perchè senza profondità o religione. Resta in tutto questo e sotto tutto questo, e talora erutta quasi suo malgrado coi vapori forti della scrittura di Martinelli, la forza di una donna che non ha perso il contatto con il suo corpo e con la concretezza del suo mondo, ed è in viaggio per recuperare il figlio e non avrà pace finchè lui non  avrà la sepoltura, sacra ed etica insieme, che merita. Tutto questo senza trasfigurare Marco Pantani o la madre e il padre e tutto il suo mondo, che restano un ciclista e la cuoca di Piadine sul lumgomare di Cesenatico, senza traslare intellettualisticamente questo mondo di radici ancora salde e con una lingua forte e sonora come il rimbombo di un tuono, ma proprio rappresentandolo come è e distillandone una poesia che le appartiene e che non possiamo o dobbiamo derubare, pena il perderla. Per lei e per il figlio perduto, per la sua ostinazione e per la testardaggine della drammaturgia, ci piace ricordare le parole di una altra via crucis, dal sanguinetiano “Passaggio”:
“e tu, prigioniera, nel tuo ordinato silenzio!.
(wie tot?)
tu: come
morta:
perchè in noi è l'ordine; e in te, l'ordine, se resisti;
(in silenzio,
adesso);
e sia lodato, adesso, il nostro ordine, dio!
E poi: ssst!

“PANTANI” è in cartellone al Teatro Rasi di Ravenna fino al 2 dicembre è ha visto la sua prima extra-abbonamento il 27 novembre. Ideato da Marco Martinelli ed Ermanna Montanari è scritto da Marco Martinelli che lo dirige. In scena Ermanna Montanari, una straordinaria madre di Pantani capace di interpretarla senza essere invasiva fino a sostituirne personalità e poesia. Con lei Luigi Dadina, il padre intenso e convinto, e Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Michela Marangoni, Francesco Mormino, Laura Redaelli e gli incursori Francesco Cataccio e Fagio. Bravi, è inutile ripeterlo, e capaci di animare con sincerità i vari personaggi che la vicenda esistenziale di Marco Pantani incontra e che la vicenda drammaturgica di Marco Martinelli registra.
Produzione del Teatro delle Albe in collaborazione internazionale, vede tantissimi contributi che non possiamo riportare integralmente ma che apprezziamo comunque.
Applausi anche commossi a fine rappresentazione.